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Descrizione delle chiese, monasteri ed altri luoghi di culto della zona di San Dalmazio.

LA PIEVE DI S. GIOVANNI A SILANO (San Dalmazio)

La Pieve di San Giovanni Battista a Si­lano, distante da San Dalmazio poco più di un chilometro ed ubicata lungo un’an­tica strada di clinale che conduce alla Rocca di Silano, è da considerare uno dei più importanti “ruderi” architettonici di in­teresse storico-artistico di tutta l’alta Val di Cecina. Conosciuta volgarmente come la “Pieve di San Dalmazio”, di questa ri­mangono visibili solamente la parte inferiore della facciata della chiesa e gran parte della planimetria dell’edificio ripor­tata alla luce molti anni fa dal Gruppo Ar­cheologico di Pomarance.

Smembrata nel secolo scorso delle sue parti architettoniche per costruire nuovi edifici nel paese di San Dalmazio, fu in tempi remoti una delle più importanti pievi medioevali della Diocesi Volterrana di cui si hanno notizie fin dal 945 d. C.. Dotata di Fonte Battesimale, fu chiesa matrice di altre chiesette “suffragranee” come quella di Montecastelli e di Acquaviva (Bulera) ed era inclusa nel territorio co­munale del “Castello di Silano”. Costruita su di un importante snodo stradale lun­go la via di Volterra da un lato, e verso il contado senese dall’altro, la sua impor­tanza è evidente dai pregevoli resti della facciata in stile “Romanico Pisano” in­fluenzato da elementi architettonici Nor­manni.

La sua costruzione, databile alla prima metà del X secolo d. C., coincise in un pe­riodo ed un’epoca di forte ed addirittura divorante religiosità in cui la “Chiesa” era di gran lunga l’organizzazione più ricca, colta e modernamente attrezzata. Nel no­stro territorio, compreso nell’antica Dio­cesi di Volterra, risalente al V secolo d.C., vennero innalzate in quel tempo molte Pievi (Chiese di campagna) dotate di fon­te battesimale e dedicate al “Battista” fra le quali possiamo citare, oltre a quella in trattazione, anche quella di Micciano o quella di Bagno a Morba sopra Larderello. Tali costruzioni venivano affidate a Mae­stranze e capomastri di origine pisana, lucchese ed addirittura comasca, come i famosi “Maestri Commacini”, che por­tarono la loro arte dal Nord di Italia fino a quella centrale per erigere templi sacri o sperduti eremi come quello di Rogheta o di Celle presso Monterufoli, di cui rima­ne testimonianza una antica lapide mu­rata nella casa, già di Baldassarri Nadir a Libbiano e tradotta dallo storico Don Mario Bocci di Pomarance. (1)

Queste maestranze al servizio del pote­re ecclesiale della Diocesi di Volterra eri­gevano importanti luoghi di culto arric­chendoli di decorazioni scultoree, come si evidenziano negli elementi decorativi dei capitelli e delle mensole che riman­gono ancora visibili nella Pieve di San Giovanni a Silano. La funzione dello “scultore romanico” infatti non era tanto quella di decorare ma di “ammaestrare” le genti raccontando al pubblico religio­sissimo, ma incapace di leggere e scri­vere, gli episodi della Bibbia, con l’utiliz­zo di simbolismi, forme antropomorfe, rozze, ma di effetto sul popolo. Anche i materiali generalmente erano quelli che si reperivano facilmente nella zona, co­me il tufo o il panchino (Berignone) che risultano utilizzati nella costruzione della Pieve di San Giovanni a Silano.

La facciata della Pieve, dedicata anche a San Quirico, è di impostazione Pisana ed è caratterizzata da una serie di archeggiature cieche intrecciantisi secondo un motivo frequente nei monumenti Norman­ni dell’Italia meridionale, ma molto raro in Toscana, dove si riscontrano solo nella Pieve di Monterappoli, in Santa Maria in Bellum, e in San Donato a Siena. (2) L’interessante prospetto presenta nella parte superiore una ristrutturazione a fi­lari alternati in pietra e cotto realizzata in un successivo restauro che ritroviamo evi­dente anche nella parte absidale dell’e­dificio.

