Giorni fa passando da Pomarance è venuta a trovarci la signora Vittorina Bibbiani, scrittrice e protagonista dell’ormai famoso libro “IL FORMICAIO” Durante uno scambio di idee intercorso tra di noi, ha manifestato il desiderio di poter pubblicare questo articolo.
A quei tempi i mulini erano tutti ad acqua. Intorno al mio paese ve ne erano quattro: quello delle Valli, quello della Doccia, quello più lontano di Berignone e quello della Bottaccina.
Il nostro era quest’ultimo ed era il più caratteristico.
Veramente non era un mulino, ma ben tre mulini scaglionati
lungo il fianco della collina giù giù fino alla valle dell’Arbiaia. Ed ora che
ci penso era una cosa geniale. L’acqua di una piccola sorgente riempiva piano
piano la “gora di cima” (un piccolo bacino che però allora mi pareva
paurosamente grande); ad una ventina di metri più in basso c’era ilm primo
mulino (il Mulino di cima); dopo una trentina di metri la gora la gora ed il
Mulino di mezzo, dopo una cinquantina, la gora ed il Mulino di fondo.
L’acqua utilizzata dal mulino di cima andava a riempire la
gora di mezzo per essere utilizzata dal secondo mulino e da qui finiva nella
“gora di fondo” per il terzo mulino. Così la preziosa acqua non veniva
sciupata ed ogni giorno il mugnaio poteva macinare. I mulini erano tutti
uguali: robusti casotti in pietra di una sola stanza.
Infilata in mezzo alla pesante macina c’era la tramoggia,
grosso imbuto di legno a forma di tronco di piramide quadrangolare, aperto in
cima ed in fondo. Ad una parete c’era il “buratto” un grosso staccio
cilindrico azionato a mano. Sotto il pavimento un antro oscuro in cui cadeva
con forza l’acqua della gora che faceva girare delle grosse pale e queste a
loro volta la macina.
Qualche volta il babbo portava anche me al mulino. Caricata
insieme ai sacchi sulla bardella o sul barroccio, via giù per la strada
scoscesa. Naturalmente ci fermavamo dove c’era l’acqua pronta. Babbo legava la
Brenna ad un albero, scaricava me ed i sacchi e chiamava il mugnaio. Beppino
appariva sulla porta tutto infarinato, scambiavano qualche parola, scaricavano
i sacchi e li rovesciavano nella tramoggia. Poi il mugnaio tirava su una leva e
l’acqua della gora metteva in azione le pale, lo mi spostavo dall’interno all’esterno,
alternando la mia attenzione dalla tramoggia all’antro delle pale. La grossa
macina girava lentamente; io salivo sullo sgabello e mi affacciavo, non senza
un po’ di timore, alla tramoggia. re sulla nostra Rivista alcuni racconti non
inseriti nel suo libro.
Per questo
numero abbiamo scelto il racconto “Il Mulino” che parla appunto del luogo a
Lei noto per la limitata distanza che la separava dal suo Podere.
Nel mezzo di questa si formava come un piccolo vortice ed il grano veniva lentamente succhiato giù e schiacciato sotto la mola per uscire in farina da una bocchetta. Il rumore dell’acqua e della macina, le voci del babbo e del mugnaio che urlavano per farsi intendere, creavano in me un senso di sgomento ed allora uscivo fuori a vedere l’acqua che sbatteva nelle pale e le faceva girare schizzando spumosa sopra le pareti dove tremolavano argentei i capelvenere. Dopo la farina veniva messa nel buratto; il babbo si sedeva sopra uno sgabello, impugnava una manovella e girava girava finché in un bianco spolverio tutta la farina veniva separata dalla crusca e dal semolino. Intanto, nell’attesa, io andavo per i fossi in cerca di fragole o di fiori e poi, col mazzolino in mano, venivo ricaricata insieme ai sacchi sulla Brenna e ritornavamo a casa. Per un mesetto era asicurato “il mangiare” per i cristiani ed “il mangime” per le bestie.
CNel descrivere le ultime fasi della raccolta di questo
prezioso cereale abbiamo cercato di ricostruire, più fedelmente possibile, i
vari momenti, riportando, in alcuni casi, la terminologia, così riccamente
espressiva, regalataci dalle persone intervistate.
Tra gli innumerevoli lavori agricoli la mietitura è
rimasta nella memoria degli anziani contadini come uno dei più faticosi. Si
faceva all’inizio dell’estate quando le notti sono corte ed i giorni, al
contrario, interminabili, poche ore di sonno ed il resto a cuocersi nei campi,
“da sole a sole” accompagnati dal verso chiassoso delle cicale e dal canto intermittente
e monotono del cuculo.
Ogni mietitore usava la sua falce che, fino agli inizi del
nostro secolo, aveva la lama dentata e portava, appeso alla cintura, un corno
di bue con dentro, immersa nell’acqua, la pietra per arrotare.
Nel campo ci si disponeva a “passate” (solchi appositamente
preparati al momento della semina) e solitamente ci si organizzava a gruppi di
tre persone. Chi prendeva la passata centrale era chiamato “fendarello” poiché
iniziava a mietere
per primo e creava spazio per fare “la filata dei balzi”. Gli altri due, oltre
che a mietere la loro passata, pensavano a preparare la “vetta” per legare il
balzo con una manciata di grano divisa in due parti ed annodata dalla parte
della spiga.
Una volta finito un campo, si “rimetteva il grano”: prima
si formavano i “covoni” ammucchiando i balzi e disponendoli in cerchio fino ad
ottenere una corona; successivamente si “abbarcavano” al centro, costruendo
il “montino”. Infine si caricava il grano sui carri e si trasportava sull’aia
dove si innalzava la “barca” in attesa della trebbiatura. Prima di trebbiare
però occorreva preparare l’aia: con le zappe arrotate si toglieva l’erba e si
“vaccinava” il suolo con lo sterco di vacca, poi si innaffiava e si
consolidava con la “pula” dell’anno precedente; il calore del sole seccava la
superficie e la rendeva compatta.
Sino alla fine del secolo scorso e, nelle zone
difficilmente accessibili, anche successivamente, il sistema più diffuso per
trebbiare il grano era la battitura: si “rizzavano” i balzi sull’aia e si
battevano con una pertica, quindi con le forche di legno
mente diffusa la mezzadria, il raccolto non andava che in minima parte a riempire il granaio del contadino. Si cominciava col togliere il grano per seme, che conservava il padrone, quel che restava veniva diviso a metà. Ogni raccolto permetteva al contadino di “rimettere il grano per il pane di una mezzannata”, il resto lo doveva comprare alla fattoria vanificando così i già esigui guadagni ricavati dalla vendita del bestiame. Il fattore inoltre pretendeva “il piatto dei galletti per l’aia”, a risarcimento del grano rimasto per terra che il contadino spazzava e raccoglieva accuratamente.
Il presente articolo è tratto dal lavoro svolto dagli studenti Rodolfo BERTOLI, Alberto BOCELLI, Massimo DELL’AIUTO, Benedetto ROVENTINI, per sostenere l’esame di Restauro dei Monumenti, corso del Prof. ROCCHI (Assistente Arch. NEGRI) alla facoltà di Architettura dell’Università di Firenze.
I disegni qui riprodotti sono stati rielaborati o fatti
appositamente per il presente articolo allo scopo di una più facile comprensione
anche per il lettore meno competente da Rodolfo BERTOLI.
INTRODUZIONE
Il fabbricato delle “Peschiere”, è collocato nelle vicinanze della cittadina di Pomarance, nella zona a Sud della provincia di Pisa compresa nell’area delle “Colline Metallifere” e caratterizzata dalla presenza dei “Soffioni” di Larderello (emanazioni di vapore acqueo ad alta temperatura a pressione naturale o provocate mediante trivellazioni contenenti discrete quantità di sali boraciferi).
Il teritorio di Pomarance è interessato
da una fitta rete di corsi di acqua ed è ricco di fonti naturali di acqua
potabile, geologicamente è caratterizzato da formazioni marine del pliocene
inferiore-medio con presenza di calcari detritico-organogeni, arenarie e sabbie
con fossili marini. Pomarance è situata in una zona della Toscana
particolarmente decentrata rispetto ai centri maggiori, lungo la Strada Statale
n° 439 ’Sarzanese-Val d’Era’. Le “Peschiere” sono raggiungibili percorrendo
tale strada in direzione Nord-Sud e superato il centro abitato, prendendo il
bivio a destra posto al Km 115,1. Percorso un breve tratto di strada sterrata
giungiamo al fabbricato interessato, facilmente riconoscibile dalla presenza
di quattro vasche alimentate da una sorgente naturale di acqua potabile.
