RICORDO DI FLORESTANO BARGELLI.
Salivamo lentamente la strada verso Fiesole, io Lucia e Sergio, per incontrare il Maestro.
Sergio ci accompagnava, lo conosceva bene, con Lui aveva costruito Larderello. Arrivammo, un po’ di manovra a parcheggiare la macchina, poi fatti alcuni passi ci trovammo davanti ad un ambiente soggiorno, assai ampio, era lo studio con due ampie vetrate ad arco verso Firenze.

Scrutavo velocemente in ogni dove, in una specie di disordine ordinato, volevo vedere tutto, carpire ogni cosa, ma per l’emozione vidi poco.
Entrò.
Non l’avevo mai visto prima di allora, se non per fotografia; me /’aspettavo più alto, ricordo lo fissai con grande intensità come per accertarmi che fosse veramente Lui. Portava una giacca spinata di color marrone, sotto aveva una camicia di flanella quadrettata a colori; ci salutò e di li a poco ci invitò a sederci. Mi avvicinò una sedia (era un suo disegno) dalla forma insolita; tre gambe ed uno schienale ricavate da un’unica tavola, mi ricordò tanti panchetti che si casa fine ottocento, normale nell’apparire (ricordo che ben diverso fu l’impatto con casa Savio li a Galluzzo, allora ero più giovane), una normale classica porta, suonammo, ci fu aperto, ricordo una scala apparentemente ripida, ma classica, forte della sua pietra grigia, scendemmo e subito apparve un am trovavano in campagna in uso ai contadini, ebbi un attimo di perplessità, Lui mi notò “si sta bene lì” mi disse svelando un mio stupore con la malizia dolce del saggio rassicurante. Iniziò la nostra conversazione.
Parlammo delle origini dell’architettura, poi una lunga considerazione sul Brunelleschi, sul Rinascimento, ma il tema della spiritualità era il motivo sempre presente con lucidità liberale scevra da ogni schema; parlava con amore anche delle cose più semplici, della pietra, intesa non come materia, ma come cosa viva fino a riflessioni sul suo modo di rapportarsi all’architettura insieme agli attori di questo mondo. Quando il nostro parlare ricordò l’esperienza di Larderello il Maestro, quasi con un cenno di malinconia rammentò i luoghi con grande affetto, ma traspariva dalle sue parole un rincrescimento per non aver potuto avere, quasi per una sorta di veto, un continuo rapporto con gli operai. Tale fu la mia impressione, sulla quale meditando, ho capito e giustificato al mio essere il perchè ed il come del suo operare a Larderello.
Disse: “Quando arrivai per la prima volta a Larderello rimasi colpito e frastornato da quel rumore diverso, da quell’odore particolare, dalla maestosità di quelle grandi torri ingegneristiche fumanti, così belle, che nel pensare alla Chiesa mi venne istintivo di fare una cosa diversa, allegra, come per isolarsi da quel naturale fragore”.
Non osavo interrompere il suo parlare, e consideravo un privilegio ascoltarlo; Sergio, più confidenziale, ricordava volentieri episodi a cui il Maestro felicemente partecipava, finché entrai quasi sommessamente nel discorso: si parlava di chiese, ricordando la piccola cappella di Sasso Pisano che tanto mi aveva colpito proprio per una sua naturalezza plastica, organica la definirei.
Ricordo che immediatamente non focalizzò questa piccola cosa, ma dopo le mie prime battute dove esprimevo le mie considerazioni, i suoi occhi attenti si illuminarono ancor di più in quel volto dal profilo aquilino dolce ed austero e dai bianchi capelli disordinatamente pettinati con la riga che mi stava davanti leggermente inclinato sullo sfondo di Firenze: avevo forse toccato quell’origine inconscia, che maturata nel tempo si era poi sviluppata nella Chiesa dell’Autostrada.
