Montecatini Val di Cecina è uno di quei
paesi che, per la conformazione urbanistica ed architettonica ancora molto bene
conservate, meriterebbe una maggiore attenzione e quindi un maggiore riguardo
da parte di chi cura e tutela il patrimonio dei beni monumentali.
Posto su di uno sperone di roccia subvulcanica
del Pliocene medio, Montecatini V.C. domina tutte le strade della vallata,
posto a cavaliere tra il Monte Volterrano e le Rocche di Miemo, al limite
settentrionale della Catena delle Metallifere, dalle quali resta diviso dal
fiume Cecina per effetto delle grandi faglie che interessarono il territorio
nelle fasi successive al Miocene superiore.
rilievi di Montecatini V.C. diventarono promontori avanzati della grande laguna che si formò con la sommersione della intera Val di Cecina, conseguente ad una intensa attività tettonica che determinò lo sprofondamento del suolo ove si accumularono i sedimenti di argilla e quelli di salgemma, per effetto della fase evaporitica di acque poco profonde del mare. Con il ritiro delle acque marine e l’assestamento del cordone litoraneo, Montecatini V.C., già importante sotto il profilo strategico per l’affacciarsi sulla estesa vallata del Cecina, sede quest’ultima di antichissimi insediamenti preetruschi e villanoviani, si sviluppò intorno agli anni 1000 quale borgo fortificato, come risulta dalla documentazione storiografica dai cui testi si assume che il borgo, chiamato allora Monte Leone, era di proprietà del Vescovo Pietro di Volterra il quale vi esercitava l’autorità religiosa, essendo soggetto, il paese, alla Pieve di Gabbreto.
23 luglio 1109 certo Ranieri detto “Malconte” cedette alla Chiesa Volterrana tutti i privilegi allora posseduti in Montecatini. Tuttavia, seppure non esista documentazione storica, nè vi siano reperti di epoca più antica, vi è da presupporre che Montecatini V.C. sia stata una rocca fortificata anche in epoca romana per la denominazione dal nome latino (Catignano, Catinus), già importante storicamente per un prestigio militare che andò conquistando quale baluardo a difesa della penetrazione barbarica.
Nella piana sottostante, subito a ridosso della pendice dell’Arzignano, sembra infatti che nel 306 avanti Cristo, una intera legione romana vi abbia stazionato per oltre dieci anni, quanto infatti è durato l’assedio di Volterra, caduta in mano di Roma nel 296 a.C.. Narra Targioni Tozzetti nel suo libro “Viaggi in Toscana” che i contadini del luogo hanno trovato nell’arare l’esteso pianoro, molte ossa umane e “ferramenti” per una battaglia che lì sarebbe avvenuta tra romani e volterrani. Detto pianoro è denominato infatti “Capo Romano”.
Il 6 maggio 1226, col beneplacido di Federigo
II, il Vescovo conte si impegna a dare al Comune di Volterra e al Podestà
“l’oste e la cavalcatura, salvo il diritto del Vescovo ad andare in guerra
quando lo volesse per la difesa del suo feudo e del suo territorio”.
Nel 1316 nei pressi di Montecatini V.C.
fu combattuta una battaglia fra Pisa e Volterra, vinta dai Pisani che imposero
ai vinti una convenzione sui diritti che Pisa avrebbe esercitato sul teritorio
del Vescovo conte.
Nel 1350 Montecatini V.C. è di proprietà
dei Beiforti i quali istituirono il presidio del Castello con una forte
guarnigione di soldati.
La fine delle Signorie prima, e la
conquista da parte dei fiorentini della città di Volterra, avvenuta con il
famoso sacco del 1472, posero il borgo sotto il dominio medicee sino
all’avvento degli Asburgo Lorena al trono di Toscana.
La comunità di Montecatini, costituita da Leopoldo I il 29 settembre 1774 a seguito di riforma dell’ordinamento amministrativo del granducato, venne a comprendere ben cinque frazioni: Montecatini, Gello, Querceto, Sassa e Mazzolla. Durante la dominazione francese (1807-1814) la comunità di Montecatini fu sottoposta alle dipendenze della sottoprefettura di Volterra ed anche con la successiva restaurazione granducale, continuò a far parte della cancelleria volterrana. Nel 1833 Mazzolla passò a Volterra e Miemo, tolto al comune di Lajatico, andò a far parte di quello di Montecatini V.C.
