PAMPURIO L’ALABASTRAIO

La pensione, un riposo meritato dopo una vita intera dedicata più o meno inten­samente ad una attività, viene istantaneamente a troncare i rapporti con i propri colleghi e con gli ambienti ormai familia­ri, che per anni, sono stati parte integran­te di ogni singolo, operaio o impiegato che fosse.

Dopo un arrivederci con tanto di rinfresco e di strette di mano, ci si trova a cambiar vita e a fare nuove amicizie, magari si ri­trovano vecchi compagni di scuola, che da anni non si vedevano più e si ricreano nuove abitudini.

Per non andare a braccetto dell’ozio, che è padre del vizio, si cerca in un modo o in un altro di rendersi ancora utili, con qualsiasi mezzo, con le più banali inizia­tive, magari rispolverando mestieri prati­cati in gioventù, ma rivisti con l’esperien­za dell’anziano, ci si dedica perché me­glio scorra il tempo e per soddisfazioni proprie, per hobby, si dice in parole mo­derne.

Opere realizzate al tornio e a mano.

Abbiamo parlato di hobbisti già altre vol­te su questa Rivista, oggi presentiamo “PAMPURIO”, non quello dei fumetti del CORRIERINO DEI PICCOLI degli anni trenta, ma di un Pampurio adulto, messo a riposo dalle Ferrovie dello Stato sin dal 1975. Pampurio, nella sua botteghetta sotto casa, costruita sul terreno dell’ex tenditoio del Docciarello, attiguo al Par­co della Rimembranza, in una morbida nebbiolina, ha ripreso il suo lavoro di gio­

ventù “L’ALABASTRAIO”.

L’alabastraio di quei tempi, con attrezzi forgiati appositamente per specifici lavo­ri. Un sistema di lavoro manuale, antiqua­to, che solo la passione e l’illusione di sentirsi ancor giovane può ridare il via a questi mezzi sorpassati dalle tecniche moderne, dai torni copiativi, dai pantografi e da altri sistemi computerizzati.

Pampurio, con “RAMPINO” (sorta di at­trezzo arcato, atto a svuotare a tazza un pezzo di alabastro), riesce con maestria a dar forma al pezzo ruotante piazzato sulla coppaia del tornio, ad un vaso, ad una fruttiera o ad un’anfora. Sugli scaf­fali, prospicenti il banchetto di lavoro, pez­zi incompiuti, carichi di polvere rinvecchiata, non più bianca, ma ingiallita dal tempo, stanno lì come campioni a mez­za tiratura a far corona all’ambiente sa­turo di pulviscolo. Un cappellaccio in te­sta a far si che i capelli canuti non si im­bianchino ancor di più, un grembiule che copra gli spruzzi stillati dal tornio, una ma­scherina antipolvere sistemata alla boc­ca da un elastico mezzo imporrito, è tut­to l’abbigliamento necessario per tale im­piego.

Attorno al banchetto variate sorte di ar­nesi: seghetti, raspe, rampini di varie for­me, punte da trapano, scuffie multiformi, collanti, colori artefatti e quant’altro pos­sa servire allo scopo.

Una lampada schermata da un lato, a mo’ di paraluce per non offendere la vista e una finestrella con dei piccoli vetri semi­sommersi di polvere da sembrare nevo­si, diffondono una opaca visibilità, da cui emerge il lavoro che mani rudi nel tatto, ma delicate nel servire, portano a termi­ne in candide forme elaborate.

Lavoro al tornio

Rivolgendo la parola a quest’uomo, che nel giro degli alabastrai è conosciuto co­me PAMPURIO (in realtà il suo nome è Libero), abbiamo da lui risposte precise riguardo agli attrezzi usati, ai modi di la­voro, alle specie di alabastro usato, alla cottura, alla tinteggiatura e lucidatura, ed un sistema che “LUI” solamente Lui usa al mondo d’oggi.

Inoltre, a mo’ di scaramanzia, tiene a di­re come fosse un motto: “Diamo credibi­lità all’alabastro”, l’alabastro che dalle no­stre locali cave è riuscito sempre con il suo marchio a passare i confini, le fron­tiere e gli oceani per farsi conoscere in tutto il mondo.

Giorgio

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

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