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Racconti e poesie della zona di Pomarance ed Alta Val di Cecina.

I SIGNORI PADRONI

un racconto di Vittorina Bibbiani Salvestrini

Al mio paese non c’erano contadini proprietari di terre, ma solo mezzadri. La terra suddivisa in tenute, più o meno grandi, apparteneva tutta ai “Signori”, ai padroni. I padroni avevano quasi tutti il palazzo nelle stesse vie, ma abitavano in città e venivano al paese solo a metà estate. Essi erano chiamati padroni, ma in realtà i veri padroni erano i fattori (amministratori) che tartassavano i con­tadini e fregavano il padrone arricchen­dosi piano piano alle sue spalle, spesso diventando più ricchi di lui.

“Fammi fattore una anno……. se non ar­

ricchisco, mi danno!..”.

Il “Signore” più signore era il conte De Larderei ed il suo palazzo era il più grande ed il più bello. Si allungava per un quarto della via Roncalli, dove era l’ingresso ed anche l’abitazione del fat­tore, girava l’angolo dove si spalancava il grande ingresso delle scuderie poste sotto il palazzo e dalla parte opposta si alzava di vari metri sulle “mura”, col suo bel giardinetto pensile e i suoi tre piani. Su questa facciata spiccava lo stemma gentilizio. Era la riproduzione, un po’ ridotta, del palazzo De Larderei di Livor­no.

Il conte era un bel vecchio distinto dalla barba bianca.

Egli, con felice intuito, aveva comprato per una miseria la terra brulla, conside­rata quasi maledetta dei soffioni, dando origine a quello che è diventato poi il complesso industriale di Larderello che da lui ha preso il nome.

Una sua figlia aveva sposato il principe Ginori, aggiungendo ancora lustro alla casata. Mi par di rivedere la principessi­na, quando passava da casa mia a ca­vallo!

Vestita da amazzone ( con la gonna lunga fino ai piedi) sedeva in sella con le gambe a sinistra, i lunghi capelli sciolti, raccolti da una parte, il frustino e le briglie in mano.

Tutto era lindo, luccicante, impeccabile: dall’abito al cavallo, ai finimenti, al ri­spettoso scudiero in divisa che le caval­cava un po’ dietro.

Per noi bimbetti di campagna era il plus – ultra della signorilità e li guardavamo con ammirazione mista a un po’ d’invi­dia. Il fattore del Conte era un signore con la barba, robusto, altero e taciturno che incuteva a tutti soggezione.

Era lui il vero padrone di tutta la contea. Sua moglie, lasignoraGiulia, era bellae dolce e non usciva mai. Il fattore, forse geloso, doveva essere un tiranno anche con lei. Aveva anche un figlio; bello e dolce come la mamma, che studiava in città. Di fronte alla sua stanza, dall’altra parte della strada, c’era il giardino pen­sile del signor Mugnaini. Sua figlia Ma­ria, dolce e timida, uscita da poco dal collegio, si sedeva a ricamare sotto il pergolato. Attraverso l’aere cominciaro­no a partire prima sguardi furtivi, poi sorrisi, poi saluti….e poi divennero sposi felici.

lo conoscevo abbastanza il palazzo per­chè mamma , prima della venuta dei “Signori”, andava a dare una mano alla “casiera”, e alla” sora “ Caterina.

E mentre loro facevano le pulizie, io perlustravo lunghi corridoi e le innume­revoli camere con i letti a baldacchino ed i rispettivi, eleganti salottini con tante morbide poltrone e graziosi soprammo­bili. Di questi quello che più mi incantava era, sotto una campana di vetro, una chioccia a grandezza naturale che cova­va una bella nidiata di pulcini dorati e birichini.

La cucina era immensa; grande acqua­io, grande camino, grandi tavole. Ad una colonna c’era appeso un macinino, anzi un macinone. E alle pareti tanti rami luccicanti e nelle vetrine cristalliere scin­tillanti. Ma il Conte era un uomo sempli­ce, mangiava nel tinello aperto sulla cu­cina e dormiva in una cameretta a pian terreno, quasi spoglia. Il suo letto era senza baldacchino e ai piedi di esso c’era un inginocchiatoio.

Altri palazzi ,come ed esempio quelli dei Fabbricotti,dei Galli Tassi o dei Bicocchi erano più modesti.

Ricordo che una figlia dei Bicocchi ave­va sposato un avvocato francese ed era andata ad abitare a Nizza.

