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SERRAZZANO DALLE BELLE CHIESE

la Rocca longobarda e l’Oratorio fuori le mura.

di Claudia Vailini

Serrazzano fu rocca longobarda come ancor oggi è palesato dalla con­figurazione urbanistica del suo castel­lo, fortificato da una solida e compat­ta cinta muraria. Proprio nel punto più alto del castello, i Longobardi, conver­titisi al cattolicesimo nel corso del 600, eressero un piccolo tempio intitolato a San Michele Arcangelo, come molti altri edifici religiosi sorti in epoca longobarda nel territorio che corri­sponderà, poi, alla diocesi volterrana antica.

E i “Lambardi”, signorotti locali che avevano mutuato il nome e il potere dai loro antenati longobardi, intorno al Mille, avevano ancora la reggenza di quel comunello rustico che era al­lora Serrazzano dove i pochi abitanti sfruttavano in comune i prodotti dei campi e dei fitti boschi.

Serrazzano: Oratorio di S. Antonio

Sembra proprio essere stato un lambardo di Serrazzano, tal Gherardo del fu Pagano che donò al monastero di San Pietro in Palazuolo di Monteverdi l’usufrutto della sua por­zione della chiesa edificata dentro il castello di Serrazzano, il cui vocabo­lo è del Santo Angelo (1), eccetto il pezzo di terra che egli aveva donato precedentemente alla chiesa di San Donato edificata sotto la stessa corte e in prossimità del castello.

Il documento, stilato il 5 marzo 1102 e conservato nell’Assegnatario Diplo­matico della Città di Massa Marittima,
evidenzia l’esistenza di due chiese: quella “privata” di San Michele nel ca­stello di proprietà del signore e quel­la di San Donato fuori le mura appar­tenente al popolo, con funzione di chiesa parrocchiale avendo il fonte battesimale e la facoltà di ammini­strarvi gli altri sacramenti. Una vera e propria piccola pieve, dunque, sita in campagna come le pievi antiche, ma vicina al castello, di cui risultereb­be addirittura anteriore e quindi premillenaria (2). La piccola chiesa sarebbe stata, proprio come le pievi, matrice, cioè madre, della chiesa nel paese e, come risulta dalle relazioni delle visite pastorali (3), non prima del 1414 sarebbe avvenuto il trasferimen­to del titolo curato dalla chiesetta di San Donato a quella entro le mura, la quale mutò il titolo di San Michele in quello di San Donato vescovo, titolo che tuttora mantiene; la chiesetta, invece, fu intitolata a Sant’Antonio aba­te anche se, per una sovrapposizione di culti, è Sant’Antonio da Padova che oggi, e da due secoli almeno, vi si onora (4).

Architrave in pietra di tecnica barbarica

Senza dubbio, particolari sono il ruolo e la funzione della chiesetta di San­t’Antonio, nei primi secoli del Mille: essa come scrive Mons. M. Bocci cit. “forse spettava, come una buona par­te del territorio di Serrazzano, alla pieve di San Giovanni di Lustig nano: ce lo testimonia il libro dei diritti vescovili in cui si afferma che l’episcopato volterrano, ogni anno, raccoglie la de­bita decima di quanto nasce e si rac­coglie nel castello di Serrazzano che è distretto e cura della pieve di Morba, ma delle terre di Catignano e Corpolla raccoglie solo tre parti e il quartese spetta al pievano di Lustig nano; nella contrada poi di Mugnano e della Ficaiola soltanto la metà’’.

La pieve di Lustignano, oggi podere San Giovanni, si trovava al confine della diocesi di Volterra con quella di Massa e fu sovente oggetto di contestazioni territoriali riguardanti le par­rocchie da lei dipendenti coi loro ri­spettivi poderi o appezzamenti terrieri: la chiesetta di Sant’Antonio, vicina alla pieve di Lustignano, dunque poteva stabilire una sorta di limite territoriale non solo della pieve di Bagno a Morba ma addirittura di tutta la diocesi volterrana antica tenendo di conto che, in certi periodi la pieve di Lustignano appartenne alla diocesi di Massa Marittima. La chiesetta, inol­tre, fu dotata per secoli di ius baptezandi, proprio perché “i vescovi avevano promosso al servizio batte­simale anche chiese minori per im­pedire la tentazione di passare i con­fini parrocchiali e a scoraggiare inge­renze politiche e religiose’’ (5).

Di fatto, la relazione della visita pa­storale del 5 dicembre 1477 registra la chiesa fuori castello ancora come parrocchiale e la dice di collocazione vescovile, avente come rettore Ser Batista de Regno: “tale chiesa è fuori castello… ha funzione battesimale per antica consuetudine, tuttavia non de­tiene la facoltà di benedire il fonte, ma il rettore va a benedire l’acqua alla pieve di Morba da dove la porta alla sua chiesa e lì battezza”. Dallo stes­so documento sappiamo che a cau­sa delle guerre la parrocchiale fuori paese non era allora officiata, che nessuno vi risiedeva e che, a servire da parrocchiale, era la chiesa nel ca­stello la quale “era bene fondata, constructa et coperta…”, ma solo nel 1576 la visita apostolica censisce, fi­nalmente, la chiesa parrocchiale nel castello di Serrazzano, patrono il po­polo, con 70 anime a Comunione.

Serrazzano: Oratorio di S.Antonio; interno (foto di Maurizio Biondi)

MILLE ANNI MA NON LI DIMOSTRA!

Che l’edificazione dell’oratorio pos­sa risalire a prima del Mille sembra essere avvalorata dall’osservazione della sua particolare architettura: “L’oratorio di Sant’Antonio è, per me e senza timore di smentita, l’edificio di culto più antico esistente nelle colline metallifere, a cavallo della Val di Cecina e della Val di Cornia. Si tratta di un edificio protoromanico attribuibile al­meno all’inizio dell’undicesimo seco­lo, però in base alla scoperta di edifici con particolari stilistici simili in Corsica, si può farlo risalire alla fine del 900. Questa sicurezza mi deriva dall’os­servazione del paramento murario, perfettissimo per tecnica: non si nota segno di leganti ed è eseguito in gros­se bozze d’arenaria perfettamente squadrate e sovrapposte. Anche la finestrella, a doppia strombatura, del­l’abside semicircolare non ha simili in tutta la zona, ma soprattutto degno di nota è il portale con la sua architrave monolitica, in pietra, di for­ma trapezoidale, di gusto e tecnica definita barbarica, molto comune nei monumenti ad esso contemporanei venuti alla luce in Corsica.

Nella parte superiore della facciata, nel secolo scorso, è stata aperta una finestrella rettangolare al posto della finestra originale, di cui si vede l’architrave intonata al disegno del portale e sopra è un piccolissimo campanile a vela. Si notano dei risar­cimenti sulla parete laterale destra fatti in epoca antica.

L’oratorio sorge in aperta campagna vicino a edifici rurali di molto poste­riori (circa XVIII see). La sua presen­za dimostra che anche nell’antichità là doveva esistere un centro rustico probabilmente precedente al conso­lidarsi dell’attuale castello di Serrazzano…”

Così scrivono gli architetti G. Evan­gelisti e M. Giachetti, nella relazione storico-tecnica depositata presso la Soprintendenza alle Belle Arti di Pisa, datata 1975, due anni prima dell’ese­cuzione dei lavori di restauro che han­no ripristinato questo piccolo gioiello di architettura.

La datazione premillenaria dell’orato­rio sembrerebbe così essere compro­vata sia dal documento del 1102 in cui esso già risultava oggetto di la­sciti testamentari sia dalla sua strut­tura architettonica, ma forse, solo uno studio comparato dei simili edifici sa­cri della Corsica e del nostro orato­rio, potrebbe far luce sull’origine di quest’ultimo e sulla sua originalità architettonica rispetto alle chiese sue contemporanee sopravvissute sul no­stro territorio. Il riferimento alla Corsica aumenta la curiosità riguar­do la committenza dell’oratorio e la provenienza delle maestranze che lo costruirono. Viene immediatamente da pensare al ruolo che potrebbe aver avuto, in tale realizzazione, la Badia benedettina di Monteverdi, importan­te punto di incontro e di scambio di quella religiosità monastica che fece pullulare, già prima del Mille, il litora­le toscano e le isole dell’arcipelago di monasteri e abbazie coi connessi edifici di culto. Di fatto, la Badia di Monteverdi ebbe come su altri castelli limitrofi, una certa influenza anche su Serrazzano e sui suoi lambardi: già nel 1102 la Badia riceve da Gherardo del fu Pagano i proventi dei suoi beni in Serrazzano e tale influenza deve essere durata almeno fino al 1208 quando l’abate di Monteverdi, Ranieri, cedette ai consoli del Comune di Volterra, al quale Serrazzano aveva giurato fedeltà nel 1204, la giurisdi­zione che l’abbazia vantava sul ca­stello, con l’impegno da parte del Co­mune di Volterra di rispettare il mo­nastero e di non imporre ai serrazzanini oneri maggiori rispetto a quelli dei volterrani.

Comunque, indipendentemente da chi e da come, l’oratorio sorse prima che Serrazzano fosse circondato da mura castellane e prima della chiesa del castello; sorse dove taluni (6) col­locano un insediamento abitativo ro­mano, attestato da reperti archeolo­gici che vanno dal 11° see. a.C. al III0 see. d.C. Era questo uno dei nuclei abitativi che si trovavano proprio sul tracciato della vecchia via etrusco ro­mana che partiva da Volterra, scen­deva a Scornello, portava alla Maltagliata e, dopo essersi incrocia­ta con la via del Secolo presso la fon­te della Ficaiola, arrivava a Montingoli, puntava su Serrazzano e proseguiva in direzione dell’oratorio di Sant’An­tonio e scendendo poi ai Lagoni di Serrazzano, portava, oltrepassando il bivio per la pieve di San Giovanni di Lustignano, al guado del Cornia per raggiungere poi la Maremma. La viottola acciottolata ed ora sconnes­sa del Perticone che porta da Serrazzano a Sant’Antonio costitui­sce uno dei pochi tratti ancora leggi­bili di questa antica strada di monta­gna che era sempre molto importan­te nel Medioevo secondo un docu­mento del 1274, e ancora battuta fino

Oratorio di S.Antonio: interno dell’abside (foto Maurizio Biondi) ad una cinquantina d’anni fa: “Que­sta strada veniva chiamata la volterrana, era larga circa un metro e mezzo, in alcuni punti più scoperti come alla Fonte della Ficaiola si ve­dono ancora i pietroni per non rima­nere infangati, perché era una mulattiera attraverso la macchia e serviva per gli spostamenti col ciuco o col cavallo e per il trasporto di le­gna o carbone a basto di mulo: ci passavano tagliatori, carbonai e mi­natori, ora è usata solo in qualche trat­to dai cacciatori”.

Tale via era uno dei tanti tracciati di quel fascio di itinerari che fu la Via Maremmana, congiungente Volterra a Populonia, la cui “arteria” principa­le passava presso Le Casarse, poco distante quindi da Montingoli e dalla via volterrana: due importanti vie at­traversavano dunque il territorio pres­so le località, interessanti per i mate­riali archeologici, di Collenne, Sant’Apollinare e il Casettone dal cui Poggio nasce il torrente Turbone in­torno alla cui sorgente e ai suoi fertili terreni sembra essere sorto un re­motissimo insediamento villanoviano.

L’OSPEDALE SULLA VIA VECCHIA DI CORNIA

Se è difficile seguire la storia dell’ora­torio di Sant’Antonio per le sue molte variazioni di titolo, altrettanto confusa, anche se degna di ulteriori approfondi­menti, è la documentazione riguardan­te l’ospedale di Serrazzano che viene citato col nome di San Michele come la chiesa del castello, altre volte con quel­lo di Sant’Antonio di Vienne e addirittu­ra con quello di Santa Maria Maddalena dal titolo di un romitorio, di cui oggi si è persa del tutto la memoria.

Mons. M. Cavallini (7) faceva risalire al 1264, cosa rara per l’epoca, il sor­gere dell’ospedale di San Michele in Serrazzano sbagliando, però, la cro­nologia dell’atto secondo cui “Vanni fu Piglino spidalerius hospitalis de Serazano” affittò una casa vescovile nel borgo della Leccia. Quella sopra riportata, è l’interessante tesi di Mons. Bocci secondo cui chi affittò quella casa fu Paolo, pievano di Lustignano, vicario di Filippo Beiforti che fu vesco­vo di Volterra dal 1348 al 1358. Quindi il sorgere dell’ospedale di Serrazzano non fu anteriore al primo Trecento. In quel periodo, secondo Mons. Bocci, i frati di Sant’Antonio di Vienne (8) che avevano casa madre a Volterra, avreb­bero ottenuto di collocare un loro ospi­zio, non nel castello, ma presso la chiesetta fuori le mura, sulla via vec­chia di Cornia, durandovi almeno una cinquantina d’anni. La presenza di tali frati è suffragata, secondo Bocci, dal trasferimento del titolo di San Donato nella chiesa del paese e dal fatto che la chiesetta fu comunemente detta di Sant’Antonio abate, banalizzando e confondendo con Sant’Antonio di Vienne.

La frateria di Sant’Antonio di Vienne è inoltre censita nei libri delle decime pa­pali dei primi decenni del Trecento e il loro ospedale, proprio in quel secolo, fu fatto oggetto di lasciti testamentari come quello del 1348 di Benso di Cen­ni che lasciò all’ospedale di Sant’An­tonio di Vienne il pezzo di terra a Casardi e l’orto alla Vigna Sassi di Serrazzano.

“Uno letto, due lenzuoli e uno copertoio”: questi erano gli averi che lasciava all’ospedale Muncino fu Da­nese, secondo le volontà stilate di suo pugno in bel volgare prima del 1348. Ricco e generoso se, da solo, aveva contribuito quasi all’allestimento del­l’intero ospedale, infatti, bastavano una stanza o due, due letti, qualche paio di lenzuola e una elementare attrez­zatura per allestirne uno. All’atto del­la costituzione, l’ospedale veniva po­sto dal vescovo in possesso del retto­re spedalingo stesso che reggeva l’ospedale insieme a religiosi o a laici “oblati”, cioè dimentichi del mondo, per il servizio agli ammalati. Il fondo patrimoniale dell’ospedale veniva sor­retto dalle elemosine dei singoli e da lasciti come quelli sopracitati o molti altri che sono datati 1348, anno della grande peste, come quello di Tinolo, figlio di Muncino fu Danese, che lasciò molti beni terrieri all’ospedale di San Michele e, sempre nello stesso anno, Giusto di Gano lasciò all’ospedale due lenzuoli, due capre e due beccherelli e altri quattro ne lasciò agli operai del­l’opera della Misericordia.