La particolarissima facciata è caratteriz­zata, alle due estremità, da due pilastri a forma rettangolare poggianti su uno zoc­colo di base e da quattro colonne in tufo collegate fra loro da archi a tutto sesto che, intrecciandosi con altri archi semi­circolari poggianti su quattro “peducci”, danno luogo ad una intersecazione armo­nica di archi formando il caratteristico ar­co a sesto acuto.

  1. pilastri e le colonne poggiano su di uno zoccolo di base costituito, su piani alter­ni, dal “Toro”, da gole dritte, scozie e li­stelli tendenti a formare un motivo deco­rativo nella parte inferiore della facciata. In basso, fra pilastro e colonna e colon­na e colonna, abbiamo uno spluvio con una pendenza di 35° rispetto ai piano che confluisce alla struttura un notevole slan­cio verso l’alto.

Lo specchio di muratura è delimitato da mensole e capitelli alla cui altezza, sulla parete, è evidente un nuovo motivo de­corativo di “cordolo” a gola multipla che caratterizza l’opera architettonica.

Tutto il prospetto, in muratura a calce, è costituito da blocchi di tufo locale squa­drati, di diverse grandezze, disposti per testa e per taglio con numerosi fori a fron­te denominati “buche pontaie”.

I capitelli delle colonne, realizzati in pan­chino, presentano un motivo decorativo di foglie antropomorfe vegetali, molto sti­lizzate. I capitelli di sinistra sono a due or­dini sovrapposti, quelli di destra ad un or­dine. Fra colonna e colonna possiamo no­tare i resti consunti di alcuni “peducci” (pietra sporgente a forma di mensola o capitello) che sostengono un semiarco che si interrompe nella intersecazione for­mando il caratteristico “arco a sesto acuto”.

Alcuni di questi peducci sono compietamente illeggibili; solamente in quello di destra (per chi osserva di fronte) si nota parte di una figura umana molto stilizza­ta realizzata, come gli altri peducci, in pie­tra arenaria.

Si aveva accesso nell’edificio sacro attra­verso l’unico portale, con archivolto di for­gia pisana, che è sormontato da una ghie­ra, formata da più cornici, ed un’architra­ve sorretta da due “mensolette scolpite” con motivi decorativi a foglie stilizzate in “panchino” a due ordini sovrapposti, che ricalcano gli stessi motivi decorativi dei capitelli delle colonne.

Particolare di un peduccio

La facciata, denominata a “salienti inter­rotti”, con le falde del tetto interrotte da una parte verticale che mette in luce la maggior altezza della navata principale ri­spetto a quelle delle navate minori, dove­va essere caratterizzata da un rosone centrale che serviva a dare luce all’inter­no della navata principale. La stessa fun­zione era demandata agli “oculi”, anco­ra visibili sulla struttura architettonica, che illuminavano le navate laterali dell’edifi­cio.

Facciata della Pieve di S. Giovanni (Foto G. Baroni).

La pianta dell’edificio sacro è di tipo “ba­silicale” o rettangolare ed aveva una lun­ghezza di metri 25 ed una larghezza di metri 14. Della parte interna dell’antica “Plebem” sono ancora visibili i resti del­le mura perimetrali, quelle di basi di co­lonne (monostili e polistili), di capitelli ed in particolare i resti di un muro interno che fa quasi da contrafforte alla facciata im­pedendole di rovinare al suolo. In questa area interna sarebbe stata individuata la torre campanaria anche se sono molto evidenti tracce di un riuso come abitazio­ne per la presenza di canalizzazioni di un “luogo comodo” ed alcune mensole d’ap­poggio per travi lignee. (3)

La parete interna ortogonale alla faccia­ta della Pieve di San Giovanni presenta anch’essa, nella parte superiore, un in­tervento di restauro in laterizio con una apertura, uso finestra, ricavata in epoca posteriore. La parete terminale di questo muro è caratterizzata da un semi pilastro sul quale si imposta la seconda campata dell’arco poggiante su di un bellissimo ca­pitello classicheggiante a foglie sovrap­poste.

L’interno era a tre navate, una centrale ed altre due laterali illuminate dagli “ocu­li” circolari e sicuramente da finestre mo­nolitiche collocate in alto lungo le mura
perimetrali esterne ma di cui non rimane alcuna traccia. Dalla planimetria sono evi­denti vari rimaneggiamenti in epoche po­steriori alla sua edificazione, avvenute so­prattutto dopo la sconsacrazione dell’e­dificio.

