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Racconti e poesie della zona di Pomarance ed Alta Val di Cecina.
DIARIO DEL MAESTRO LESSI
RIEVOCAZIONE STORICHE
A cura di Edmondo Mazzinghi
riev-storiche-definitivo-prova-2I SIGNORI PADRONI
un racconto di Vittorina Bibbiani Salvestrini
Al mio paese non c’erano contadini proprietari di terre, ma solo mezzadri. La terra suddivisa in tenute, più o meno grandi, apparteneva tutta ai “Signori”, ai padroni. I padroni avevano quasi tutti il palazzo nelle stesse vie, ma abitavano in città e venivano al paese solo a metà estate. Essi erano chiamati padroni, ma in realtà i veri padroni erano i fattori (amministratori) che tartassavano i contadini e fregavano il padrone arricchendosi piano piano alle sue spalle, spesso diventando più ricchi di lui.
“Fammi fattore una anno……. se non ar
ricchisco, mi danno!..”.
Il “Signore” più signore era il conte De Larderei ed il suo palazzo era il più grande ed il più bello. Si allungava per un quarto della via Roncalli, dove era l’ingresso ed anche l’abitazione del fattore, girava l’angolo dove si spalancava il grande ingresso delle scuderie poste sotto il palazzo e dalla parte opposta si alzava di vari metri sulle “mura”, col suo bel giardinetto pensile e i suoi tre piani. Su questa facciata spiccava lo stemma gentilizio. Era la riproduzione, un po’ ridotta, del palazzo De Larderei di Livorno.
Il conte era un bel vecchio distinto dalla barba bianca.
Egli, con felice intuito, aveva comprato per una miseria la terra brulla, considerata quasi maledetta dei soffioni, dando origine a quello che è diventato poi il complesso industriale di Larderello che da lui ha preso il nome.
Una sua figlia aveva sposato il principe Ginori, aggiungendo ancora lustro alla casata. Mi par di rivedere la principessina, quando passava da casa mia a cavallo!
Vestita da amazzone ( con la gonna lunga fino ai piedi) sedeva in sella con le gambe a sinistra, i lunghi capelli sciolti, raccolti da una parte, il frustino e le briglie in mano.
Tutto era lindo, luccicante, impeccabile: dall’abito al cavallo, ai finimenti, al rispettoso scudiero in divisa che le cavalcava un po’ dietro.
Per noi bimbetti di campagna era il plus – ultra della signorilità e li guardavamo con ammirazione mista a un po’ d’invidia. Il fattore del Conte era un signore con la barba, robusto, altero e taciturno che incuteva a tutti soggezione.
Era lui il vero padrone di tutta la contea. Sua moglie, lasignoraGiulia, era bellae dolce e non usciva mai. Il fattore, forse geloso, doveva essere un tiranno anche con lei. Aveva anche un figlio; bello e dolce come la mamma, che studiava in città. Di fronte alla sua stanza, dall’altra parte della strada, c’era il giardino pensile del signor Mugnaini. Sua figlia Maria, dolce e timida, uscita da poco dal collegio, si sedeva a ricamare sotto il pergolato. Attraverso l’aere cominciarono a partire prima sguardi furtivi, poi sorrisi, poi saluti….e poi divennero sposi felici.
lo conoscevo abbastanza il palazzo perchè mamma , prima della venuta dei “Signori”, andava a dare una mano alla “casiera”, e alla” sora “ Caterina.
E mentre loro facevano le pulizie, io perlustravo lunghi corridoi e le innumerevoli camere con i letti a baldacchino ed i rispettivi, eleganti salottini con tante morbide poltrone e graziosi soprammobili. Di questi quello che più mi incantava era, sotto una campana di vetro, una chioccia a grandezza naturale che covava una bella nidiata di pulcini dorati e birichini.
La cucina era immensa; grande acquaio, grande camino, grandi tavole. Ad una colonna c’era appeso un macinino, anzi un macinone. E alle pareti tanti rami luccicanti e nelle vetrine cristalliere scintillanti. Ma il Conte era un uomo semplice, mangiava nel tinello aperto sulla cucina e dormiva in una cameretta a pian terreno, quasi spoglia. Il suo letto era senza baldacchino e ai piedi di esso c’era un inginocchiatoio.
Altri palazzi ,come ed esempio quelli dei Fabbricotti,dei Galli Tassi o dei Bicocchi erano più modesti.
