Attraverso le memorie di chi, per gran parte della sua vita ha vissuto in un podere, abbiamo cercato di ricostruire, anche se in modo molto parziale, ambienti, abitudini ed usi a testimonianza di un passato che distano dall’oggi solo qualche decennio ma che le grandi trasformazioni hanno reso molto più remoti. La maggior parte delle dimore rurali situate nelle nostre campagne, in quanto frutto di un’architettura spontanea, sono nate senza un progetto e si sono modellate protempore a seconda delle necessità. Gli spazi, specie quelli abitativi, erano organizzati funzionalmente e ruotavano tutti intorno alla cucina, vero cuore della casa, anzi “casa” per antonomasia.

Elemento fondamentale della cucina era il focolare, situato su un piano rialzato e contornato da panche di legno dove ci si sedeva d’inverno per riscaldarsi attorno al fuoco. Queste ultime, all’occorrenza si potevano usare come letti di fortuna quando capitava di ospitare per la notte persone di passaggio, per lo più carbonai o venditori ambulanti; in questi casi si poneva sopra ciascuna panca una balla riempita con la paglia detta “rapazzola” , a mo’ di materasso.

Dal camino pendeva una catena con un gancio, anneriti dal fumo, che servivano per appendervi il paiolo di rame o il calderotto per l’acqua. Vicino al focolare si trovavano due alari in ferro battuto, la paletta, le molle ed un granatino di saggina. Appesi alle pareti stavano la cassetta con il sale e vari treppiedi per arrostire il cibo; sotto alle panche si teneva la legna e, una volta usato, vi si riponeva il reggipadelle. Per cucinare si usavano anche i fornelli a carbone che, in alcuni casi, si trovavano incorporati nella struttura del focolare, in altri erano posti su un’altra parete, di solito vicino all’acquaio. Sopra all’acquaio stavano la catinella, la brocca (senza beccuccio) ed il brocco (con il beccuccio) ambedue di rame, quest’ultimo conteneva l’acqua potabile, quando era vuoto si andava in cantina e si riempiva al coppo di terracotta, servendosi di una tazza e di un imbuto, tenuti a portata di mano, sul piatto che solitamente si usava per coprire l’apertura del coppo. Quando anche questo era vuoto si andava a prendere l’acqua ad una fonte con le “barlette” di legno caricate sulla cavalla. Sotto l’acquaio c’erano il catino per rigovernare, il paiolo, il calderotto e i secchi con gli scarti di cibo per il maiale e le galline; l’apertura era di solito coperta con una tenda. Appesa al muro, al di sopra dell’acquaio vi era la piattaia dove si riponevano i piatti, i coperchi delle pentole e qualche zuppiera di modeste dimensioni. I tegami con i manici venivano appesi ai ganci dell’attaccapanni, mobiletto pensile di minimo ingombro ma di grande funzionalità, dal quale sporgevano in alto ed in basso due mensole, sulla prima si mettevano le pentole più grandi, capovolte; sulla seconda, che terminava con una piccola sponda, si riponevano i bicchieri di tutti i giorni, anch’essi capovolti.
Altro oggetto importantissimo della cucina era la madia, essa era usata come piano di lavoro per fare il pane inoltre, al suo interno vi si conservava il pane cotto edlievito ricoperto di farina. Nei cassetti si tenevano i fusi, i gomitoli di lana, la tovaglia ed i teli del pane. Nella parte bassa, chiusa da due sportelli, si riponevano, tra le altre cose, i fiaschi con l’olio e l’aceto. Oltre alla madia, in alcuni poderi, si trovava anche un cassone dove si conservava la farina e tutti quegli utensili che con essa avevano qualche relazione: staccio, capretta (reggistaccio), maccheronaio, ecc.

Incavati all’interno delle spesse mura sitrovavano di frequente delle scaffalature chiuse con tende, che servivano da disensa. Sulle relative tavole si ponevano i fiaschi del vino, il fiasco dell’olio per i lumi, il lume ad olio, il lume a cantino (petrolio) e la lanterna ad olio per la stalla, la bugia ed il lanternino per andare a veglia quando non c’era la luna, i barattoli di grano ed orzo tostati, i barattoli di marmellata ed i barattoli di terra con i pomodori sotto sale, i sacchetti di stoffa con i ceci ed i fagioli, olive e fichi secchi. Per terra senza una precisa collocazione si trovava talvolta una grossa ciotola di legno detta “boriglia” che conteneva la semola, in essa, quando era l’ora di coricarsi, le donne infilavano le rocche con la lana o il lino perchè stessero ben dritte.

Dietro la porta d’ingresso si tenevano la granata di saggina e la “cassetta” di legno. Al centro della stanza stava il grande tavolo e nel senso della lunghezza vi erano una o due panche e qualche seggiola impagliata.
Gran parte dei pasti quando il tempo lo permetteva, erano consumati all’aperto, in questo caso spesso non si usavano i piatti ma si mangiava direttamente dal tegame e si beveva ad un solo bicchiere o a “garganella” direttamente dal fiasco. Se i pasti erano fatti a casa si apparecchiava sempre la tavola con la tovaglia bianca di “rinfranto” , si mettevano i cucchiai, le forchette, non si usavano invece i coltelli poiché ogni contadino ne aveva uno tascabile.

Dopo la cena le donne facevano le faccende e gli uomini andavano a veglia o ricevevano i vegliarini. Durante la veglia gli uomini giocavano a carte e bevevano qualche bicchiere di vino, mentre le donne si tenevano occupate filando, facendo la calza, rammendando, poiché il loro stare con le “mani in mano” sarebbe stato motivo di biasimo. Presso alcune famiglie, al sabato sera, le donne, a turno, lavavano e ungevano con il grasso di maiale (sugna) le scarpe di cuoio e di vacchetta di tutti i familiari; e mentre si lavorava e si giocava, talvolta qualcuno raccontava storie e novelle oppure si parlava del raccolto, delle bestie, di argomenti insomma legati alla vita quotidiana.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.