LA PREPARAZIONE NELLA TRADIZIONE CONTADINA
Nell’alimentazione contadina il pane era il cibo assoluto, il nutrimento per eccellenza. Tutti gli altri cibi si riassumevano in una sola parola “companatico” a ribadire il loro carattere secondario, in quanto non indispensabili e non sempre disponibili.
Questa situazione si è saldamente radicata attraverso i secoli tanto che, in un mondo ormai regno del “companatico”, il pane rimane per molti un punto di riferimento dell’alimentazione quotidiana, certo più per abitudine che per reale bisogno nutritivo.
Di norma nella tradizione contadina il pane si preparava una volta alla settimana o per meglio dire “ogni otto giorni”.Per una decina di persone occorreva cuocere circa venti pani alla volta, per lo più rotondi e del peso di due chili ciascuno. Il giorno precedente si preparava la legna necessaria per scaldare il forno e alla sera si metteva il lievito a rinvenire nell’acqua poiché gli otto giorni trascorsi sotto al “monticino” della farina in un angolo della madia, lo avevano indurito. La mattina seguente di buon’ora si scaldava l’acqua necessaria nel paiolo di rame, quindi si prelevava dal cassone la farina occorrente che si stacciava nella madia facendo scorrere lo staccio su di un piedistallo di legno chiamato “reggistaccio”.
L’acqua calda si stemperava in una pentola con altra fredda sgorgata dal brocco e la si versava un po’ per volta sulla farina distesa nella madia cominciando ad impastare attorno al lievito.
Lavorando con le mani si continuava ad amalgamare l’impasto fino a che, ottenuta la necessaria consistenza, si procedeva a staccare da esso le forme dosate a vista che venivano ulteriormente lavorate una ad una sulla “spianatoia” e poi deposte su una tavola di legno ricoperta da un telo spolverizzato di farina. Tra una forma e l’altra si faceva una piega ondulata al telo quindi si posava l’orlo di un bicchiere su ogni pane lasciando un’impronta che si riteneva favorisse la lievitazione. A questo punto si copriva il tutto con un lembo del telo lasciato ciondoloni; se faceva freddo si usava anche una coperta di lana e si provvedeva a riscaldare l’ambiente con un braciere posto sotto la tavola. Quando le forme cominciavano a lievitare si procedeva a scaldare il forno. Si bruciavano più o meno rapidamente alcune fascine di legna fine finché le lastre laterali accennavano a un colore biancastro, a questo punto si mandava la brace tutta da un lato usando una pertica e si spazzava il forno con lo “spazzolo”, infine si faceva “cascare la bronza” cioè si verificava la temperatura del forno introducendovi alcuni rametti di frasca: quando le foglie non annerivano voleva dire che era il momento giusto per infornare il pane.
Sollevando il telo si rovesciavano le forme una ad una su di una mestola e da questa sulla pala poggiata vicino alla bocca del forno, quindi si deponevano all’interno del forno disponendole di rigiro a cominciare dal punto più lontano dalla brace; in questo modo si bilanciava il calore per la cottura.
Quando in casa c’era una donna che aveva da partorire si faceva un panino per prevedere il sesso del nascituro: se si spaccava, si diceva sarebbe stata una femmina, se rimaneva intero si prevedeva la nascita di un maschio.
Dopo circa mezz’ora si apriva il forno e si rovesciavano velocemente tutti i pani per farli cuocere da entrambi i lati; un’ora era di solito sufficiente per completare la cottura.
A questo punto si estraevano i pani dal forno con la stessa pala usata per infornarli e con lo spazzolino di saggina si toglievano la cenere, la farina ed i pezzetti di carbone rimasti eventualmente attaccati alla crosta, quindi si disponevano ritti sulla tavola appoggiati gli uni agli altri e, una volta raffreddati, si riponevano nella madia.
Quasi sempre si sfruttava il calore del forno per altre necessità: cuocere la schiaccia, le mele, fare le bruciate, seccare i fichi, ecc.
Fra i riti collegati col pane c’era l’idea di non rovesciarlo sul tavolino “sennò” si diceva “un fa mai buio” intendendo il buio come momento di riposo dopo una lunga giornata di lavoro, le parole di questo canto toscano ci paiono, a questo proposito, particolarmente significative:
Tramonta sole per l’amor di Dio
ché se un sei stracco te so’ stracco io
Tramonta sole per l’amor dé Santi,
chè se un sei stracco te n’hai stracchi
tanti!
Laura