Ricordo che una figlia dei Bicocchi aveva sposato un avvocato francese ed era andata ad abitare a Nizza.
Nell’estate, anche lei veniva in villeggiatura al paese di Pomarance con le figlie; e queste, per la passeggiata vespertina, qualche volta passavano, eleganti, davanti al “Formicaio”, accompagnate dalla istitutrice francese, conversando in questa lingua.
Un loro zio, la sera delle sue nozze avvenute in città, portò al paese una giovane sposa, bella , gentile e candida come un giglio. La mattina presto quando il proposto aprì la chiesa, se la trovò alla porta piangente, disperata, che chiedeva di confessarsi; riteneva di aver commesso un gran peccato mortale e voleva ritornare dalla sua mamma.
Non sapeva nulla del matrimonio. Forse credeva davvero che i bambini li portasse la cicogna.
Fu compito non facile per il proposto consolarla, erudirla e convincerla a ritornare a palazzo a compiere i suoi doveri di sposa!
Altri tempi!
I nostri padroni erano i Signori Fabbricotti.
Abitavano a Massa Carrara dove si erano arricchiti con le cave di marmo. Possedevano al paese una vastissima tenuta ed un bel palazzo, anchesso col giardino pensile.Avevano una grande villa con giardino e scuderie a Livorno, villa che porta ancora il loro nome.
Erano buoni e munifici, specialmente la signora, morta quasi in odore di santità. Ogni anno ella faceva allestire una grande fiera di beneficenza per offrire, così a tutti doni, senza umiliare.
Il loro arrivo era annunziato dal festoso suono della banda comunale ( proprio come nel “Gattopardo”).
Poi venne la guerra 1915-18 e peggio ancora il dopoguerra; e i suoni si tramutarono in fischi. E i signori non vennero più.
Vittorina Bibbiani Salvestrini
Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.
LA RITIRATA DELL’A.R.M.I.R. IN RUSSIA
RACCONTO AUTOBIOGRAFICO DI M. SCARCIGLIA
Caro direttore, ho accettato il tuo invito a descrivere la tragedia dell’ARMIR, tragedia immane, della quale porto i segni indelebili sul corpo e nella mente, sperando che i giovani e certi politicanti da caffè imparino che cosa è la “guerra”. Premetto che l’argomento può prestarsi ad interpretazioni di carattere politico dalle quali rifuggo.
Dirò semplicemente cose orribili che ho vissuto e sofferto.
Lo dirò con senso di riconoscenza verso quella meravigliosa “Popolazione Russa”, senza l’aiuto della quale nessuno, dico nessuno di noi si sarebbe salvato.
Noi eravamo gli “invasori” e loro gli “aggrediti”; non dimentichiamolo!
Ed ecco il racconto, stringato, nudo e crudo, piaccia o no, ma a prova di qualunque smentita perchè è la semplice durissima realtà.
Partii con gli alpini della “Cuneense” da Borgo San Dalmazzo, poi Cuneo, Torino, Milano, Brescia, Piedicolle, Villaco, Monaco, Dresda, Varsavia, Kiev, Izium. Tremilacinquecento kilometri. Durante i viaggio rimanemmo scioccati nel vedere le donne addette a pulire i binari con la “Stella di DAVID” sul dorso sorvagliate e malmenate dalle sentinelle tedesche. Tremilacinquecento Kilometri!
Non mi rendevo conto come i “sacri” confini d’Italia fossero così dilatati!
Iniziammo la marcia verso il “Don” con un caldo asfissiante.
Le più belle “Divisioni Alpine”, atte alla montagna, mandate al “macello” nell’immensità della “Steppa Russa”!
Ero addetto al collegamento continuo fra la “testa” e la “coda” divisionale.
Avevo una “Sertum 500”.
Quindici giorni di lavoro durissimo nella “Steppa”
Durante la marcia i civili ci osservavano in silenzio dalle “ISBE” (case).Arrivammo sul Don. La “Cuneense” al centro, alla destra la “Julia”, a sinistra la “Vicenza”, poi la “Tridentina” Armamenti:
In linea le “Breda 36”, il “vecchio 91” e le bombette “Balilla”, che, se pestate, potevano al massimo portarti via il tacco degli scarponcelli.
Cominciammo a scavare trincee e camminamenti.
