GIOVANNI MICHELUCCI

RICORDO DI FLORESTANO BARGELLI.

Salivamo lentamente la strada verso Fiesole, io Lucia e Sergio, per incon­trare il Maestro.

Sergio ci accompagnava, lo cono­sceva bene, con Lui aveva costruito Larderello. Arrivammo, un po’ di mano­vra a parcheggiare la macchina, poi fatti alcuni passi ci trovammo davanti ad un ambiente soggiorno, assai ampio, era lo studio con due ampie vetrate ad arco verso Firenze.

G. Michelucci firma la pergamena inserita nella prima pietra. 22/5/1956.

Scrutavo velocemente in ogni dove, in una specie di disordine ordinato, volevo vedere tutto, carpire ogni cosa, ma per l’emozione vidi poco.

Entrò.

Non l’avevo mai visto prima di allora, se non per fotografia; me /’aspettavo più alto, ricordo lo fissai con grande inten­sità come per accertarmi che fosse ve­ramente Lui. Portava una giacca spinata di color marrone, sotto aveva una ca­micia di flanella quadrettata a colori; ci salutò e di li a poco ci invitò a sederci. Mi avvicinò una sedia (era un suo disegno) dalla forma insolita; tre gambe ed uno schienale ricavate da un’unica tavola, mi ricordò tanti panchetti che si casa fine ottocento, normale nell’apparire (ricordo che ben diverso fu l’impatto con casa Savio li a Galluzzo, allora ero più giovane), una normale classica porta, suonammo, ci fu aperto, ricordo una scala apparentemente ripida, ma classica, forte della sua pietra grigia, scendemmo e subito apparve un am trovavano in campagna in uso ai con­tadini, ebbi un attimo di perplessità, Lui mi notò “si sta bene lì” mi disse sve­lando un mio stupore con la malizia dolce del saggio rassicurante. Iniziò la nostra conversazione.

Parlammo delle origini dell’architet­tura, poi una lunga considerazione sul Brunelleschi, sul Rinascimento, ma il tema della spiritualità era il motivo sempre presente con lucidità liberale scevra da ogni schema; parlava con amore anche delle cose più semplici, della pietra, intesa non come materia, ma come cosa viva fino a riflessioni sul suo modo di rapportarsi all’architettura insieme agli attori di questo mondo. Quando il nostro parlare ricordò l’espe­rienza di Larderello il Maestro, quasi con un cenno di malinconia rammentò i luoghi con grande affetto, ma traspariva dalle sue parole un rincrescimento per non aver potuto avere, quasi per una sorta di veto, un continuo rapporto con gli operai. Tale fu la mia impressione, sulla quale meditando, ho capito e giustificato al mio essere il perchè ed il come del suo operare a Larderello.

Disse: “Quando arrivai per la prima volta a Larderello rimasi colpito e frastornato da quel rumore diverso, da quell’odore particolare, dalla maestosità di quelle grandi torri ingegneristiche fumanti, così belle, che nel pensare alla Chiesa mi venne istintivo di fare una cosa diversa, allegra, come per isolarsi da quel naturale fragore”.

Non osavo interrompere il suo par­lare, e consideravo un privilegio ascol­tarlo; Sergio, più confidenziale, ricorda­va volentieri episodi a cui il Maestro fe­licemente partecipava, finché entrai quasi sommessamente nel discorso: si parlava di chiese, ricordando la piccola cappella di Sasso Pisano che tanto mi aveva colpito proprio per una sua na­turalezza plastica, organica la definirei.

Ricordo che immediatamente non focalizzò questa piccola cosa, ma dopo le mie prime battute dove esprimevo le mie considerazioni, i suoi occhi attenti si illuminarono ancor di più in quel volto dal profilo aquilino dolce ed austero e dai bianchi capelli disordinatamente pettinati con la riga che mi stava davanti leggermente inclinato sullo sfondo di Firenze: avevo forse toccato quell’origi­ne inconscia, che maturata nel tempo si era poi sviluppata nella Chiesa dell’Autostrada.