L’interno è caratterizzato da una serie di livelli di calpestio. Nel primo livello, appe­na oltrepassato il portale d’ingresso, è evidente una apertura circolare in matto­ni che cela una cistèrna profonda 4 me­tri ed in cui fu ritrovata un’anfora in ter­racotta databile attorno al XV-XVI seco­lo. Dopo qualche metro, salito uno scali­no, si accede ad un secondo livello di cal­pestio che presenta anch’esso una pavi­mentazione in cotto disposto a “spina di pesce”. Al “Presbiterio” si accedeva at­traverso tre ordini di scalini semicircolari alla cui base fu rinvenuto quasi casual­mente, l’esistenza di un piccolo “crogio­lo di fusione” e varie scorie di metallo fu­so. Il “Presbiterio” presenta ancora trac­ce di pavimentazione in “coccio pesto” (opus sigmum). Da questo, superati due ordini di scalini, si accede all’abside cen­trale ai cui lati, in corrispondenza delle due navate minori, sono ancora evidenti tracce delle “absidiole” che, troppo pic­cole per uso liturgico, erano utilizzate per riporre le spezie eucaristiche, gli oggetti di culto ed i paramenti sacri. La copertu­ra della navata centrale doveva essere a “capanna”, caratterizzata dalle capriate formate da tre travi disposte a triangolo isoscele; quella orizzontale denominata catena che legava le pareti laterali della costruzione, le due oblique riunite al cen­tro sorreggevano il tetto poggiando sulla testa della catena. La trave verticale man­teneva le vibrazioni ed era denominata “Monaco” o “Colonnello”. Un tipico esem­pio di questa copertura si può trovare a Palaia, Volterra e nella Chiesa di San Dal­mazio ed anche in quella di Cellole.

NOTIZIE STORICHE

Le prime notizie della antica “Pieve di Si­lano’’ dedicata un tempo a San Gio Bat­tista e San Quirico risalgono al Basso Me­dioevo.

Un documento dell’anno 945 d.C., pub­blicato dallo Schneider su “Regester Vulterranorum” e citato anche da Tito Cangini in “Notizie storiche della Rocca di Si­lano”, è uno dei più antichi da noi cono­sciuti che ricordano questa pieve al tem­po di Boso, Vescovo di Volterra, che or­dina prete in detta chiesa Andrea, con l’obbligo di pagare un annuo contributo. Un altro documento, tratto ancora dall’Ar­chivio della Mensa Vescovile di Volterra, del giugno 969 d.C. si riferisce alla pro­messa che Giovanni e Villerardo, anche per conto dei loro successori e della loro chiesa fanno a Pietro, Vescovo di Volter­ra, di lasciare integri i proventi della “Ple­be” di San Quirico e San Giovanni Batti­sta.

Planimetria generale: 1) Navata centrale – 2) Navate laterali – 3) Presbiterio – 4) Abside – 5) Absidiole 6) Torre campanaria?
  1. 24 marzo 1066 la stessa pieve è citata nuovamente in un atto di vendita. Su di essa aveva dominio diretto il Vescovo di Volterra come attesta un documento del 1179 relativo ad una bolla di Alessandro
  2. che confermava al vescovo Ugo i suoi diritti: “Statuimus emin ut quarcunque bo­na in ecclesiis, castris et Vulterrana ec­clesia in presentiar inste et legitime persidet firma tibi…. permaneat” e fra gli altri si trova ricordata la Pieve di Silano.

Qualche tempo dopo, il 10 marzo 1187, la stessa “Plebe” è ricordata in un atto di permuta al tempo del Vescovo Ilde­brando Pannocchieschi che pare vantas­se diritti fiscali anche sul Castello di Sila­no. Questo territorio e la corte furono con­tesi con il Comune di Volterra e provoca­rono non poche liti tra i contendenti che sfociarono spesso nelle fughe del Vesco­vo al Castello di Berignone e in notevoli danni ai beni della Diocesi come ad esempio quelli della Pieve di Silano. Al tempo del Vescovo Pagano infatti, nei pri­mi anni del XIII secolo, risulta un docu­mento di istanza al Comune di Volterra nel quale si domanda che il Vescovo sia soddisfatto dei danni fatti dai volterrani, cioè di aver distrutto la Pieve di Silano, le case e i poderi di detta pieve ed aver bruciato i mulini.