Gli ospedali antichi erano sotto l’alta tutela del Vescovo che riceveva dai me­desimi, nel giorno della Madonna di mezz’agosto, un tributo annuo sotto forma di un’offerta in cera: anche l’ospedale di Serrazzano compare nel sinodo Beiforti del 1356, questa volta sotto il nome di Santa Maria Maddalena, è tassato per una lira e nell’elenco Falconcini (1568-1563) tas­sato insieme alla chiesa, per una lib­bra di cera (7). Incerta anche la fine del nostro ospedale, secondo quanto scrive P. Fabbri (9): “La maggior parte degli spedali scompare in quello stes­so secolo in cui vedono la luce ed an­che l’attività dello spedale di Serrazzano ha fine tra il XIV0 e il XV0 secolo. Di sicuro sappiamo che non esiste più nel 1576, anno della visita pastorale del vescovo Castelli, che ispeziona tutti gli spedali della diocesi tra i quali il nostro non figura”.

Dell’ospedale non rimase traccia eccet­tuato il piccolo cimitero a destra della porta d’ingresso; rimase, invece, la chiesina fuori paese: lì, ogni sera allo sberlume, i contadini dei casolari vicini andavano ad accendere la fiamma di

Oratorio di S. Antonio: esterno dell’abside (foto Maurizio Biondi)

una lampada ad olio che stendeva la sua ombra lunga e tremula fino ad ac­carezzare la statua di coccio di San­t’Antonio.

Claudia Vailini

NOTE BIBLIOGRAFICHE

1 ) ecclesia… cui vocabulo est Santi An­geli…” Il documento originale evidenzia come San Michele Arcangelo, nella cultu­ra religiosa del Mille, fosse ancora il Santo Angelo per eccellenza; il guerriero princi­pe degli angeli, raffigurato nell’atto di tra­figgere il drago-demonio era stato sentito dai Longobardi molto vicino alla loro indo­le bellicosa e, per questo, ne fecero il loro protettore particolare, diffondendone enor­memente il culto. San Michele Arcangelo era veneratissimo anche nella nostra zona, basti ricordare che nel pomarancino veni­va chiamato “il Santo’ per antonomasia: cfr. J. Spinelli, La Venerabile Confraternita del­la Misericordia di Pomarance, Peccioli, 1997.

  1. M. Bocci, Serrazzano di Montagna, in “LAraldo”, 18 settembre 1972.
  2. S. Mori, Pievi della diocesi volterrana antica, in “Rassegna Volterrana”, 1992.
  3. C. Vailini, L’oratorio di Sant’Antonio a Serrazzano, in “La Comunità di Pomaran­ce”, n°1 1994; S. Mori, Pievi di confine della diocesi volterrana antica, in “Rassegna Volterrana”.
  4. S. Isolani, La Madonna del Frassine e la Badia di Monteverdi, Castelfiorentino, 1937, nota 10; C. Groppi, Né latino né tedesco né lombardo né francesco, Peccioli, 1996.
  5. M. Cavallini, Gli antichi spedali della dio­cesi di Volterra, in “Rassegna Volterrana”, 1942.
  6. Secondo le scarne notizie raccolte nella Biblioteca Santorum, Sant’Antonio di Vienne nacque intorno alla metà del V see. e compì gli studi proprio a Vienne, cittadina del Delfinato di Francia, divenendo in seguito vescovo di Carpentras dove aveva studiato teologia. Alla sua morte fu sepolto nel contado di Vienne sulla sommità di un colle presso Bédouin, dove pare avesse condot­to vita solitaria. Sull’altura di tale colle sor­se un monastero a lui dedicato, distrutto nel XIII see. In seguito a ciò il corpo del Santo fu traslato nella chiesa di Bédouin dove nel 1562 venne dissepolto e bruciato dai calvinisti.
  7. (9) P. Fabbri, Storia Di Serrazzano, 1980. Ripubblicazione in “La Comunità di Poma­rance”, n°1 e sgg. 1996.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

LA PIEVE DI S. GIOVANNI A SILANO (San Dalmazio)

La Pieve di San Giovanni Battista a Si­lano, distante da San Dalmazio poco più di un chilometro ed ubicata lungo un’an­tica strada di clinale che conduce alla Rocca di Silano, è da considerare uno dei più importanti “ruderi” architettonici di in­teresse storico-artistico di tutta l’alta Val di Cecina. Conosciuta volgarmente come la “Pieve di San Dalmazio”, di questa ri­mangono visibili solamente la parte inferiore della facciata della chiesa e gran parte della planimetria dell’edificio ripor­tata alla luce molti anni fa dal Gruppo Ar­cheologico di Pomarance.

Smembrata nel secolo scorso delle sue parti architettoniche per costruire nuovi edifici nel paese di San Dalmazio, fu in tempi remoti una delle più importanti pievi medioevali della Diocesi Volterrana di cui si hanno notizie fin dal 945 d. C.. Dotata di Fonte Battesimale, fu chiesa matrice di altre chiesette “suffragranee” come quella di Montecastelli e di Acquaviva (Bulera) ed era inclusa nel territorio co­munale del “Castello di Silano”. Costruita su di un importante snodo stradale lun­go la via di Volterra da un lato, e verso il contado senese dall’altro, la sua impor­tanza è evidente dai pregevoli resti della facciata in stile “Romanico Pisano” in­fluenzato da elementi architettonici Nor­manni.

La sua costruzione, databile alla prima metà del X secolo d. C., coincise in un pe­riodo ed un’epoca di forte ed addirittura divorante religiosità in cui la “Chiesa” era di gran lunga l’organizzazione più ricca, colta e modernamente attrezzata. Nel no­stro territorio, compreso nell’antica Dio­cesi di Volterra, risalente al V secolo d.C., vennero innalzate in quel tempo molte Pievi (Chiese di campagna) dotate di fon­te battesimale e dedicate al “Battista” fra le quali possiamo citare, oltre a quella in trattazione, anche quella di Micciano o quella di Bagno a Morba sopra Larderello. Tali costruzioni venivano affidate a Mae­stranze e capomastri di origine pisana, lucchese ed addirittura comasca, come i famosi “Maestri Commacini”, che por­tarono la loro arte dal Nord di Italia fino a quella centrale per erigere templi sacri o sperduti eremi come quello di Rogheta o di Celle presso Monterufoli, di cui rima­ne testimonianza una antica lapide mu­rata nella casa, già di Baldassarri Nadir a Libbiano e tradotta dallo storico Don Mario Bocci di Pomarance. (1)

Queste maestranze al servizio del pote­re ecclesiale della Diocesi di Volterra eri­gevano importanti luoghi di culto arric­chendoli di decorazioni scultoree, come si evidenziano negli elementi decorativi dei capitelli e delle mensole che riman­gono ancora visibili nella Pieve di San Giovanni a Silano. La funzione dello “scultore romanico” infatti non era tanto quella di decorare ma di “ammaestrare” le genti raccontando al pubblico religio­sissimo, ma incapace di leggere e scri­vere, gli episodi della Bibbia, con l’utiliz­zo di simbolismi, forme antropomorfe, rozze, ma di effetto sul popolo. Anche i materiali generalmente erano quelli che si reperivano facilmente nella zona, co­me il tufo o il panchino (Berignone) che risultano utilizzati nella costruzione della Pieve di San Giovanni a Silano.

La facciata della Pieve, dedicata anche a San Quirico, è di impostazione Pisana ed è caratterizzata da una serie di archeggiature cieche intrecciantisi secondo un motivo frequente nei monumenti Norman­ni dell’Italia meridionale, ma molto raro in Toscana, dove si riscontrano solo nella Pieve di Monterappoli, in Santa Maria in Bellum, e in San Donato a Siena. (2) L’interessante prospetto presenta nella parte superiore una ristrutturazione a fi­lari alternati in pietra e cotto realizzata in un successivo restauro che ritroviamo evi­dente anche nella parte absidale dell’e­dificio.

La particolarissima facciata è caratteriz­zata, alle due estremità, da due pilastri a forma rettangolare poggianti su uno zoc­colo di base e da quattro colonne in tufo collegate fra loro da archi a tutto sesto che, intrecciandosi con altri archi semi­circolari poggianti su quattro “peducci”, danno luogo ad una intersecazione armo­nica di archi formando il caratteristico ar­co a sesto acuto.

  1. pilastri e le colonne poggiano su di uno zoccolo di base costituito, su piani alter­ni, dal “Toro”, da gole dritte, scozie e li­stelli tendenti a formare un motivo deco­rativo nella parte inferiore della facciata. In basso, fra pilastro e colonna e colon­na e colonna, abbiamo uno spluvio con una pendenza di 35° rispetto ai piano che confluisce alla struttura un notevole slan­cio verso l’alto.

Lo specchio di muratura è delimitato da mensole e capitelli alla cui altezza, sulla parete, è evidente un nuovo motivo de­corativo di “cordolo” a gola multipla che caratterizza l’opera architettonica.

Tutto il prospetto, in muratura a calce, è costituito da blocchi di tufo locale squa­drati, di diverse grandezze, disposti per testa e per taglio con numerosi fori a fron­te denominati “buche pontaie”.

I capitelli delle colonne, realizzati in pan­chino, presentano un motivo decorativo di foglie antropomorfe vegetali, molto sti­lizzate. I capitelli di sinistra sono a due or­dini sovrapposti, quelli di destra ad un or­dine. Fra colonna e colonna possiamo no­tare i resti consunti di alcuni “peducci” (pietra sporgente a forma di mensola o capitello) che sostengono un semiarco che si interrompe nella intersecazione for­mando il caratteristico “arco a sesto acuto”.

Alcuni di questi peducci sono compietamente illeggibili; solamente in quello di destra (per chi osserva di fronte) si nota parte di una figura umana molto stilizza­ta realizzata, come gli altri peducci, in pie­tra arenaria.

Si aveva accesso nell’edificio sacro attra­verso l’unico portale, con archivolto di for­gia pisana, che è sormontato da una ghie­ra, formata da più cornici, ed un’architra­ve sorretta da due “mensolette scolpite” con motivi decorativi a foglie stilizzate in “panchino” a due ordini sovrapposti, che ricalcano gli stessi motivi decorativi dei capitelli delle colonne.

Particolare di un peduccio

La facciata, denominata a “salienti inter­rotti”, con le falde del tetto interrotte da una parte verticale che mette in luce la maggior altezza della navata principale ri­spetto a quelle delle navate minori, dove­va essere caratterizzata da un rosone centrale che serviva a dare luce all’inter­no della navata principale. La stessa fun­zione era demandata agli “oculi”, anco­ra visibili sulla struttura architettonica, che illuminavano le navate laterali dell’edifi­cio.

Facciata della Pieve di S. Giovanni (Foto G. Baroni).

La pianta dell’edificio sacro è di tipo “ba­silicale” o rettangolare ed aveva una lun­ghezza di metri 25 ed una larghezza di metri 14. Della parte interna dell’antica “Plebem” sono ancora visibili i resti del­le mura perimetrali, quelle di basi di co­lonne (monostili e polistili), di capitelli ed in particolare i resti di un muro interno che fa quasi da contrafforte alla facciata im­pedendole di rovinare al suolo. In questa area interna sarebbe stata individuata la torre campanaria anche se sono molto evidenti tracce di un riuso come abitazio­ne per la presenza di canalizzazioni di un “luogo comodo” ed alcune mensole d’ap­poggio per travi lignee. (3)

La parete interna ortogonale alla faccia­ta della Pieve di San Giovanni presenta anch’essa, nella parte superiore, un in­tervento di restauro in laterizio con una apertura, uso finestra, ricavata in epoca posteriore. La parete terminale di questo muro è caratterizzata da un semi pilastro sul quale si imposta la seconda campata dell’arco poggiante su di un bellissimo ca­pitello classicheggiante a foglie sovrap­poste.

L’interno era a tre navate, una centrale ed altre due laterali illuminate dagli “ocu­li” circolari e sicuramente da finestre mo­nolitiche collocate in alto lungo le mura
perimetrali esterne ma di cui non rimane alcuna traccia. Dalla planimetria sono evi­denti vari rimaneggiamenti in epoche po­steriori alla sua edificazione, avvenute so­prattutto dopo la sconsacrazione dell’e­dificio.

L’interno è caratterizzato da una serie di livelli di calpestio. Nel primo livello, appe­na oltrepassato il portale d’ingresso, è evidente una apertura circolare in matto­ni che cela una cistèrna profonda 4 me­tri ed in cui fu ritrovata un’anfora in ter­racotta databile attorno al XV-XVI seco­lo. Dopo qualche metro, salito uno scali­no, si accede ad un secondo livello di cal­pestio che presenta anch’esso una pavi­mentazione in cotto disposto a “spina di pesce”. Al “Presbiterio” si accedeva at­traverso tre ordini di scalini semicircolari alla cui base fu rinvenuto quasi casual­mente, l’esistenza di un piccolo “crogio­lo di fusione” e varie scorie di metallo fu­so. Il “Presbiterio” presenta ancora trac­ce di pavimentazione in “coccio pesto” (opus sigmum). Da questo, superati due ordini di scalini, si accede all’abside cen­trale ai cui lati, in corrispondenza delle due navate minori, sono ancora evidenti tracce delle “absidiole” che, troppo pic­cole per uso liturgico, erano utilizzate per riporre le spezie eucaristiche, gli oggetti di culto ed i paramenti sacri. La copertu­ra della navata centrale doveva essere a “capanna”, caratterizzata dalle capriate formate da tre travi disposte a triangolo isoscele; quella orizzontale denominata catena che legava le pareti laterali della costruzione, le due oblique riunite al cen­tro sorreggevano il tetto poggiando sulla testa della catena. La trave verticale man­teneva le vibrazioni ed era denominata “Monaco” o “Colonnello”. Un tipico esem­pio di questa copertura si può trovare a Palaia, Volterra e nella Chiesa di San Dal­mazio ed anche in quella di Cellole.

NOTIZIE STORICHE

Le prime notizie della antica “Pieve di Si­lano’’ dedicata un tempo a San Gio Bat­tista e San Quirico risalgono al Basso Me­dioevo.