Poi la curiosità del vedere prese il posto alle parole, ma questa era una necessità anche per Lui; con agilità si alzò ed iniziò ad aprire una cassettiera di un contenitore a lato mostrandoci disegni, tanti disegni, progetti mai rea­lizzati, idee maturate, materiale che mai avrei pensato di vedere. Con affabilità inconsueta illustrava, in mezzo a tante carte, un piccolo plastico “Questa è la Chiesa di Longarone” e con la rapidità di un falco passò la mano sopra il modello togliendo il campanile “questo non va visto” continuò +‘Tho dovuto mettere per motivi ecclesiastici, ma que­sta è la chiesa dove si può camminare, sostare in ogni dove, partecipando all’assemblea dei credenti”.

Il tempo passava veloce, il sole calante illuminava radente Firenze, in cui già spuntavano le luci della sera “eccola là la città” disse “piena dei suoi problemi sempre più pesanti non vivibile, bisognerebbe organicamente rovesciarla: le strade una funzione meccanica, gli interni una funzione umana” aveva espresso un concetto urbanistico di fondo che andrebbe oggi indagato specie per le città d’arte.

Finì così quel pomeriggio, mentre la sera si impadroniva di ogni cosa. Per una sorta di circostanze il Maestro scese con noi a Firenze; doveva ripren­dere la macchina, lo accompagnammo al garage; come arrivammo, quegli uomuni di macchine in tute blu lo ac­colsero come un oracolo. Poi partimmo.

Incontrai altre volte negli anni il Ma­estro, in varie occasioni, in particolare a convegni e mostre, la Sua presenza dava prestigio: sempre qualcosa di nuovo c’era da scoprire, specie la sua nuova poetica con i metalli.

L’ultima volta che ebbi modo di in­contrarlo a Fiesole ero con Sergio; doveva essere rivisto il tabernacolo della Chiesa di Larderello secondo la nuova liturgia, ci recammo da Lui per avere il Suo pensiero.

Quantunque avanti negli anni, ricor­do che seduti nel solito soggiorno prese carta e matita e schematizzò l’idea dandoci riferimenti per il materiale. Ci complimentammo con Lui, per il suo stato di salute. Ci raccontò in proposito un simpatico aneddoto. Passati gli ottantacinque anni dovetti recarmi dal­l’oculista per misurarmi la vista per rin­novare la patente, il dottore vedendomi avanti negli anni cominciò a farmi leg­gere dalle lettere più grandi, allora scherzando dissi “Non si fa prima a leggere di fondo dalle più piccole?”. Da questa circostanza traspare l’integrità fi­sica dell’uomo accompagnata da una corretta lezione di vita.

Nel frattempo Leonardo Savioli era venuto meno, ed in quella circostanza mi venne spontaneo parlare della sua opera con il Maestro; Lui intuì che ero
stato suo allievo; con semplice schiettezza e serenità espresse il suo giudizio di stima, cosa che mi fece oltremodo piacere.

Quasi beffandosi di tutti il Maestro se n’è andato, le feste per i suoi cento anni sono state egualmente svolte, come era anche giusto fare, quale te­stimonianza ad un artista che nell’arco della sua lunga vita ha lasciato molte opere sulle quali tanto si è parlato e molto si dovrà ancora dire.

L’episodio di Larderello si sviluppa dopo gli anni cinquanta. Michelucci era sessantenne, nel pieno della maturità creativa ed intellettiva. Allora aveva già costruito importanti opere, ma quello che in certo qual modo lo eleverà oltre i confini nazionali dovrà ancora venire.

In quel tempo le fabbriche boracifere erano gestite dalla LARDERELLO S.p.A. Da poco era finito il conflitto mondiale, le tensioni politiche erano vivissime e sentite e anche nella nostra zona le forti contrapposizioni tra classi davano origine a posizioni faziose, riu­scendo talvolta a suscitare ulteriori di­visioni tra cittadini dello stesso ceto portando a tentativi inconsulti: basti ri­cordare l’ipotesi, poi fortunatamente fatta rientrare, di frazionare lo stesso Comune di Pomarance in due entità ge­ografiche ed amministrative.

In questo scenario, la nuova Ammi­nistrazione della fabbrica dava inizio al rinnovamento dell’azienda nel senso più ampio coinvolgendo l’edificato industria­le per nuove prospettive, ma contestualmente anche l’edificato civile e sociale.