Montecatini, in questo periodo, non solo fu particolarmente
celebre per le attività delle miniere del rame, già attive sotto il dominio
mediceo ed ancora in piena efficienza, ma anche per la produzione del miele,
il cui gusto, particolarmente squisito, pare fosse dovuto ai fiori di
lupinella selvatica, tuttora abbondanti in quella zona.
Nel 1876 il Comune di Montecatini V.C. aveva una rendita di
lire 499.040,07 e contava ben quattro scuole pubbliche con 206 scolari ed una
scuola privata (maschile) con 36 allievi. La popolazione del Comune era di
4304 abitanti, di cui 2361 residenti nel capoluogo.
Anche la documentazione storica dei numerosi monumenti
architettonici è scarsa, seppure il borgo ne conservi ancora numerose
testimonianze.
Ne sono esempio la “Rocca” su cui risaltava vistosamente
la poderosa Torre Beiforti che domina il paese, le mura lungo le quali sale la
strada che conduce alla Chiesa intitolata a San Biagio, la bellissima
Piazzetta che risale al XIV secolo e che già appare nel catalogo del sinodo
diocesano di Volterra del 1356, dove figura subito dopo la Chiesa di Gabbreto
dalla quale dipendeva.
Fatto eccezionale e solo giustificabile con inderogabili
esigenze di natura urbanistica, la Chiesa in stile romanico non ha la facciata
volta a ponente, rimanendo però tale fino al XVI secolo, quando la facciata
della chiesa venne assorbita dalla Canonica e venne aperto l’attuale ingresso
laterale mediante l’abolizione di un altare della navata di sinistra.
Fu proprio sul finire del XVI secolo che la Chiesa di San
Biagio fu oggetto di accesi contrasti tra gli abitanti di Montecatini V.C. e
quelli di Gabbreto per la nomina del rettore, la cui controversia fu vinta dai
montecatinesi.
Il campanile, anch’esso in stile romanico, fu eretto verso
la metà del XV secolo, prima ancora che la chiesa fosse elevata a Pievania
(1467).
Suggestiva la parte alta e più antica del borgo, ancora
interamente mantenuta nello stile medioevale e recentemente restaurata. Sono
ancora visibili due torricelle perimetrali del borgo, le cisterne, la ricostruzione
della cinta muraria, le porte, i vicoli, i chiassi ed anche il piccolo
cimitero. Notevoli i complessi architettonici di Burlano, antico feudo dei
Saracini di Pisa, poi proprietà Incontri, Rocheforted ora Carmignani, quello
della “Miniera”, l’antica località di Caporciano, con il palazzo degli uffici
della “Montecatini”, l’ingresso alle gallerie e la torre di aereazione e pozzo,
nella cui località Ermanno Olmi girò la scena della nascita di Gesù nel film
“Cammina cammina”.
Ancora ben tenuta, ma chiusa al culto, la chiesetta di
Caporciano, che pone in mostra una formella di maiolica di probabile
produzione Della Robbia. Notevoli anche gli apprestamenti architettonici delle
miniere, in cui ancora campeggia intatta, con un originalissimo disegno, la
guardiola delle sentinelle.
Rimangono, nel palazzo della “Miniera” prossimo alla
chiesetta, i resti e le attrezzature di un bel teatro che ha funzionato fino
al 1925.
Notevole anche il complesso antico di Casaglia, acquistata per metà dal Vescovo Conte di Volterra, che rilevò dalla proprietà del conte Ugo nel 1115.
Gabbreto fu un borgo antico, ora distrutto, il cui nome è rimasto ad una località situata a nord di Montecatini V.C., lungo la rotabile che sale dalla Sarzanese-Valdera.
Gabbreto fu castello che Enrico VI nel 1186 concesse in
feudo a Ildebrando dei Pannocchieschi Vescovo di Volterra. Il castello fu
distrutto dopo la battaglia del 1316 tra pisani e volterrani, ai quali ultimi
fu imposta la distruzione unitamente a quella del castello di Miemo di cui
rimangono ancora le imponenti rovine.
Gello è un borgo ormai abbandonato, ma ancora abitato da un
custode al servizio dei nuovi proprietari che vengono ad abitarvi durante il
periodo estivo o nei periodi di fine settimana. Gello è un piccolissimo borgo
dell’epoca medioevale, ed è forse la località di “Agello” che Walfredo, nell’anno
di fondazione della Badia di San Pietro in Palazzuolo di Monteverdi avvenuta
nel 754, cita per il possesso in quel borgo di una casa colonica.