Un documento dell’anno 945 d.C., pub­blicato dallo Schneider su “Regester Vulterranorum” e citato anche da Tito Cangini in “Notizie storiche della Rocca di Si­lano”, è uno dei più antichi da noi cono­sciuti che ricordano questa pieve al tem­po di Boso, Vescovo di Volterra, che or­dina prete in detta chiesa Andrea, con l’obbligo di pagare un annuo contributo. Un altro documento, tratto ancora dall’Ar­chivio della Mensa Vescovile di Volterra, del giugno 969 d.C. si riferisce alla pro­messa che Giovanni e Villerardo, anche per conto dei loro successori e della loro chiesa fanno a Pietro, Vescovo di Volter­ra, di lasciare integri i proventi della “Ple­be” di San Quirico e San Giovanni Batti­sta.

Planimetria generale: 1) Navata centrale – 2) Navate laterali – 3) Presbiterio – 4) Abside – 5) Absidiole 6) Torre campanaria?
  1. 24 marzo 1066 la stessa pieve è citata nuovamente in un atto di vendita. Su di essa aveva dominio diretto il Vescovo di Volterra come attesta un documento del 1179 relativo ad una bolla di Alessandro
  2. che confermava al vescovo Ugo i suoi diritti: “Statuimus emin ut quarcunque bo­na in ecclesiis, castris et Vulterrana ec­clesia in presentiar inste et legitime persidet firma tibi…. permaneat” e fra gli altri si trova ricordata la Pieve di Silano.

Qualche tempo dopo, il 10 marzo 1187, la stessa “Plebe” è ricordata in un atto di permuta al tempo del Vescovo Ilde­brando Pannocchieschi che pare vantas­se diritti fiscali anche sul Castello di Sila­no. Questo territorio e la corte furono con­tesi con il Comune di Volterra e provoca­rono non poche liti tra i contendenti che sfociarono spesso nelle fughe del Vesco­vo al Castello di Berignone e in notevoli danni ai beni della Diocesi come ad esempio quelli della Pieve di Silano. Al tempo del Vescovo Pagano infatti, nei pri­mi anni del XIII secolo, risulta un docu­mento di istanza al Comune di Volterra nel quale si domanda che il Vescovo sia soddisfatto dei danni fatti dai volterrani, cioè di aver distrutto la Pieve di Silano, le case e i poderi di detta pieve ed aver bruciato i mulini.

Qualche tempo dopo, attorno al 1230, la stessa pieve subì altre distruzioni, questa volta però, ad opera del popolo Sangemignanese che rapinò e incendiò i beni di questa chiesa.

Nonostante i continui danneggiamenti, un documento del 1326 riporta la visita del Vescovo Reinuccio Allegretti che la cita ancora come “ecclesia de Silano”.

La Pieve di Silano, che era dotata di fon­te battesimale, fu chiesa matrice fino al­la metà del XIV secolo ed a questa face­vano capo altre chiesette di campagna dette “Suffraganee” che erano: Acqua­viva (presso il Bulera), Montecastelli, Ripapoggioli, Mestrugnano, Vinazzano, Lucciano, Mont’Albano, Anqua e Valiano. Queste piccole chiesette, alcune delle quali erette in seguito a pievi, passarono sotto la pievania della chiesa di San Bar­tolomeo a Silano edificata anticamente al­l’interno del “Castello” di Silano. Dal Sinodo Volterrano del 1356 tenuto dal Ve­scovo Volterrano Filippo Beiforti, si ha in­fatti notizia indiretta del cambiamento di pievania. Le continue dispute tra il Comu­ne ed i Vescovi di Volterra, i continui dan­neggiamenti della Chiesa e dei suoi beni terrieri decretarono forse l’inizio dell’ab­bandono di essa, troppo lontana dalla Roccaforte di Silano. Questa infatti non fu più utilizzata al culto per molti anni, co­me si rileva da una visita pastorale del Ve­scovo Stefano di Prato nel 1413 che la de­scriveva in vattivo stato di conservazione “… ed è piena di grano e tini..”. Alcuni anni più tardi (1421) lo stesso Vescovo la cita in una nuova visita pastorale e la de­scrive ancora utilizzata a magazzino. Nonostante le vicende storiche di guerre che si protrassero in questi luoghi e che indussero le monache di San Dalmazio a trasferire il loro convento nella più si­cura città di Volterra il 30 luglio 1511 ; non si ritrovano più notizie della Pieve di San Giovanni Battista di Silano fino all’anno 1559.

Sembra infatti, da un documento di quel periodo, che la la Pieve con i suoi beni fosse passata sotto il patronato della Ba­dia Fiorentina che curava gli interessi dei beni spettanti alla suddetta pieve, aven­do eretto addirittura un “Monastero” a fianco della stessa chiesa dove oggi sor­ge un antico podere denominato appunto la “Pieve”.

Interno della Pieve durante gli scavi (1978)

Del monastero infatti si parla in un docu­mento livellare stipulato il 6 maggio 1559 in cui viene fatto: “Mandato per confer­mare la concessione a Giuliano de Memmi di tutti i beni e frutti del Monastero di San Giovanni Battista di Silano per un af­fitto annuo di 10 ducati d’oro per ogni sin­golo anno, perdurante la generazione di­retta di detto Giuliano Il contratto sti­pulato sotto la presenza di Giulio, Cardi­nale presbitero della famiglia de’ Medici, Vice Cancelliere della Santa Romana Chiesa e Arcivescovo fiorentino nella cit­tà di Bologna, Piacenza e del Canonico Jacopo Mammelli Vicario della Chiesa di Firenze, riporta alcune clausole interes­santi che l’affittuario doveva rispettare nella sua conduzione.

Infatti gli abati e le monache del Mona­stero della Beata Maria della Abbazia Fio­rentina detta dell’ordine di “Sancta Justinae da Padova” stabilirono con lo stes­so “Memmi Giuliani de Memmi Clerici Fiorentini” che: “essendo desiderosi di migliorare l’efficenza dei Monasteri ed es­sendo la Parochiale Ellesiam plebem det­ta di Sancti Joannis Baptistae de Silano Vulterranae Diocesis unita a detto Mona­steri© e bisognosa della riparazione del­la struttura per il popolo così utile allo spi­rito, accordavano a detto Giuliano l’affit­to dei suddetti beni con l’obbligo che egli restaurasse detta Pieve e si impegnasse a farla officiare”.

Il Patronato della Pieve di Silano dedica­ta a San Gio Battista risulta essere anco­ra della Badia Fiorentina nel 1577 quan­do, secondo una affermazione dell’Abate Puccinelli, riportata dal Repetti, risul­ta permutata con il Monastero di San Baronto sul Mont’Albano. Questi beni della Pieve di San Giovanni posti nella corte di Silano risultano censiti anche nell’Estimo dello stesso Comune nell’anno 1589: (4) “Pieve di San Giovanni fuora Silano… Un pezzo di terra lavorativa posto in det­to comune; luogo detto a Vivaio a 1 ° Via, a 2° Beni della Chiesa di San Bartolomeo di Silano, a3o,4°e5° Messer Ugo Con­ti da Volterra di Staiore dodici incirca .. stimata fiorini cinquanta …

Un podere con casa da lavoratore, terre lavorative e sode et macchiate poste in detto comune luogo detto alle Leccete della Pieve e Pinzaio a 1 ° via, 2° Beni del­la Pieve, a 3° Botro cavallino, a 4° fiume Pagone (Pavone), a 5° beni del Comune di Silano, a 6° Mastro Ugo Conti da Vol­terra, a 7° confini di San Dalmazio di Staiora 200 stimato fiorini duegento…

Un sito di un Mulino posto in detto comu­ne luogo detto in sul fiume Paghone det­to Mulino della Pieve in fra i sua confini stimato fiorini 40.

Un pezzo di terra lavorativa e soda ulivata alborata posta in detto comune luogo detto a Vivaio … stimata fiorini 40.

Quanto la chiesa sia stata aperta al culto del popolo di Silano e di quello della val­le del Possera e del Pavone non ci è da­to a sapere. Il declino di questo edificio sacro ed il nuovo conseguente abbando­no è rilevabile molto tempo dopo secon­do alcuni toponimi con cui venne citata la stessa chiesa. Nei primi anni del XVII secolo essa fu denominata “Pieve Vec­chia”. In una visita pastorale del 1679 del Vescovo Sfrondati questa è indicata co­me “Pieve Vecchia di Libera Collazione” (non direttamente dipendente dalla Curia Vescovile). In quell’anno essa risulta ret­ta da Don Michelangelo Galio Romano. Alcuni anni più tardi in una nuova visita pastorale del Vescovo del Rosso, la de­nominata “Pieve Vecchia di Silano” sot­to il titolo di San Gio Battista, risultava ret­ta dall’abate Sozzini nobile senese. (5) I beni della Pieve di San Gio Battista di Silano e lo stesso edificio furono raccolti infatti nel “Semplice Benefizio” intitola­to “La Pieve Vecchia di Silano” di cui fu rettore fino dal 1779 il sacerdote France­sco Andrea Cecchi di Pescia. È di quel periodo la notizia del passaggio dei pro­venti del Semplice Benefizio della Pieve Vecchia di Silano alla Chiesa del castel­lo di San Dalmazio retta dal sacerdote Giuseppe Burroni delle Pomarance.

Il sacerdote pomarancino infatti in quel­l’anno faceva istanza alla R.A.V. di poter unire i beni della sua parrocchia con quel­la della Chiesa di San Giovanni Battista a Silano:

“Prostrato l’oratore ai piedi del Regio Trono supplichevole proporrebbe alla R.A. V. degnarsi di comandare, fosse an­co nelle forme, che conviene a detta par­rocchia di San Dalmazio, qualche sem­plice benefizio, ed in particolare di unirsi       quello sotto il titolo di San Gio: Batti­sta detto La Pieve Vecchia di Silano di Li­bera Collazione Pontificia distante dal Ca­stello di San Dalmazio circa un terzo di miglio, et i beni di esso situati in gran par­te nel distretto della cura del supplican­te; del qual benefizio è attuale rettore il Sacerdote Francesco Andrea Cecchi di Pescia, residente in sua Patria……………………..

“… Si unisca ora per quanto vacherà il semplice benefizio sotto il Titolo di San Gio Battista detto la Pieve Vecchia di Si­lano di libera collazione alla chiesa Arcipretale del Castello di San Dalmazio di patronato delle Monache di detto luogo

In un successivo contratto di livello effet­tuato nel 1783 dall’abate Francesco Cec­chi (Toldi) di Pescia, rettore del “Sempli­ce Benefizio di libera Collazione” posto nella Pieve Vecchia di Silano, risultano nuovamente le proprietà spettanti alla pie­ve che consistevano nel Podere Vivaio, Podere Casa al Bosco ed il Podere de­nominato l’Abbazia che niente altro do­veva essere che quello ricavato nell’ex Monastero accanto alla chiesa detta la “Pieve Vecchia”.

I beni furono assegnati al signor Carlo Se­rafini di San Dalmazio che doveva paga­re all’abate Cecchi un annuo canone di scudi settantaquattro.

Mallevadore del contratto stipulato fu Marco Antonio del fu Francesco Acciai di Silano, noto nella storia della Rocca di Si­lano per la demolizione e vendita dei mat­toni della fortezza a privati. Personaggi che probabilmente furono attivi anche nella demolizione e riutilizzo di materiali lapidei della Pieve di San Giovanni a Si­lano per nuove costruzioni nel paese di San Dalmazio o nelle campagne limitro­fe. Smembramento che si protrasse fino alla prima metà dell’ottocento come dimo­strano anche molte bozze di tufo impie­gate nel restauro ottocentesco del pode­re la Pieve. Forse volutamente fu lascia­ta intatta ai posteri la parte della facciata più interessante che ancora oggi rimane alla visione dei turisti.

Particolare di un capitello a foglie antropomorfe

Un reperto architettonico, definito dal Sal­mi (1921) un “Unicum” in Toscana, che il Gruppo Archeologico di Pomarance avrebbe voluto valorizzare e porre all’at­tenzione degli organi di tutela del patri­monio artistico ma che purtroppo, pur es­sendo pubblicato e fotografato in riviste a carattere nazionale od in posters della Regione o Provincia, rimane ancora og­gi nella più totale indifferenza degli enti preposti alla sua conservazione conti­nuando nel suo lento ed inesorabile de­grado. (6)

Jader Spinelli

NOTE BIBLIOGRAFICHE

  1. D. Mario Bocci “REBUS ARCHEOLOGICO” in “La Comunità di Pomarance” 1972
  2. “L’Arte Romanica nell’antica Diocesi di Vol­terra” a cura del Gruppo Amici dell’Arte di Vol­terra; Testo Franco Lessi.
  3. I. Moretti – R. Stopani: “Chiese Romaniche in Val di Cecina” 1970. Ringrazio sentitamente il parroco di San Dalmazio Don Marcello Zanini per la collaborazione in questo mio studio.
  4. Biblioteca Guarnacci di Volterra – ESTIMO DI SILANO 1589
  5. E. Mazzinghi “La Pieve di Sillano” – La Co­munità di Pomarance 1971
  6. A. Arrighi – R. Pratesi “A Piedi in Toscana” Voi. 1 – 2 Ed. ITER 1970

Un monumento che il Gruppo Archeologico di Pomarance avrebbe voluto valorizzare con quello spirito di volontariato e per la passione per l’Archeologia che contraddistingueva altri gruppi spontanei, attivi ancora oggi, come quello di Colle Val d’Elsa che, in collaborazio­ne armonica con la Sovrintendenza Archeolo­gica di Firenze, operavano negli scavi sul ter­ritorio colligiano per il recupero ed il restauro di materiali ceramici utilizzati per l’ampliamen­to del Museo Archeologico di Colle Val d’El­sa. Con questa intenzione, grazie alla Autoriz­zazione di scavo del Sovrintendente alle Anti­chità dell’Etruria dott. Maetzke in data 7 luglio 1975 cominciarono i lavori per riportare in lu­ce la planimetria della antica Chiesa. Una nuo­va autorizzazione del Sovrintendente per i Beni Ambientali e Architettonici di Pisa, dott. Sec­chi, in data 27 maggio 1978, consentiva il pro­seguimento dei lavori. Dopo la sua morte pe­rò gli scavi furono fatti sospendere e tutto il la­voro svolto, grazie all’autorizzazione del pro­prietario del terreno e senza alcun intervento economico di organi statali o locali, rigettava l’area di scavo di nuovo nell’abbandono.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

MONTECATINI VAL DI CECINA

Montecatini Val di Cecina è uno di quei paesi che, per la conformazione urbani­stica ed architettonica ancora molto be­ne conservate, meriterebbe una maggiore attenzione e quindi un maggiore riguar­do da parte di chi cura e tutela il patrimo­nio dei beni monumentali.