E’ passato poco tempo per esprime­re un sereno giudizio sul ruolo che gli attori del momento recitarono; vi furono posizioni di Amministrazioni contrastan­ti, da cui probabilmente derivarono scelte che oggi, anche per una diversa organizzazione del complesso industria­le, manifestano segni di cedimento.

Interno della Chiesa di Larderello.
Prospettiva della Chiesa di Larderello.

Si poteva allora prevedere quanto stiamo vivendo: forse no; ma nel pen­siero dell’urbanista illuminato un timore passò; quel nostalgico rimpianto della mancanza di rapporto con gli operai mi appare oggi svelato, Michelucci disegnò Larderello residenziale al meglio delle concezioni urbanistiche e ne resta un esempio, ma involontariamente avulso dalla realtà territoriale dell’intorno.

Ne registriamo il fatto e la lezione con ragionata comprensione.

L’impostazione del villaggio residen­ziale viene pensato defilato dalla fabbri­ca vera e propria per motivi ambientali e salubri, vengono indicati i siti per i complessi pubblici, sociali, sportivi, re­ligiosi; vengono gerarchicamente ubicati i complessi residenziali, poi l’insieme or­ganicamente commisurato ad una via­bilità sinusoidale in virtù del declivio, piacevolmente raccordata da naturali sentieri pedonali, il tutto immerso nel verde. Michelucci assapora la natura, conosce i materiali, fa uso predominan­te della bianca pietra creandone un aspetto cromatico nei muri di contenimento o recinzione accompa­gnata da siepi di sempreverdi, ne leva la preziosità lavorandola per l’edificato.

La sua architettura è innovante per semplicità, negli interventi industriali come in quelli residenziali. Anche gli altri progettisti, per quanto abili, dovranno comunque riferirsi al suo linguaggio.

La diversità della Chiesa rispetto a
tutte le altre da Michelucci costruite, è voluta, ma allegra per questa valle così diversa, in cui sentirsi isolati ma felici.

Quando accompagnai Leonardo Savioli a visitarla per la prima volta, camminavamo lungo il deambulatorio felicemente coinvolti ed attratti dalla luminosità del corpo centrale geometri­camente invetriato; anche lui avvertiva questa sensazione diversa; in mistica penombra, quasi per avvalorarne la religiosità, è l’altare.

Michelucci costruisce la bella torre dei dirigenti, è un segno di città, benché grande, per la sua naturale piega mo­dellata al terreno appare così misurata e naturale, quasi un tronco d’albero semplicemente inghirlandato.

Tutti i piccoli villaggi residenziali costruiti all’epoca intorno alle fabbriche, subiscono l’influenza di Michelucci, sia nel linguaggio estetico che nell’uso dei materiali: ma l’esempio va oltre. I segni dell’architettura di Larderello diventano negli anni che seguono luogo comune per i costruttori locali; nei nostri paesi è facile leggere l’uso della bianca pietra per muri e per case, talvolta anche im­propriamente; si legge comunque uno sforzo qualitativo nella semplicità dell’edificato, ma soprattutto ha valore il senso del rispetto dell’ambiente nel­l’espansione dei centri urbani.

I segni dell’architettura restano nel tempo, tutelarli e conservarli è dovere civile delle generazioni: questi sono i te­stimoni dell’evoluzione e della civiltà dei popoli.

La bellezza delle nostre città, dei nostri borghi è soprattutto merito di architet­ture valide ed armoniose ove artisti hanno profuso la loro abilità ed estro in un rapporto dipendente con la natura d’intorno associando così ineluttabilmente ai luoghi il loro prestigio nel tempo.

In questa chiave di lettura dovrà Larderello, ove artisti come Michelucci hanno operato lasciando segni di subli­me qualità a testimonianza di un’epoca.

Dal nostro osservatorio, chiamati per professione ad operare in questi luoghi, abbiamo tutti il dovere di riflettere prima del fare, tenendo conto dei molteplici aspetti che stanno dietro al costruito sia esso piccola cosa che grande fabbrica, mirando sì all’utile e necessario ma anche alla qualità che diventa bellezza nel giusto rapporto tra forma, materiali e rispetto totale della natura: questa è la lezione che ci lascia Giovanni Michelucci.

Studio prospettivo della Chiesa di Sasso Pisano.

Florestano Bargelli

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

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