Bella anche la piazza principale del capoluogo la quale,
purtroppo, ha perduto l’antica pavimentazione in pietra arenaria grigia, che
ritroviamo anche nelle costruzioni dei palazzi e che il Tozzetti reputa molto
simile alla “pietra serena della Golfina, della quale ha il medesimo difetto
di sfarinarsi se posta lungo tempo allo scoperto”.
Tale pietra è caratteristica del luogo ed è stata ricavata
da una cava a mezzogiorno del monte in località San Marco, ora completamente
in disuso.
Sovrastano la piazza la torre e la parte più antica del borgo, issata sulla punta di un costone che guarda il versante volterrano. Caratteristico anche il borgo di Ligia, una volta densamente popolato ed ora cadente nella parte più antica, già sede di imponenti costruzioni ormai in rovina. Degni di citazione la fonte del “Leone”, di recente restaurata, “Vallibuia”, una conca boscata esposta a nord dove non giugne mai la luce solare ed il castello dell’ “Aitora” abbastanza bene conservato. Domina il paesaggio la grande croce in legno issata sulla punta del monte che ne ha preso il nome (Monte alla Croce) dal quale nascono il Botro Grande, una volta habitat della lontra, e quello della Macinala, il corso d’acqua arbitrariamente deviato verso la Valdera per le necessità delle campagne adiacenti, proprietà una volta dei Gotti Lega, e già regno di grossissimi granchi che popolavano l’alto corso del fiume.
L’economia di Montecatini V.C. fu fiorente fino alla chiusura della Miniera del Rame che avvenne intorno agli anni 1911-1912 dopo una serie di grandi scioperi conseguenti la caduta della importanza della economia estrattiva, a seguito dell’apertura di altre miniere più ricche di minerale che misero in crisi l’escavazione del rame toscano.
Montecatini V.C. fu la sede in cui si costituì il grande complesso chimico, l’attuale Montedison, una volta denominato Montecatini S.p.A., il cui presidente Guido Donegani, fu spesso ospite del paese.
Oggi Montecatini Val di Cecina, è un comune in decadenza,
con una economia mista ed una popolazione che invecchia sempre più, per la
partenza dei giovani verso altri luoghi di maggiore possibilità di occupazione.
Un borgo tranquillo, costituito in massima parte da
pensionati al minimo o piccoli proprietari di terra e luogo ormai di conquista
degli stranieri, i quali comprano e restaurano i vecchi poderi vuoti ed abbandonati.
Un paese nel quale il tempo sembra si sia fermato
fissandosi nella immobilità dei suoi monumenti, nell’ombra della pietra grigia
che ancora adorna la torre e le costruzioni del vecchio paese, quali sentinelle
solitarie poste a guardia della sua storia e del suo passato.
Una storia minore forse, legata a personaggi sottomessi ai possenti del Castello, sotto il vincolo religioso del vescovo conte o soggiogati dalla tirannia dei Beiforti. Ma anche una storia di gente saggia e consapevole di quella semplicità con la quale ha amministrato i suoi trascorsi storicopolitici ed anche la cronaca dei fatti più recenti e contemporanei, ancora legati a quei valori di vita che sedimentano e tengono vivi i motivi di convivenza e solidarietà tra la gente, al riparo quasi dei terribili problemi che insorgono tra le concentrazioni di popolazione dei grandi agglomerati urbani.
Percorrendo la tortuosa strada
provinciale che, abbarbicata sui filoni di gabbro, da Pomarance sale verso la
sella di Montecerboli, l’occhio viene attratto, sulla destra, da una
costruzione diroccata di pietra chiara in cima a una collina boscosa. È questo
quanto rimane dell’eremo di S. Michele delle Formiche che, dal 1300 alla fine
del ‘700, costituì per molti ammalati una luce di speranza e di guarigione.
Fu il lontano 31 di maggio del 1377 infatti che il pievano di Morba fece istanza al Comune di Volterra perché fosse approvata la costruzione di un convento sulla cima del colle sopra il Botro delle Vignacce; l’istanza venne accolta e il convento, affidato ai padri Celestini di S. Michele Visdomini di Firenze, fu dedicato a S. Michele Arcangiolo. E i monaci che ivi si riunirono in vita eremitica si imposero lo scopo di curare i malati, in particolare i lebbrosi e gli artritici, e di sovraintendere al mantenimento di un antico bagno le cui acque avevano virtù salutari per quelle malattie.
