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Descrizione delle opere d’arte e monumenti della zona di Larderello.

SAN MICHELE

Itinerari turistici della zona boracifera.

Percorrendo la tortuosa strada provinciale che, abbarbicata sui filoni di gabbro, da Po­marance sale verso la sella di Montecerboli, l’occhio viene attratto, sulla destra, da una costruzione diroccata di pietra chiara in cima a una collina boscosa. È questo quanto rimane dell’eremo di S. Michele delle For­miche che, dal 1300 alla fine del ‘700, costi­tuì per molti ammalati una luce di speranza e di guarigione.

Fu il lontano 31 di maggio del 1377 infatti che il pievano di Morba fece istanza al Co­mune di Volterra perché fosse approvata la costruzione di un convento sulla cima del colle sopra il Botro delle Vignacce; l’istanza venne accolta e il convento, affidato ai padri Celestini di S. Michele Visdomini di Firenze, fu dedicato a S. Michele Arcangiolo. E i monaci che ivi si riunirono in vita eremitica si imposero lo scopo di curare i malati, in particolare i lebbrosi e gli artritici, e di sovraintendere al mantenimento di un antico bagno le cui acque avevano virtù salutari per quelle malattie.

Il bagno

Il bagno, che era già molto noto col nome di Spartaciano o Spartacciano (così è indicato in un documento del 1266), si trovava nel fondo della valle che separa gli attuali Gabbri del Conte dalla Porcareccia del Cerale: pro­prio dove il Fosso di Radicagnoli e il Botro delle Vignacce si uniscono per dare origine al Fosso di S. Michele. Il nome di questo bagno è di chiara origine romana: infatti le terre divise fra i veterani dell’impero pren­devano il nome del veterano a cui erano state assegnate: Ager Spartacianus potrebbe tra­dursi « Terra Spartaciana » o « di Spartaco »; e probabilmente le sorgenti calde di questo bagno, assieme a quelle di Morba e della Perla, facevano parte, durante l’epoca im­periale romana, del complesso delle « Aquae Volaterranae » (come dire «Le Terme di Volterra ») riportato dal più antico documento geografico che si conosca, la cosiddetta Tavola Peutingeriana.

Il lazzeretto

I Monaci Celestini, dunque, restaurarono, con molta probabilità, i resti del bagno ro­mano, vi aggiunsero un edifìcio per ospitare i malati — una specie di piccolo lazzeretto — e costruirono alcune vasche in pietra dove l’acqua termale poteva raccogliersi ra­pidamente per permettere ai lebbrosi e agli altri ammalati di bagnarvisi. E anche il bagno così sistemato fu dedicato all’Arcangiolo San Michele.

La notorietà delle virtù terapeutiche del Ba­gno di San Michele non mancò di attirare sul luogo, oltre che una folta schiera di sof­ferenti (si parla di più di 300 persone che ogni anno venivano a S. Michele a « passar l’acqua»), anche insigni naturalisti che esaminarono le sorgenti, ne descrissero le caratteristiche, ne fecero una seppur som­maria analisi. Domenico BianchelIi da Faenza (Mengo Faentino) e Gabriele Falloppio at­torno al 1550, Giovanni Targioni Tozzetti nel 1742, dedicarono accurati studi al Bagno di S. Michele; e nei secoli XV e XVII, e attorno al 1740, si provvide a restaurarne gli edilìzi. I ruderi La fama dell’Eremo, che all’epoca del suo maggior splendore era costituito da una chiesa, oltre che dal fabbricato ad uso di convento, andò declinando verso la fine del 1700. A quell’epoca le ingiurie del tempo cominciarono alarsi senijre;lsui  vetusta Bapia sfì apriron una parte del uri della crepe; I padri e e nel ia della dell’800 e, poco chiò
Celestini fulono tichiamatìa Firen  1870 era rimasto sufluogo a pasto chiesa un solo la chiesa e il c dopo, franò an abitata clall’ulti così completale rimangano irf piedi c in pie&a della bili i contraffar Il bagno, invece quenfato, dolori’ artritici quasi gitani cui la menti fermarne decretò sura.

ll panorama

Il poggio di S.Michele, oltre che i suoi ricordi storici, offre ai visitatori un magnifico panorama che si estende dai monti della Cornata e della Carlina, verso Siena, a Montecastelli, alla Rocca Sillana su fino alla Val d’Elsa e giornate se le Apuane e verso occidente la vista può spaziare fino al mare Tirreno. Nelle imme­diate vicinanze, invece, lo sguardo si perde sulle macchie fìtte che coprono i poggi verso S. Ippolito e attorno alla Valle del Ce­cina, mentre a sud spiccano i bianchi fumi delle sette torri refrigeranti di Larderello.