Posto su di uno sperone di roccia subvul­canica del Pliocene medio, Montecatini V.C. domina tutte le strade della vallata, posto a cavaliere tra il Monte Volterrano e le Rocche di Miemo, al limite settentrio­nale della Catena delle Metallifere, dalle quali resta diviso dal fiume Cecina per ef­fetto delle grandi faglie che interessaro­no il territorio nelle fasi successive al Mio­cene superiore.

  1. rilievi di Montecatini V.C. diventarono promontori avanzati della grande laguna che si formò con la sommersione della in­tera Val di Cecina, conseguente ad una intensa attività tettonica che determinò lo sprofondamento del suolo ove si accumu­larono i sedimenti di argilla e quelli di sal­gemma, per effetto della fase evaporitica di acque poco profonde del mare. Con il ritiro delle acque marine e l’asse­stamento del cordone litoraneo, Montecatini V.C., già importante sotto il profilo strategico per l’affacciarsi sulla estesa vallata del Cecina, sede quest’ultima di antichissimi insediamenti preetruschi e villanoviani, si sviluppò intorno agli anni 1000 quale borgo fortificato, come risul­ta dalla documentazione storiografica dai cui testi si assume che il borgo, chiama­to allora Monte Leone, era di proprietà del Vescovo Pietro di Volterra il quale vi eser­citava l’autorità religiosa, essendo sog­getto, il paese, alla Pieve di Gabbreto.
  2. 23 luglio 1109 certo Ranieri detto “Mal­conte” cedette alla Chiesa Volterrana tutti i privilegi allora posseduti in Montecatini. Tuttavia, seppure non esista documenta­zione storica, nè vi siano reperti di epoca più antica, vi è da presupporre che Montecatini V.C. sia stata una rocca for­tificata anche in epoca romana per la de­nominazione dal nome latino (Catignano, Catinus), già importante storicamente per un prestigio militare che andò conquistan­do quale baluardo a difesa della penetra­zione barbarica.

Nella piana sottostante, subito a ridosso della pendice dell’Arzignano, sembra in­fatti che nel 306 avanti Cristo, una intera legione romana vi abbia stazionato per ol­tre dieci anni, quanto infatti è durato l’as­sedio di Volterra, caduta in mano di Ro­ma nel 296 a.C.. Narra Targioni Tozzetti nel suo libro “Viaggi in Toscana” che i contadini del luogo hanno trovato nell’arare l’esteso pianoro, molte ossa umane e “ferramenti” per una battaglia che lì sa­rebbe avvenuta tra romani e volterrani. Detto pianoro è denominato infatti “Ca­po Romano”.

Il 6 maggio 1226, col beneplacido di Fe­derigo II, il Vescovo conte si impegna a dare al Comune di Volterra e al Podestà “l’oste e la cavalcatura, salvo il diritto del Vescovo ad andare in guerra quando lo volesse per la difesa del suo feudo e del suo territorio”.

Nel 1316 nei pressi di Montecatini V.C. fu combattuta una battaglia fra Pisa e Vol­terra, vinta dai Pisani che imposero ai vinti una convenzione sui diritti che Pisa avrebbe esercitato sul teritorio del Vesco­vo conte.

Nel 1350 Montecatini V.C. è di proprietà dei Beiforti i quali istituirono il presidio del Castello con una forte guarnigione di sol­dati.

La fine delle Signorie prima, e la conqui­sta da parte dei fiorentini della città di Vol­terra, avvenuta con il famoso sacco del 1472, posero il borgo sotto il dominio me­dicee sino all’avvento degli Asburgo Lo­rena al trono di Toscana.

La comunità di Montecatini, costituita da Leopoldo I il 29 settembre 1774 a seguito di riforma dell’ordinamento amministrati­vo del granducato, venne a comprende­re ben cinque frazioni: Montecatini, Gello, Querceto, Sassa e Mazzolla. Durante la dominazione francese (1807-1814) la co­munità di Montecatini fu sottoposta alle di­pendenze della sottoprefettura di Volter­ra ed anche con la successiva restaura­zione granducale, continuò a far parte del­la cancelleria volterrana. Nel 1833 Maz­zolla passò a Volterra e Miemo, tolto al co­mune di Lajatico, andò a far parte di quel­lo di Montecatini V.C.

Montecatini, in questo periodo, non solo fu particolarmente celebre per le attività delle miniere del rame, già attive sotto il dominio mediceo ed ancora in piena effi­cienza, ma anche per la produzione del miele, il cui gusto, particolarmente squi­sito, pare fosse dovuto ai fiori di lupinella selvatica, tuttora abbondanti in quella zona.

Nel 1876 il Comune di Montecatini V.C. aveva una rendita di lire 499.040,07 e con­tava ben quattro scuole pubbliche con 206 scolari ed una scuola privata (maschi­le) con 36 allievi. La popolazione del Co­mune era di 4304 abitanti, di cui 2361 re­sidenti nel capoluogo.

Anche la documentazione storica dei nu­merosi monumenti architettonici è scar­sa, seppure il borgo ne conservi ancora numerose testimonianze.

Ne sono esempio la “Rocca” su cui risal­tava vistosamente la poderosa Torre Bei­forti che domina il paese, le mura lungo le quali sale la strada che conduce alla Chiesa intitolata a San Biagio, la bellissi­ma Piazzetta che risale al XIV secolo e che già appare nel catalogo del sinodo diocesano di Volterra del 1356, dove figura subito dopo la Chiesa di Gabbreto dalla quale dipendeva.

Fatto eccezionale e solo giustificabile con inderogabili esigenze di natura urbanisti­ca, la Chiesa in stile romanico non ha la facciata volta a ponente, rimanendo però tale fino al XVI secolo, quando la faccia­ta della chiesa venne assorbita dalla Ca­nonica e venne aperto l’attuale ingresso laterale mediante l’abolizione di un alta­re della navata di sinistra.

Fu proprio sul finire del XVI secolo che la Chiesa di San Biagio fu oggetto di acce­si contrasti tra gli abitanti di Montecatini V.C. e quelli di Gabbreto per la nomina del rettore, la cui controversia fu vinta dai montecatinesi.

Il campanile, anch’esso in stile romanico, fu eretto verso la metà del XV secolo, pri­ma ancora che la chiesa fosse elevata a Pievania (1467).

Suggestiva la parte alta e più antica del borgo, ancora interamente mantenuta nel­lo stile medioevale e recentemente restau­rata. Sono ancora visibili due torricelle pe­rimetrali del borgo, le cisterne, la ricostru­zione della cinta muraria, le porte, i vico­li, i chiassi ed anche il piccolo cimitero. Notevoli i complessi architettonici di Bu­rlano, antico feudo dei Saracini di Pisa, poi proprietà Incontri, Rocheforted ora Carmignani, quello della “Miniera”, l’an­tica località di Caporciano, con il palazzo degli uffici della “Montecatini”, l’ingresso alle gallerie e la torre di aereazione e poz­zo, nella cui località Ermanno Olmi girò la scena della nascita di Gesù nel film “Cammina cammina”.

Ancora ben tenuta, ma chiusa al culto, la chiesetta di Caporciano, che pone in mo­stra una formella di maiolica di probabile produzione Della Robbia. Notevoli anche gli apprestamenti architettonici delle mi­niere, in cui ancora campeggia intatta, con un originalissimo disegno, la guardio­la delle sentinelle.

Rimangono, nel palazzo della “Miniera” prossimo alla chiesetta, i resti e le attrez­zature di un bel teatro che ha funzionato fino al 1925.

Notevole anche il complesso antico di Casaglia, acquistata per metà dal Vescovo Conte di Volterra, che rilevò dalla proprietà del conte Ugo nel 1115.

Gabbreto fu un borgo antico, ora distrut­to, il cui nome è rimasto ad una località situata a nord di Montecatini V.C., lungo la rotabile che sale dalla Sarzanese-Valdera.

Gabbreto fu castello che Enrico VI nel 1186 concesse in feudo a Ildebrando dei Pannocchieschi Vescovo di Volterra. Il ca­stello fu distrutto dopo la battaglia del 1316 tra pisani e volterrani, ai quali ultimi fu im­posta la distruzione unitamente a quella del castello di Miemo di cui rimangono an­cora le imponenti rovine.

Gello è un borgo ormai abbandonato, ma ancora abitato da un custode al servizio dei nuovi proprietari che vengono ad abi­tarvi durante il periodo estivo o nei perio­di di fine settimana. Gello è un piccolissi­mo borgo dell’epoca medioevale, ed è for­se la località di “Agello” che Walfredo, nel­l’anno di fondazione della Badia di San Pietro in Palazzuolo di Monteverdi avve­nuta nel 754, cita per il possesso in quel borgo di una casa colonica.

Bella anche la piazza principale del ca­poluogo la quale, purtroppo, ha perduto l’antica pavimentazione in pietra arenaria grigia, che ritroviamo anche nelle costru­zioni dei palazzi e che il Tozzetti reputa molto simile alla “pietra serena della Gol­fina, della quale ha il medesimo difetto di sfarinarsi se posta lungo tempo allo sco­perto”.

Tale pietra è caratteristica del luogo ed è stata ricavata da una cava a mezzogior­no del monte in località San Marco, ora completamente in disuso.

Sovrastano la piazza la torre e la parte più antica del borgo, issata sulla punta di un costone che guarda il versante volterrano. Caratteristico anche il borgo di Ligia, una volta densamente popolato ed ora caden­te nella parte più antica, già sede di im­ponenti costruzioni ormai in rovina. Degni di citazione la fonte del “Leone”, di recente restaurata, “Vallibuia”, una con­ca boscata esposta a nord dove non giugne mai la luce solare ed il castello dell’ “Aitora” abbastanza bene conservato. Domina il paesaggio la grande croce in legno issata sulla punta del monte che ne ha preso il nome (Monte alla Croce) dal quale nascono il Botro Grande, una volta habitat della lontra, e quello della Maci­nala, il corso d’acqua arbitrariamente de­viato verso la Valdera per le necessità del­le campagne adiacenti, proprietà una vol­ta dei Gotti Lega, e già regno di grossis­simi granchi che popolavano l’alto corso del fiume.

L’economia di Montecatini V.C. fu fioren­te fino alla chiusura della Miniera del Ra­me che avvenne intorno agli anni 1911-1912 dopo una serie di grandi scio­peri conseguenti la caduta della importan­za della economia estrattiva, a seguito dell’apertura di altre miniere più ricche di minerale che misero in crisi l’escavazione del rame toscano.

Montecatini V.C. fu la sede in cui si costi­tuì il grande complesso chimico, l’attuale Montedison, una volta denominato Mon­tecatini S.p.A., il cui presidente Guido Donegani, fu spesso ospite del paese.

Oggi Montecatini Val di Cecina, è un co­mune in decadenza, con una economia mista ed una popolazione che invecchia sempre più, per la partenza dei giovani verso altri luoghi di maggiore possibilità di occupazione.

Un borgo tranquillo, costituito in massima parte da pensionati al minimo o piccoli proprietari di terra e luogo ormai di con­quista degli stranieri, i quali comprano e restaurano i vecchi poderi vuoti ed abban­donati.

Un paese nel quale il tempo sembra si sia fermato fissandosi nella immobilità dei suoi monumenti, nell’ombra della pietra grigia che ancora adorna la torre e le co­struzioni del vecchio paese, quali senti­nelle solitarie poste a guardia della sua storia e del suo passato.

Una storia minore forse, legata a perso­naggi sottomessi ai possenti del Castel­lo, sotto il vincolo religioso del vescovo conte o soggiogati dalla tirannia dei Bei­forti. Ma anche una storia di gente sag­gia e consapevole di quella semplicità con la quale ha amministrato i suoi trascorsi storicopolitici ed anche la cronaca dei fatti più recenti e contemporanei, ancora legati a quei valori di vita che sedimentano e tengono vivi i motivi di convivenza e soli­darietà tra la gente, al riparo quasi dei ter­ribili problemi che insorgono tra le con­centrazioni di popolazione dei grandi ag­glomerati urbani.

Ermanno Marconcini

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

SAN MICHELE

Itinerari turistici della zona boracifera.

Percorrendo la tortuosa strada provinciale che, abbarbicata sui filoni di gabbro, da Po­marance sale verso la sella di Montecerboli, l’occhio viene attratto, sulla destra, da una costruzione diroccata di pietra chiara in cima a una collina boscosa. È questo quanto rimane dell’eremo di S. Michele delle For­miche che, dal 1300 alla fine del ‘700, costi­tuì per molti ammalati una luce di speranza e di guarigione.

Fu il lontano 31 di maggio del 1377 infatti che il pievano di Morba fece istanza al Co­mune di Volterra perché fosse approvata la costruzione di un convento sulla cima del colle sopra il Botro delle Vignacce; l’istanza venne accolta e il convento, affidato ai padri Celestini di S. Michele Visdomini di Firenze, fu dedicato a S. Michele Arcangiolo. E i monaci che ivi si riunirono in vita eremitica si imposero lo scopo di curare i malati, in particolare i lebbrosi e gli artritici, e di sovraintendere al mantenimento di un antico bagno le cui acque avevano virtù salutari per quelle malattie.

Il bagno

Il bagno, che era già molto noto col nome di Spartaciano o Spartacciano (così è indicato in un documento del 1266), si trovava nel fondo della valle che separa gli attuali Gabbri del Conte dalla Porcareccia del Cerale: pro­prio dove il Fosso di Radicagnoli e il Botro delle Vignacce si uniscono per dare origine al Fosso di S. Michele. Il nome di questo bagno è di chiara origine romana: infatti le terre divise fra i veterani dell’impero pren­devano il nome del veterano a cui erano state assegnate: Ager Spartacianus potrebbe tra­dursi « Terra Spartaciana » o « di Spartaco »; e probabilmente le sorgenti calde di questo bagno, assieme a quelle di Morba e della Perla, facevano parte, durante l’epoca im­periale romana, del complesso delle « Aquae Volaterranae » (come dire «Le Terme di Volterra ») riportato dal più antico documento geografico che si conosca, la cosiddetta Tavola Peutingeriana.