Qualche tempo dopo, attorno al 1230, la stessa pieve subì altre distruzioni, questa volta però, ad opera del popolo Sangemignanese che rapinò e incendiò i beni di questa chiesa.

Nonostante i continui danneggiamenti, un documento del 1326 riporta la visita del Vescovo Reinuccio Allegretti che la cita ancora come “ecclesia de Silano”.

La Pieve di Silano, che era dotata di fon­te battesimale, fu chiesa matrice fino al­la metà del XIV secolo ed a questa face­vano capo altre chiesette di campagna dette “Suffraganee” che erano: Acqua­viva (presso il Bulera), Montecastelli, Ripapoggioli, Mestrugnano, Vinazzano, Lucciano, Mont’Albano, Anqua e Valiano. Queste piccole chiesette, alcune delle quali erette in seguito a pievi, passarono sotto la pievania della chiesa di San Bar­tolomeo a Silano edificata anticamente al­l’interno del “Castello” di Silano. Dal Sinodo Volterrano del 1356 tenuto dal Ve­scovo Volterrano Filippo Beiforti, si ha in­fatti notizia indiretta del cambiamento di pievania. Le continue dispute tra il Comu­ne ed i Vescovi di Volterra, i continui dan­neggiamenti della Chiesa e dei suoi beni terrieri decretarono forse l’inizio dell’ab­bandono di essa, troppo lontana dalla Roccaforte di Silano. Questa infatti non fu più utilizzata al culto per molti anni, co­me si rileva da una visita pastorale del Ve­scovo Stefano di Prato nel 1413 che la de­scriveva in vattivo stato di conservazione “… ed è piena di grano e tini..”. Alcuni anni più tardi (1421) lo stesso Vescovo la cita in una nuova visita pastorale e la de­scrive ancora utilizzata a magazzino. Nonostante le vicende storiche di guerre che si protrassero in questi luoghi e che indussero le monache di San Dalmazio a trasferire il loro convento nella più si­cura città di Volterra il 30 luglio 1511 ; non si ritrovano più notizie della Pieve di San Giovanni Battista di Silano fino all’anno 1559.

Sembra infatti, da un documento di quel periodo, che la la Pieve con i suoi beni fosse passata sotto il patronato della Ba­dia Fiorentina che curava gli interessi dei beni spettanti alla suddetta pieve, aven­do eretto addirittura un “Monastero” a fianco della stessa chiesa dove oggi sor­ge un antico podere denominato appunto la “Pieve”.

Interno della Pieve durante gli scavi (1978)

Del monastero infatti si parla in un docu­mento livellare stipulato il 6 maggio 1559 in cui viene fatto: “Mandato per confer­mare la concessione a Giuliano de Memmi di tutti i beni e frutti del Monastero di San Giovanni Battista di Silano per un af­fitto annuo di 10 ducati d’oro per ogni sin­golo anno, perdurante la generazione di­retta di detto Giuliano Il contratto sti­pulato sotto la presenza di Giulio, Cardi­nale presbitero della famiglia de’ Medici, Vice Cancelliere della Santa Romana Chiesa e Arcivescovo fiorentino nella cit­tà di Bologna, Piacenza e del Canonico Jacopo Mammelli Vicario della Chiesa di Firenze, riporta alcune clausole interes­santi che l’affittuario doveva rispettare nella sua conduzione.

Infatti gli abati e le monache del Mona­stero della Beata Maria della Abbazia Fio­rentina detta dell’ordine di “Sancta Justinae da Padova” stabilirono con lo stes­so “Memmi Giuliani de Memmi Clerici Fiorentini” che: “essendo desiderosi di migliorare l’efficenza dei Monasteri ed es­sendo la Parochiale Ellesiam plebem det­ta di Sancti Joannis Baptistae de Silano Vulterranae Diocesis unita a detto Mona­steri© e bisognosa della riparazione del­la struttura per il popolo così utile allo spi­rito, accordavano a detto Giuliano l’affit­to dei suddetti beni con l’obbligo che egli restaurasse detta Pieve e si impegnasse a farla officiare”.