Nell’estate, anche lei veniva in villeggia­tura al paese di Pomarance con le figlie; e queste, per la passeggiata vespertina, qualche volta passavano, eleganti, da­vanti al “Formicaio”, accompagnate dal­la istitutrice francese, conversando in questa lingua.

Un loro zio, la sera delle sue nozze avvenute in città, portò al paese una giovane sposa, bella , gentile e candida come un giglio. La mattina presto quan­do il proposto aprì la chiesa, se la trovò alla porta piangente, disperata, che chie­deva di confessarsi; riteneva di aver commesso un gran peccato mortale e voleva ritornare dalla sua mamma.

Non sapeva nulla del matrimonio. Forse credeva davvero che i bambini li portas­se la cicogna.

Fu compito non facile per il proposto consolarla, erudirla e convincerla a ritor­nare a palazzo a compiere i suoi doveri di sposa!

Altri tempi!

I nostri padroni erano i Signori Fabbri­cotti.

Abitavano a Massa Carrara dove si era­no arricchiti con le cave di marmo. Pos­sedevano al paese una vastissima tenu­ta ed un bel palazzo, anchesso col giar­dino pensile.Avevano una grande villa con giardino e scuderie a Livorno, villa che porta ancora il loro nome.

Erano buoni e munifici, specialmente la signora, morta quasi in odore di santità. Ogni anno ella faceva allestire una gran­de fiera di beneficenza per offrire, così a tutti doni, senza umiliare.

Il loro arrivo era annunziato dal festoso suono della banda comunale ( proprio come nel “Gattopardo”).

Poi venne la guerra 1915-18 e peggio ancora il dopoguerra; e i suoni si tramu­tarono in fischi. E i signori non vennero più.

Il Principe Ginori e F. De Larderei nello stabilimento di Larderello con i loro dipendenti (1900 circa)

Vittorina Bibbiani Salvestrini

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

LA RITIRATA DELL’A.R.M.I.R. IN RUSSIA

RACCONTO AUTOBIOGRAFICO DI M. SCARCIGLIA

Caro direttore, ho accettato il tuo invi­to a descrivere la tragedia dell’ARMIR, tragedia immane, della quale porto i se­gni indelebili sul corpo e nella mente, spe­rando che i giovani e certi politicanti da caffè imparino che cosa è la “guerra”. Premetto che l’argomento può prestarsi ad interpretazioni di carattere politico dal­le quali rifuggo.

Dirò semplicemente cose orribili che ho vissuto e sofferto.

Lo dirò con senso di riconoscenza verso quella meravigliosa “Popolazione Rus­sa”, senza l’aiuto della quale nessuno, di­co nessuno di noi si sarebbe salvato.

Noi eravamo gli “invasori” e loro gli “ag­grediti”; non dimentichiamolo!

Ed ecco il racconto, stringato, nudo e cru­do, piaccia o no, ma a prova di qualun­que smentita perchè è la semplice duris­sima realtà.

Partii con gli alpini della “Cuneense” da Borgo San Dalmazzo, poi Cuneo, Torino, Milano, Brescia, Piedicolle, Villaco, Mo­naco, Dresda, Varsavia, Kiev, Izium. Tremilacinquecento kilometri. Durante i viag­gio rimanemmo scioccati nel vedere le donne addette a pulire i binari con la “Stella di DAVID” sul dorso sorvagliate e malmenate dalle sentinelle tedesche. Tremilacinquecento Kilometri!

Non mi rendevo conto come i “sacri” confini d’Italia fossero così dilatati!

Iniziammo la marcia verso il “Don” con un caldo asfissiante.

Le più belle “Divisioni Alpine”, atte alla montagna, mandate al “macello” nell’immensità della “Steppa Russa”!

Ero addetto al collegamento continuo fra la “testa” e la “coda” divisionale.

Avevo una “Sertum 500”.

Quindici giorni di lavoro durissimo nella “Steppa”

Durante la marcia i civili ci osservavano in silenzio dalle “ISBE” (case).Arrivam­mo sul Don. La “Cuneense” al centro, al­la destra la “Julia”, a sinistra la “Vicen­za”, poi la “Tridentina” Armamenti:

In linea le “Breda 36”, il “vecchio 91” e le bombette “Balilla”, che, se pestate, po­tevano al massimo portarti via il tacco de­gli scarponcelli.

Cominciammo a scavare trincee e cam­minamenti.

Poche scaramucce, qualche attacco spo­radico, qualche morto.