Il decentramento dai centri urbani più
importanti ha causato per Pomarance, da sempre, una certa forma di autonomia
economica e politica nella gestione del proprio territorio comunale e la
formazione di attività produttive tali da rendere il comune indipendente.
La somma di
diversi fattori quali la viabilità, la presenza di acqua, la particolare
situazione politico economica creatisi nella prima metà del secolo scorso e la
vicinanza di vaste aree boschive, permisero il sorgere di una conceria alle
“Peschiere”.
ANALISI STORICA
La concia alle “Peschiere” in Pomarance nasce su di un vecchio manufatto rurale nella prima metà del secolo passato. La situazione politica, sociale ed economica di quel tempo era quella tipica del dopo Napoleone.
L’Europa unita sotto l’impero Napoleonico
si vedeva nuovamente divisa dopo il Congresso di Vienna del 1814 secondo il
principio della “Legittimità”. Tale principio proposto dal principe Talleyrand
della Francia Borbonica indicava una possibile
suddivisione del vecchio Continente secondo l’ordine che aveva prima della
Rivoluzione Francese, richiamando sui troni perduti i vecchi sovrani e
restaurando i vecchi confini.
L’Italia del 1815 dopo la Restaurazione
si vedeva così nuovamente suddivisa secondo il principio di legittimità nel
Regno di Sardegna, il Regno Lombardo Veneto, il Granducato di Toscana ed
altri.
Il Granducato di Toscana fu reso ai Lorena
(e per essi a Ferdinando lll° fratello dell’imperatore d’Austria).
“Il Granducato di Toscana potè così godere per lunghi anni di un governo mite Riesumato il vecchio codice leopoldino che però venne aggiornato, fu dedicata particolare attenzione all’agricoltura che aveva la sua forza nell’istituto della mezzadria, vale a dire il contratto stabilito tra il proprietario di un podere ed il contadino che lo lavora, mediante il quale al momento del raccolto i frutti venivano divisi a metà. La mezzadria rappresentava nella prima metà dell’800 un tipo di rapporto particolarmente civile tra proprietario e contadino”….“venne ripresa la tradizionale opera di bonifica nelle Maremme e nella Val di Chiana”.(1) Perciò “la Toscana rimane l’oasi del liberalismo economico-commerciale in un’Italia ferreamente protezionistica o proibizionista vi si filano e tessono la seta, la lana, il lino, la canapa, il cotone. Vi materia prima, la scorza, per il processo si conciano le pelli; vi si fabbricano vetri di conciatura si lavorano metalli; e cristalli, cappelli di feltro e paglia; i mobili, le porcellane, la carta.”(2) La felice situazione economica e politica in cui si trovava la Toscana ebbe delle ripercussioni sulle economie locali; anche a Pomarance vi furono nuove attività imprenditoriali.
Già dal 1777 ci si rende conto della enorme ricchezza
racchiusa nelle viscere del territorio dell’attuale Larderello sotto forma di
acido borico contenuto nelle emanazioni di vapore provenienti dal sottosuolo.
Nessuno però tenterà di sfruttare quei “tristi e fetidi bulicami”(3), quei lagoni
di acqua bollente, da cui fuggono spaventati gli uomini e le bestie fino ad
arrivare all’anno 1815, quando abbiamo un primo concreto interessamento a sfruttare
in maniera industriale i “Fumacchi”; infine nel 1818 con l’acquisto da parte di
Francesco Larderei del terreno ove sono presenti i “Lagoni” inizia una nuova
era che porterà a concentrare in questa zona attività uniche al mondo. “Si
metterà in moto una macchina che porterà benessere alle popolazioni di queste
plaghe della alte valli del fiume Cecina e ove affluiranno anche popolazioni
di altri paesi vicini”.(4)
Si arriva così al 29 marzo 1843 allorché: “sentita
l’istanza prodotta dal Sig. Cammino Fantacci con la quale fa conoscere che una
di lui fabbrica fatta al di lui podere delle Peschiere per uso di concia fu
costruita nell’anno 1842 e perciò ai termini della Notificazione della
Soprintendenza alle Comunità del Granducato del 1/7/1843 debbino rimanere
esenti da Dazio fino all’anno 1852”.(5)
Con le condizioni esistenti all’epoca il Sig.
Cammillo Fantacci vide la occasione proquerce, garantivano la reperibilità
della
Le Peschiere erano inoltre situate in
una zona abbastanza pianeggiante e tramite una fitta rete stradale direttamente
collegate al centro urbano ed alla “via da Pomarance a S. Dalmazio” che la
relazionava ai territori comunali.
La felice situazione economica, le favorevoli condizioni
orografiche e geografiche, la consistenza demografica del comune pomarancino
relativamente all’epoca (“nell’anno 1845 la comunità di Pomarance, con gli
annessi 5759 abitanti”(6) di cui 2119 nel centro) e la presenza dell’industria
boracifera del Larderei permisero l’impianto della nuova attività anche in una
zona distante da quelle tradizionali per la lavorazione delle pelli.
Il podere delle Peschiere venne ampliato distinguendo
all’interno di esso diverse zone per la lavorazione della pelle ed una zona
destinata alla residenza delle famiglie addette alla concia, vedremo meglio
più avanti nell’analisi storicomorfologica il funzionamento specifico delle
singole parti in rapporto alla produzione.
La restaurazione non accontentò molto la nuova classe
emergente dalla rivoluzione, la “Borghesia”. Questa infatti rappresentava di
fatto il potere economico e non poteva perciò sopportare il peso di una
gestione politica monarchica basata su arcaici rapporti con il latifondo.
Occorreva una maggiore elasticità delle leggi e dei confini per permettere un
più facile scambio di materie prime o finite.
La situazione era aggravata in Italia, come in altre regioni, dalla presenza di sovrani stranieri che direttamente o indirettamente governavano i diversi “Regni” in cui era stata suddivisa la penisola: si preparavano gli anni del Risorgimento. L’attività della concia continua passando il periodo del Risorgimento, le prime guerre di indipendenza, l’unificazione dell’Italia, l’ultima guerra di indipendenza del 1866 e resiste fino all’avvento della sinistra al governo prima con Depretis, fino al 1887, e successivamente con Crispi. La crisi economica provocata dalla politica espansionistica di questo utimo con le sconfitte riportate in Africa sul finire del 1895, aggravano lo stato dell’economia del giovane Regno d’Italia e “Col deterioramento” di essa “anche la concia delle pelli che si trova in località le Peschiere di Pomarance é costretta a chiudere. Lo stabile costruito da Cammillo Fantacci nell’anno 1842, dopo 53 anni di attività non produce più un reddito che permetta di far fronte al pagamento dell’imposta sui fabbricati ed il discendente Paolo Fantacci si vede, suo malgrado, costretto ad interrompere definitivamente quella iniziativa del suo predecessore.
li 31 dicembre 1895
Il sindaco comunica come
Paolo Fantacci in nome proprio per sgravio di imposta sui fabbricati, e quale
rappresentante la Ditta Fontani e C. per sgravio di imposta sulla Fiochezza
Mobile, abbia domandato a questa Giunta il rilascio di un certificato da cui
risulti che col giorno uno dicembre ultimo scorso sia stato definitivamente
chiuso lo stabile di proprietà di esso Fantacci e adibito definitivamente ad
uso della concia di appartenenza della Ditta di cui sopra. La Giunta riconoscendo
come sia la verità quanto si richiede; Acconsente ad unanimità, astenendosi
!’Assessore Sig. Cav. Bicocchi quale membro della Commissione liquidatrice
della ditta stessa.(7)
Dopo il fallimento della concia il fabbricato subisce un
lento abbandono; utilizzato prima come edificio rurale e, successivamente,
solo come ricovero di attrezzi e per animali di bassa corte a causa dell’esodo
dalla campagna.
Ai giorni nostri l’abbandono ha gravemente compromesso le strutture e perciò la stabilità stessa dell’intero manufatto.
ANALISI CATASTALE
Consultando le mappe del Catasto Leopoldino della Comunità di Pomarance sezione D detta di Bufera e Ripaie’,’ ci è stato possibile risalire al nucleo originario del fabbricato delle Peschiere.
