ASPETTI DI RELIGIOSITÀ POPOLARE E PRATICHE MAGICO – RITUALI
La devozione popolare in Toscana, almeno per taluni aspetti, pare affondi le sue radici negli antichi culti romani o addirittura etruschi.
Da queste lontane forme di religiosità, infatti, si ipotizza abbia avuto origine la concezione, così diffusa, che vede l’intervento diretto della divinità nei fatti più minuti della vita non solo umana, ma anche in quella della campagna e della natura.
In tale logica si collocano alcuni rituali in uso in molti luoghi del nostro territorio fino a pochi decenni fa, che si rivolgono a Santi particolari e che coincidono con le feste collegate al ciclo dell’anno.
Il 24 giugno, festa della natività di San Giovanni Battista, si celebrava nell’antichità il solstizio d’estate.
La tradizione popolare attribuiva alla “guazza” di San Giovanni poteri magici, tali da rendere le erbe medicinali particolarmente efficaci. La mattina, prima del levar del sole, ci si recava, solitamente a gruppi, nei luoghi dove cresceva la camomilla e si raccoglievano fasci di steli fioriti dai quali, una volta tornati a casa, venivano tagliate le corolle che, essicate, si potevano conservare a lungo e usare, come rimedio naturale, in molteplici occasioni.
Dalle nostre parti si raccoglieva anche un’erba chiamata “pìlatro”, che veniva conservata in una bottiglia piena d’olio e serviva per curare le bruciature.
Con la “guazza” di San Giovanni c’era l’usanza di bagnarsi i capelli poiché si diceva che facesse bene al mal di testa; inoltre, i nati in questo giorno, erano considerati “virtuosi”, possedevano cioè una virtù che poteva essere, ad esempio, segnare le “storte” alle persone ed agli animali. Chi aveva simili poteri era molto conosciuto presso la comunità e veniva chiamato a dare il suo aiuto in ogni momento della giornata, per questo, si racconta, portava sempre con sé l’immagine di un santo o una di quelle minuscole statuette, racchiuse in un “bucciolino” di alluminio che raffiguravano Sant’Antonio da Padova.
Abbiamo avuto notizia che, almeno fino ai primi decenni del 1900, in molte case della nostra zona, la sera del 23 giugno le donne ripetevano un rito che, almeno nei ricordi di chi ce ne ha parlato, non aveva un significato particolare, “si faceva perché si era sempre fatto”: si prendeva una bottiglia di quelle di allora, con una grossa pancia, il collo lungo ed il tappo di vetro, la si riempiva d’acqua fino al collo e si versava dentro un chiaro d’uovo. La notte si lasciava fuori della finestra e la mattina dopo, come per miracolo, dentro l’acqua si vedeva una barca, la barca di San Giovanni.
Non sempre e non a tutte riusciva di ottenere l’effetto sperato anche perché, oltre alla benedizione di San Giovanni, occorreva essere dotate di “mani buone”. Un’altra usanza riguardava le ragazze innamorate ed era una specie di prova della verità che ci fa pensare al detto, molto diffuso tra le persone non più giovani, “San Giovanni non vuole nè scherzi nè inganni”: coloro che desideravano sapere se il loro innamorato era sincero oppure no, coglievano un fiore di cardo, lo “strinavano” leggermente con un fiammifero e li lasciavano per tutta la notte di San Giovanni fuori dalla finestra. La mattina dopo, se il fiore era ritornato bello, il giovanotto diceva la verità, se invece era sciupato era segno di bugie.
Un’altra tradizione legata alla festa di San Giovanni, mantenuta viva dai contadini fino all’awento dei trattori, è quella di “bruciare la mosca”. In questo periodo, con l’inizio della stagione calda, il bestiame usato nel duro lavoro dei campi, improvvisamente “si ammoscava”, cominciava a saltare e, anche se aggiogato, scappava nella macchia.
Tale comportamento era imputato alla presenza di una mosca “cattiva”, vero tormento per i buoi e pericolo di danni ingenti per i contadini che, ogni volta, rischiavano l’incolumità del loro bestiame il quale, fuggendo, poteva azzopparsi e ferirsi, anche in modo grave.
Per scongiurare questa specie di calamità naturale, la vigilia di San Giovanni, “al sotto di sole”, si accendeva un fuoco con una fascina di frasche, con lo scopo simbolico di “bruciare la mosca”.
Il luogo prescelto era lo spazio davanti alla stalla o, comunque, un posto ben visibile dai poderi vicini, poiché il rito era anche un’occasione per affermare i legami comunitari sfuggendo, per un momento, alla condizione di isolamento che caratterizzava la vita di molte famiglie contadine.
Laura e Silvano
Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.