Vicino ai muri della vecchia abbazia, sulla cima pianeggiante del poggio, sono spuntati ciuffi radi di arbusti che creano un’ambiente ombroso e piacevole, mentre il prato raso che ricopre il terreno costituisce un morbido tappeto per chi voglia scegliere il poggio di S. Michele come meta di una scampagnata.

La Badia

La Badia di S. Michele ha le sue brave leg­gende: una racconta che il 29 settembre di ogni anno, giorno della dedicazione a S. Michele Arcangelo, comparivano sul tetto e sul campanile della chiesa una grande quantità di formiche alate che in breve tempo morivano. Da qui l’appellativo di S. Michele delle Formiche; ma non basta: quando la chiesa della Badia fu in avanzato stato di rovina, se ne trasportò una campana sulla torre del Palazzo Pretorio di Pomarance. E si dice che da allora, nella stessa data del 29 settembre, le formiche alate si posino appunto su quella torre. Agli amici pomarancini il compito di controllare quanto ci sia di vero in questa storia.

La leggenda

Un’altra leggenda racconta che una volta una campana della badia si staccò dal campanile e, rotolando giù per la collina, cadde nel botro. Ma non si fermò sul greto: seguitò a sprofondare scavando nella roccia un pozzo profondissimo che poi si riempì d’acqua. Ed aggiunge che talvolta, dal bordo del pozzo, si sentono ancora i rintoc­chi della campana di S. Michele che giace sul fondo.

Il fascino della favola è alimentato dal posto veramente suggestivo dove si trova il cosid­detto «pozzo della campana». Questo è, in effetti, una profonda camera quasi cir­colare dalle pareti di pietra liscia, nel letto del Fosso di S. Michele; la sua apertura superiore è quasi nascosta dai fìtti arbusti della macchia; l’acqua vi cade da una cascatella alta poco più di tre metri ed è diffìcile apprezzare a vista quanto la cavità sia pro­fonda. Da una spaccatura longitudinale della roccia verso nord l’acqua decanta poi nel letto basso del torrente che prosegue il suo corso.

P. L. Pellegrini

Come Arrivarci.

  1. con mezzo proprio:

Percorrere la provinciale Massetana verso Pomarance fino al bivio per S. IpDolito in località Croce del Masso (sopra Montecerboli) (Km. 2,200); quindi prendere, sulla sinistra, la strada per S. Ippolito e piegare a destra al segnale indicatore per «Le Vignacce» (Km. 1,550); arrivati al podere «Le Vignacce» (il primo che si trova), fermarsi e lasciare il veicolo (Km. 1,550). Quindi procedere a piedi per la mulattiera oltre il podere che sale verso S. Michele, finché non si trovi, sulla destra, un cancello di legno; passare il cancello e seguire il sentiero che da qui si parte fino ai ruderi della Badia; poco prima di giungervi, sulla sinistra, i resti della capanna del­l’ultimo eremita. Percorso a piedi: 600 metri (circa 15 minuti).

Volendosi raggiungere il vecchio Bagno (ora ridotto a casa colonica) si può scendere dalla Badia per la stessa mulattiera e, arrivati al bivio per «Le Vignacce», proseguire a sinistra scendendo ancora intorno al poggio per circa 800 metri (altri 15 minuti). Durante il per­corso, circa 200 metri dopo il bivio, sulla sinistra, si possono scorgere i resti di un’antica miniera di rame, costituiti da una lunga galleria, ora parzialmente allagata, che si perde nella roccia; davanti al­l’imbocco è stata costruita una grossa vasca per permettere all’acqua di rimanervi a un livello di circa mezzo metro.

La strada è asfaltata fino al bivio per S. Ippolito; il resto, senza ri­vestimento antipolvere, è in buone condizioni.

  • con mezzi pubblici:

Autoservizio SITA da Larderello al Madonnino dei Gabbri; quivi si prosegue a piedi per la ripida discesa che si diparte dalla provin­ciale verso il fondo valle. A 450 metri (10 minuti di cammino) si trova il Bagno di S. Michele (ora casa colonica) con il caratteristico ponte coperto sul botro e i locali con le vasche in pietra per i bagni. Si guada il botro e si prende la mulattiera che sale attorno al poggio di S. Mi­chele; percorso fino alla Badia: circa 1400 metri (40 minuti). Du­rante il percorso, circa 600 metri dopo il bagno, si possono scorgere sulla destra i resti dell’antica miniera di rame abbandonata.

