“Levate le lenzuola, oggi si fa il bucato.” Con queste parole la massaia dava il via ad una operazione che, solitamente, impegnava le donne di casa per più giorni. Per prima cosa si provvedeva a bagnare i panni sporchi, quindi si sistemava, in un angolo della cucina, un “troppolo” di legno e su di esso si collocava la conca di terracotta; questa aveva, presso il fondo, un foro nel quale si inseriva il bucciolo o cannello, un pezzo di canna appositamente svuotato che, fasciato di stoppa, era infilato a forza nel foro e chiuso all’esterno con un tappo di sughero. Sul fondo della conca, inclinato a proteggere il foro di uscita, si poneva un testo “poco buono”, magari senza manico, poi si disponeva la biancheria, tenendo presente il principio di porre via via, dal basso verso l’alto, i panni sempre più sporchi. Così, cominciando dal fondo, l’ordine era, in genere, il seguente: prima le lenzuola, poi le federe, quindi le mutande, le camicie da donna e ancora asciugamani, asciughini e tovaglie e, infine, altri eventuali panni bianchi.
Su di essi veniva sistemato il “cenerone”, un telo di balla, sopra al quale si versavano tre o quattro secchi di cenere del focarile; molte volte, per aumentare la capienza della conca e per sostenere il “cenerone” si inserivano, fra la biancheria e le pareti interne, una serie di “schiappe” di legno che sporgevano, anche notevolmente, dal bordo superiore della conca. Intanto si scaldava l’acqua, in un paiolo grande, e la si versava sulla cenere: dapprima tiepida, poi sempre più calda ma non a bollore; quando cominciava ad uscire dal cannello essa veniva raccolta,
riscaldata sempre di più e versata nuovamente nella conca.
Questa operazione veniva ripetuta più volte, finché l’acqua estratta dal fondo era ormai calda ed aveva assunto una colorazione tra il giallo ed il marrone chiaro: ciò significava che il ranno era pronto; allora lo si faceva bollire e, dopo aver inserito il tappo di sughero nel cannello, si versava nuovamente nella conca. Ora non restava che coprire la cenere, ripiegando su di essa le estremità del telo, e lasciar riposare il bucato fino all’indomani. La mattina seguente si recuperava tutto il ranno dalla conca e lo si raccoglieva in secchi per riutilizzarlo; con una paletta si provvedeva a raccogliere la cenere quindi, dopo aver tolto il cenerono, si prendevano i panni, si ponevano nella “paniere” di vimini o nei graticci e si andavano a lavare ai lavatoi, dove venivano spazzolati, sciacquati e strizzati accuratamente. Con cura venivano stesi ad un filo teso fra piante o pali in un posto soleggiato e ventilato oppure sopra ai cespugli e, in estate, direttamente sull’erba; se tirava vento, i capi tesi sopra ai cespugli venivano fermati legandone alcuni lembi ai rametti.
Il ranno raccolto era usato per lavare i panni colorati, gli indumenti di lana ed era efficace, dato l’alto contenuto di carbonato di potassio, magnesio, calcio e silice, anche come detersivo per rigovernare e togliere l’unto dai tegami; molte donne, inoltre, lo usavano per lavarsi i capelli.
Laura