Poche scaramucce, qualche attacco sporadico, qualche morto.
Ogni giorno mi recavo a Loscina od Annofca, poi in trincea quando finivo il turno. Nei giorni di calma ci recavamo nelle “Isbe” dei civili.
Diffidenti all’inizio, più cordiali in seguito, ci narravano delle atrocità commesse dai tedeschi.
Devo dire che mai un soldato italiano si è macchiato di una violenza verso la popolazione.
E loro se ne sono ricordati!
A metà settembre la temperatura diminuì A metà novembre la “Steppa” era un “mare di neve”, ci orientavamo con i mulini a vento.
Furono distribuiti pastrani con un pò di pelo di pecora e sempre le stesse scarpe. A Loscina rimediai un completo russo: tenni solo il cappello alpino.
Natale 1942: La posta non arrivava più poiché, in pratica, eravamo già accerchiati.
Capodanno 1943: Aspettavamo che accadesse qual’cosa.
Giorni tristi, pochi viveri, nessuna notizia da casa, termometro a 35 gradi sotto.
E venne il 17 Gennaio: nella notte ebbe inizio la più grande tragedia della storia. Ordine di ritirata!
La notte era illuminta dagli incendi. Ero ben equipaggiato, con i” ValenKi”, i famosi stivali russi, come russi erano il giubbotto ed i pantaloni. Nel tascapane avevo due pagnotte gelate e tre ciocciolate. Bruciammo i pochi camion, caricammo le slitte, ed iniziammo la ritirata.
Da LOSCINA in poi fu un continuo coro di urla dei feriti perché le “Katiusce” (il cannone a Trentadue Colpi) aprivano vuoti nelle nostre file.
Urla dei feriti che chiamavano “mamma”, urla di chi, sfinito, si accasciava per non alzarsi più.
Unici punti di riferimento il bagliore degli incendi.
Ci riposavamo al calore dei pagliai bruciati.
Da LOSCINA in poi un coro continuo, lancinante: MAMMA! MAMMA!
La fame ci dilaniava e nella steppa fischiava il vento sollevando aghi di ghiaccio che crivellavano la faccia.
Avevo solo mezza pagnotta gelata.
40 gradi sotto. Ci riposavamo, puntando la pistola, per dormire nelle poche “Isbe” rimaste in piedi, perchè dormire fuori, significava non svegliarsi più.
Riempii il tascapane di occhiali da neve tolti ai morti, e li cambiai con scatolette di carne e pezzi di marmellata.
Chi non aveva occhiali doveva pagare o perdere gli occhi.
Li avrei tolti anche alla mia Mamma!
Ho dormito poche volte nelle “Isbe”, spesso nei pagliai, e le donne russe ci hanno aiutato sino al limite delle loro possibilità.
Un vecchio stava mangiando latte e cetrioli, mi dette tutto e mi riempì la gavetta. Ragazzi russi di 14-15 anni con il “Parabellum” controllavano che fossimo italiani.
Ai Tedeschi facevano subito la “pelle”. Le donne ci davano latte, miele, e cetrioli acidi.
Quanto latte ho bevuto, quanti telai di miele ho mangiato, quanti soldati italiani anno salvato!.
Prima di “VALUIKI” vidi un gruppo che aspettava un pezzo di carne: “CARNE UMANA”, carne di un alpino squartato da un colpo di “Katuiscia”. L’ho visto con i miei occhi. E se non credete a me chiedetelo a Don Turla il nostro cappellano che, con il mitra in mano, fece finire lo scempio; li avrebbbe ammazzati se non si fossero fermati!. Eravamo al limite fra lucidità e pazzia, valeva solo l’istinto bestiale della conservazione a qualunque costo.
Arrivammo nel vallone di “VALUIKI”, penultimo baluardo da superare; nel vallone ci rafficavano con le mitragliatrici e una raffica spezzò una gamba di un alpino che con il fratello correva verso il riparo urlando disperato.
Un alpino chiamò il fratello, lui si girò vide e continuò a correre, e rispose: “Mamma ne vedrà almeno uno’’.
Entrai in una “Isbà” dove un vecchio mi dette una ciotola di latte e cetrioli, sua moglie si tolse i guanti e me li mise. L’Abbracciai piangendo.
Dopo “Valuiki” continuammo verso l’ultimo sfondamento:
“NICOLAJEFKA” e fu l’apocalisse.