Chi desideri visitare il « Pozzo della Campana » può recarvisi scen­dendo da un sentiero molto ripido che si parte dalla strada fra il Madonnino dei Gabbri e il Bagno di S. Michele, circa 100 metri prima del Bagno; dopo 30-40 metri di percorso (5 minuti) si arriva sul greto del torrente proprio di fronte all’apertura nord del pozzo. Si consiglia di munirsi di scarpe adatte, possibilmente con suola di gomma.

GIOVANNI MICHELUCCI

RICORDO DI FLORESTANO BARGELLI.

Salivamo lentamente la strada verso Fiesole, io Lucia e Sergio, per incon­trare il Maestro.

Sergio ci accompagnava, lo cono­sceva bene, con Lui aveva costruito Larderello. Arrivammo, un po’ di mano­vra a parcheggiare la macchina, poi fatti alcuni passi ci trovammo davanti ad un ambiente soggiorno, assai ampio, era lo studio con due ampie vetrate ad arco verso Firenze.

G. Michelucci firma la pergamena inserita nella prima pietra. 22/5/1956.

Scrutavo velocemente in ogni dove, in una specie di disordine ordinato, volevo vedere tutto, carpire ogni cosa, ma per l’emozione vidi poco.

Entrò.

Non l’avevo mai visto prima di allora, se non per fotografia; me /’aspettavo più alto, ricordo lo fissai con grande inten­sità come per accertarmi che fosse ve­ramente Lui. Portava una giacca spinata di color marrone, sotto aveva una ca­micia di flanella quadrettata a colori; ci salutò e di li a poco ci invitò a sederci. Mi avvicinò una sedia (era un suo disegno) dalla forma insolita; tre gambe ed uno schienale ricavate da un’unica tavola, mi ricordò tanti panchetti che si casa fine ottocento, normale nell’apparire (ricordo che ben diverso fu l’impatto con casa Savio li a Galluzzo, allora ero più giovane), una normale classica porta, suonammo, ci fu aperto, ricordo una scala apparentemente ripida, ma classica, forte della sua pietra grigia, scendemmo e subito apparve un am trovavano in campagna in uso ai con­tadini, ebbi un attimo di perplessità, Lui mi notò “si sta bene lì” mi disse sve­lando un mio stupore con la malizia dolce del saggio rassicurante. Iniziò la nostra conversazione.

Parlammo delle origini dell’architet­tura, poi una lunga considerazione sul Brunelleschi, sul Rinascimento, ma il tema della spiritualità era il motivo sempre presente con lucidità liberale scevra da ogni schema; parlava con amore anche delle cose più semplici, della pietra, intesa non come materia, ma come cosa viva fino a riflessioni sul suo modo di rapportarsi all’architettura insieme agli attori di questo mondo. Quando il nostro parlare ricordò l’espe­rienza di Larderello il Maestro, quasi con un cenno di malinconia rammentò i luoghi con grande affetto, ma traspariva dalle sue parole un rincrescimento per non aver potuto avere, quasi per una sorta di veto, un continuo rapporto con gli operai. Tale fu la mia impressione, sulla quale meditando, ho capito e giustificato al mio essere il perchè ed il come del suo operare a Larderello.

Disse: “Quando arrivai per la prima volta a Larderello rimasi colpito e frastornato da quel rumore diverso, da quell’odore particolare, dalla maestosità di quelle grandi torri ingegneristiche fumanti, così belle, che nel pensare alla Chiesa mi venne istintivo di fare una cosa diversa, allegra, come per isolarsi da quel naturale fragore”.

Non osavo interrompere il suo par­lare, e consideravo un privilegio ascol­tarlo; Sergio, più confidenziale, ricorda­va volentieri episodi a cui il Maestro fe­licemente partecipava, finché entrai quasi sommessamente nel discorso: si parlava di chiese, ricordando la piccola cappella di Sasso Pisano che tanto mi aveva colpito proprio per una sua na­turalezza plastica, organica la definirei.

Ricordo che immediatamente non focalizzò questa piccola cosa, ma dopo le mie prime battute dove esprimevo le mie considerazioni, i suoi occhi attenti si illuminarono ancor di più in quel volto dal profilo aquilino dolce ed austero e dai bianchi capelli disordinatamente pettinati con la riga che mi stava davanti leggermente inclinato sullo sfondo di Firenze: avevo forse toccato quell’origi­ne inconscia, che maturata nel tempo si era poi sviluppata nella Chiesa dell’Autostrada.