Ogni giorno mi recavo a Loscina od Annofca, poi in trincea quando finivo il turno. Nei giorni di calma ci recavamo nelle “Isbe” dei civili.

Diffidenti all’inizio, più cordiali in segui­to, ci narravano delle atrocità commesse dai tedeschi.

Devo dire che mai un soldato italiano si è macchiato di una violenza verso la po­polazione.

E loro se ne sono ricordati!

A metà settembre la temperatura diminuì A metà novembre la “Steppa” era un “mare di neve”, ci orientavamo con i mu­lini a vento.

Furono distribuiti pastrani con un pò di pe­lo di pecora e sempre le stesse scarpe. A Loscina rimediai un completo russo: tenni solo il cappello alpino.

Natale 1942: La posta non arrivava più poiché, in pratica, eravamo già accer­chiati.

Capodanno 1943: Aspettavamo che ac­cadesse qual’cosa.

Giorni tristi, pochi viveri, nessuna notizia da casa, termometro a 35 gradi sotto.

E venne il 17 Gennaio: nella notte ebbe inizio la più grande tragedia della storia. Ordine di ritirata!

La notte era illuminta dagli incendi. Ero ben equipaggiato, con i” ValenKi”, i fa­mosi stivali russi, come russi erano il giub­botto ed i pantaloni. Nel tascapane ave­vo due pagnotte gelate e tre ciocciolate. Bruciammo i pochi camion, caricammo le slitte, ed iniziammo la ritirata.

Da LOSCINA in poi fu un continuo coro di urla dei feriti perché le “Katiusce” (il cannone a Trentadue Colpi) aprivano vuo­ti nelle nostre file.

Urla dei feriti che chiamavano “mamma”, urla di chi, sfinito, si accasciava per non alzarsi più.

Unici punti di riferimento il bagliore degli incendi.

Ci riposavamo al calore dei pagliai bru­ciati.

Da LOSCINA in poi un coro continuo, lan­cinante: MAMMA! MAMMA!

La fame ci dilaniava e nella steppa fi­schiava il vento sollevando aghi di ghiac­cio che crivellavano la faccia.

Avevo solo mezza pagnotta gelata.

40 gradi sotto. Ci riposavamo, puntando la pistola, per dormire nelle poche “Isbe” rimaste in piedi, perchè dormire fuori, si­gnificava non svegliarsi più.

Riempii il tascapane di occhiali da neve tolti ai morti, e li cambiai con scatolette di carne e pezzi di marmellata.

Chi non aveva occhiali doveva pagare o perdere gli occhi.

Li avrei tolti anche alla mia Mamma!

Ho dormito poche volte nelle “Isbe”, spesso nei pagliai, e le donne russe ci hanno aiutato sino al limite delle loro pos­sibilità.

Un vecchio stava mangiando latte e ce­trioli, mi dette tutto e mi riempì la gavetta. Ragazzi russi di 14-15 anni con il “Para­bellum” controllavano che fossimo ita­liani.

Ai Tedeschi facevano subito la “pelle”. Le donne ci davano latte, miele, e cetrio­li acidi.

Quanto latte ho bevuto, quanti telai di miele ho mangiato, quanti soldati italiani anno salvato!.

Prima di “VALUIKI” vidi un gruppo che aspettava un pezzo di carne: “CARNE UMANA”, carne di un alpino squartato da un colpo di “Katuiscia”. L’ho visto con i miei occhi. E se non credete a me chie­detelo a Don Turla il nostro cappellano che, con il mitra in mano, fece finire lo scempio; li avrebbbe ammazzati se non si fossero fermati!. Eravamo al limite fra lucidità e pazzia, valeva solo l’istinto be­stiale della conservazione a qualunque costo.

Arrivammo nel vallone di “VALUIKI”, pe­nultimo baluardo da superare; nel vallo­ne ci rafficavano con le mitragliatrici e una raffica spezzò una gamba di un alpino che con il fratello correva verso il riparo urlando disperato.

Un alpino chiamò il fratello, lui si girò vide e continuò a correre, e rispose: “Mamma ne vedrà almeno uno’’.

Soldati italiani sul fronte russo – 1942

Entrai in una “Isbà” dove un vecchio mi dette una ciotola di latte e cetrioli, sua mo­glie si tolse i guanti e me li mise. L’Abbracciai piangendo.

Dopo “Valuiki” continuammo verso l’ul­timo sfondamento:

“NICOLAJEFKA” e fu l’apocalisse.