Il bagno, che era già molto noto col nome di Spartaciano o Spartacciano (così è indicato in un documento del 1266), si trovava nel fondo della valle che separa gli attuali Gabbri del Conte dalla Porcareccia del Cerale: proprio dove il Fosso di Radicagnoli e il Botro delle Vignacce si uniscono per dare origine al Fosso di S. Michele. Il nome di questo bagno è di chiara origine romana: infatti le terre divise fra i veterani dell’impero prendevano il nome del veterano a cui erano state assegnate: Ager Spartacianus potrebbe tradursi « Terra Spartaciana » o « di Spartaco »; e probabilmente le sorgenti calde di questo bagno, assieme a quelle di Morba e della Perla, facevano parte, durante l’epoca imperiale romana, del complesso delle « Aquae Volaterranae » (come dire «Le Terme di Volterra ») riportato dal più antico documento geografico che si conosca, la cosiddetta Tavola Peutingeriana.
Il lazzeretto
I Monaci Celestini, dunque, restaurarono, con molta probabilità, i resti del bagno romano, vi aggiunsero un edifìcio per ospitare i malati — una specie di piccolo lazzeretto — e costruirono alcune vasche in pietra dove l’acqua termale poteva raccogliersi rapidamente per permettere ai lebbrosi e agli altri ammalati di bagnarvisi. E anche il bagno così sistemato fu dedicato all’Arcangiolo San Michele.
La notorietà delle virtù terapeutiche del Bagno di San Michele non mancò di attirare sul luogo, oltre che una folta schiera di sofferenti (si parla di più di 300 persone che ogni anno venivano a S. Michele a « passar l’acqua»), anche insigni naturalisti che esaminarono le sorgenti, ne descrissero le caratteristiche, ne fecero una seppur sommaria analisi. Domenico BianchelIi da Faenza (Mengo Faentino) e Gabriele Falloppio attorno al 1550, Giovanni Targioni Tozzetti nel 1742, dedicarono accurati studi al Bagno di S. Michele; e nei secoli XV e XVII, e attorno al 1740, si provvide a restaurarne gli edilìzi. I ruderi La fama dell’Eremo, che all’epoca del suo maggior splendore era costituito da una chiesa, oltre che dal fabbricato ad uso di convento, andò declinando verso la fine del 1700. A quell’epoca le ingiurie del tempo cominciarono alarsi senijre;lsui vetusta Bapia sfì apriron una parte del uri della crepe; I padri e e nel ia della dell’800 e, poco chiò Celestini fulono tichiamatìa Firen 1870 era rimasto sufluogo a pasto chiesa un solo la chiesa e il c dopo, franò an abitata clall’ulti così completale rimangano irf piedi c in pie&a della bili i contraffar Il bagno, invece quenfato, dolori’ artritici quasi gitani cui la menti fermarne decretò sura.
ll panorama
Il poggio di S.Michele, oltre che i suoi ricordi storici, offre ai visitatori un magnifico panorama che si estende dai monti della Cornata e della Carlina, verso Siena, a Montecastelli, alla Rocca Sillana su fino alla Val d’Elsa e giornate se le Apuane e verso occidente la vista può spaziare fino al mare Tirreno. Nelle immediate vicinanze, invece, lo sguardo si perde sulle macchie fìtte che coprono i poggi verso S. Ippolito e attorno alla Valle del Cecina, mentre a sud spiccano i bianchi fumi delle sette torri refrigeranti di Larderello.
Vicino ai
muri della vecchia abbazia, sulla cima pianeggiante del poggio, sono spuntati
ciuffi radi di arbusti che creano un’ambiente ombroso e piacevole, mentre il
prato raso che ricopre il terreno costituisce un morbido tappeto per chi voglia
scegliere il poggio di S. Michele come meta di una scampagnata.
La Badia
La Badia di S. Michele ha le sue brave leggende: una racconta che il 29 settembre di ogni anno, giorno della dedicazione a S. Michele Arcangelo, comparivano sul tetto e sul campanile della chiesa una grande quantità di formiche alate che in breve tempo morivano. Da qui l’appellativo di S. Michele delle Formiche; ma non basta: quando la chiesa della Badia fu in avanzato stato di rovina, se ne trasportò una campana sulla torre del Palazzo Pretorio di Pomarance. E si dice che da allora, nella stessa data del 29 settembre, le formiche alate si posino appunto su quella torre. Agli amici pomarancini il compito di controllare quanto ci sia di vero in questa storia.