Il Patronato della Pieve di Silano dedica­ta a San Gio Battista risulta essere anco­ra della Badia Fiorentina nel 1577 quan­do, secondo una affermazione dell’Abate Puccinelli, riportata dal Repetti, risul­ta permutata con il Monastero di San Baronto sul Mont’Albano. Questi beni della Pieve di San Giovanni posti nella corte di Silano risultano censiti anche nell’Estimo dello stesso Comune nell’anno 1589: (4) “Pieve di San Giovanni fuora Silano… Un pezzo di terra lavorativa posto in det­to comune; luogo detto a Vivaio a 1 ° Via, a 2° Beni della Chiesa di San Bartolomeo di Silano, a3o,4°e5° Messer Ugo Con­ti da Volterra di Staiore dodici incirca .. stimata fiorini cinquanta …

Un podere con casa da lavoratore, terre lavorative e sode et macchiate poste in detto comune luogo detto alle Leccete della Pieve e Pinzaio a 1 ° via, 2° Beni del­la Pieve, a 3° Botro cavallino, a 4° fiume Pagone (Pavone), a 5° beni del Comune di Silano, a 6° Mastro Ugo Conti da Vol­terra, a 7° confini di San Dalmazio di Staiora 200 stimato fiorini duegento…

Un sito di un Mulino posto in detto comu­ne luogo detto in sul fiume Paghone det­to Mulino della Pieve in fra i sua confini stimato fiorini 40.

Un pezzo di terra lavorativa e soda ulivata alborata posta in detto comune luogo detto a Vivaio … stimata fiorini 40.

Quanto la chiesa sia stata aperta al culto del popolo di Silano e di quello della val­le del Possera e del Pavone non ci è da­to a sapere. Il declino di questo edificio sacro ed il nuovo conseguente abbando­no è rilevabile molto tempo dopo secon­do alcuni toponimi con cui venne citata la stessa chiesa. Nei primi anni del XVII secolo essa fu denominata “Pieve Vec­chia”. In una visita pastorale del 1679 del Vescovo Sfrondati questa è indicata co­me “Pieve Vecchia di Libera Collazione” (non direttamente dipendente dalla Curia Vescovile). In quell’anno essa risulta ret­ta da Don Michelangelo Galio Romano. Alcuni anni più tardi in una nuova visita pastorale del Vescovo del Rosso, la de­nominata “Pieve Vecchia di Silano” sot­to il titolo di San Gio Battista, risultava ret­ta dall’abate Sozzini nobile senese. (5) I beni della Pieve di San Gio Battista di Silano e lo stesso edificio furono raccolti infatti nel “Semplice Benefizio” intitola­to “La Pieve Vecchia di Silano” di cui fu rettore fino dal 1779 il sacerdote France­sco Andrea Cecchi di Pescia. È di quel periodo la notizia del passaggio dei pro­venti del Semplice Benefizio della Pieve Vecchia di Silano alla Chiesa del castel­lo di San Dalmazio retta dal sacerdote Giuseppe Burroni delle Pomarance.

Il sacerdote pomarancino infatti in quel­l’anno faceva istanza alla R.A.V. di poter unire i beni della sua parrocchia con quel­la della Chiesa di San Giovanni Battista a Silano:

“Prostrato l’oratore ai piedi del Regio Trono supplichevole proporrebbe alla R.A. V. degnarsi di comandare, fosse an­co nelle forme, che conviene a detta par­rocchia di San Dalmazio, qualche sem­plice benefizio, ed in particolare di unirsi       quello sotto il titolo di San Gio: Batti­sta detto La Pieve Vecchia di Silano di Li­bera Collazione Pontificia distante dal Ca­stello di San Dalmazio circa un terzo di miglio, et i beni di esso situati in gran par­te nel distretto della cura del supplican­te; del qual benefizio è attuale rettore il Sacerdote Francesco Andrea Cecchi di Pescia, residente in sua Patria……………………..