Poi la curiosità del vedere prese il posto alle parole, ma questa era una necessità anche per Lui; con agilità si alzò ed iniziò ad aprire una cassettiera di un contenitore a lato mostrandoci disegni, tanti disegni, progetti mai rea­lizzati, idee maturate, materiale che mai avrei pensato di vedere. Con affabilità inconsueta illustrava, in mezzo a tante carte, un piccolo plastico “Questa è la Chiesa di Longarone” e con la rapidità di un falco passò la mano sopra il modello togliendo il campanile “questo non va visto” continuò +‘Tho dovuto mettere per motivi ecclesiastici, ma que­sta è la chiesa dove si può camminare, sostare in ogni dove, partecipando all’assemblea dei credenti”.

Il tempo passava veloce, il sole calante illuminava radente Firenze, in cui già spuntavano le luci della sera “eccola là la città” disse “piena dei suoi problemi sempre più pesanti non vivibile, bisognerebbe organicamente rovesciarla: le strade una funzione meccanica, gli interni una funzione umana” aveva espresso un concetto urbanistico di fondo che andrebbe oggi indagato specie per le città d’arte.

Finì così quel pomeriggio, mentre la sera si impadroniva di ogni cosa. Per una sorta di circostanze il Maestro scese con noi a Firenze; doveva ripren­dere la macchina, lo accompagnammo al garage; come arrivammo, quegli uomuni di macchine in tute blu lo ac­colsero come un oracolo. Poi partimmo.

Incontrai altre volte negli anni il Ma­estro, in varie occasioni, in particolare a convegni e mostre, la Sua presenza dava prestigio: sempre qualcosa di nuovo c’era da scoprire, specie la sua nuova poetica con i metalli.

L’ultima volta che ebbi modo di in­contrarlo a Fiesole ero con Sergio; doveva essere rivisto il tabernacolo della Chiesa di Larderello secondo la nuova liturgia, ci recammo da Lui per avere il Suo pensiero.

Quantunque avanti negli anni, ricor­do che seduti nel solito soggiorno prese carta e matita e schematizzò l’idea dandoci riferimenti per il materiale. Ci complimentammo con Lui, per il suo stato di salute. Ci raccontò in proposito un simpatico aneddoto. Passati gli ottantacinque anni dovetti recarmi dal­l’oculista per misurarmi la vista per rin­novare la patente, il dottore vedendomi avanti negli anni cominciò a farmi leg­gere dalle lettere più grandi, allora scherzando dissi “Non si fa prima a leggere di fondo dalle più piccole?”. Da questa circostanza traspare l’integrità fi­sica dell’uomo accompagnata da una corretta lezione di vita.

Nel frattempo Leonardo Savioli era venuto meno, ed in quella circostanza mi venne spontaneo parlare della sua opera con il Maestro; Lui intuì che ero
stato suo allievo; con semplice schiettezza e serenità espresse il suo giudizio di stima, cosa che mi fece oltremodo piacere.

Quasi beffandosi di tutti il Maestro se n’è andato, le feste per i suoi cento anni sono state egualmente svolte, come era anche giusto fare, quale te­stimonianza ad un artista che nell’arco della sua lunga vita ha lasciato molte opere sulle quali tanto si è parlato e molto si dovrà ancora dire.

L’episodio di Larderello si sviluppa dopo gli anni cinquanta. Michelucci era sessantenne, nel pieno della maturità creativa ed intellettiva. Allora aveva già costruito importanti opere, ma quello che in certo qual modo lo eleverà oltre i confini nazionali dovrà ancora venire.

In quel tempo le fabbriche boracifere erano gestite dalla LARDERELLO S.p.A. Da poco era finito il conflitto mondiale, le tensioni politiche erano vivissime e sentite e anche nella nostra zona le forti contrapposizioni tra classi davano origine a posizioni faziose, riu­scendo talvolta a suscitare ulteriori di­visioni tra cittadini dello stesso ceto portando a tentativi inconsulti: basti ri­cordare l’ipotesi, poi fortunatamente fatta rientrare, di frazionare lo stesso Comune di Pomarance in due entità ge­ografiche ed amministrative.