La prima mappa rintracciata, in ordine cronologico, risale al 15 febbraio 1823; all’epoca sui registri veniva annotato che la particella n° 5 di 3716 braccia quadrate (circa 1260 mq.) consistente in una capanna e risiedo e le n° 6 e 7 di complessive 94.112 braccia quadrate (32055 mq.) erano a carico del Sig. Fantacci Cammillo di Domenico.
Non è stato possibile rintracciare delle documentazioni a
riguardo della consistenza del risiedo ma, leggendo in scala ci è parso che il
nucleo originario fosse formato dal corpo ad Est del complesso architettonico.
Tale ipotesi è convalidata da alcune tracce di rifilatura della muratura che
fanno pensare ad un rialzamento successivo del piano e conseguentemente della
linea di gronda del tetto. Altra osservazione da fare è al riguardo della
viabilità che collega la zona con l’attuale S.S. n° 439 Sarzanese Valdera; il
collegamento era diretto e passava a ridosso delle Peschiere, dove oggi corre
un fosso particolarmente ricco di vegetazione spontanea e delimitato da una
parte dallo stesso fabbricato, dall’altra da un argine che per l’abbandono ha
subito degli smottamenti. È da rilevare la presenza sull’argine di alcune
piante fra cui una quercia secolare.
L’edificio originario aveva su questa strada l’accesso ed
alcuni affacci allo stato attuale tamponati.
Nella mappa del 1846 è registrato il frazionamento del
resiedo originale a cui è stato attribuito il numero catastale n° 211 e
registrato parte al Sig. Fantacci Cammino di Domenico e parte ai Sigg. Cammino
e Paolo Fantacci di Pietro. Nella stessa mappa è riscontrabile il nuovo edificio,
corrispondente al n° 212, intestato al Sig. Fantacci Cammino di Domenico da lui
fatto costruire nel 1842, come si è visto nell’analisi storica ed adibito
aH’uso di concia.
Nel 1877 parte della particella n° 5 viene caricata a favore dei Fantacci di contro (Paolo e Cammillo di Petro) e parte di questa con l’intera particella n° 6 a Pellini Odoardo. Nello stesso anno il catasto registra lo scarico dalle proprietà del Sig. Fantacci Cammillo di Domenico ed il relativo carico a favore dei Sigg. Paolo e Cammillo di Pietro Fantacci dei frazionamenti dall’originale particella n° 5 nelle particelle n° 237 (le vasche), n° 238 (particella in un primo momento inedificata fra il fabbricato rurale originario e l’edificio della nuova concia) e la n° 239 (la strada a fianco delle vasche).
Il citato Pellini Odoardo vendette il 30
aprile 1885 la di lui parte del fabbricato n° 211 e la particella n° 6 al Sig.
Biondi Meliini Dott. Vincenzo; quest’ultimo costruisce nell’anno successivo una
capanna ad uso agricolo nella parte della particella n° 5 di sua proprietà. Un
suo discendente Biondi Bartolini Giovanni insieme ad altri non meglio
Specificati, acquista nel 1901 le particelle n° 237, 238, 239.
Sono
allegati i disegni ricavati dalle menzionate mappe e riportati i dati di
carico e scarico delle particelle ripresi dai registri catastali.
LA CONCIA
□ La concia è un insieme di trattamenti
chimici e meccanici che permettono di trasformare la pelle naturale di numerosi
animali in un prodotto robusto e durevole quale è il cuoio, la pelle, le
pellicce.
Il processo di concia nel passato, come
oggi, avveniva in tre fasi:
Preparazione della
pelle.
Concia propriamente
detta.
Rifinitura.
Oggi sono soprattutto cambiati i
prodotti utilizzati per i vari processi che si sono anche notevolmente accorciati
mediante l’utilizzo di appositi macchinari.
Un tempo la preparazione della pelle assumeva tempi e
denominazioni diverse a seconda di come la pelle naturale
giungeva in conceria, abbiamo la MESSA A BAGNO per le pelli fresche, che aveva
lo scopo di eliminare tutte le sostanze estranee, oppure si aveva il RINVENIMENTO
per le pelli secche allo scopo sia di ripulirle, sia di restituire l’acqua
sottratta e renderle più morbide. Entrambe le operazioni venivano compiute nelle
quattro vasche presenti all’esterno delle peschiere, l’acqua di tali vasche
era sottoposta a continuo ricambio grazie alla presenza della fonte naturale.
Le prime due vasche, più piccole, servivano per la “messa a bagno” e talvolta,
adottando appositi coltelli, raschiavano via la carne che era ancora
attaccata, le altre due, di dimensioni più grandi (A), permettevano il
RINVENIMENTO di un numero maggiore di pelli dato il tempo più lungo occorrente
per l’operazione.
Successivamente le pelli venivano raccolte
dall’acqua ed inviate attraverso un’apposita apertura nella parte seminterrata
del fabbricato dove avveniva il processo di DEPILAZIONE, che veniva compiuto in
apposite vasche (B) dette calcinai contenenti bagni di latte di calce, si
trattava in genere di tre vasche con bagni sempre più basici, le pelli erano
poste in tempi, successivi nelle tre vasche; a questo punto le pelli venivano
raschiate allo scopo di togliere i rimanenti peli. La fase successiva era la
scarnatura che veniva fatta nell’intento di togliere il carnicchio, dalla
parte interna della pelle, ammorbiditosi durante il bagno di calce. (C)
A questo punto le pelli subivano il
processo di PURGA e RIGONFIAMENTO effettuati in vasche contenenti bagni acidi
(D), venivano tolti così i residui basici della Depilazione ridando porosità e
morbidezza alle pelli, tali bagni potevano essere effettuati utilizzando una
poltiglia a base di sterco di cane e di piccione.
Le pelli così
preparate sono pronte per la concia propriamente detta, tale processo è oggi
effettuato con sostanze chimiche, talvolta anche sintetiche, un tempo invece
il prodotto base era la scorza di quercia macinata che, come già detto, era
presente in notevoli quantità nei dintorni di Pomarance.
La scorza della quercia contiene dal 6
al 17% di tannino, prodotto conciante conosciuto da secoli, che aveva il
vantaggio di poter essere utilizzata allo stato naturale rispetto al castagno
che, pur contenente tannino in maggior quantità, necessitava di un processo
di distillazione per poterlo estrarre.
Le pelli venivano così messe in apposite
fosse (E) alternate con strati di scorza macinata, in maniera che venissero
rivestite da uno strato conciante di qualche centimetro; una volta riempita
la fossa si aggiungeva acqua fino a sommergerle, in modo da sciogliere la
sostanza conciante. Tale operazione avveniva ogni due mesi e, data la relativa
quantità di tannino presente nella quercia, il processo completo poteva durare
due anni o più.
Le pelli ancora umide
venivano trasportate in appositi locali (F) ben areati ed inchiodate a tavole
o telai, quindi appese per la completa asciugatura; a questo punto la pelle era
ingrassata e piegata più volte allo scopo di ammorbidirla. Alle Peschiere
questi ambienti erano collocati al secondo piano e direttamente collegati col
seminterrato in cui avvenivano le operazioni precedentemente descritte. Al primo
piano erano collocate le residenze degli addetti alla conceria (G).
BIBLIOGRAFIA
GENERALE
C. BARBAGALLO – Le origini della grande
industria contemporanea – LA NUOVA ITALIA , Perugia.
CAMERA FABIETTI – Corso di storia –
ZINGA- RELLI , Bologna
Rivista LA
COMUNITÀ DI POMARANCE – Numeri vari
BIBLIOGRAFIA
SPECIFICA
CAMERA FABIETTI –
Volume II pag. 197
C. BARBAGALLO – Le
Origini …. pag. …
Riv. LA COMUNITÀ DI
POMARANCE – Rievocazioni Storiche di Edmondo Mazzinghi pag. 26 N° 5 anno V
Riv. LA COMUNITÀ DI
POMARANCE – Op. Cit. pag. 27 N° 5 anno V
Riv. LA COMUNITÀ DI
POMARANCE – Op. Cit. pag. 26 N° 5 anno V
Riv. LA COMUNITÀ DI
POMARANCE – Op. Cit. pag. 31 N° 5 anno V
Riv. LA COMUNITÀ DI
POMARANCE – Op. Cit. pag. 37 N° 5 – 6 anno Vili
Variazioni catastali del fabbricato conciario delle Peschiere dal 1823 al 1886
Tra le varie attività artigianali che
vennero svolte a Pomarance fin dal Medioevo (fabbri, cuoiai, muratori,
lanceolai, ecc.), merita una considerazione particolare l!Arte
della Ceramica che fu prodotta per molti anni nell’antico “castello di
Ripomarance’’ e che ebbe il suo massimo sviluppo produttivo nel Rinascimento.