Il lazzeretto

I Monaci Celestini, dunque, restaurarono, con molta probabilità, i resti del bagno ro­mano, vi aggiunsero un edifìcio per ospitare i malati — una specie di piccolo lazzeretto — e costruirono alcune vasche in pietra dove l’acqua termale poteva raccogliersi ra­pidamente per permettere ai lebbrosi e agli altri ammalati di bagnarvisi. E anche il bagno così sistemato fu dedicato all’Arcangiolo San Michele.

La notorietà delle virtù terapeutiche del Ba­gno di San Michele non mancò di attirare sul luogo, oltre che una folta schiera di sof­ferenti (si parla di più di 300 persone che ogni anno venivano a S. Michele a « passar l’acqua»), anche insigni naturalisti che esaminarono le sorgenti, ne descrissero le caratteristiche, ne fecero una seppur som­maria analisi. Domenico BianchelIi da Faenza (Mengo Faentino) e Gabriele Falloppio at­torno al 1550, Giovanni Targioni Tozzetti nel 1742, dedicarono accurati studi al Bagno di S. Michele; e nei secoli XV e XVII, e attorno al 1740, si provvide a restaurarne gli edilìzi. I ruderi La fama dell’Eremo, che all’epoca del suo maggior splendore era costituito da una chiesa, oltre che dal fabbricato ad uso di convento, andò declinando verso la fine del 1700. A quell’epoca le ingiurie del tempo cominciarono alarsi senijre;lsui  vetusta Bapia sfì apriron una parte del uri della crepe; I padri e e nel ia della dell’800 e, poco chiò
Celestini fulono tichiamatìa Firen  1870 era rimasto sufluogo a pasto chiesa un solo la chiesa e il c dopo, franò an abitata clall’ulti così completale rimangano irf piedi c in pie&a della bili i contraffar Il bagno, invece quenfato, dolori’ artritici quasi gitani cui la menti fermarne decretò sura.

ll panorama

Il poggio di S.Michele, oltre che i suoi ricordi storici, offre ai visitatori un magnifico panorama che si estende dai monti della Cornata e della Carlina, verso Siena, a Montecastelli, alla Rocca Sillana su fino alla Val d’Elsa e giornate se le Apuane e verso occidente la vista può spaziare fino al mare Tirreno. Nelle imme­diate vicinanze, invece, lo sguardo si perde sulle macchie fìtte che coprono i poggi verso S. Ippolito e attorno alla Valle del Ce­cina, mentre a sud spiccano i bianchi fumi delle sette torri refrigeranti di Larderello.

Vicino ai muri della vecchia abbazia, sulla cima pianeggiante del poggio, sono spuntati ciuffi radi di arbusti che creano un’ambiente ombroso e piacevole, mentre il prato raso che ricopre il terreno costituisce un morbido tappeto per chi voglia scegliere il poggio di S. Michele come meta di una scampagnata.

La Badia

La Badia di S. Michele ha le sue brave leg­gende: una racconta che il 29 settembre di ogni anno, giorno della dedicazione a S. Michele Arcangelo, comparivano sul tetto e sul campanile della chiesa una grande quantità di formiche alate che in breve tempo morivano. Da qui l’appellativo di S. Michele delle Formiche; ma non basta: quando la chiesa della Badia fu in avanzato stato di rovina, se ne trasportò una campana sulla torre del Palazzo Pretorio di Pomarance. E si dice che da allora, nella stessa data del 29 settembre, le formiche alate si posino appunto su quella torre. Agli amici pomarancini il compito di controllare quanto ci sia di vero in questa storia.

La leggenda

Un’altra leggenda racconta che una volta una campana della badia si staccò dal campanile e, rotolando giù per la collina, cadde nel botro. Ma non si fermò sul greto: seguitò a sprofondare scavando nella roccia un pozzo profondissimo che poi si riempì d’acqua. Ed aggiunge che talvolta, dal bordo del pozzo, si sentono ancora i rintoc­chi della campana di S. Michele che giace sul fondo.

Il fascino della favola è alimentato dal posto veramente suggestivo dove si trova il cosid­detto «pozzo della campana». Questo è, in effetti, una profonda camera quasi cir­colare dalle pareti di pietra liscia, nel letto del Fosso di S. Michele; la sua apertura superiore è quasi nascosta dai fìtti arbusti della macchia; l’acqua vi cade da una cascatella alta poco più di tre metri ed è diffìcile apprezzare a vista quanto la cavità sia pro­fonda. Da una spaccatura longitudinale della roccia verso nord l’acqua decanta poi nel letto basso del torrente che prosegue il suo corso.

P. L. Pellegrini

Come Arrivarci.

  1. con mezzo proprio:

Percorrere la provinciale Massetana verso Pomarance fino al bivio per S. IpDolito in località Croce del Masso (sopra Montecerboli) (Km. 2,200); quindi prendere, sulla sinistra, la strada per S. Ippolito e piegare a destra al segnale indicatore per «Le Vignacce» (Km. 1,550); arrivati al podere «Le Vignacce» (il primo che si trova), fermarsi e lasciare il veicolo (Km. 1,550). Quindi procedere a piedi per la mulattiera oltre il podere che sale verso S. Michele, finché non si trovi, sulla destra, un cancello di legno; passare il cancello e seguire il sentiero che da qui si parte fino ai ruderi della Badia; poco prima di giungervi, sulla sinistra, i resti della capanna del­l’ultimo eremita. Percorso a piedi: 600 metri (circa 15 minuti).

Volendosi raggiungere il vecchio Bagno (ora ridotto a casa colonica) si può scendere dalla Badia per la stessa mulattiera e, arrivati al bivio per «Le Vignacce», proseguire a sinistra scendendo ancora intorno al poggio per circa 800 metri (altri 15 minuti). Durante il per­corso, circa 200 metri dopo il bivio, sulla sinistra, si possono scorgere i resti di un’antica miniera di rame, costituiti da una lunga galleria, ora parzialmente allagata, che si perde nella roccia; davanti al­l’imbocco è stata costruita una grossa vasca per permettere all’acqua di rimanervi a un livello di circa mezzo metro.

La strada è asfaltata fino al bivio per S. Ippolito; il resto, senza ri­vestimento antipolvere, è in buone condizioni.

  • con mezzi pubblici:

Autoservizio SITA da Larderello al Madonnino dei Gabbri; quivi si prosegue a piedi per la ripida discesa che si diparte dalla provin­ciale verso il fondo valle. A 450 metri (10 minuti di cammino) si trova il Bagno di S. Michele (ora casa colonica) con il caratteristico ponte coperto sul botro e i locali con le vasche in pietra per i bagni. Si guada il botro e si prende la mulattiera che sale attorno al poggio di S. Mi­chele; percorso fino alla Badia: circa 1400 metri (40 minuti). Du­rante il percorso, circa 600 metri dopo il bagno, si possono scorgere sulla destra i resti dell’antica miniera di rame abbandonata.

Chi desideri visitare il « Pozzo della Campana » può recarvisi scen­dendo da un sentiero molto ripido che si parte dalla strada fra il Madonnino dei Gabbri e il Bagno di S. Michele, circa 100 metri prima del Bagno; dopo 30-40 metri di percorso (5 minuti) si arriva sul greto del torrente proprio di fronte all’apertura nord del pozzo. Si consiglia di munirsi di scarpe adatte, possibilmente con suola di gomma.

LARDERELLO: RICCHEZZA DI CASA NOSTRA

PREMESSA

Nel mondo esistono numerose aree in cui si verificano manifestazioni geotermi­che, cioè dove avvengono naturali fuoriu­scite di vapore dal suolo. Quelle più note si trovano in Italia, in Islanda, in Giappone, nel Messico, in Nuova Zelanda, nelle Filip­pine, in Indonesia e nel Tibet. In Italia si trovano in varie località, ma l’area princi­pale è quella che della zona di Orvieto, passando per il Monte Amiata, si estende fino a Larderello e Radicondoli, interes­sando così parte delle province di Terni, Grosseto, Pisa e Siena.

Centrali di Larderello (1970).

Il viaggiatore che percorra la tortuosa e panoramica strada che da Volterra condu­ce a Larderello, avvertirà nell’aria un pro­gressivo aumentare di un inconfondibile odore di uova marce: è l’idrogeno solforato che emana dalle viscere della terra insie­me al vapore acqueo dei soffioni di questa dimenticata parte della Toscana. Vedrà un sempre più esteso diramarsi di grosse tubazioni che, attraverso la campagna, convogliano, dai pozzi perforati profonda­mente, il vapore naturale, alle centrali elet­triche.

CENNO STORICO

Emanazioni di vapore e sorgenti di acque calde sono sempre esistite in questa zona; infatti in una mappa risaliente al III secolo d.C., i Romani indicavano quest’area col termine di “acquae volaterranae”. Una ri­produzione di detta carta si può vedere nel museo storico di Larderello. Oggi, in tutta questa zona, esistono soltanto due o tre punti in cui si verifica dal suolo emanazio­ne superficiale spontanea di vapore, in quanto detto fluido si trova generalmente nelle profondità del terreno.

Poiché detto vapore, oltre a varie sostanze chimiche, contiene anche una buona per­centuale di acido borico, nel secolo scorso veniva usato esclusivamente per estrarvi tale prodotto. Le emanazioni di vapore venivano fatte gorgogliare in grandi pozze, le cui acque fangose venivano tenute in ebollizione violenta dal vapore stesso. Era­no i cosiddetti “Lagoni” le acque dei quali venivano pertanto ad arricchirsi di acido borico. La concentrazione di esso veniva effettuata in modo rudimentale con delle semplici caldaie scaldate a legna.

Per ovviare alle numerose difficoltà e ren­dere più economica la produzione, detti bacini furono coperti con una cupola in muratura in modo da raccogliere il vapore che aveva depositato l’acido borico nel­l’acqua e poterlo convogliare, tramite tu­bazioni di terra cotta, sotto alle caldaie ed impiegare così, per la concentrazione del­le acque boriche, il vapore anziché la le­gna. Questa struttura veniva chiamata “la­gone coperto”. Lo sfruttamento a carattere industriale fu iniziato nel 1818 da un certo Francesco De Larderei (dal quale poi la località prese il nome) che fondò una so­cietà alla quale nel 1913 se ne aggiunsero altre che successivamente si fusero in un’unica azienda.

Attualmente, dal punto di vista economico, non è conveniente utilizzare il vapore na­turale per estrarvi prodotti chimici, pertan­to esso viene impiegato principalmente per la produzione di energia elettrica. Il primo esperimento di questo genere, fu effettuato nel 1904, mettendo in azione un piccolo generatore che si trova esposto nel sopramenzionato museo di Larderello. E’ interessante segnalare che al tempo dei Romani, ma anche nel secolo scorso, le sorgenti termali della nostra zona veniva­no frequentate per la cura dei dolori reu­matici, delle affezioni della pelle e delle vie digerenti. Lo stesso Granduca di Toscana, per curarsi la gotta, era solito recarsi con la sua corte, alle terme de “La Perla”, od a quelle di Bagno al Morbo. Oggi dette salu­tari sorgenti sono pressoché ignorate.

SFRUTTAMENTO ATTUALE

Ai nostri giorni, in tutta la vasta area di cui abbiamo parlato, che è la più estesa e la più importante del mondo di questo gene­re, vi sono installate numerose centrali elettriche che producono annualmente, senza interruzioni, circa 3 miliardi di chi­lowattora di energia elettrica ad un costo molto basso. Poiché per produrre elettrici­tà, non tutto il vapore naturale è adatto, in quanto, se non possiede le dovute caratte­ristiche di temperatura, di pressione, ecc., non è utilizzabile per tale scopo, avviene pertanto che una parte di esso non venga inviato nelle centrali, perciò risulta preferi­bile sfruttarlo per altri usi, come teleriscal­damento per le abitazioni di Larderello e Castelnuovo, nonché per serre in varie zone, tra le quali, oltre a quelle tradizionali di Castelnuovo, S.Dalmazio e Larderello, anche quella dell’Amiata dove sono state costruite serre con una superficie coperta di 23 ettari.

CONCLUSIONE

Da quanto abbiamo succintamente espo­sto, risulta evidente che la nostra zona racchiuderebbe una grossa fonte di lavo­ro, una inesauribile sorgente di energia economica, pulita, non pericolosa, quindi migliore, preferibile ed assai più affidabile del metano, il cui prezzo e la cui distribu­zione rimarranno sempre soggetti e condi­zionati da imprevedibili eventi politici inter­nazionali. Se gli organi competenti, invece di restarsene chiusi nel loro piccolo guscio incrostato di scorie secolari, aprissero gli occhi almeno quanto una talpa miope, si accorgerebbero di avere a disposizione risorse immense quasi gratuite, il dono di una inesauribile miniera d’oro che potreb­be produrre ricchezza sempre crescente a tutto il comprensorio.

Quindi, se venissero prese delle iniziative pubbliche appropiate o venissero facilitati i privati che volessero prenderle, si verifi­cherebbe un proliferare di posti di lavoro e di guadagno che darebbero a questa zona grandi possibilità di sviluppo economico da fare invidia anche all’estero.

In altre parole, se Larderello dovesse ri­dursi, con poche decine di dipendenti, a produrre soltanto energia elettrica, non sfruttando completamente le potenzialità che la natura ci ha elargito abbondante­mente, la nostra comunità ne soffrirebbe, in quanto gli insediamenti urbani, sia pic­coli che grandi, da Volterra fino a Massa Marittima, si spopolerebbero sempre più, estinguendo così la vita nel nostro amato, grande territorio.

Romano Santini

BIBLIOGRAFIA (opere consultate)

R. Nasini -1 soffioni ed i lagoni della Toscana e l’industria boracifera – Tipografia editrice Italia – Roma 1930.

R. Nasini – I soffioni boraciferi toscani e l’industria dell’acido borico – Tipografia della R. Accademia dei Lincei – Roma 1906.

A. Mazzoni – L’utilizzazione del calore terre­stre – La Scuola Editrice – Brescia.

A. Mazzoni – I soffioni boraciferi toscani e gli impianti della “Larderello S.p.a.” – Anonime Arti grafiche – Bologna 1948.