Un’altra leggenda racconta che una volta
una campana della badia si staccò dal campanile e, rotolando giù per la collina,
cadde nel botro. Ma non si fermò sul greto: seguitò a sprofondare scavando
nella roccia un pozzo profondissimo che poi si riempì d’acqua. Ed aggiunge che
talvolta, dal bordo del pozzo, si sentono ancora i rintocchi della campana di
S. Michele che giace sul fondo.
Il fascino della favola è alimentato dal posto veramente suggestivo dove si trova il cosiddetto «pozzo della campana». Questo è, in effetti, una profonda camera quasi circolare dalle pareti di pietra liscia, nel letto del Fosso di S. Michele; la sua apertura superiore è quasi nascosta dai fìtti arbusti della macchia; l’acqua vi cade da una cascatella alta poco più di tre metri ed è diffìcile apprezzare a vista quanto la cavità sia profonda. Da una spaccatura longitudinale della roccia verso nord l’acqua decanta poi nel letto basso del torrente che prosegue il suo corso.
P. L. Pellegrini
Come Arrivarci.
con mezzo proprio:
Percorrere la provinciale Massetana verso Pomarance fino al
bivio per S. IpDolito in località Croce del Masso (sopra Montecerboli) (Km.
2,200); quindi prendere, sulla sinistra, la strada per S. Ippolito e piegare a
destra al segnale indicatore per «Le Vignacce» (Km. 1,550); arrivati al podere
«Le Vignacce» (il primo che si trova), fermarsi e lasciare il veicolo (Km.
1,550). Quindi procedere a piedi per la mulattiera oltre il podere che sale
verso S. Michele, finché non si trovi, sulla destra, un cancello di legno;
passare il cancello e seguire il sentiero che da qui si parte fino ai ruderi
della Badia; poco prima di giungervi, sulla sinistra, i resti della capanna dell’ultimo
eremita. Percorso a piedi: 600 metri (circa 15 minuti).
Volendosi raggiungere il vecchio Bagno (ora ridotto a casa
colonica) si può scendere dalla Badia per la stessa mulattiera e, arrivati al
bivio per «Le Vignacce», proseguire a sinistra scendendo ancora intorno al
poggio per circa 800 metri (altri 15 minuti). Durante il percorso, circa 200
metri dopo il bivio, sulla sinistra, si possono scorgere i resti di un’antica
miniera di rame, costituiti da una lunga galleria, ora parzialmente allagata,
che si perde nella roccia; davanti all’imbocco è stata costruita una grossa
vasca per permettere all’acqua di rimanervi a un livello di circa mezzo metro.
La strada è asfaltata fino al bivio per S. Ippolito; il
resto, senza rivestimento antipolvere, è in buone condizioni.
con mezzi pubblici:
Autoservizio SITA da Larderello al
Madonnino dei Gabbri; quivi si prosegue a piedi per la ripida discesa che si diparte
dalla provinciale verso il fondo valle. A 450 metri (10 minuti di cammino) si
trova il Bagno di S. Michele (ora casa colonica) con il caratteristico ponte
coperto sul botro e i locali con le vasche in pietra per i bagni. Si guada il
botro e si prende la mulattiera che sale attorno al poggio di S. Michele;
percorso fino alla Badia: circa 1400 metri (40 minuti). Durante il percorso,
circa 600 metri dopo il bagno, si possono scorgere sulla destra i resti
dell’antica miniera di rame abbandonata.
Chi desideri visitare il « Pozzo della
Campana » può recarvisi scendendo da un sentiero molto ripido che si parte
dalla strada fra il Madonnino dei Gabbri e il Bagno di S. Michele, circa 100
metri prima del Bagno; dopo 30-40 metri di percorso (5 minuti) si arriva sul
greto del torrente proprio di fronte all’apertura nord del pozzo. Si consiglia
di munirsi di scarpe adatte, possibilmente con suola di gomma.
Nel mondo esistono numerose aree in cui si verificano manifestazioni geotermiche, cioè dove avvengono naturali fuoriuscite di vapore dal suolo. Quelle più note si trovano in Italia, in Islanda, in Giappone, nel Messico, in Nuova Zelanda, nelle Filippine, in Indonesia e nel Tibet. In Italia si trovano in varie località, ma l’area principale è quella che della zona di Orvieto, passando per il Monte Amiata, si estende fino a Larderello e Radicondoli, interessando così parte delle province di Terni, Grosseto, Pisa e Siena.