Questo antico mestiere, eseguito da specifiche maestranze locali denominate generalmente
“Stovigliai o Vasellai’’, consisteva nella lavorazione di argille che abili
mani trasformavano in piatti, scodelle, boccali od altri oggetti usati
quotidianamente in cucina o sulla mensa.
Questi manufatti, destinati in un primo
tempo al solo fabbisogno locale, in seguito furono, per la buona qualità,
anche esportati al di fuori del “contado volterrano” per essere apprezzati al
pari delle ceramiche di Montelupo Fiorentino, di Volterra e di
Castelfiorentino.
Alcuni rari esemplari conservati presso
il Museo d’Arte Sacra di Volterra, la Pinacoteca della stessa città od altri
frammenti di maioliche appartenenti ad alcune famiglie pomarancine come i
Biondi ed i Biondi Bartolini, sono solo alcune delle testimonianze di questa
produzione ceramica (1). Uno studio su questa manifattura locale, ad opera di
esperti archeologi, è stata possibile grazie al ritrovamento negli scantinati
di Palazzo Bicocchi di diversi frammenti ceramici che hanno confermato
Pomarance come centro produttore di maioliche “ingabbiate graffite’’.
L’individuazione di fornaci per la
cottura dei vasellami, all’interno ed all’esterno del castello di Ripomarance,
ha permesso solo in minima parte la conoscenza delle maestranze che operavano
in questo settore. Ben poco infatti sappiamo sui nomi dei vasellai, quali
erano le regole statutarie del mestiere, il numero degli addetti. Molto rare
sono le fonti documentarie relative a questi artigiani. L’estimo del comune di
Ripomarance, che annota tutti i beni dei cittadini del castello, solo poche
volte riporta l’attività o mestiere esercitato dal capofamiglia.
Un’indicazione molto frequente è quella dei maestri fornaciai che sono da
considerare più nella conduzione di fornaci per “lavoro quadro’’ che non di
vasellame.
Tralasciando quindi
l’indagine sugli estimi del Comune e consultando con metodicità la parte di
Archivio Storico relativa agli atti della Podesteria di Val di Cecina, nella
speranza di trovare in qualche causa civile la professione dei nominativi citati
in giudizio, sono scaturite sporadiche ma interessanti documentazioni di questi artigiani
ceramisti. Sono emersi infatti
nominativi di intere generazioni di famiglie che si tramandavano di padre in
figlio i segreti di questo antico mestiere, il numero degli operatori e chi fra
i mercanti era autorizzato a vendere tali prodotti.
I maestri stovigliai erano iscritti all’arte dell’università per Fabbricanti della Potesteria di Val di Cecina ed operavano nelle loro botteghe dislocate generalmente all’interno del castello di Ripomarance. Spesso, secondo gli estimi, erano anche proprietari di fornaci attigue alla loro abitazione; solo attorno al XVII secolo risultano più stovigliai possessori di una sola fornace condotta in società.
Le prime notizie relative ai nomi di ceramisti in
Pomarance risalgono al 1511 quando viene citato un certo Meo vasellaio da San Gimignano
abitante a Pomarance. Alcuni anni più tardi è
menzionato Julio “Vasellaio” da
Ripomarance che, secondo i dati raccolti, risulterebbe appartenere ad un ramo
della famiglia Incontri che ebbe notevoli possedimenti nella corte di
Ripomarance (3). Un altro nominativo interessante è fornito anche dal registro
dei Debitori e Creditori del Comune di Ripomarance del 1528 nel quale sono
menzionati Michele e Pasquino “Porcellana” (4). Il cognome potrebbe far pensare
ad un esperto nella lavorazione delle terre cotte o addirittura ad un capace
perito nella preparazione della “vetrina” per riuscire ad ottenere un prodotto
ceramico molto simile alla porcellana, cioè bianco e lucente.
L’unico nominativo di cui è specificata la professione di ceramista è elencato nell’estimo del 1523; trattasi di Maestro Filippo “Orciao”, od orciaio; specializzato cioè nella produzione di Orcioli od Orciolini (recipienti per bevande). Questi possedeva la metà di una casa posta in Borghetto (attuale Piazza S. Carlo) (5) ed è probabile che questo tipo di produzione abbia dato luogo alla denominazione dell’antica Porta Orciolina che si trovava nei pressi della sua bottega o della sua fornace. L’ottima qualità delle argille che si
trovavano nei dintorni di Ripomarance era certamente uno degli elementi primari per la buona qualità delle stoviglie. L’unico toponimo ancora oggi esistente, riferito alla loro estrazione, è la località o podere “Arzillaia”; questo luogo infatti originariamente era denominato attorno al 1544 “Argillaia” e vi possedeva un pezzo di orto Meo di Sebastiano Barzaloni “posto in luogo detto all’Argillaia’’ (6). Un’altra località ove probabilmente era estratta la “terra” è citata nell’estimo del 1532 in una possessione di maestro Giovanni di Martino consistente in … “un pezzo di terra al Mattaione”… (7). Il figlio di Giovanni di Martino, che verso la metà del ’500 portava il cognome Pellegrini, svolgeva attività di mercante in Ripomarance ed è citato in una causa civile per aver acquistato, presso una bottega di Stovigliai, un servito di piatti e ciotole. In questa causa sono menzionati anche altri operatori ceramisti che erano attivi nel 1544:… “Giovanni di Pagolo di Benedetto disse che Bernardino di Rinaldo Lanciotti di Ripomarancio lavorò nella bottega di Giovanni di Pagolo (Incontri) per cinque o sei anni, et che disegnò un lavoro di ciotole per un fornimento da tavola con il segno di mastro Martino, per Martino di Giovanni… Bastiano di Nanni… disse che la verità fu, che sono già cinque o sei anni che detto Bernardino lavorava nella bottega di decto Giovanni di Pagolo et che fece fornimento di terra da Tavola con le iniziali di una lettera… et che quando fu cotto, il detto Martino, un corbello solo portò a casa sua…’’(8).
Giovanni di Pagolo, appartenente alla stirpe degli
Incontri di “Acquaviva’’, aveva la propria bottega di fronte alla pieve di San
Giovanni Battista dove era ubicata anche la sua fornace utilizzata per la cottura
dei vasellami che confinava con la casa dei Roncalli di Bergamo in prossimità
della Porta alla Pieve. (9)
Dagli estimi del Comune di Ripomarance trasparisce la
prevalenza della famiglia Incontri, nella produzione e commercializzazione
dei vasellami. Alcuni capi famiglia infatti erano proprietari, almeno fino
alla prima metà del 500, di diversi beni immobili tra cui alcune fornaci
dislocate sia all’interno che all’esterno della cerchia muraria del Castello.
Probabilmente, verso i primi anni del XVI secolo, dovevano anche avvalersi
della collaborazione di periti Fornaciai esperti nella cottura delle
terrecotte; nel 1532 infatti, abbiamo notizia della proprietà di una fornace
appartenente a Polito di Bonincontro Incontri “pro divisa’’ con Maestro Bernardino di Antonio Fornaciaio. (10)
Lo stesso Polito di Buonincontro doveva aver rilevato la
fornace del suo parente, Giovanni Incontri, ed aveva costruito in seguito un
’altra fornace più grande nella zona detta di PIU VICO dove produceva sia
vasellami che materiali edili, come testimoniano alcuni reperti recuperati in
quella località. (11)
Sempre nell’anno 1532 abbiamo notizia
di un altro ceramista, cugino di Polito Incontri, Giulio, figlio di Simone che era fratello di Buonincontro e figlio del capostipite
Ippolito Incontri.
Giulio di Simone Incontri possedeva una casa in Petriccio ed era anche
proprietario di “una casa con orto, oggi detta la Fornace, posta fuori della
porta Volterrana, luogo detto Chiusa o alla Cella” che fu comprata da suo cugino Giovanni Incontri nel 1553
(12).
La specializzazione della bottega di Giulio
era quella della manifattura di “Rasini o Catini” che fu tramandata anche al
figlio Simone che nel 1560 era annoverato tra
i catinai di Ripomarance. La notizia risale al 1562 quando Simone di Giulio Incontri venne pagato dalla Podesteria per aver
fornito “una conca da bucato che servì nel palazzo del Potestà’’ (13).