Poi la curiosità del vedere prese il posto alle parole, ma questa era una necessità anche per Lui; con agilità si alzò ed iniziò ad aprire una cassettiera di un contenitore a lato mostrandoci disegni, tanti disegni, progetti mai realizzati, idee maturate, materiale che mai avrei pensato di vedere. Con affabilità inconsueta illustrava, in mezzo a tante carte, un piccolo plastico “Questa è la Chiesa di Longarone” e con la rapidità di un falco passò la mano sopra il modello togliendo il campanile “questo non va visto” continuò +‘Tho dovuto mettere per motivi ecclesiastici, ma questa è la chiesa dove si può camminare, sostare in ogni dove, partecipando all’assemblea dei credenti”.
Il tempo passava veloce, il sole calante illuminava radente Firenze, in cui già spuntavano le luci della sera “eccola là la città” disse “piena dei suoi problemi sempre più pesanti non vivibile, bisognerebbe organicamente rovesciarla: le strade una funzione meccanica, gli interni una funzione umana” aveva espresso un concetto urbanistico di fondo che andrebbe oggi indagato specie per le città d’arte.
Finì così quel pomeriggio, mentre la sera si impadroniva di ogni cosa. Per una sorta di circostanze il Maestro scese con noi a Firenze; doveva riprendere la macchina, lo accompagnammo al garage; come arrivammo, quegli uomuni di macchine in tute blu lo accolsero come un oracolo. Poi partimmo.
Incontrai altre volte negli anni il Maestro, in varie occasioni, in particolare a convegni e mostre, la Sua presenza dava prestigio: sempre qualcosa di nuovo c’era da scoprire, specie la sua nuova poetica con i metalli.
L’ultima volta che ebbi modo di incontrarlo a Fiesole ero con Sergio; doveva essere rivisto il tabernacolo della Chiesa di Larderello secondo la nuova liturgia, ci recammo da Lui per avere il Suo pensiero.
Quantunque avanti negli anni, ricordo che seduti nel solito soggiorno prese carta e matita e schematizzò l’idea dandoci riferimenti per il materiale. Ci complimentammo con Lui, per il suo stato di salute. Ci raccontò in proposito un simpatico aneddoto. Passati gli ottantacinque anni dovetti recarmi dall’oculista per misurarmi la vista per rinnovare la patente, il dottore vedendomi avanti negli anni cominciò a farmi leggere dalle lettere più grandi, allora scherzando dissi “Non si fa prima a leggere di fondo dalle più piccole?”. Da questa circostanza traspare l’integrità fisica dell’uomo accompagnata da una corretta lezione di vita.
Nel frattempo Leonardo Savioli era venuto meno, ed in
quella circostanza mi venne spontaneo parlare della sua opera con il Maestro;
Lui intuì che ero
stato suo allievo; con semplice schiettezza e serenità espresse il suo giudizio
di stima, cosa che mi fece oltremodo piacere.
Quasi beffandosi di tutti il Maestro se n’è andato, le feste per i suoi cento anni sono state egualmente svolte, come era anche giusto fare, quale testimonianza ad un artista che nell’arco della sua lunga vita ha lasciato molte opere sulle quali tanto si è parlato e molto si dovrà ancora dire.
L’episodio di Larderello si sviluppa dopo gli anni cinquanta. Michelucci era sessantenne, nel pieno della maturità creativa ed intellettiva. Allora aveva già costruito importanti opere, ma quello che in certo qual modo lo eleverà oltre i confini nazionali dovrà ancora venire.
In quel tempo le fabbriche boracifere erano gestite dalla LARDERELLO S.p.A. Da poco era finito il conflitto mondiale, le tensioni politiche erano vivissime e sentite e anche nella nostra zona le forti contrapposizioni tra classi davano origine a posizioni faziose, riuscendo talvolta a suscitare ulteriori divisioni tra cittadini dello stesso ceto portando a tentativi inconsulti: basti ricordare l’ipotesi, poi fortunatamente fatta rientrare, di frazionare lo stesso Comune di Pomarance in due entità geografiche ed amministrative.
In questo scenario, la nuova Amministrazione della fabbrica dava inizio al rinnovamento dell’azienda nel senso più ampio coinvolgendo l’edificato industriale per nuove prospettive, ma contestualmente anche l’edificato civile e sociale.