“… Si unisca ora per quanto vacherà il semplice benefizio sotto il Titolo di San Gio Battista detto la Pieve Vecchia di Si­lano di libera collazione alla chiesa Arcipretale del Castello di San Dalmazio di patronato delle Monache di detto luogo

In un successivo contratto di livello effet­tuato nel 1783 dall’abate Francesco Cec­chi (Toldi) di Pescia, rettore del “Sempli­ce Benefizio di libera Collazione” posto nella Pieve Vecchia di Silano, risultano nuovamente le proprietà spettanti alla pie­ve che consistevano nel Podere Vivaio, Podere Casa al Bosco ed il Podere de­nominato l’Abbazia che niente altro do­veva essere che quello ricavato nell’ex Monastero accanto alla chiesa detta la “Pieve Vecchia”.

I beni furono assegnati al signor Carlo Se­rafini di San Dalmazio che doveva paga­re all’abate Cecchi un annuo canone di scudi settantaquattro.

Mallevadore del contratto stipulato fu Marco Antonio del fu Francesco Acciai di Silano, noto nella storia della Rocca di Si­lano per la demolizione e vendita dei mat­toni della fortezza a privati. Personaggi che probabilmente furono attivi anche nella demolizione e riutilizzo di materiali lapidei della Pieve di San Giovanni a Si­lano per nuove costruzioni nel paese di San Dalmazio o nelle campagne limitro­fe. Smembramento che si protrasse fino alla prima metà dell’ottocento come dimo­strano anche molte bozze di tufo impie­gate nel restauro ottocentesco del pode­re la Pieve. Forse volutamente fu lascia­ta intatta ai posteri la parte della facciata più interessante che ancora oggi rimane alla visione dei turisti.

Particolare di un capitello a foglie antropomorfe

Un reperto architettonico, definito dal Sal­mi (1921) un “Unicum” in Toscana, che il Gruppo Archeologico di Pomarance avrebbe voluto valorizzare e porre all’at­tenzione degli organi di tutela del patri­monio artistico ma che purtroppo, pur es­sendo pubblicato e fotografato in riviste a carattere nazionale od in posters della Regione o Provincia, rimane ancora og­gi nella più totale indifferenza degli enti preposti alla sua conservazione conti­nuando nel suo lento ed inesorabile de­grado. (6)

Jader Spinelli

NOTE BIBLIOGRAFICHE

  1. D. Mario Bocci “REBUS ARCHEOLOGICO” in “La Comunità di Pomarance” 1972
  2. “L’Arte Romanica nell’antica Diocesi di Vol­terra” a cura del Gruppo Amici dell’Arte di Vol­terra; Testo Franco Lessi.
  3. I. Moretti – R. Stopani: “Chiese Romaniche in Val di Cecina” 1970. Ringrazio sentitamente il parroco di San Dalmazio Don Marcello Zanini per la collaborazione in questo mio studio.
  4. Biblioteca Guarnacci di Volterra – ESTIMO DI SILANO 1589
  5. E. Mazzinghi “La Pieve di Sillano” – La Co­munità di Pomarance 1971
  6. A. Arrighi – R. Pratesi “A Piedi in Toscana” Voi. 1 – 2 Ed. ITER 1970

Un monumento che il Gruppo Archeologico di Pomarance avrebbe voluto valorizzare con quello spirito di volontariato e per la passione per l’Archeologia che contraddistingueva altri gruppi spontanei, attivi ancora oggi, come quello di Colle Val d’Elsa che, in collaborazio­ne armonica con la Sovrintendenza Archeolo­gica di Firenze, operavano negli scavi sul ter­ritorio colligiano per il recupero ed il restauro di materiali ceramici utilizzati per l’ampliamen­to del Museo Archeologico di Colle Val d’El­sa. Con questa intenzione, grazie alla Autoriz­zazione di scavo del Sovrintendente alle Anti­chità dell’Etruria dott. Maetzke in data 7 luglio 1975 cominciarono i lavori per riportare in lu­ce la planimetria della antica Chiesa. Una nuo­va autorizzazione del Sovrintendente per i Beni Ambientali e Architettonici di Pisa, dott. Sec­chi, in data 27 maggio 1978, consentiva il pro­seguimento dei lavori. Dopo la sua morte pe­rò gli scavi furono fatti sospendere e tutto il la­voro svolto, grazie all’autorizzazione del pro­prietario del terreno e senza alcun intervento economico di organi statali o locali, rigettava l’area di scavo di nuovo nell’abbandono.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.