Uno dei primi documenti che però ci fa conoscere con certezza quali furono i nominativi
degli stovigliai, risale al 1562 ed è conservato negli atti della Potesteria di
quel tempo. Vi sono annotati infatti tutti coloro che svolgevano un mestiere;
tra questi sono iscritti anche quattro Stovigliai ed un Catinaio:
FRANCESCO DI BERNARDINO DI CONTRO
INCONTRI
GIOVANNI DI MARIO DI FRANCESCO
LAMBARDO
ULIVIERI DI BASTIANO DI SAL VESTRO GIULIANO DI BASTIANO DI SALVESTROSIMONE DI GIULIO INCONTRI (Catinaio) Nell’elenco, a riprova del florido commercio che doveva svolgersi con la produzione dei vasellami, sono iscritti anche coloro che potevano tenere e vendere questi prodotti.
Tra essi vi è anche un prestatore ebreo
che si stabilì in Ripomarance nel 1558 aprendo un banco di Prestito. Tutti gli
elencati dovevano pagare la “Grascia” cioè un dazio per esportare od introdurre
vettovaglie dalla Podesteria di Val di Cecina. Ne era esonerato solamente l’usuraio
ebreo che godeva dei privilegi dati agli ebrei in vigore nel Granducato di
Toscana (14).
Questi erano: Batista di Giovanni Antonio Pellegrini, Matteo di Namo Zoppo, Tomme di Jacopo, Giovanni di Martino Pellegrini, Batista di Martino Pellegrini, Santino di Martino Pellegrini, Giovanni da Vicchio, Cristofano di Giovanni Pellegrini, Maestro Sabbato hebreo e Bastiano di Antonio Imprendi. Tra gli altri sono censiti anche tre fornaciai: Bernardino di Antonio, Menico di Bastiano e Andrea di Baccio di Livio (15).
Dall’elenco degli stovigliai risultano
in questo periodo alcuni operatori ceramisti di provenienza allogena; trattasi
dei fratelli Ulivieri e Giuliano di Salvestro che si erano stabiliti in loco
fin dalla prima metà del ’500, originari dell’area aretina,portavano il
cognome Tanini. Il capostipite Salvestro nel 1560 era consigliere comunale, i
suoi figli addestrati all’arte della ceramica fin da ragazzi furono talmente
abili in questa lavorazione che uno di loro, Ulivieri, venne invitato dal
Comune di Volterra nel 1571 ad aprire una bottega in
quella città a causa
della scarsità di maestranze locali (16):
…dal momento che tutte le arti sono motivo di onore e di crescita alla nostra città, e si tramandi che nel castello di Ripomaranci viva un certo Ulivieri di (Sebastiano Tanini di Borgo San Sepolcro, insieme con i figli, un eccellente vasaio, il quale potrebbe essere attirato facilmente a venire ad abitare qui se gli venissero concessi la casa per abitare o altre comodità… I Priori… abbiano facoltà di concedere a detto vasaio quei privilegi ed una pensione come abitazione per esercitare comodamente detta arte…
Nell’estimo dello stesso anno derivano alcuni possedimenti
appartenenti a Ulivieri nella corte e castello di Ripomarance tra le quali una
casa in Petriccio confinante con l’ospedale di San Giovanni Battista. Molto
vicino a questa vi era anche l’abitazione del fratello Giuliano che era proprietario
“…di una mezza casa ad uso Fornace in Petriccio confinante con la Via e
Friano Botrilli del valore di lire 50 (Da un confronto delle rispettive
confinazioni è deducibile che alcuni membri della famiglia Tanini abitassero
nell’area del vicolo delle Fornaci in prossimità dell’oreficeria
Cavicchioli).
Nel 1571 troviamo ancora attiva la fornace di Piuvico di proprietà di Buonincontro Incontri; era così indicata nell’estimo di quell’anno:… un sito di fornace, co una stanza a coprir un ‘altra stanza sola… con a capo il focone, con un pezzo di terra lavorativa distante due miglia, in detta corte, luogo detto Piuvico… presso la via che va a Botrilli… (18).
Un altro dato interessante sullo sviluppo produttivo delle maioliche pomarancine è ratificato da un nuovo elenco di “vasellai” del 1577 dove è possibile individuare un numero maggiore di addetti tra i quali i figli di Ulivieri Tanini e lo stesso padre che non aveva accettato l’invito proposto dal Comune di Volterra del 1571: (19)
ULIVIERI DI BASTIANO DI SALVESTRO
(TANINI)
BASTIANO SUO FIGLIO
GIULIANO SUO FIGLIO
GIULIANO DI BASTIANO DI SALVESTRO
(TANINI)
GIOVAN MARIA DI DOMENICO NERO SIMONE DI GIULIO INCONTRI FRANCESCO DI BENVENUTO INCONTRI FILIPPO
DI GIOVANNI MADIA Rispettivamente erano aumentati anche gli addetti alle
fornaci; sinonimo forse di un notevole sviluppo economico relativo alla
produzione e commercio delle maioliche ingubbiate e graffite. Molti infatti in
questo periodo formavano società per la vendita di questi manufatti.
L’indicazione è contenuta in una
causa civile del 1581, tra gli eredi di Michele Maffii e gli eredi del defunto
Octaviano Biondi per alcuni debiti che quest’ultimo aveva con i Maffii a causa
di un affitto mai pagato.
“… Gli eredi Maffii più tempo fa possedevano et oggi posseggono per sua, una bottega posta in castello di Ripomarance, luogo detto alla porta al Peso (attuale Porta Orcolina) confinata a 1° via pubblica, 2° beni delti eredi di Antonio di Namo di Ripomaranci, 3° beni di detti comparenti, 4° beni del Comune di Ripomaranci…
…Dato che fino dall’anno 1571 del mese di Luglio o più in vero tempo detti comparenti alluogarono la detta bottega a Octaviano di Antonio Biondi nuncupato Cicio, et gli consegnarono la chiave di detta bottega dandogli et permettendogli l’uso di quella, secondo ciò che si richiedeva…
…il qual Octaviano tenne decta
bottega … servando sempre la chiave a presso di sè, et servandosene in suo
uso le mercanzie et robbe per tre anni continui… insino alla morte sua,
senza mai pagare cosa alcuna di pigione, cosi come era tenuto…; … dato che
i detti comparenti riebbero la chiave di detta bottega nel mese di settembre
passato 1580 …” venivano invitati gli
eredi di Octaviano Biondi a pagare lire 30 agli eredi Maffii.
Uno dei testimoni interrogato su questa causa affermava che: “… detto Octaviano tenne a pigione detta bottega per mesi quattordici et sino alla sua morte, et che dentro vi teneva stoviglie da vendere… ”. La stessa versione fu confermata da un certo Antonio di Gismondo detto Gobbino da Ripomaranci il quale affermava che per due anni incirca: “… faci compagnia di stoviglie col detto Octaviano, il quale teneva et possedeva la suddetta bottega, et che fino a quando durò la compagnia tenemmo continuamente stoviglie in detta bottega …” (20). Ancora nell’anno 1581 abbiamo notizia di un altro operatore ceramologico; trattasi di Lorenzo di Giulio Incontri Stovigliaio che è citato in una lettera al podestà di Ripomarance per alcuni debiti contratti con le Magistrature dei Sig.ri Nove della Jurisdizione Fiorentina. Nel documento è annotata l’età di 20 anni et che a suo carico pendeva il mantenimento del padre, di quattro fratelli ed una sorella ‘‘poveri’’ (21). Lo stato di povertà che si riscontra su questa famiglia fu forse l’inizio di un certo calo produttivo delle maioliche conseguentemente ad una diminuzione delle stesse maestranze. La conferma è deducibile da un elenco degli artigiani del 1623; vi sono iscritti infatti solo quattro operatori ceramisti (22): FLAMINIO DI GIULIANO TANINI (stovigliaio)
ANTONIO DI PUPILIO TAMBILLONI (brocca io)
BENEDETTO DI GIULIO (INCONTRI) (broccaio)
SIMONE INCONTRI (catinaio)
Flaminio Tanini, nipote di Ulivieri, possedeva attorno al
1632 una fornace o per meglio dire: …la metà di una mezza casa ad uso
fornace in Petriccio confinata a 1° Via, 2° Benedetto di Giulio, 3° Domenico
di Iacopo Faina, 4° mura, stimata lire 25… (23). Gli altri tre quarti della fornace di vasellame appartenevano ad
altri tre soci vasellai o fornaciai che erano rispettivamente: Annibaie di
Bartolomeo Cercignani, Giovanni di Marcantonio Biondi e Bernardo Tognoli.
