LA RITIRATA DELL’A.R.M.I.R. IN RUSSIA

RACCONTO AUTOBIOGRAFICO DI M. SCARCIGLIA

Caro direttore, ho accettato il tuo invi­to a descrivere la tragedia dell’ARMIR, tragedia immane, della quale porto i se­gni indelebili sul corpo e nella mente, spe­rando che i giovani e certi politicanti da caffè imparino che cosa è la “guerra”. Premetto che l’argomento può prestarsi ad interpretazioni di carattere politico dal­le quali rifuggo.

Dirò semplicemente cose orribili che ho vissuto e sofferto.

Lo dirò con senso di riconoscenza verso quella meravigliosa “Popolazione Rus­sa”, senza l’aiuto della quale nessuno, di­co nessuno di noi si sarebbe salvato.

Noi eravamo gli “invasori” e loro gli “ag­grediti”; non dimentichiamolo!

Ed ecco il racconto, stringato, nudo e cru­do, piaccia o no, ma a prova di qualun­que smentita perchè è la semplice duris­sima realtà.

Partii con gli alpini della “Cuneense” da Borgo San Dalmazzo, poi Cuneo, Torino, Milano, Brescia, Piedicolle, Villaco, Mo­naco, Dresda, Varsavia, Kiev, Izium. Tremilacinquecento kilometri. Durante i viag­gio rimanemmo scioccati nel vedere le donne addette a pulire i binari con la “Stella di DAVID” sul dorso sorvagliate e malmenate dalle sentinelle tedesche. Tremilacinquecento Kilometri!

Non mi rendevo conto come i “sacri” confini d’Italia fossero così dilatati!

Iniziammo la marcia verso il “Don” con un caldo asfissiante.

Le più belle “Divisioni Alpine”, atte alla montagna, mandate al “macello” nell’immensità della “Steppa Russa”!

Ero addetto al collegamento continuo fra la “testa” e la “coda” divisionale.

Avevo una “Sertum 500”.

Quindici giorni di lavoro durissimo nella “Steppa”

Durante la marcia i civili ci osservavano in silenzio dalle “ISBE” (case).Arrivam­mo sul Don. La “Cuneense” al centro, al­la destra la “Julia”, a sinistra la “Vicen­za”, poi la “Tridentina” Armamenti:

In linea le “Breda 36”, il “vecchio 91” e le bombette “Balilla”, che, se pestate, po­tevano al massimo portarti via il tacco de­gli scarponcelli.

Cominciammo a scavare trincee e cam­minamenti.

Poche scaramucce, qualche attacco spo­radico, qualche morto.

Ogni giorno mi recavo a Loscina od Annofca, poi in trincea quando finivo il turno. Nei giorni di calma ci recavamo nelle “Isbe” dei civili.

Diffidenti all’inizio, più cordiali in segui­to, ci narravano delle atrocità commesse dai tedeschi.

Devo dire che mai un soldato italiano si è macchiato di una violenza verso la po­polazione.

E loro se ne sono ricordati!

A metà settembre la temperatura diminuì A metà novembre la “Steppa” era un “mare di neve”, ci orientavamo con i mu­lini a vento.

Furono distribuiti pastrani con un pò di pe­lo di pecora e sempre le stesse scarpe. A Loscina rimediai un completo russo: tenni solo il cappello alpino.

Natale 1942: La posta non arrivava più poiché, in pratica, eravamo già accer­chiati.

Capodanno 1943: Aspettavamo che ac­cadesse qual’cosa.

Giorni tristi, pochi viveri, nessuna notizia da casa, termometro a 35 gradi sotto.

E venne il 17 Gennaio: nella notte ebbe inizio la più grande tragedia della storia. Ordine di ritirata!

La notte era illuminta dagli incendi. Ero ben equipaggiato, con i” ValenKi”, i fa­mosi stivali russi, come russi erano il giub­botto ed i pantaloni. Nel tascapane ave­vo due pagnotte gelate e tre ciocciolate. Bruciammo i pochi camion, caricammo le slitte, ed iniziammo la ritirata.

Da LOSCINA in poi fu un continuo coro di urla dei feriti perché le “Katiusce” (il cannone a Trentadue Colpi) aprivano vuo­ti nelle nostre file.

Urla dei feriti che chiamavano “mamma”, urla di chi, sfinito, si accasciava per non alzarsi più.

Unici punti di riferimento il bagliore degli incendi.

Ci riposavamo al calore dei pagliai bru­ciati.

Da LOSCINA in poi un coro continuo, lan­cinante: MAMMA! MAMMA!

La fame ci dilaniava e nella steppa fi­schiava il vento sollevando aghi di ghiac­cio che crivellavano la faccia.

Avevo solo mezza pagnotta gelata.