In questo scenario, la nuova Ammi­nistrazione della fabbrica dava inizio al rinnovamento dell’azienda nel senso più ampio coinvolgendo l’edificato industria­le per nuove prospettive, ma contestualmente anche l’edificato civile e sociale.

E’ passato poco tempo per esprime­re un sereno giudizio sul ruolo che gli attori del momento recitarono; vi furono posizioni di Amministrazioni contrastan­ti, da cui probabilmente derivarono scelte che oggi, anche per una diversa organizzazione del complesso industria­le, manifestano segni di cedimento.

Interno della Chiesa di Larderello.
Prospettiva della Chiesa di Larderello.

Si poteva allora prevedere quanto stiamo vivendo: forse no; ma nel pen­siero dell’urbanista illuminato un timore passò; quel nostalgico rimpianto della mancanza di rapporto con gli operai mi appare oggi svelato, Michelucci disegnò Larderello residenziale al meglio delle concezioni urbanistiche e ne resta un esempio, ma involontariamente avulso dalla realtà territoriale dell’intorno.

Ne registriamo il fatto e la lezione con ragionata comprensione.

L’impostazione del villaggio residen­ziale viene pensato defilato dalla fabbri­ca vera e propria per motivi ambientali e salubri, vengono indicati i siti per i complessi pubblici, sociali, sportivi, re­ligiosi; vengono gerarchicamente ubicati i complessi residenziali, poi l’insieme or­ganicamente commisurato ad una via­bilità sinusoidale in virtù del declivio, piacevolmente raccordata da naturali sentieri pedonali, il tutto immerso nel verde. Michelucci assapora la natura, conosce i materiali, fa uso predominan­te della bianca pietra creandone un aspetto cromatico nei muri di contenimento o recinzione accompa­gnata da siepi di sempreverdi, ne leva la preziosità lavorandola per l’edificato.

La sua architettura è innovante per semplicità, negli interventi industriali come in quelli residenziali. Anche gli altri progettisti, per quanto abili, dovranno comunque riferirsi al suo linguaggio.

La diversità della Chiesa rispetto a
tutte le altre da Michelucci costruite, è voluta, ma allegra per questa valle così diversa, in cui sentirsi isolati ma felici.

Quando accompagnai Leonardo Savioli a visitarla per la prima volta, camminavamo lungo il deambulatorio felicemente coinvolti ed attratti dalla luminosità del corpo centrale geometri­camente invetriato; anche lui avvertiva questa sensazione diversa; in mistica penombra, quasi per avvalorarne la religiosità, è l’altare.

Michelucci costruisce la bella torre dei dirigenti, è un segno di città, benché grande, per la sua naturale piega mo­dellata al terreno appare così misurata e naturale, quasi un tronco d’albero semplicemente inghirlandato.

Tutti i piccoli villaggi residenziali costruiti all’epoca intorno alle fabbriche, subiscono l’influenza di Michelucci, sia nel linguaggio estetico che nell’uso dei materiali: ma l’esempio va oltre. I segni dell’architettura di Larderello diventano negli anni che seguono luogo comune per i costruttori locali; nei nostri paesi è facile leggere l’uso della bianca pietra per muri e per case, talvolta anche im­propriamente; si legge comunque uno sforzo qualitativo nella semplicità dell’edificato, ma soprattutto ha valore il senso del rispetto dell’ambiente nel­l’espansione dei centri urbani.

I segni dell’architettura restano nel tempo, tutelarli e conservarli è dovere civile delle generazioni: questi sono i te­stimoni dell’evoluzione e della civiltà dei popoli.

La bellezza delle nostre città, dei nostri borghi è soprattutto merito di architet­ture valide ed armoniose ove artisti hanno profuso la loro abilità ed estro in un rapporto dipendente con la natura d’intorno associando così ineluttabilmente ai luoghi il loro prestigio nel tempo.

In questa chiave di lettura dovrà Larderello, ove artisti come Michelucci hanno operato lasciando segni di subli­me qualità a testimonianza di un’epoca.

Dal nostro osservatorio, chiamati per professione ad operare in questi luoghi, abbiamo tutti il dovere di riflettere prima del fare, tenendo conto dei molteplici aspetti che stanno dietro al costruito sia esso piccola cosa che grande fabbrica, mirando sì all’utile e necessario ma anche alla qualità che diventa bellezza nel giusto rapporto tra forma, materiali e rispetto totale della natura: questa è la lezione che ci lascia Giovanni Michelucci.

Studio prospettivo della Chiesa di Sasso Pisano.

Florestano Bargelli

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.