Le confinazioni d’estimo farebbero individuare questa
unità di cottura nel Vicolo della Fornace, dato che attorno al 1581 era
indicata come la “Fornace di Tognoli” in una causa civile tra il canonico
Segherio e Ippolito Incontri e nella quale era anche citato Meo di Bernardino
fornaciaio “affittuario”.
Dalla “lira” del 1632 è evidenziato che molti
stovigliai e fornaciai possedevano le loro abitazioni e botteghe proprio nelle
vicinanze di questa fornace. Nessun documento fino ad oggi però è pervenuto
per confermare l’esistenza produttiva di un’altra fornace, individuata e
descritta nel 1956 dal dott. P.G. Biondi, che doveva trovarsi nell’attuale
Vicolo del Muraccio in corrispondenza dell’ex forno di “Orfeo”.
Molti autori di storia locale farebbero cessare l’antica
manifattura di ceramiche attorno al 1630; in un articolo apparso su Rassegna
Volterrana del Dott. P.G. Pietro Biondi intitolato “Le terrecotte di Pomarance”
veniva infatti riportato uno scritto del 1758 di G.M. Riccobaldi del Bava che
dava come attendibile questa notizia (24).
Nuove fonti documentarie proverebbero invece il
prolungamento di questa arte fino agli ultimi anni del ’600.
Troviamo infatti ancora attiva nel 1644 la “Fornace
del Tognoli” che apparteneva ad Andrea di Piero Livi il quale aveva sposato
una figlia di Giovanni Tanini, Antonia. A convalidare l’attività ceramica per
tutto il XVII secolo è un documento del 10
Frammento Ceramico (Prop. BIONDI
BARTOLINI)
novembre 1598 nel quale viene annotato
un altro stovigliaio, Annibaie di Silvio Geri, che risultava debitore della
somma di lire 2 e soldi 10 all’ufficio dei Consoli dell’Arte di Firenze (25).
Annibaie di Silvio Geri è da considerare quindi uno degli ultimi vasellai delle Pomarance dato che un successivo elenco di Artigiani del 1700 non riporta alcuna profesione legata ai ceramisti. Se per tutto il XVIII secolo l’attività di maioliche cessasse, una labile ripresa di questo mestiere pare fosse stata intrapresa agli inizi dell’Ottocento. In un manoscritto del 1940 dell’ex Podestà di Pomarance Onorato Biondi, viene asserito, secondo documentazioni di famiglia, che un suo discendente denominato Giovan Battista Biondi impiantò nel 1809 un laboratorio di vasellami inverniciati in società con un vasellaio volterrano, certo Taddeucci Vincenzo. La terra utilizzata era quella del Gelso e la fornace, per la cottura del vasellame, era sempre l’antica fornace detta del “Tognoli” che apparteneva allo stesso Giovan Battista Biondi. Questa era ubicata nel “Chiasso delle Fornaci in S. Dalmazio”. La produzione cessava però solo dopo alcuni anni e precisamente nel 1828.
Jader
Spinelli
NOTE BIBLIOGRAFICHE
I cocci di Maioliche Ingubbiate Graffite conservate dai Biondi Bartolini furono ritrovati attorno al 1913 durante lavori di sterro per la costruzione di un garage sulla Via dei Fossi al numero civico 24. Trattasi per lo più di frammenti di fondi e bordi di piatti scodelle del periodo tardo rinascimentale dove sono decorati alcuni stemmi di nobili famiglie del ’500 come gli Incontri ed i Roncalli di cui è stata gentilmente concessa la visione e la pubblicazione. Ringrazio sentitamente il Dott. Giovanni Biondi Bartolini e suo figlio Giulio per la loro collaborazione.
Archeologia Medioevale 1987 G. Guidoni, A. Coscarella, Marco de Marco, G. Pasquinelli. TESTIMONIANZE ARCHEOLOGICHE DELLA PRODUZIONE CERAMICA A POMARANCE, pagg. 277 e seguenti.
Archivio Storico Pomarance F. 67 B Civile 1544 c.124 r. V.
Archivio Storico Pomarance F. 113 c. 49. La notizia è contenuta in un documento del 3 maggio 1561 nel quale due uomini del Consiglio sono chiamati a stimare un sito del comune occupato abusivamente da Giovannantonio Roncalli posto al lato della fornace che era di Giovanni di Pagolo Incontri, luogo detto alla Porta alla Pieve. La fornace è quindi da individuare dove sorge la abitazione di Pineschi Aroldo.
Archivio Storico Pomarance F. 426 Estimo 1532 c. 54 V.
Archivio Storico Pomarance F. 427 c. 176 e 323 r.
Archivio Storico Pomarance F. 427 c. 95.
Archivio Storico Pomarance F. 113 c. 148 r.
“Un Prestatore Ebreo a Pomarance’’ LA COMUNITÀ DI POMARANCE n° 2 / 1989.
Archivio Storico Pomarance F. 85 B c. 148 r. Nell’elenco sono iscritti anche 4 Fabbri, 1 Manescalco, 2 Magnani, 1 Spadaio (Benedetto di Rinaldo Lanciotti), 6 Muratori, 1 Bottaio, 1 Lanceolaio che tiene anche vasellami (Gio. Antonio Roncalli), 1 Zoccolaio.
Gianna Pasquinelli – LE CERAMICHE DI VOLTERRA NEL MEDIOEVO – Ed. Giglio Firenze 1987.
Archivio Storico Pomarance F. 428 c. 104.
Archivio Storico Pomarance F. 428 c. 237 r.
Archivio Storico Pomarance F. 100 B c. 299 r. e v.
Archivio Storico Pomarance F. 103 B c. 852 – 859 r. e v.
Archivio Storico Pomarance F. 104 B c. 396.
Archivio Storico Pomarance F. 149 B c. 496.
Archivio Storico Pomarance F. 430 c. 14 v. 74 v. 157 r. 158 r.
I FALUGI. Falegnami
mobilieri a Pomarance tra ’800 e ’900.
□ Uno dei più antichi mestieri che vengono
svolti ancora oggi a Pomarance è sicuramente quello di “Falegname”.
Questa attività artigianale, dedicata soprattutto
alla produzione di infissi fatti con l’aiuto di modernissimi macchinari, era
nei tempi passati svolta con attrezzi manuali che caratterizzavano le piccole
botteghe dislocate nel centro storico di Pomarance. Attrezzi come pialle,
pialletti, sponderuole, scalpelli, sgorbie od altro erano eseguiti dagli stessi
maestri i quali cominciavano l’arte di falegname quasi da bambini stando dietro
il “banco” ad eseguire lavori più semplici.
Atività che nella tradizione artigianale veniva spesso trasmessa di padre in figlio, come nel caso della famiglia Bonucci di Pomarance, vissuta tra la metà dell’ottocento e gran parte del nostro secolo. Ancora oggi i vecchi pomarancini ricordano personaggi come Federigo, Vittorio, Luigi morti attorno agli anni ’50.
Conosciuti da tutti come i “FALUGI”,
questi ereditarono lo pseudonimo dal padre Claudio Bonucci al quale fu
attribuito in memoria di un personaggio volterrano vissuto nella prima metà
dell’ottocento, il quale amava consigliare la gente più umile nei loro
problemi od affari senza percepire alcun compenso.
Pare infatti che le origini della
famiglia Bonucci fossero volterrane e che alcuni membri si fossero stabiliti a
Pomarance all’inizio dell’ottocento come falegnami “carrai” al servizio dei
signori Bicocchi che possedevano alcune fattorie nella comunità di Pomarance.
A questi proprietari terrieri infatti
furono molto legati da rapporti di lavoro, di stima, di amicizia per intere
generazioni e, grazie a loro, alcuni Bonucci ebbero la possibilità di
frequentare corsi di studio all’Accademia di Siena e di Firenze.
Le prime notizie della famiglia Bonucci
risalgono agli ultimi anni del ’700 con certo Pellegrino Bonucci che sposando
Severa Baroncelli dettero luogo a Giuseppe Bonucci e Luigi Bonucci nato il 4
gennaio 1803.