ENEL – Larderello: energia elettrica del va­pore endogeno. Il Tirreno – La provincia di Pisa comune per comune – 1993.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

IL SOTTOSUOLO DELL’AREA GEOTERMICA

STORIA E PERCHÉ DI UNA SISMICITÀ

a cura dott. Rossi.

PREMESSA

L’esperienza sicuramente non piacevole vissuta in Marzo e purtroppo ripetutasi in maniera meno continuativa, seppur senz’altro significativa, nello scorso inizio di Agosto, credo abbia sollecitato in molti, oltre ad una buona dose di comprensibile apprensione, anche la curiosità, se non l’interesse, perquei fenomeni legati alla dinamica terrestre, quali sono i terremoti.

Durante la serata di Marzo trascorsa in piazza Sant’Anna, dominata dalla emotività ed allo stesso tempo dalla compostezza, le decine di teorie nate in quei giorni crollavano misera­mente o trovavano parziali quanto desiderate conferme. Certamente per alcuni la propria è rimasta l’unica e vera spiegazione degli even­ti, nonostante la precisa, puntuale, interes­santissima esposizione dei Prof.ri Barberi e Scandone, capace di illuminare le menti più distanti da simili problematiche ed, a mio giudizio, incertoqual modo anche di tranquil­lizzare.

Ritengo perciò possa essere interessante ritornare sull’argomento, perché, come geolo­go, ho la presunzione che vi sia qualcuno interessato a saperne di più riguardo un feno­meno naturale, quale è il terremoto, ancora in gran parte da indagare e non certo per aggiun­gere qualcosa a quanto i Professori hanno in quell’occasione così sapientemente illustra­to. Il solo intento è quello di ripilogare, puntua­lizzare il significato di alcuni termini e fornire alcune nozioni in maniera molto semplice e generale sul fenomeno terremoto, per aiutare, spero, chi desideri conoscerlo meglio.

IL SOTTOSUOLO

DELL’ AREA GEOTERMICA

Come primo passo credo sia necessario illu­strare per sommi capi ed in maniera, spero, semplice e schematica cosa sta sotto di noi. Il sottosuolo dell’area geotermica è oramai assai ben conosciuto. In oltre 150 anni sono state perforate diverse centinaia di pozzi, che hanno permesso, con l’ausilio anche dei metodi d’indagine indiretta (sismica, geolettrica, gravimetria,etc), di ricostruire in manie­ra abbastanza completa la successione delle formazioni rocciose.

Nel secolo scorso le perforazioni raggiunge­vano a malapena qualche decina di metri, e per questo venivano effettuate in corrispon­denza od in prossimitàdellezonedi emissione naturale di vapore endogeno, per poter così estrarre le acque boriche e lo stesso vapore a bassa pressione.

Osservando le moderne ed imponenti struttu­re delle “sonde” è evidente quanto le tecni­che di perforazione si siano trasformate nel tempo e come, con l’evoluzione tecnologica, siano aumentate progressivamente le profon­dità d’indagine.

Per tornare al sottosuolo dell’area geotermi­ca, in maniera esemplificativa questo risulta composto da una serie di formazioni geologi­che caratterizzate da rocce relativamente recenti che poggiano su di un basamento più antico.

Semplificando molto, si può dire che l’azione delle forze legate alla dinamica terrestre, cau­sa in una prima fase dell’innalzamento delle catene alpina ed appenninica, ha provocato successivamente nell’area geotermica una riduzione di spessore sia delle formazioni ge­ologiche più recenti, che del sottostante ba­samento. Ciò ha permesso al materiale ad alta temperatura, situato in profondità sotto la crosta superficiale, di risalire verso la superficie.

La presenza quindi, a profondità relativa­mente modesta, di questa sorgente di calore, ha fatto sì che l’area geotermica sia caratte­rizzata da un’anomalia del gradiente geoter­mico: la temperetaura cioè aumenta molto più velocemente, via via che si procede in profondità, rispetto ad esempio alle zone limitrofe.

Non solo, la “spinta” che ha causato la risalita del materiale caldo profondo ha provocato la fratturazione di parte delle sovrastanti rocce che costituiscono il basamento.

E’ noto che le acque d’infiltrazione proceden­do in profondità, per il veloce aumento della temperatura, si surriscaldano generando va­pore che, imprigionato nelle fratture presenti nelle rocce, viene estratto tramite la perfora­zione di pozzi.

Forse non è altrettanto noto che gli effetti degli stress legati alla risalita di materiale caldo sulle rocce che compongono il basa­mento, sono tutt’altro che esauriti. Essi sono infatti tuttora causa di una continua apertura di nuove fratture, e di conseguenza di una porzione consistente dell’attuale attività si­smica: tutto questo come singolo episodio nel quadro più generale della dinamica terre­stre a scala regionale ed alla sua continua evoluzione.

A conferma di ciò, dai numerosi dati presenti in letteratura, si può osservare che in prossi­mità delle zone di Larderello, Travale e Mon­terotondo M.mo, dove il materiale caldo pro­fondo è in genere risalito maggiormente, si ha anche la più alta concentrazione di eventi sismici.

A questo punto è lecito porsi le seguenti domande: quali sono le carratteristiche di questa sismicità? E’ legata solamente ad un’unica causa?

Per dare una risposta a questi quesiti il primo passo è lo studio della sua evulzione storica.

Larderello 1910.

COSA E’ UN TERREMOTO?

Prima di procedere ad un commento dei dati storici relativi alla sismicità dell’area geotermica, sembra utilefornire alcune elementari, ma necessarie nozioni riguardo la natura e le caratteristiche dei terremoti.

Intanto cosa è un terremoto? Si può definire come una brusca liberazione dell’energia accumulata da una roccia per l’azione delle forze della dinamica terrestre. In pratica è la fratturazione della roccia stessa dovuta al suo comportamento”fragile”: il terremoto è stato definito come uno dei testimoni della dinamica terrestre.

Semplificando molto, la quantità di energia liberata durante un evento sismico (in gran parte con effetto vibratorio) è funzione di molti parametri tra i quali, ad esempio, la capacità e/o la possibilità di una roccia di resistere alle sollecitazioni, in pratica delle sue caratteristiche fisico-meccaniche.

E’ espressa dalla Magnitudo, parametro non legato alla valutazione in gran parte soggettiva degli effetti prodotti da un terremoto (Sca­la Mercalli), ma alla misura della quantità di energia che si libera con il repentino aprirsi di una frattura ed il conseguente spostamento relativo dei margini della frattura stessa. La trasmissione dell’energia vibratoria, legata anch’essa in gran parte alle caratteristiche fisi­co-meccaniche dei materiali in cui si propaga, avviene attraverso la generazione di onde che, giunte in superficie, causano i noti effetti sussultori ed oscillatori.L’ipocentro è il punto situato nella profondità terrestre in cui si genera il terremoto, l’epicentro è la sua pro­iezione in superficie. Secondo la Scala Mer­calli l’epicentro individua la zona che ha su­bito i maggiori effetti in relazione all’evento sismico, che non necessariamente coincide conia precedente definizione, dipendendo in questo caso anche da altri parametri che non l’energia e la individuazione spaziale del luo­go di generazione delle onde sismiche, uno dei quali può essere, ad esempio, la tipologia costruttiva degli edifici.

In ultimo vi è da dire che i terremoti non si manifestano casualmente, masi distribuisco­no in ben determinate aree dove le forze endogene sono più attive. La regione boraci­fera nel suo complesso(Larderello-Amiata)si inserisce nella porzione occidentale di un’area a sismicità omogenea, non molto elevata, delimitata ad Ovest dalla fascia costiera cen­tro meridionale toscana, ad Est dai primi con­trafforti della catena appenninica ed a Nord dai Monti Livornesi.

LA SISMICITÀ’ STORICA

Esaurita questa premessa, se si analizzano i dati storici pubblicati da vari autori, sembra emergere uno “spostamento” della sismicità, a partire dall’inzio del secolo, dai margini (volterrano-massetano) verso l’interno del­l’area geotermica. In particolare il massimo di attività pare concentrarsi tra le località di Serrazzano, Monterotondo M.mo, Larderello e Travale.

In tale area la distribuzione nel tempo della sismicità appare abbastanza omogenea.

La zona di Larderello registra il maggior nu­mero di eventi nel periodo che va dagli inizi del secolo fino al 1950: ciò può in parte derivare dal migliore controllo della sismicità in tale area, che ha permesso di registrare anche sismi d’intensità pari al 11°-1IP Mercalli (la Scala Mercalli ne conta XII), che con ogni probabilità erano stati trascurati dalle prece­denti cronache locali, poiché in molti casi non rilevabili in assenza di strumentazione. A con­ferma di ciò, se si considerano solo gli eventi d’intensità superiore al IV° Mercalli, soglia al di sopra della quale la percezione umana dell’evento diventa precisa, si nota come l’intervallo 1900-1950 non rappresenti più un massimo di concentrazione.

Per ciò che concerne la Magnitudo (massimo valore 10), risulta abbastanza evidente dai dati storici come, nel secolo scorso e fino agli inizi dell’attuale, si siano manifestati terremoti con maggiore energia, con valori anche abba­stanza elevati, oscillanti tra un minimo di 3,6 ed un massimo di 5,4.

A partire dal 1930 si ha una diminuzione dell’energia liberata che solamente in pochi casi supera il valore di 3,6.

In particolare l’evento di massima energia registrato in quest’ultimo periodo risulta esse­re quello verificatosi presso Monterotondo M.mo il 19/8/1970 con una Magnitudo di 4,5, mentre il sisma di maggiore intensità di cui si abbia notizia è il terremoto che colpì Travale 1’11/12/1724, che raggiunse il IX-XC grado Mercalli ed una Magnitudo di 6,4.

Questi valori d’intensità dei terremoti storici (e soprattutto di Magnitudo), come già evi­denziato dal Prof. Barberi, vanno presi con le dovute cautele, poiché spesso sovrastimati in quanto ricavati da dati che spesso rispec­chiavano la soggettivitàdel cronista dell’epo­ca e perché riferiti ad edifici con tipologie costruttive certamente non paragonabili con le attuali.

Ci si può domandare a questo punto se è possibile stimare, dall’analisi dei dati storici, la probabilità che si verifichino terremoti di notevole energia nell’area geotermica.

Una simile valutazione si può tentare se si utilizzano alcune relazioni empiriche tramite le quali si possono anche rendere confrontabili dati di sismicità relativi a zone diverse.

Analizzando ad esempio i dati compresi nel­l’intervallo di tempo 1880-1975, ne risulta che la probabilità del verificarsi di sismi di notevole Magnitudo nell’area geotermica, pare essere scarsa, sicuramente più bassa del resto del territorio regionale, nonché di quello naziona­le.

SISMICITÀ’ ATTUALE

L’installazione a partire dal 1976 di una rete di rilevamento sismico da parte dell’Enel, finalizzata al controllo ed alla definizione di eventuali relazioni tra sfruttamento, reinie­zione e liberazione di energia sismica, ha permesso un controllo capillare ed una mi­gliore conoscenza delle carateristiche della sismicità dell’area.

Dai dati pubblicati emerge come vi siano tre zone principali caratterizzate da attività sismi­ca e cioè: Monterotondo M.mo, Travale e Larderello. Generalmente la loro sismicità, probabilmente in gran parte legata all’azione della risalita del materiale caldo profondo, non dà vita, come nel Marzo scorso, a se­quenze di eventi minori caratterizzate dalla presenza di uno o più episodi di maggiore intensità (sciame sismico), ma a singoli ter­remoti a bassa energia.

Se questa teoria risultasse esatta si potreb­be supporre che la sismicità dell’area non sia dovuta ad una sola causa.

I singoli terremoti a bassa energia sarebbero infatti generati da un meccanismo locale, direttamente legato, come più volte detto, alla risalitadi materiale caldo, mentre, le sequenze di eventi con episodi a Magnitudo maggiore, sarebbero dovute all’azione delle forze della dinamica terrestre a valenza regionale. Tale ipotesi pare essere avvalorata dal gran nume­ro di microeventi che vengono continuamen­te registrati, gli ipocentri dei quali risultano concentrarsi in una fascia a non elevata profondità, coincidente in gran parte con quell’orizzonte di rocce fratturate prima men­zionato, indizio di un legame con cause locali. Gli ipocentri invece dei terremoti a maggiore energia sembrano collocarsi generalmente a profondità maggiori, forse in relazione a strut­ture più direttamente legate ad una dinamica di tipo regionale.

Da alcuni anni inoltre è stata introdotta nel­l’area geotermica, la pratica di reiniettare nel sottosuolo i fluidi utilizzati nelle attività produt­tive. Ciò viene fatto per due motivi principali: tentare una ricarica artificiale, se pur parziale, del ‘’serbatoio” nelle zone di massimo sfrutta­mento ed evitare inquinamenti delle falde acquifere, nonché dei corsi d’acqua e, si può aggiungere, probabilmente per abbattere i costi che un trattamento di tali reflui compor­terebbe. Tutto questo viene effettuato sotto il controllo della Regione Toscana, competen­te in materia di controllo e rilascio di autorizza­zioni.

L’attività di reiniezione ha comportato per l’Enel la necessità di monitorare in maniera continua l’area geotermica, per evitare l’even­tuale manifestarsi di conseguenze indeside­rate.

Ed è appunto in tale ambito che è stata messa in opera l’attuale rete sismica, al fine quindi di controllare quali potessero essere le influenze della reiniezione sulla sismicità ed in partico­lare per stabilire se e come questa attività potesse modificare i meccanismi di liberazio­ne dell’energia sismica nell’area geotermica. Dagli studi compiuti non sembra, almeno per ora, risultare un legame direttto ed immedia­to tra reiniezione e variazione delle caratteri­stiche sismiche delle aree in cui essa ha luogo, tranne rare eccezioni.

Anche se non è possibile generalizzare un rapporto di causa-effetto, alcune considera­zioni, già per altro ampiamente illustrate dal Prof. Barberi, possono essere fatte in base ai dati disponibili:

  1. la reiniezione può produrre un incremento nel numero degli eventi a bassa e bassissima energia, ma non sembra modificare i mecca­nismi causa dei terremoti a più alta energia. Probabilmente ciò è anche dovuto, come detto, alla loro diversa origine, legata a fattori locali, forse influenzabili dalla reiniezione, per i primi, collegata a strutture più profonde a valenza regionale per i secondi.
  2. la reiniezione probabilmente favorisce la liberazione di energia e conseguentemente non peremette l’accumularsi di forti tensioni, riducendo così ulteriormente la possibilità che si verifichino terremoti superficiali di tipo distruttivo.