40 gradi sotto. Ci riposavamo, puntando la pistola, per dormire nelle poche “Isbe” rimaste in piedi, perchè dormire fuori, si­gnificava non svegliarsi più.

Riempii il tascapane di occhiali da neve tolti ai morti, e li cambiai con scatolette di carne e pezzi di marmellata.

Chi non aveva occhiali doveva pagare o perdere gli occhi.

Li avrei tolti anche alla mia Mamma!

Ho dormito poche volte nelle “Isbe”, spesso nei pagliai, e le donne russe ci hanno aiutato sino al limite delle loro pos­sibilità.

Un vecchio stava mangiando latte e ce­trioli, mi dette tutto e mi riempì la gavetta. Ragazzi russi di 14-15 anni con il “Para­bellum” controllavano che fossimo ita­liani.

Ai Tedeschi facevano subito la “pelle”. Le donne ci davano latte, miele, e cetrio­li acidi.

Quanto latte ho bevuto, quanti telai di miele ho mangiato, quanti soldati italiani anno salvato!.

Prima di “VALUIKI” vidi un gruppo che aspettava un pezzo di carne: “CARNE UMANA”, carne di un alpino squartato da un colpo di “Katuiscia”. L’ho visto con i miei occhi. E se non credete a me chie­detelo a Don Turla il nostro cappellano che, con il mitra in mano, fece finire lo scempio; li avrebbbe ammazzati se non si fossero fermati!. Eravamo al limite fra lucidità e pazzia, valeva solo l’istinto be­stiale della conservazione a qualunque costo.

Arrivammo nel vallone di “VALUIKI”, pe­nultimo baluardo da superare; nel vallo­ne ci rafficavano con le mitragliatrici e una raffica spezzò una gamba di un alpino che con il fratello correva verso il riparo urlando disperato.

Un alpino chiamò il fratello, lui si girò vide e continuò a correre, e rispose: “Mamma ne vedrà almeno uno’’.

Soldati italiani sul fronte russo – 1942

Entrai in una “Isbà” dove un vecchio mi dette una ciotola di latte e cetrioli, sua mo­glie si tolse i guanti e me li mise. L’Abbracciai piangendo.

Dopo “Valuiki” continuammo verso l’ul­timo sfondamento:

“NICOLAJEFKA” e fu l’apocalisse.

Ci precipitammo verso la ferrovia, ma non sentii arrivare la Katiusca; una vampata e caddi urlando. Accanto a me fu squar­tato il generale MARTINAT. Urlavo come un pazzo; fortunatamente passò una slitta di carabinieri che mi portarono fuori dal­l’ultima sacca.

Fermi, in attesa di essere caricati su un merci, assistetti ad un episodio di puro eroismo:

Don Turla, Il nostro cappellano, sfinito ma illeso, mentre ci caricavano alzò il “Cro­cifisso’’ e ci benedisse, poi lentamente, tornò nel vallone per non abbandonare i feriti e i morbondi. Quell’atto di puro eroi­smo gli costò quattro anni di “SIBERIA”. È tornato ed ha costruito una chiesetta nelle sue valli ove ogni anno raduna gli ultimi supestiti.

Quello era un Prete!

Arrivai a Varsavia in un liceo trasformato in un ospedale, poi, dopo un sommario medicamento, mi portarono nei sotterra­nei.Dopo due giorni di bombardamenti al­tro treno.

Sostai due giorni a Vienna dove mi cam­biarono le bende e finalmenete col treno N. 20 della Croce di Malta rientrai in Ita­lia e fui subito operato a Chiavari, nella Colonia Fara e Piaggio, ove rimasi 40 giorni.

Vennero la mia mamma e mia zia che non mi riconobbero.

Ero trentuno kilogrammi.

Di nuovo operato a Pisa, poi cure, aria di mare, affetti, hanno rimarginato le ferite, ma in noi sopravvissuti c’e un nodo di ge­lo che nessun calore scioglierà mai più. Considerazioni:

Le più belle divisoni del mondo “Cunenese, Julia, Tridentina”, distrutte.

Fummo spediti nell’immensità della step­pa russa noi alpini allenati in montagna, perchè ci fu chi aveva bisognio di cin­quantamila morti da far pesare sul tavo­lo delle trattative!

Li hanno avuti:

114.240 giovani hanno lasciato i loro 20 anni nel gelo della steppa russa a male­dizione di chiunque voglia la GUERRA.

Bollettino di Guerra del Comando Supre­mo Russo N. 630 dell’8/3/1943: ” Solo il corpo di armata Alpino deve ritenersi im­battuto sul suolo russo”.

Firmato Josef Diugasvili STALIN.

Non era dal cuore tenero ma seppe egualmente riconoscere il nostro valore.

PERCHÈ GLI ITALIANI RICORDINO

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

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