Luigi Bonucci si stabilì a Pomarance attorno al 1830 lavorando come “Carradore” presso i Bicocchi nella sua bottega ubicata nei fondi di palazzo Biondi – Mellini, accanto alla Porta Orciolina (o al Peso) in piazzetta S. Carlo. Sposatosi con Luisa Orzalesi ebbero diversi figli tra cui Claudio Bonucci detto il “Falugi” che nacque il 5 dicembre 1844. Dotato di spiccata intelligenza fu fatto studiare nelle prime classi elementari e contemporaneamente avviato al mestiere di falegname “carraio” nella bottega di suo padre. Diplomato ben presto “Fabbricante di Mobilio”, come attesta un diploma conservato nella sua casa di via Mascagni, questi si sposò con la pomarancina Maria Bufalini nel 1864.
Dal loro matrimonio nacquero diversi figli
tra cui Carlo nel 1866, Federiga nel 1868, Vittoria nel 1870, Luigi nel 1871,
Federigo nel 1873, Vittorio nel 1877, Sofia nel 1879, Anita nel 1882 ed infine
Alberta Luisa nel 1890.
Negli anni della sua lunga attività
artigianale Claudio Bonucci “Falugi” realizzò in Pomarance e nelle nostre zone
manufatti di ottima qualità utilizzando legni locali, che sotto le sue abili
mani diventavano robusti infissi, pregiate credenze, vetrine, mobili da
cucina o da camera, che andavano ad arredare sia le case nobiliari del tempo
che le più modeste dei contadini.
La lavorazione artistica dei mobili fu
in seguito coadiuvata anche dai suoi figli maschi Carlo, Luigi, Federigo e
Vittorio ai quali era dato il compito di intagliare le parti decorative dei
mobili che necessitavano di figure animali o floreali e che erano applicate a
specchiere, toilette, armadi, cassettoni, ecc. Molti di questi modelli in gesso
sono ancora conservati nella “Casa dei Falugi” a testimoniare l’ottima qualità
dei mobili che venivano eseguiti. La vecchia falegnameria di piazzetta S. Carlo
fu, negli ultimi anni dell’800, trasferita in via Mascagni al n° 54 dove negli
appartamenti soprastanti andò ad abitare anche la numerosa famiglia dei Bonucci.(1)
La bottega fu corredata di macchinari,
all’avanguardia per quei tempi, che contribuirono ad alleviare le notevoli
fatiche per piallare o segare grossi tronchi di legname.
La sega a nastro, la toupie, la pialla a filo, il tornio ed altri macchinari erano azionati prima dell’installazione della corrente elettrica, da una macchina a vapore che trasmetteva il moto rotatorio alle macchine utensili attraverso cinghie di trasmissione e pulegge collocate sopra un contro solaio in legno che proteggeva e nascondeva tutti i meccanismi dei rinvìi atti ad azionare o meno le macchine utensili. Con l’impianto della corrente elettrica a pomarance nel 1914 al posto della macchina a vapore fu collocato un motore elettrico che, con lo stesso principio azionava le varie macchine utensili. Queste macchine operatrici innovative per quei tempi, quando ancora la maggior parte dei falegnami lavorava a mano, erano spesso utilizzate anche da altri colleghi pomarancini che si facevano segare e portare a misura il legname che in seguito avrebbero terminato di lavorare nelle proprie botteghe.
Uno dei primi figli che frequentò la bottega di
Claudio Bonucci fu Carlo. Dotato di notevole talento artistico, fu fin da ragazzo
inviato all’Accademia di Belle Arti a Siena per imparare scultura e disegno.
Molto scarse sono le notizie storiche di questo valente professionista che,
secondo fonti orali, fu il migliore dei figli del “Falugi” e che, per motivi
a noi sconosciuti, lasciò Pomarance nel 1909 per andare ad abitare a Rosignano
Marittimo. Tra i suoi più importanti lavori vi è certamente l’in
carico, da parte del Comune di Pomarance, di assistente ai lavori nella costruzione
del campanile parrocchiale (progettato dal Bellincioni di Pontedera) nel quale
realizzò alcune sculture in tufo.
In una pubblicazione stampata in occasione dell’inaugurazione del campanile nel 1898 e curata dal Maestro Angelo Lessi veniva fatto un elogio particolare a Carlo Bonucci il quale “… oltre ad assistere ai lavori scolpì lo stemma di Pomarance, il San Giovanni e la Madonna del Buon Consiglio che si vedono sotto i terrazzi balaustrati del campanile …”.
In questo lavoro furono coinvolti anche gli altri fratelli Bonucci Luigi, Federigo e Vittorio che “…. lasciata la pialla e preso lo scalpello eseguirono con generale soddisfazione i lavori più complicati e difficili…” (2)
Tra i suoi lavori a noi conosciuti è certamente il progetto del campanile nuovo attaccato alla Chiesa di San Cerbone nel Castello di Montecerboli finito di realizzare nel 1909. Ne è testimonianza una lapide collocata alla base dello stesso campanile che riporta la seguente dicitura: ‘‘Il 15 maggio 1902 fu cominciata la costruzione di questo campanile che col denaro della Compagnia di Conte e l’opera della popolazione di Montecerboli fu faticosamente compiuto e inaugurato il 19 dicembre 1909. Carlo Bonucci di Pomarance disegnò e Luigi Micheletti di Larderello diresse i lavori”.
L’altro figlio secondogenito del Falugi fu Luigi Bonucci
che per il suo temperamento estroverso fu il solo a lasciare ben presto la
bottega del padre per fare lo scultore professionista a Firenze. A questo
personaggio pomarancino, morto nel 1954, è stata dedicata una monografia nel n°
4 della rivista ‘‘La Comunità di Pomarance” del 1989 insieme ad una mostra
antologica delle sue opere esposte nel Palazzo ex Pretura di Pomarance (Dicembre
1989).
Vissuto a Firenze per molti anni e riconosciuto come artista fiorentino nelle mostre nazionali, ha lasciato molte sue opere anche a Pomarance come il Busto del Tabarrini (1911), quello del Dottor Cercignani (1934), i decori in bronzo del Monumento ai caduti del Parco della Rimembranza. Tornato ad abitare a Pomarance nella casa paterna di via Mascagni nel 1929, collaborò alla conduzione della falegnameria eseguendo e scolpendo parti di mobili realizzati dai suoi fratelli Federigo e Vittorio, che particolarmente ereditarono lo pseudonimo del padre Claudio quando morì nel 1919.
I due fratelli Federigo e Vittorio infatti continuarono il
mestiere del padre realizzando una infinità di manufatti che ancor oggi, a
distanza di 50 o 70 anni, vengono indicati con lo stesso pseudonimo di ‘‘Falugi”.
È il caso di una poltrona conservata a Milano dai signori Frediani che viene
ancora oggi chiamata la ‘‘poltrona dei Falugi”.
Tra i vari lavori eseguiti da questi artigiani a nostra
conoscenza sono certo da ricordare il portone del Municipio di Pomarance
oppure quello della Chiesa Parrocchiale nel quale sono scolpiti il San Giovanni
e la Madonna. AH’interno della stessa chiesa furono eseguite anche le panche
laterali e la balaustra dell’Altare Maggiore.
Di pregevole valore sono le scrivanie del Sindaco e del
Segretario Comunale realizzate nel periodo fascista e nelle quali si denotano
pregevoli intagli. Del 1925 è sicuramente un tavolo in noce eseguito per la
famiglia Bicocchi e custodito nell’omonimo palazzo di via Roncalli. Di questo
esemplare è conservata fra i documenti dei Bonucci una fotografia del tavolo
in cui sono intagliati gli stemmi di famiglia dei Bicocchi. La committenza del
lavoro è certificata anche da una ricevuta di pagamento conservata nel
costituendo ‘‘Museo Bicocchi” firmata Vittorio Bonucci Falugi.
Per l’avviamento della caldaia a vapore,
che serviva per azionare le macchine utensili della falegnameria prima dell’installazione
del motore elettrico, necessitava la patente di caldaista che deteneva
solamente Federigo Bonucci il quale durante i periodi estivi partecipava anche
alle campagne di trebbiatura del grano conducendo le grosse ‘‘Caldaie a vapore”
costruite dall’artigiano locale Angiolo Pineschi.(3)
Sempre pronto all’iniziativa
imprenditoriale attorno al 1925 formò una società per la produzione e vendita
di gesso con il Podestà del tempo Onorato Biondi.