Centrali di Larderello (1970).
Il viaggiatore che percorra la tortuosa e panoramica strada
che da Volterra conduce a Larderello, avvertirà nell’aria un progressivo
aumentare di un inconfondibile odore di uova marce: è l’idrogeno solforato che
emana dalle viscere della terra insieme al vapore acqueo dei soffioni di
questa dimenticata parte della Toscana. Vedrà un sempre più esteso diramarsi di
grosse tubazioni che, attraverso la campagna, convogliano, dai pozzi perforati
profondamente, il vapore naturale, alle centrali elettriche.
CENNO STORICO
Emanazioni di vapore e sorgenti di acque calde sono sempre
esistite in questa zona; infatti in una mappa risaliente al III secolo d.C., i
Romani indicavano quest’area col termine di “acquae volaterranae”. Una riproduzione
di detta carta si può vedere nel museo storico di Larderello. Oggi, in tutta
questa zona, esistono soltanto due o tre punti in cui si verifica dal suolo
emanazione superficiale spontanea di vapore, in quanto detto fluido si trova
generalmente nelle profondità del terreno.
Poiché detto vapore, oltre a varie sostanze chimiche,
contiene anche una buona percentuale di acido borico, nel secolo scorso veniva
usato esclusivamente per estrarvi tale prodotto. Le emanazioni di vapore
venivano fatte gorgogliare in grandi pozze, le cui acque fangose venivano
tenute in ebollizione violenta dal vapore stesso. Erano i cosiddetti “Lagoni”
le acque dei quali venivano pertanto ad arricchirsi di acido borico. La
concentrazione di esso veniva effettuata in modo rudimentale con delle semplici
caldaie scaldate a legna.
Per ovviare alle numerose difficoltà e rendere più
economica la produzione, detti bacini furono coperti con una cupola in muratura
in modo da raccogliere il vapore che aveva depositato l’acido borico nell’acqua
e poterlo convogliare, tramite tubazioni di terra cotta, sotto alle caldaie ed
impiegare così, per la concentrazione delle acque boriche, il vapore anziché
la legna. Questa struttura veniva chiamata “lagone coperto”. Lo sfruttamento
a carattere industriale fu iniziato nel 1818 da un certo Francesco De Larderei
(dal quale poi la località prese il nome) che fondò una società alla quale nel
1913 se ne aggiunsero altre che successivamente si fusero in un’unica azienda.
Attualmente, dal punto di vista economico, non è
conveniente utilizzare il vapore naturale per estrarvi prodotti chimici,
pertanto esso viene impiegato principalmente per la produzione di energia
elettrica. Il primo esperimento di questo genere, fu effettuato nel 1904,
mettendo in azione un piccolo generatore che si trova esposto nel
sopramenzionato museo di Larderello. E’ interessante segnalare che al tempo dei
Romani, ma anche nel secolo scorso, le sorgenti termali della nostra zona
venivano frequentate per la cura dei dolori reumatici, delle affezioni della
pelle e delle vie digerenti. Lo stesso Granduca di Toscana, per curarsi la
gotta, era solito recarsi con la sua corte, alle terme de “La Perla”, od a
quelle di Bagno al Morbo. Oggi dette salutari sorgenti sono pressoché
ignorate.
SFRUTTAMENTO ATTUALE
Ai nostri giorni, in tutta la
vasta area di cui abbiamo parlato, che è la più estesa e la più importante del
mondo di questo genere, vi sono installate numerose centrali elettriche che
producono annualmente, senza interruzioni, circa 3 miliardi di chilowattora di
energia elettrica ad un costo molto basso. Poiché per produrre elettricità,
non tutto il vapore naturale è adatto, in quanto, se non possiede le dovute
caratteristiche di temperatura, di pressione, ecc., non è utilizzabile per
tale scopo, avviene pertanto che una parte di esso non venga inviato nelle
centrali, perciò risulta preferibile sfruttarlo per altri usi, come teleriscaldamento
per le abitazioni di Larderello e Castelnuovo, nonché per serre in varie zone,
tra le quali, oltre a quelle tradizionali di Castelnuovo, S.Dalmazio e
Larderello, anche quella dell’Amiata dove sono state costruite serre con una
superficie coperta di 23 ettari.