Simili conclusioni, se pur parziali, sono con­fermate da analoghe esperienze effettuate all’estero.

D’altra parte dati certi che possano garantire la completa affidabilità di tale pratica non ve ne sono, è una sperimentazione che va avanti nel tempo. Lo stesso monitoraggio continuo che l’ENEL compie sulla sismicità ne è testi­mone.

Quello che si può dire con sicurezza è che negli ultimi dieci anni, periodo in cui la reinie­zione è stata utilizzata in maniera continuati­va, non si è registrato un significativo incre­mento dell’attività sismica, per lo meno per gli eventi a più alta energia.

Certo, la non completa conoscenza dei mec­canismi che regolano la dinamica terrestre, e quindi la genesi dei terremoti, e la scala, geologica, dei tempi, rende necessaria la prosecuzione del controllo della sismicità e dello studio della sua evoluzione nella nostra zona.

CONCLUSIONI

E’ comunque forse lecito azzardare l’ipotesi che l’episodio sismico del Marzo scorso, e probabilmente anche il più recente dell’inizio di Agosto, potrebbero, per le loro caratteristi­che, essere ricollegabili a quella attività pro­pria delle strutture legate alla dinamica terre­stre a valenza regionale, che si manifesta normalmente con eventi di Magnitudo massi­ma circa pari a 4 -5 e probabili tempi di ritorno medi di 20-25 anni (terremoti del 1933 Sasso Pisano VI Mercalli, del 1946 Pomarance/ Volterra VI Mercalli e del 1970 Monterotondo M.mo VI+). Se questa ipotesi risultusse avere un qualche fondamento, contribuirebbe a fugare ulteriormente le perplessità relative alla pratica della reiniezione che, come si è prima detto, allo stato attuale delle conoscenze non pare possa estendere la propria influenza su tali strutture.

La sismicità con scarsa energia legata a fattori locali, la bassa probabilità che si veri­fichino terremoti con alta energia, il non pro­vato diretto rapporto causa-effetto tra reinie­zione e sismicità, la mancanza di importanti terremoti storici, sono tutte considerzioni che non possono altro che tranquillizzare.

ALCUNE CONSIDERAZIONI FINALI

Sicuramente la gravità degli effetti di un ter­remoto è legata in gran parte alla tipologia costruttiva degli edifici. Edifici vecchi o in condizioni di manutenzione precarie, come sono spesso quelli presenti nei nostri centri storici, non sono esattamente ciò che sarebbe necessario per resistere alla violenza di un terremoto.

Larichiestadi inserire il Comunedi Pomaran­ce in zona sismica, sentita da gran parte dei presenti in Piazza S.Anna in quella sera di Marzo, come una esigenza improcrastinabile, non pare, a mio giudizio, una scelta troppo oculata. E’ vero, come ebbe modo di afferma­re con forza il Prof. Barberi, che è sicuramente “criminoso” non comprendere in zona sismi­ca un’area che ne avesse i requisiti, ma è altrettanto vero che chiedere di esservi inse­riti, magari sull’onda dell’emotività, quando questi requisiti non vi siano o non siano sufficienti, è sicuramente quanto meno con­troproducente.

Quanto lo sia sarà facile sperimentarlo al momentodi costruirsi unacasaodi modificare l’esistente, di rifare un tetto, etc., quando ci accorgeremo di dover far fronte a spese aggiuntive, sia di progettazione, che di rea­lizzazione, tutt’altro che trascurabili, neces­sarie però per adeguare le opere agli standard richiesti alle costruzioni in zona sismica. Lo stesso accadrà per le attività produttive con conseguenze immaginabili.

E poi è certo: essere inseriti in area sismica non evita che i terremoti si verifichino.

La nostra zona non era stata a suo tempo inclusa negli elenchi dei comuni sismici per­ché i tecnici prosti alla classificazione sismica del territorio nazionale non ritennero che dall’ esame comparato dei dati in loro possesso ve ne fossero le motivazioni, come tennero a specificare sia il Prof. Barberi che il Prof. Scandone, né gli ultimi eventi sismici, proba­bilmente del tutto conformi con la sismicità storica, possono, a parer mio, con tutta proba­bilità fornire nuovi elementi tali da giustificare una revisione della classificazione. Non so se nel frattempo la richiesta sia stata formalizzata o vi sia stata una giusta pausa di riflessione, forse un ripensamento, una volta passata l’onda delle emozioni che talvolta possono essere cattive consigliere.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

ENERGIA GEOTERMICA

ALCUNE APPLICAZIONI A COLTURE PROTETTE

P.D. BURGASSI: ENEL DPT Vice Direzione Attività Geotermiche Centro Dimostrativo per gli usi non elettrici dell’energia geotermica. Castelnuovo V.C.

Nella regione geotermica toscana le aree interessate da manifestazioni natu­rali sono state utilizzate in passato per la coltivazione di primizie. Infatti, l’alta tem­peratura del terreno favoriva la crescita di prodotti orticoli fuori stagione e le emis­sioni di vapori e gas formavano una sor­ta di cappa di protezione nei confronti di neve e gelo.

Quando nella seconda metà del secolo passato iniziò, attraverso l’uso di tubi in ferro chiodati, il trasporto a distanza dei fluidi naturali (questi sin dal 1827 veniva­no utilizzati come fluido di processo per l’estrazione dalle acque geotermiche dei sali di boro) lungo questi primi vapordot­ti, non coibentati, nacquero le prime strut­ture protette, in muratura, legno e vetro, destinate ad ospitare colture orticole.

A partire dal 1900 quando il vapore natu­rale cominciò ad essere impiegato per il riscaldamento di tutte le abitazioni di Lar- derello e dei villaggi sorti in corrisponden­za dei vari stabilimenti per l’estrazione dei sali di boro dalle acque geotermiche, au­mentò il numero di queste utilizzazioni in orticultura che venivano curate a livello familiare.

Negli anni ’30, furono costruite le prime serre, di una certa dimensione, in legno e vetro, riscaldate con vapore geotermi­co circolante attraverso tubi alettati, al servizio delle foresterie e delle mense aziendali dei vari stabilimenti della Socie­tà Boracifera di Larderello.

Nel 1950 quando, dalla Larderello S.p.a., furono costruiti i grandi impianti serricoli di Castelnuovo e Lago Boracifero l’azien­da agricola della Società si trasformò da fornitrice per le necessità aziendali in pro­duttrice e venditrice di prodotti orticoli sui normali mercati.

TIPO DI FLUIDO

Come indicato i primi impianti utilizzavano il calore disperso da vapordotti che traspor­tavano fluido dai pozzi agli impianti indu­striali e alle utenze civili, successivamente cominciò ad essere impiegato vapore con caratteristiche termodinamiche inferiori e quindi meno adatto alla produzione di ener­gia elettrica, questo fluido veniva fatto cir­colare direttamente nelle serre utilizzando tubi alettati come corpi scaldanti.

Oggi, di norma, si utilizza come fluido di trasporto del calore per il riscaldamento di serre acqua trattata a temperature che variano, a seconda delle caratteristiche del fluido geotermico che viene sfruttato. In qualche caso in impianti di vecchia co­struzione viene ancora utilizzato come fluido di riscaldamento vapore naturale, che circola all’interno delle serre utilizzan­do ancora, come una volta, tubi alettati come corpi scaldanti, ma con questo si­stema, anche se è possibile risparmiare l’energia necessaria per il pompaggio, si verifica uno sfruttamento incompleto del potenziale energetico del fluido.

SISTEMI DI RISCALDAMENTO

Sulla base delle temperature del fluido geotermico ed in relazione alla coltura che si intende impiantare cambia la tipo­logia dei sistemi di riscaldamento che possono essere:

  • A circolazione naturale di aria calda, me­diante l’impiego di tubi che possono es­sere lisci od alettati e posti a terra lungo le pareti delle serre. Questo sistema, adatto per la circolazione di fluidi la cui temperatura si aggira intorno a 90°C, pre­senta di n’orma piccole differenze di tem­peratura tra ingresso ed uscita dell’acqua e quindi mal si presta ad uno sfruttamento razionale e completo della fonte.
  • Con riscaldamento del suolo, mediante tubi in materiale plastico, interrati, nei quali viene fatta circolare aria calda.

Questo sistema, pur essendo in grado di mantenere una temperatura uniforme nel­la serra, è strettamente legato al tipo di coltivazione ed alle temperature ottimali cui deve essere sottoposto l’apparato ra­dicale delle piante, comunque il riscalda­mento del suolo si trova sempre abbina­to ad un altro sistema. Il primo impiego del riscaldamento del suolo in geotermia fu realizzato nel 1969 dall’E.N.E.L., in col­laborazione con l’istituto Internazionale per le Ricerche Geotermiche del C.N.R., presso l’attuale Centro Dimostrativo di Castelnuovo di Val di Cecina in una pic­cola serra pilota (circa 200 mq.) che po­teva utilizzare acqua a temperature com­prese tra 30 e 70°C. (Fig. 1).

Questa serra presentava un doppio siste­ma di riscaldamento, con aerotermi fun­zionanti con acqua a temperature di 70°C e con tubi in polietilene interrati a 25 cm. di profondità, nei quali circolava acqua a 25-30°C.

  • Riscaldamento con tubi appesi alla strut­tura portante della serra, appoggiati al pa­vimento o addirittura sospesi sotto i ban­cali o sopra i bancali stessi mediante tu­bi alveolari.

Nella progettazione di impianti di serricol- tura alimentati da fonte geotermica è ne­cessario prima di tutto ottimizzare il siste­ma cercando di integrare le caratteristiche della fonte con le esigenze dell’utenza. È opportuno anche aumentare al massimo il coefficiente di utilizzazione cercando nel­lo stesso tempo di realizzare usi in casca­ta e così abbassare il più possibile la tem­peratura finale, tenendo presente che escluse situazioni particolarmente favore­voli il fluido geotermico, alla fine del ciclo, deve essere reiniettato perché questo è ricco di sali disciolti. Questa ricchezza di sali disciolti rende necessario prevedere come fluido vettore del calore all’interno della serra, acqua trattata in ciclo chiuso.

SITUAZIONE ATTUALE IN ITALIA

Analizzando i fluidi geotermici attualmen­te utilizzati nella serricoltura in Italia si può vedere dalla tabella 1 che, per alcune ser­re (in Italia circa 5 ettari) viene impiegato come fonte di riscaldamento vapore con temperatura intorno a 120°C (ovviamen­te il fluido che circola nel circuito secon­dario ha una temperatura di circa 90°C). Per altre serre vengono utilizzate acque provenienti da sorgenti o pozzi a tempe­rature variabili tra 40 e 97°C.

A questo proposito è molto interessante il caso di Piancastagnaio dove il fluido geotermico (vapore surriscaldato con una percentuale abbastanza elevata di gas) viene utilizzato per produrre energia elet­trica in una turbina a scarico libero; il flui­do scaricato passa in uno scambiatore a miscela a pressione atmosferica da cui esce acqua a 97°C che viene inviata in scambiatori a piastre dove riscalda a 90°C l’acqua trattata del circuito secon­dario di un impianto di serricoltura, prima di essere inviata alla reiniezione. Tra gli scambiatori a piastre e le serre esiste un notevole dislivello per cui è necessario far passare l’acqua del circuito secondario attraverso scambiatori a fascio tubiero po­sti alla stessa quota delle serre. Di qui, dove esistono anche grandi serbatoi per l’accumulo di calore, parte il circuito (ter­ziario) che, in ciclo chiuso, va ad alimen­tare gli impianti di produzione (Fig. 2) Un altro caso di utilizzazione integrata dell’energia geotermica, di grande inte­resse, è il progetto Bulera fino ad oggi realizzato solo parzialmente dove, parten­do da fluido a 120°C, dovrebbe essere prodotta energia elettrica, dovrebbero es­sere riscaldati 2 ettari di serre, tunnels per olticoltura e funghicoltura, vasche per al­levamenti ittici e campi. (Fig. 3)

CONSIDERAZIONI TECNICO ECONOMICHE

Occorre rilevare, come quella geotermi­ca presenti, rispetto alle fonti di energia convenzionali, un basso impatto ambien­tale, purché siano rispettate ovviamente alcune regole fondamentali quale quella della reiniezione di reflui inquinanti.

La caratteristica principale è data dall’al­ta efficienza energetica dell’energia geo­termica, in particolare per i fluidi a bassa temperatura. Il rapporto tra lavoro prodot­to e energia termica che è possibile otte­nere dai fluidi geotermici, a partire dalle loro condizioni iniziali, sino alla tempera­tura ambiente, può raggiungere il 90% contro il 70-80% che può essere ottenu­to con i combustibili fossili. D’altra parte il calore geotermico ha un costo decisa­mente inferiore rispetto a quello ottenuto da carbone, petrolio e gas naturale percui è opportuno scegliere colture molto “energivore”, cioè piante che necessita­no per il loro sviluppo di alte temperatu­re e quindi di una forte quantità di ener­gia termica. Il mercato italiano oggi sem­bra incoraggiare in particolare produzio­ne floricola florovivaistica, fiori e piante or­namentali, tra queste: aeschynanthus, ci­clamino, croton dieffenbachia, euphorbia- pulcherrima (poinsettia), ficus, nephrole- pis, ortensia scheffleria, scindapsus (pho­tos), spathiphyllum, syngonium philoden- drom, anche se non sono da disprezza­re colture orticole specializzate (basilico ecc.).

Fig. 2 SCHEMA SEMPLIFICATO DELL’IMPIANTO PER RISCALDAMENTO SERRE DI PIANCASTAGNAIO
FIG. 3 SCHEMA SEMPLIFICATO DEL “PROCETTO BULERA”.

Occorre tener presente però che l’inci­denza delle spese di riscaldamento, uti­lizzando combustibili convenzionali, si ag­gira intorno al 15-20% del valore del pro­dotto venduto e pertanto è possibile ren­dere competitive le serre in località colli­nari dove sono ubicate di solito le risorse geotermiche (quindi a minor temperatu­ra media esterna): queste sono talora lon­tane da grandi centri di utilizzazione del prodotto, per cui sul costo finale vengo­no ad avere forte incidenza, come già ac­cennato le spese di trasporto.