E’ passato poco tempo per esprimere un sereno giudizio sul ruolo che gli attori del momento recitarono; vi furono posizioni di Amministrazioni contrastanti, da cui probabilmente derivarono scelte che oggi, anche per una diversa organizzazione del complesso industriale, manifestano segni di cedimento.


Si poteva allora prevedere quanto stiamo vivendo: forse no; ma nel pensiero dell’urbanista illuminato un timore passò; quel nostalgico rimpianto della mancanza di rapporto con gli operai mi appare oggi svelato, Michelucci disegnò Larderello residenziale al meglio delle concezioni urbanistiche e ne resta un esempio, ma involontariamente avulso dalla realtà territoriale dell’intorno.
Ne registriamo il fatto e la lezione con ragionata comprensione.
L’impostazione del villaggio residenziale viene pensato defilato dalla fabbrica vera e propria per motivi ambientali e salubri, vengono indicati i siti per i complessi pubblici, sociali, sportivi, religiosi; vengono gerarchicamente ubicati i complessi residenziali, poi l’insieme organicamente commisurato ad una viabilità sinusoidale in virtù del declivio, piacevolmente raccordata da naturali sentieri pedonali, il tutto immerso nel verde. Michelucci assapora la natura, conosce i materiali, fa uso predominante della bianca pietra creandone un aspetto cromatico nei muri di contenimento o recinzione accompagnata da siepi di sempreverdi, ne leva la preziosità lavorandola per l’edificato.
La sua architettura è innovante per semplicità, negli interventi industriali come in quelli residenziali. Anche gli altri progettisti, per quanto abili, dovranno comunque riferirsi al suo linguaggio.
La
diversità della Chiesa rispetto a
tutte le altre da Michelucci costruite, è voluta, ma allegra per questa valle
così diversa, in cui sentirsi isolati ma felici.
Quando accompagnai Leonardo Savioli a visitarla per la prima volta, camminavamo lungo il deambulatorio felicemente coinvolti ed attratti dalla luminosità del corpo centrale geometricamente invetriato; anche lui avvertiva questa sensazione diversa; in mistica penombra, quasi per avvalorarne la religiosità, è l’altare.
Michelucci costruisce la bella torre dei dirigenti, è un segno di città, benché grande, per la sua naturale piega modellata al terreno appare così misurata e naturale, quasi un tronco d’albero semplicemente inghirlandato.
Tutti i piccoli villaggi residenziali costruiti all’epoca intorno alle fabbriche, subiscono l’influenza di Michelucci, sia nel linguaggio estetico che nell’uso dei materiali: ma l’esempio va oltre. I segni dell’architettura di Larderello diventano negli anni che seguono luogo comune per i costruttori locali; nei nostri paesi è facile leggere l’uso della bianca pietra per muri e per case, talvolta anche impropriamente; si legge comunque uno sforzo qualitativo nella semplicità dell’edificato, ma soprattutto ha valore il senso del rispetto dell’ambiente nell’espansione dei centri urbani.
I segni
dell’architettura restano nel tempo, tutelarli e conservarli è dovere civile
delle generazioni: questi sono i testimoni dell’evoluzione e della civiltà dei
popoli.
La bellezza delle nostre città, dei nostri borghi è soprattutto merito di architetture valide ed armoniose ove artisti hanno profuso la loro abilità ed estro in un rapporto dipendente con la natura d’intorno associando così ineluttabilmente ai luoghi il loro prestigio nel tempo.
In questa chiave di lettura dovrà Larderello, ove artisti come Michelucci hanno operato lasciando segni di sublime qualità a testimonianza di un’epoca.
Dal nostro osservatorio, chiamati per professione ad operare in questi luoghi, abbiamo tutti il dovere di riflettere prima del fare, tenendo conto dei molteplici aspetti che stanno dietro al costruito sia esso piccola cosa che grande fabbrica, mirando sì all’utile e necessario ma anche alla qualità che diventa bellezza nel giusto rapporto tra forma, materiali e rispetto totale della natura: questa è la lezione che ci lascia Giovanni Michelucci.

Florestano Bargelli
Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.