CONCLUSIONE
Da quanto abbiamo succintamente esposto, risulta evidente
che la nostra zona racchiuderebbe una grossa fonte di lavoro, una inesauribile
sorgente di energia economica, pulita, non pericolosa, quindi migliore, preferibile
ed assai più affidabile del metano, il cui prezzo e la cui distribuzione
rimarranno sempre soggetti e condizionati da imprevedibili eventi politici
internazionali. Se gli organi competenti, invece di restarsene chiusi nel loro
piccolo guscio incrostato di scorie secolari, aprissero gli occhi almeno quanto
una talpa miope, si accorgerebbero di avere a disposizione risorse immense
quasi gratuite, il dono di una inesauribile miniera d’oro che potrebbe
produrre ricchezza sempre crescente a tutto il comprensorio.
Quindi, se venissero prese delle iniziative pubbliche
appropiate o venissero facilitati i privati che volessero prenderle, si verificherebbe
un proliferare di posti di lavoro e di guadagno che darebbero a questa zona
grandi possibilità di sviluppo economico da fare invidia anche all’estero.
In altre parole, se Larderello dovesse ridursi, con poche
decine di dipendenti, a produrre soltanto energia elettrica, non sfruttando
completamente le potenzialità che la natura ci ha elargito abbondantemente, la
nostra comunità ne soffrirebbe, in quanto gli insediamenti urbani, sia piccoli
che grandi, da Volterra fino a Massa Marittima, si spopolerebbero sempre più,
estinguendo così la vita nel nostro amato, grande territorio.
Romano Santini
BIBLIOGRAFIA (opere
consultate)
R. Nasini -1 soffioni ed i lagoni della
Toscana e l’industria boracifera – Tipografia editrice Italia – Roma 1930.
R. Nasini – I soffioni boraciferi
toscani e l’industria dell’acido borico – Tipografia della R. Accademia dei
Lincei – Roma 1906.
A. Mazzoni – L’utilizzazione del calore
terrestre – La Scuola Editrice – Brescia.
A. Mazzoni – I soffioni boraciferi
toscani e gli impianti della “Larderello S.p.a.” – Anonime Arti grafiche –
Bologna 1948.
ENEL – Larderello: energia elettrica del vapore endogeno. Il Tirreno – La provincia di Pisa comune per comune – 1993.
L’esperienza sicuramente non piacevole vissuta in Marzo e purtroppo ripetutasi in maniera meno continuativa, seppur senz’altro significativa, nello scorso inizio di Agosto, credo abbia sollecitato in molti, oltre ad una buona dose di comprensibile apprensione, anche la curiosità, se non l’interesse, perquei fenomeni legati alla dinamica terrestre, quali sono i terremoti.
Durante la serata di Marzo trascorsa in
piazza Sant’Anna, dominata dalla emotività ed allo stesso tempo dalla
compostezza, le decine di teorie nate in quei giorni crollavano miseramente o
trovavano parziali quanto desiderate conferme. Certamente per alcuni la propria
è rimasta l’unica e vera spiegazione degli eventi, nonostante la precisa,
puntuale, interessantissima esposizione dei Prof.ri Barberi e Scandone, capace
di illuminare le menti più distanti da simili problematiche ed, a mio giudizio,
incertoqual modo anche di tranquillizzare.
Ritengo
perciò possa essere interessante ritornare sull’argomento, perché, come geologo,
ho la presunzione che vi sia qualcuno interessato a saperne di più riguardo un
fenomeno naturale, quale è il terremoto, ancora in gran parte da indagare e
non certo per aggiungere qualcosa a quanto i Professori hanno in
quell’occasione così sapientemente illustrato. Il solo intento è quello di
ripilogare, puntualizzare il significato di alcuni termini e fornire alcune
nozioni in maniera molto semplice e generale sul fenomeno terremoto, per
aiutare, spero, chi desideri conoscerlo meglio.
IL SOTTOSUOLO
DELL’ AREA
GEOTERMICA
Come primo passo credo sia necessario illustrare per sommi capi ed in maniera, spero, semplice e schematica cosa sta sotto di noi. Il sottosuolo dell’area geotermica è oramai assai ben conosciuto. In oltre 150 anni sono state perforate diverse centinaia di pozzi, che hanno permesso, con l’ausilio anche dei metodi d’indagine indiretta (sismica, geolettrica, gravimetria,etc), di ricostruire in maniera abbastanza completa la successione delle formazioni rocciose.