PROSPETTIVE FUTURE

Come riportato nella tabella 1 in Italia gli impianti terricoli che utilizzano energia geotermica sono 9. Sono in corso di rea­lizzazione alcune iniziative di grande in­teresse, sia per le dimensioni dei nuovi impianti, che per le innovazioni tecnolo­giche che vengono proposte.

Ad esempio a Castelnuovo di Val di Ce­cina è in costruzione una serra di circa 2000 mq. destinata alla produzione di ba­silico nella quale sarà utilizzato il doppio sistema di riscaldamento con aerotermi (utilizzanti acqua a 65°C) e con riscalda­mento del suolo attraverso tubi corrugati in materiale plastico, a 40 cm di profon­dità nei quali circolerà l’acqua provenien­te dagli aerotermi a 35°C.

Una particolarità significativa di questa serra è che la fonte geotermica è rappre­sentata dall’acqua di scarico del teleri­scaldamento del vicino paese. Questo, una volta attivato, sarà un esempio di uso combinato del fluido geotermico con un elevato fattore di utilizzazione, anche per­ché serre e teleriscaldamento presenta­no approssimativamente lo stesso anda­mento del diagramma di carico termico. Altre iniziative sono in corso di realizza­zione a Castelgiorgio in provincia di Ter­ni e a Latera in provincia di Viterbo.

A Castelgiorgio con il fluido prodotto da uno dei pozzi a suo tempo perforati dal- l’E.N.E.L. (acqua a 120°C) verrà aziona­to un gruppo a circuito binario da 1000 KW a valle del quale l’acqua a 90°C, at­traverso scambiatori a piastre, riscalde­rà il fluido di un circuito secondario de­stinato ad una iniziativa agroindustriale e a 2 ettari di serre, prima di essere reiniet­tata in un altro pozzo. A Latera invece un fluido bifase (acqua e vapore a 200°C) alimenterà una cen­trale elettrica a doppio flash e, a valle l’ac­qua di scarico andrà ad alimentare l’im­pianto di riscaldamento di quindici ettari di serre.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

GIOVANNI MICHELUCCI

RICORDO DI FLORESTANO BARGELLI.

Salivamo lentamente la strada verso Fiesole, io Lucia e Sergio, per incon­trare il Maestro.

Sergio ci accompagnava, lo cono­sceva bene, con Lui aveva costruito Larderello. Arrivammo, un po’ di mano­vra a parcheggiare la macchina, poi fatti alcuni passi ci trovammo davanti ad un ambiente soggiorno, assai ampio, era lo studio con due ampie vetrate ad arco verso Firenze.

G. Michelucci firma la pergamena inserita nella prima pietra. 22/5/1956.

Scrutavo velocemente in ogni dove, in una specie di disordine ordinato, volevo vedere tutto, carpire ogni cosa, ma per l’emozione vidi poco.

Entrò.

Non l’avevo mai visto prima di allora, se non per fotografia; me /’aspettavo più alto, ricordo lo fissai con grande inten­sità come per accertarmi che fosse ve­ramente Lui. Portava una giacca spinata di color marrone, sotto aveva una ca­micia di flanella quadrettata a colori; ci salutò e di li a poco ci invitò a sederci. Mi avvicinò una sedia (era un suo disegno) dalla forma insolita; tre gambe ed uno schienale ricavate da un’unica tavola, mi ricordò tanti panchetti che si casa fine ottocento, normale nell’apparire (ricordo che ben diverso fu l’impatto con casa Savio li a Galluzzo, allora ero più giovane), una normale classica porta, suonammo, ci fu aperto, ricordo una scala apparentemente ripida, ma classica, forte della sua pietra grigia, scendemmo e subito apparve un am trovavano in campagna in uso ai con­tadini, ebbi un attimo di perplessità, Lui mi notò “si sta bene lì” mi disse sve­lando un mio stupore con la malizia dolce del saggio rassicurante. Iniziò la nostra conversazione.

Parlammo delle origini dell’architet­tura, poi una lunga considerazione sul Brunelleschi, sul Rinascimento, ma il tema della spiritualità era il motivo sempre presente con lucidità liberale scevra da ogni schema; parlava con amore anche delle cose più semplici, della pietra, intesa non come materia, ma come cosa viva fino a riflessioni sul suo modo di rapportarsi all’architettura insieme agli attori di questo mondo. Quando il nostro parlare ricordò l’espe­rienza di Larderello il Maestro, quasi con un cenno di malinconia rammentò i luoghi con grande affetto, ma traspariva dalle sue parole un rincrescimento per non aver potuto avere, quasi per una sorta di veto, un continuo rapporto con gli operai. Tale fu la mia impressione, sulla quale meditando, ho capito e giustificato al mio essere il perchè ed il come del suo operare a Larderello.

Disse: “Quando arrivai per la prima volta a Larderello rimasi colpito e frastornato da quel rumore diverso, da quell’odore particolare, dalla maestosità di quelle grandi torri ingegneristiche fumanti, così belle, che nel pensare alla Chiesa mi venne istintivo di fare una cosa diversa, allegra, come per isolarsi da quel naturale fragore”.

Non osavo interrompere il suo par­lare, e consideravo un privilegio ascol­tarlo; Sergio, più confidenziale, ricorda­va volentieri episodi a cui il Maestro fe­licemente partecipava, finché entrai quasi sommessamente nel discorso: si parlava di chiese, ricordando la piccola cappella di Sasso Pisano che tanto mi aveva colpito proprio per una sua na­turalezza plastica, organica la definirei.

Ricordo che immediatamente non focalizzò questa piccola cosa, ma dopo le mie prime battute dove esprimevo le mie considerazioni, i suoi occhi attenti si illuminarono ancor di più in quel volto dal profilo aquilino dolce ed austero e dai bianchi capelli disordinatamente pettinati con la riga che mi stava davanti leggermente inclinato sullo sfondo di Firenze: avevo forse toccato quell’origi­ne inconscia, che maturata nel tempo si era poi sviluppata nella Chiesa dell’Autostrada.

Poi la curiosità del vedere prese il posto alle parole, ma questa era una necessità anche per Lui; con agilità si alzò ed iniziò ad aprire una cassettiera di un contenitore a lato mostrandoci disegni, tanti disegni, progetti mai rea­lizzati, idee maturate, materiale che mai avrei pensato di vedere. Con affabilità inconsueta illustrava, in mezzo a tante carte, un piccolo plastico “Questa è la Chiesa di Longarone” e con la rapidità di un falco passò la mano sopra il modello togliendo il campanile “questo non va visto” continuò +‘Tho dovuto mettere per motivi ecclesiastici, ma que­sta è la chiesa dove si può camminare, sostare in ogni dove, partecipando all’assemblea dei credenti”.

Il tempo passava veloce, il sole calante illuminava radente Firenze, in cui già spuntavano le luci della sera “eccola là la città” disse “piena dei suoi problemi sempre più pesanti non vivibile, bisognerebbe organicamente rovesciarla: le strade una funzione meccanica, gli interni una funzione umana” aveva espresso un concetto urbanistico di fondo che andrebbe oggi indagato specie per le città d’arte.

Finì così quel pomeriggio, mentre la sera si impadroniva di ogni cosa. Per una sorta di circostanze il Maestro scese con noi a Firenze; doveva ripren­dere la macchina, lo accompagnammo al garage; come arrivammo, quegli uomuni di macchine in tute blu lo ac­colsero come un oracolo. Poi partimmo.

Incontrai altre volte negli anni il Ma­estro, in varie occasioni, in particolare a convegni e mostre, la Sua presenza dava prestigio: sempre qualcosa di nuovo c’era da scoprire, specie la sua nuova poetica con i metalli.

L’ultima volta che ebbi modo di in­contrarlo a Fiesole ero con Sergio; doveva essere rivisto il tabernacolo della Chiesa di Larderello secondo la nuova liturgia, ci recammo da Lui per avere il Suo pensiero.

Quantunque avanti negli anni, ricor­do che seduti nel solito soggiorno prese carta e matita e schematizzò l’idea dandoci riferimenti per il materiale. Ci complimentammo con Lui, per il suo stato di salute. Ci raccontò in proposito un simpatico aneddoto. Passati gli ottantacinque anni dovetti recarmi dal­l’oculista per misurarmi la vista per rin­novare la patente, il dottore vedendomi avanti negli anni cominciò a farmi leg­gere dalle lettere più grandi, allora scherzando dissi “Non si fa prima a leggere di fondo dalle più piccole?”. Da questa circostanza traspare l’integrità fi­sica dell’uomo accompagnata da una corretta lezione di vita.

Nel frattempo Leonardo Savioli era venuto meno, ed in quella circostanza mi venne spontaneo parlare della sua opera con il Maestro; Lui intuì che ero
stato suo allievo; con semplice schiettezza e serenità espresse il suo giudizio di stima, cosa che mi fece oltremodo piacere.

Quasi beffandosi di tutti il Maestro se n’è andato, le feste per i suoi cento anni sono state egualmente svolte, come era anche giusto fare, quale te­stimonianza ad un artista che nell’arco della sua lunga vita ha lasciato molte opere sulle quali tanto si è parlato e molto si dovrà ancora dire.

L’episodio di Larderello si sviluppa dopo gli anni cinquanta. Michelucci era sessantenne, nel pieno della maturità creativa ed intellettiva. Allora aveva già costruito importanti opere, ma quello che in certo qual modo lo eleverà oltre i confini nazionali dovrà ancora venire.

In quel tempo le fabbriche boracifere erano gestite dalla LARDERELLO S.p.A. Da poco era finito il conflitto mondiale, le tensioni politiche erano vivissime e sentite e anche nella nostra zona le forti contrapposizioni tra classi davano origine a posizioni faziose, riu­scendo talvolta a suscitare ulteriori di­visioni tra cittadini dello stesso ceto portando a tentativi inconsulti: basti ri­cordare l’ipotesi, poi fortunatamente fatta rientrare, di frazionare lo stesso Comune di Pomarance in due entità ge­ografiche ed amministrative.

In questo scenario, la nuova Ammi­nistrazione della fabbrica dava inizio al rinnovamento dell’azienda nel senso più ampio coinvolgendo l’edificato industria­le per nuove prospettive, ma contestualmente anche l’edificato civile e sociale.

E’ passato poco tempo per esprime­re un sereno giudizio sul ruolo che gli attori del momento recitarono; vi furono posizioni di Amministrazioni contrastan­ti, da cui probabilmente derivarono scelte che oggi, anche per una diversa organizzazione del complesso industria­le, manifestano segni di cedimento.

Interno della Chiesa di Larderello.
Prospettiva della Chiesa di Larderello.

Si poteva allora prevedere quanto stiamo vivendo: forse no; ma nel pen­siero dell’urbanista illuminato un timore passò; quel nostalgico rimpianto della mancanza di rapporto con gli operai mi appare oggi svelato, Michelucci disegnò Larderello residenziale al meglio delle concezioni urbanistiche e ne resta un esempio, ma involontariamente avulso dalla realtà territoriale dell’intorno.

Ne registriamo il fatto e la lezione con ragionata comprensione.

L’impostazione del villaggio residen­ziale viene pensato defilato dalla fabbri­ca vera e propria per motivi ambientali e salubri, vengono indicati i siti per i complessi pubblici, sociali, sportivi, re­ligiosi; vengono gerarchicamente ubicati i complessi residenziali, poi l’insieme or­ganicamente commisurato ad una via­bilità sinusoidale in virtù del declivio, piacevolmente raccordata da naturali sentieri pedonali, il tutto immerso nel verde. Michelucci assapora la natura, conosce i materiali, fa uso predominan­te della bianca pietra creandone un aspetto cromatico nei muri di contenimento o recinzione accompa­gnata da siepi di sempreverdi, ne leva la preziosità lavorandola per l’edificato.

La sua architettura è innovante per semplicità, negli interventi industriali come in quelli residenziali. Anche gli altri progettisti, per quanto abili, dovranno comunque riferirsi al suo linguaggio.

La diversità della Chiesa rispetto a
tutte le altre da Michelucci costruite, è voluta, ma allegra per questa valle così diversa, in cui sentirsi isolati ma felici.

Quando accompagnai Leonardo Savioli a visitarla per la prima volta, camminavamo lungo il deambulatorio felicemente coinvolti ed attratti dalla luminosità del corpo centrale geometri­camente invetriato; anche lui avvertiva questa sensazione diversa; in mistica penombra, quasi per avvalorarne la religiosità, è l’altare.

Michelucci costruisce la bella torre dei dirigenti, è un segno di città, benché grande, per la sua naturale piega mo­dellata al terreno appare così misurata e naturale, quasi un tronco d’albero semplicemente inghirlandato.

Tutti i piccoli villaggi residenziali costruiti all’epoca intorno alle fabbriche, subiscono l’influenza di Michelucci, sia nel linguaggio estetico che nell’uso dei materiali: ma l’esempio va oltre. I segni dell’architettura di Larderello diventano negli anni che seguono luogo comune per i costruttori locali; nei nostri paesi è facile leggere l’uso della bianca pietra per muri e per case, talvolta anche im­propriamente; si legge comunque uno sforzo qualitativo nella semplicità dell’edificato, ma soprattutto ha valore il senso del rispetto dell’ambiente nel­l’espansione dei centri urbani.

I segni dell’architettura restano nel tempo, tutelarli e conservarli è dovere civile delle generazioni: questi sono i te­stimoni dell’evoluzione e della civiltà dei popoli.

La bellezza delle nostre città, dei nostri borghi è soprattutto merito di architet­ture valide ed armoniose ove artisti hanno profuso la loro abilità ed estro in un rapporto dipendente con la natura d’intorno associando così ineluttabilmente ai luoghi il loro prestigio nel tempo.

In questa chiave di lettura dovrà Larderello, ove artisti come Michelucci hanno operato lasciando segni di subli­me qualità a testimonianza di un’epoca.

Dal nostro osservatorio, chiamati per professione ad operare in questi luoghi, abbiamo tutti il dovere di riflettere prima del fare, tenendo conto dei molteplici aspetti che stanno dietro al costruito sia esso piccola cosa che grande fabbrica, mirando sì all’utile e necessario ma anche alla qualità che diventa bellezza nel giusto rapporto tra forma, materiali e rispetto totale della natura: questa è la lezione che ci lascia Giovanni Michelucci.

Studio prospettivo della Chiesa di Sasso Pisano.

Florestano Bargelli

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.