Ci precipitammo verso la ferrovia, ma non sentii arrivare la Katiusca; una vampata e caddi urlando. Accanto a me fu squartato il generale MARTINAT. Urlavo come un pazzo; fortunatamente passò una slitta di carabinieri che mi portarono fuori dall’ultima sacca.
Fermi, in attesa di essere caricati su un merci, assistetti ad un episodio di puro eroismo:
Don Turla, Il nostro cappellano, sfinito ma illeso, mentre ci caricavano alzò il “Crocifisso’’ e ci benedisse, poi lentamente, tornò nel vallone per non abbandonare i feriti e i morbondi. Quell’atto di puro eroismo gli costò quattro anni di “SIBERIA”. È tornato ed ha costruito una chiesetta nelle sue valli ove ogni anno raduna gli ultimi supestiti.
Quello era un Prete!
Arrivai a Varsavia in un liceo trasformato in un ospedale, poi, dopo un sommario medicamento, mi portarono nei sotterranei.Dopo due giorni di bombardamenti altro treno.
Sostai due giorni a Vienna dove mi cambiarono le bende e finalmenete col treno N. 20 della Croce di Malta rientrai in Italia e fui subito operato a Chiavari, nella Colonia Fara e Piaggio, ove rimasi 40 giorni.
Vennero la mia mamma e mia zia che non mi riconobbero.
Ero trentuno kilogrammi.
Di nuovo operato a Pisa, poi cure, aria di mare, affetti, hanno rimarginato le ferite, ma in noi sopravvissuti c’e un nodo di gelo che nessun calore scioglierà mai più. Considerazioni:
Le più belle divisoni del mondo “Cunenese, Julia, Tridentina”, distrutte.
Fummo spediti nell’immensità della steppa russa noi alpini allenati in montagna, perchè ci fu chi aveva bisognio di cinquantamila morti da far pesare sul tavolo delle trattative!
Li hanno avuti:
114.240 giovani hanno lasciato i loro 20 anni nel gelo della steppa russa a maledizione di chiunque voglia la GUERRA.
Bollettino di Guerra del Comando Supremo Russo N. 630 dell’8/3/1943: ” Solo il corpo di armata Alpino deve ritenersi imbattuto sul suolo russo”.
Firmato Josef Diugasvili STALIN.
Non era dal cuore tenero ma seppe egualmente riconoscere il nostro valore.
PERCHÈ GLI ITALIANI RICORDINO
Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.
“UN CAVOLO…”
Negli ultimi anni di guerra, forse era il 1944, in un giorno d’inverno abbastanza freddo, io, che abitavo a La Spezia mi recai a Pomarance, da certi parenti in cerca di pasta e farina, che non si aveva in casa, malgrado la tessera annonaria.
Mia madre, mi diede un bel cavolo da portare a questi parenti, poiché a La Spezia il clima abbastanza mite favoriva la crescita delle verdure. Mentre mio padre mi diede un paio di stivali di gomma.
– Faranno comodo a qualche contadino – Mi disse!
A quei tempi il viaggio in treno era lungo. Prima di Pisa, a S. Rossore, il treno finiva la sua corsa per riprenderla oltrepassata la stazione al cosiddetto “collo d’oca” cioè un bel pezzo a piedi in mezzo ai binari distrutti dai bombardamenti.
Quando era buio alla stazione di Saline, ci fu un posto di blocco di militari fascisti, che vollero controllare i bagagli di ciascuno dei viaggiatori giunti col treno.
Alla domanda di cosa avessi nella valigia risposi candidamente:
“Un cavolo e degli stivali!” Il resto della valigia era vuoto. Ero andato apposta per caricare un pò di mangiare. Questi si offesero parecchio e credendo ad una battuta messa li, mi dissero di fare meno lo spiritoso, che aprissi subito, al che quando li accontentai, ci rimasero assai male, tanto che uno di quelli, mi disse se avevo uno scontrino relativo all’acquisto degli stivali.
lo veramente non sapevo che da queste parti fosse in vigore la ricevuta fiscale, anticipando di circa quaranta anni i tempi, per cui rimasi alquanto perplesso, dissi che non l’avevo, che a La Spezia le cose si compravano e basta, le uniche ricevute erano quelle dell’affitto e della luce. Ci rimase male e mi disse di andare.
Geom. GIUSEPPE PINESCHI
Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.