Ci precipitammo verso la ferrovia, ma non sentii arrivare la Katiusca; una vampata e caddi urlando. Accanto a me fu squar­tato il generale MARTINAT. Urlavo come un pazzo; fortunatamente passò una slitta di carabinieri che mi portarono fuori dal­l’ultima sacca.

Fermi, in attesa di essere caricati su un merci, assistetti ad un episodio di puro eroismo:

Don Turla, Il nostro cappellano, sfinito ma illeso, mentre ci caricavano alzò il “Cro­cifisso’’ e ci benedisse, poi lentamente, tornò nel vallone per non abbandonare i feriti e i morbondi. Quell’atto di puro eroi­smo gli costò quattro anni di “SIBERIA”. È tornato ed ha costruito una chiesetta nelle sue valli ove ogni anno raduna gli ultimi supestiti.

Quello era un Prete!

Arrivai a Varsavia in un liceo trasformato in un ospedale, poi, dopo un sommario medicamento, mi portarono nei sotterra­nei.Dopo due giorni di bombardamenti al­tro treno.

Sostai due giorni a Vienna dove mi cam­biarono le bende e finalmenete col treno N. 20 della Croce di Malta rientrai in Ita­lia e fui subito operato a Chiavari, nella Colonia Fara e Piaggio, ove rimasi 40 giorni.

Vennero la mia mamma e mia zia che non mi riconobbero.

Ero trentuno kilogrammi.

Di nuovo operato a Pisa, poi cure, aria di mare, affetti, hanno rimarginato le ferite, ma in noi sopravvissuti c’e un nodo di ge­lo che nessun calore scioglierà mai più. Considerazioni:

Le più belle divisoni del mondo “Cunenese, Julia, Tridentina”, distrutte.

Fummo spediti nell’immensità della step­pa russa noi alpini allenati in montagna, perchè ci fu chi aveva bisognio di cin­quantamila morti da far pesare sul tavo­lo delle trattative!

Li hanno avuti:

114.240 giovani hanno lasciato i loro 20 anni nel gelo della steppa russa a male­dizione di chiunque voglia la GUERRA.

Bollettino di Guerra del Comando Supre­mo Russo N. 630 dell’8/3/1943: ” Solo il corpo di armata Alpino deve ritenersi im­battuto sul suolo russo”.

Firmato Josef Diugasvili STALIN.

Non era dal cuore tenero ma seppe egualmente riconoscere il nostro valore.

PERCHÈ GLI ITALIANI RICORDINO

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

“UN CAVOLO…”

Negli ultimi anni di guerra, forse era il 1944, in un giorno d’inverno abbastanza freddo, io, che abitavo a La Spezia mi recai a Pomarance, da certi parenti in cer­ca di pasta e farina, che non si aveva in casa, malgra­do la tessera annonaria.

Mia madre, mi diede un bel cavolo da portare a questi parenti, poiché a La Spezia il clima abbastanza mite favoriva la crescita delle verdure. Mentre mio padre mi diede un paio di stivali di gomma.

– Faranno comodo a qualche contadino – Mi disse!

A quei tempi il viaggio in treno era lungo. Prima di Pi­sa, a S. Rossore, il treno finiva la sua corsa per ripren­derla oltrepassata la stazione al cosiddetto “collo d’o­ca” cioè un bel pezzo a piedi in mezzo ai binari distrut­ti dai bombardamenti.

Quando era buio alla stazione di Saline, ci fu un posto di blocco di militari fascisti, che vollero controllare i ba­gagli di ciascuno dei viaggiatori giunti col treno.

Alla domanda di cosa avessi nella valigia risposi can­didamente:

“Un cavolo e degli stivali!” Il resto della valigia era vuoto. Ero andato apposta per caricare un pò di mangiare. Questi si offesero parecchio e credendo ad una battu­ta messa li, mi dissero di fare meno lo spiritoso, che aprissi subito, al che quando li accontentai, ci rimase­ro assai male, tanto che uno di quelli, mi disse se ave­vo uno scontrino relativo all’acquisto degli stivali.

lo veramente non sapevo che da queste parti fosse in vigore la ricevuta fiscale, anticipando di circa quaran­ta anni i tempi, per cui rimasi alquanto perplesso, dissi che non l’avevo, che a La Spezia le cose si comprava­no e basta, le uniche ricevute erano quelle dell’affitto e della luce. Ci rimase male e mi disse di andare.

Pomarance – Via Roncalli, 1920

Geom. GIUSEPPE PINESCHI

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.