Fin dal 1891 i due fratelli Vittorio e Federigo alternarono il loro mestiere di falegname con quello di Fotografi Dilettanti, fotografando immagini di Pomarance, personaggi e vedute panoramiche dei monumenti più importanti della zona che riproducevano in cartoline postali. Ne è testimonianza una cartolina datata 28 luglio 1900 in cui è fotografata la Rocca di Sillano di quel periodo ed in cui è impresso il marchio di fabbrica ‘‘Fratelli Bonucci Fotografi Dilettanti”.(4) Questi utilizzarono per questa attività due macchine a soffietto con il sistema di impressionatura a lastra di vetro; una corredata di cavalletto in legno, l’altra portatile e databile intorno al 1902.
Grandi appassionati di musica fin da giovani
fecero parte della Società Filarmonica di Pomarance denominata l’indipendente,
diretta per molti anni dal maestro Giovanni Chimera di Crema.
Federigo suonava il “Genis” mentre Vittorio
il Trombone. Spesso partecipavano insieme al collega falegname Pini Ranieri
(maestro di musica e costruttore di mandolini) all’accompagnamento musicale
del cinema muto che veniva proietato a Pomarance fin dal 1914 nei fondi della
casa di Baldeschi Ernesto in via Roncalli (Attuale casa di Aroldo Pineschi).
Da fonti orali riportatemi dal
novantenne Aroldo Pineschi, sembra che i due fratelli Bonucci, amanti della
fotografia e del cinema fossero stati i promotori nel convincere gli
accademici del Teatro dei Coraggiosi ad impiantarvi la macchina da proiezione
per il cinema muto. Negli anni venti infatti iniziarono le proiezioni che
furono affidate all’esperto Federigo Bonucci.
Una iniziativa certamente conveniente
per l’Accademia dei Coraggiosi che vide aumentare considerevolmente il numero
degli spettatori domenicali a discapito dell’altro cinema del Baldeschi che,
da buon burlone, lo aveva denominato: “CINEMA, VITA BREVE, MORTE SICURA”.(6)
Federigo Bonucci rimase celibe e morì il 23 settembre 1945. Suo fratello
Vittorio, sposato con Maria Molesti di Peccioli, dopo la morte del fratello
assunse come apprendista il sedicenne Paolo Bocci al quale insegnò gran parte
delle sue esperienze di falegname sino al 1953 quando si spense all’età di 76
anni.
Erede del patrimonio Bonucci rimase la sorella Alberta Luisa Bonucci sposata con il falegname carraio Carlo Pineschi. La falegnameria fu data in affitto dal 1954 all’artigiano falegname Unitario Garfagnini detto la “Gatta” che la tenne aperta fino alla sua morte avvenuta nel 1987.(7)
Jader Spinelli
NOTE
Fonti orali affermano che la “Casa dei Falugi” di via Mascagni insieme alla bottega fosse stata ceduta dai Bicocchi in cambio di lavori di falegnameria che gli stessi Bonucci avevano eseguito per le Fattorie Bicocchi. La casa infatti era pervenuta ad Emilio Bicocchi in dote a sua moglie Paolina Ghilli il cui padre era proprietario della Fattoria di Lanciaia ed anche del Palazzo ex Ricci.
Festeggiamento e Inaugurazione del Campanile di Pomarance 1898.
Le caldaie a vapore costruite dall’artigiano Angiolo Pineschi erano realizzate nella sua officina in via della Cella (attuale Via Bardini) sotto la casa di proprietà di Umberto Buzzichelli.
La cartolina è conservata nella collezione privata di Umberto Rossi a Montecerboli.
Le macchine fotografiche sono attualmente di proprietà di Bartoli Gerardo che le acquistò dagli eredi Bonucci nel 1956.
Un ringraziamento sincero vada a Giovanni Danzini, Aroldo Pineschi e Paolo Bocci per le notizie orali fornitemi sui Falugi. Una espressione di gratitudine vada inoltre a Giovanni Baroni che mi è stato vicino nella consultazione dei documenti Bonucci e nella esecuzione di riproduzioni fotografiche.
Dopo la morte di Alberta Luisa Bonucci la casa dei Falugi fu ereditata da sua sorella Sofia che si era sposata a Milano nel 1910 con certo Prato Alfredo. Alla morte di questi il patrimonio Bonucci passò alla loro figlia Giannina Prato sposata nel 1940 con lo scrittore e critico d’arte Giuseppe Zanella. Alla morte di questi la proprietà è pervenuta al loro figlio, l’ingegnere Marco Zanella, sposato con M.G. Moschini da cui sono nati Daniele ed Andrea ai quali va il mio più sincero ringraziamento per avermi dato la possibilità di consultare i documenti di famiglia in modo da poter lasciare ai posteri una traccia sulla attività artigianale di questa importante famiglia pomarancina.
La pensione, un riposo meritato dopo una vita intera dedicata più o meno intensamente ad una attività, viene istantaneamente a troncare i rapporti con i propri colleghi e con gli ambienti ormai familiari, che per anni, sono stati parte integrante di ogni singolo, operaio o impiegato che fosse.
Dopo un arrivederci con tanto di
rinfresco e di strette di mano, ci si trova a cambiar vita e a fare nuove amicizie,
magari si ritrovano vecchi compagni di scuola, che da anni non si vedevano più
e si ricreano nuove abitudini.
Per non andare a braccetto dell’ozio,
che è padre del vizio, si cerca in un modo o in un altro di rendersi ancora
utili, con qualsiasi mezzo, con le più banali iniziative, magari rispolverando
mestieri praticati in gioventù, ma rivisti con l’esperienza dell’anziano, ci
si dedica perché meglio scorra il tempo e per soddisfazioni proprie, per
hobby, si dice in parole moderne.
Abbiamo parlato di hobbisti
già altre volte su questa Rivista, oggi presentiamo “PAMPURIO”, non quello dei
fumetti del CORRIERINO DEI PICCOLI degli anni trenta, ma di un Pampurio adulto,
messo a riposo dalle Ferrovie dello Stato sin dal 1975. Pampurio, nella sua
botteghetta sotto casa, costruita sul terreno dell’ex tenditoio del
Docciarello, attiguo al Parco della Rimembranza, in una morbida nebbiolina, ha
ripreso il suo lavoro di gio
ventù “L’ALABASTRAIO”.
L’alabastraio di quei tempi, con attrezzi forgiati
appositamente per specifici lavori. Un sistema di lavoro manuale, antiquato,
che solo la passione e l’illusione di sentirsi ancor giovane può ridare il via
a questi mezzi sorpassati dalle tecniche moderne, dai torni copiativi, dai
pantografi e da altri sistemi computerizzati.
Pampurio, con “RAMPINO” (sorta di attrezzo arcato, atto a svuotare a tazza un pezzo di alabastro), riesce con maestria a dar forma al pezzo ruotante piazzato sulla coppaia del tornio, ad un vaso, ad una fruttiera o ad un’anfora. Sugli scaffali, prospicenti il banchetto di lavoro, pezzi incompiuti, carichi di polvere rinvecchiata, non più bianca, ma ingiallita dal tempo, stanno lì come campioni a mezza tiratura a far corona all’ambiente saturo di pulviscolo. Un cappellaccio in testa a far si che i capelli canuti non si imbianchino ancor di più, un grembiule che copra gli spruzzi stillati dal tornio, una mascherina antipolvere sistemata alla bocca da un elastico mezzo imporrito, è tutto l’abbigliamento necessario per tale impiego.
Attorno al banchetto variate sorte di arnesi:
seghetti, raspe, rampini di varie forme, punte da trapano, scuffie multiformi,
collanti, colori artefatti e quant’altro possa servire allo scopo.
Una lampada schermata da un lato, a mo’
di paraluce per non offendere la vista e una finestrella con dei piccoli vetri
semisommersi di polvere da sembrare nevosi, diffondono una opaca visibilità,
da cui emerge il lavoro che mani rudi nel tatto, ma delicate nel servire,
portano a termine in candide forme elaborate.
Rivolgendo la parola a quest’uomo, che
nel giro degli alabastrai è conosciuto come PAMPURIO (in realtà il suo nome è
Libero), abbiamo da lui risposte precise riguardo agli attrezzi usati, ai modi
di lavoro, alle specie di alabastro usato, alla cottura, alla tinteggiatura e
lucidatura, ed un sistema che “LUI” solamente Lui usa al mondo d’oggi.
Inoltre, a mo’ di scaramanzia, tiene a dire come fosse un motto: “Diamo credibilità all’alabastro”, l’alabastro che dalle nostre locali cave è riuscito sempre con il suo marchio a passare i confini, le frontiere e gli oceani per farsi conoscere in tutto il mondo.
Giorgio
Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.
La Storia Continua
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