Giorni fa passando da Pomarance è venuta a trovarci la signora Vittorina Bibbiani, scrittrice e protagonista dell’ormai famoso libro “IL FORMICAIO” Durante uno scambio di idee intercorso tra di noi, ha manifestato il desiderio di poter pubblicare questo articolo.
A quei tempi i mulini erano tutti ad acqua. Intorno al mio paese ve ne erano quattro: quello delle Valli, quello della Doccia, quello più lontano di Berignone e quello della Bottaccina.
Il nostro era quest’ultimo ed era il più caratteristico.
Veramente non era un mulino, ma ben tre mulini scaglionati lungo il fianco della collina giù giù fino alla valle dell’Arbiaia. Ed ora che ci penso era una cosa geniale. L’acqua di una piccola sorgente riempiva piano piano la “gora di cima” (un piccolo bacino che però allora mi pareva paurosamente grande); ad una ventina di metri più in basso c’era ilm primo mulino (il Mulino di cima); dopo una trentina di metri la gora la gora ed il Mulino di mezzo, dopo una cinquantina, la gora ed il Mulino di fondo.
L’acqua utilizzata dal mulino di cima andava a riempire la gora di mezzo per essere utilizzata dal secondo mulino e da qui finiva nella “gora di fondo” per il terzo mulino. Così la preziosa acqua non veniva sciupata ed ogni giorno il mugnaio poteva macinare. I mulini erano tutti uguali: robusti casotti in pietra di una sola stanza.
Infilata in mezzo alla pesante macina c’era la tramoggia, grosso imbuto di legno a forma di tronco di piramide quadrangolare, aperto in cima ed in fondo. Ad una parete c’era il “buratto” un grosso staccio cilindrico azionato a mano. Sotto il pavimento un antro oscuro in cui cadeva con forza l’acqua della gora che faceva girare delle grosse pale e queste a loro volta la macina.
Qualche volta il babbo portava anche me al mulino. Caricata insieme ai sacchi sulla bardella o sul barroccio, via giù per la strada scoscesa. Naturalmente ci fermavamo dove c’era l’acqua pronta. Babbo legava la Brenna ad un albero, scaricava me ed i sacchi e chiamava il mugnaio. Beppino appariva sulla porta tutto infarinato, scambiavano qualche parola, scaricavano i sacchi e li rovesciavano nella tramoggia. Poi il mugnaio tirava su una leva e l’acqua della gora metteva in azione le pale, lo mi spostavo dall’interno all’esterno, alternando la mia attenzione dalla tramoggia all’antro delle pale. La grossa macina girava lentamente; io salivo sullo sgabello e mi affacciavo, non senza un po’ di timore, alla tramoggia. re sulla nostra Rivista alcuni racconti non inseriti nel suo libro.
Per questo numero abbiamo scelto il racconto “Il Mulino” che parla appunto del luogo a Lei noto per la limitata distanza che la separava dal suo Podere.
Nel mezzo di questa si formava come un piccolo vortice ed il grano veniva lentamente succhiato giù e schiacciato sotto la mola per uscire in farina da una bocchetta. Il rumore dell’acqua e della macina, le voci del babbo e del mugnaio che urlavano per farsi intendere, creavano in me un senso di sgomento ed allora uscivo fuori a vedere l’acqua che sbatteva nelle pale e le faceva girare schizzando spumosa sopra le pareti dove tremolavano argentei i capelvenere. Dopo la farina veniva messa nel buratto; il babbo si sedeva sopra uno sgabello, impugnava una manovella e girava girava finché in un bianco spolverio tutta la farina veniva separata dalla crusca e dal semolino. Intanto, nell’attesa, io andavo per i fossi in cerca di fragole o di fiori e poi, col mazzolino in mano, venivo ricaricata insieme ai sacchi sulla Brenna e ritornavamo a casa. Per un mesetto era asicurato “il mangiare” per i cristiani ed “il mangime” per le bestie.
Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.