Nel secolo scorso le perforazioni
raggiungevano a malapena qualche decina di metri, e per questo venivano
effettuate in corrispondenza od in prossimitàdellezonedi emissione naturale di
vapore endogeno, per poter così estrarre le acque boriche e lo stesso vapore a
bassa pressione.
Osservando le moderne ed imponenti
strutture delle “sonde” è evidente quanto le tecniche di perforazione si
siano trasformate nel tempo e come, con l’evoluzione tecnologica, siano
aumentate progressivamente le profondità d’indagine.
Per tornare al sottosuolo dell’area
geotermica, in maniera esemplificativa questo risulta composto da una serie di
formazioni geologiche caratterizzate da rocce relativamente recenti che
poggiano su di un basamento più antico.
Semplificando molto, si può dire che l’azione delle forze legate alla dinamica terrestre, causa in una prima fase dell’innalzamento delle catene alpina ed appenninica, ha provocato successivamente nell’area geotermica una riduzione di spessore sia delle formazioni geologiche più recenti, che del sottostante basamento. Ciò ha permesso al materiale ad alta temperatura, situato in profondità sotto la crosta superficiale, di risalire verso la superficie.
La presenza quindi, a profondità
relativamente modesta, di questa sorgente di calore, ha fatto sì che l’area
geotermica sia caratterizzata da un’anomalia del gradiente geotermico: la
temperetaura cioè aumenta molto più velocemente, via via che si procede in
profondità, rispetto ad esempio alle zone limitrofe.
Non solo, la “spinta” che ha
causato la risalita del materiale caldo profondo ha provocato la fratturazione
di parte delle sovrastanti rocce che costituiscono il basamento.
E’ noto che le acque d’infiltrazione
procedendo in profondità, per il veloce aumento della temperatura, si
surriscaldano generando vapore che, imprigionato nelle fratture presenti nelle
rocce, viene estratto tramite la perforazione di pozzi.
Forse non è
altrettanto noto che gli effetti degli stress legati alla risalita di materiale
caldo sulle rocce che compongono il basamento, sono tutt’altro che esauriti.
Essi sono infatti tuttora causa di una continua apertura di nuove fratture, e
di conseguenza di una porzione consistente dell’attuale attività sismica:
tutto questo come singolo episodio nel quadro più generale della dinamica terrestre
a scala regionale ed alla sua continua evoluzione.
A conferma di ciò, dai numerosi dati
presenti in letteratura, si può osservare che in prossimità delle zone di
Larderello, Travale e Monterotondo M.mo, dove il materiale caldo profondo è
in genere risalito maggiormente, si ha anche la più alta concentrazione di
eventi sismici.
A questo
punto è lecito porsi le seguenti domande: quali sono le carratteristiche di
questa sismicità? E’ legata solamente ad un’unica causa?
Per dare una
risposta a questi quesiti il primo passo è lo studio della sua evulzione
storica.
Larderello 1910.
COSA E’ UN
TERREMOTO?
Prima di procedere ad un commento dei dati storici relativi alla sismicità dell’area geotermica, sembra utilefornire alcune elementari, ma necessarie nozioni riguardo la natura e le caratteristiche dei terremoti.
Intanto cosa è un terremoto? Si può
definire come una brusca liberazione dell’energia accumulata da una roccia per
l’azione delle forze della dinamica terrestre. In pratica è la fratturazione
della roccia stessa dovuta al suo comportamento”fragile”: il terremoto
è stato definito come uno dei testimoni della dinamica terrestre.
Semplificando molto, la quantità di
energia liberata durante un evento sismico (in gran parte con effetto
vibratorio) è funzione di molti parametri tra i quali, ad esempio, la capacità
e/o la possibilità di una roccia di resistere alle sollecitazioni, in pratica
delle sue caratteristiche fisico-meccaniche.
E’ espressa dalla Magnitudo, parametro non legato alla valutazione in gran parte soggettiva degli effetti prodotti da un terremoto (Scala Mercalli), ma alla misura della quantità di energia che si libera con il repentino aprirsi di una frattura ed il conseguente spostamento relativo dei margini della frattura stessa. La trasmissione dell’energia vibratoria, legata anch’essa in gran parte alle caratteristiche fisico-meccaniche dei materiali in cui si propaga, avviene attraverso la generazione di onde che, giunte in superficie, causano i noti effetti sussultori ed oscillatori.L’ipocentro è il punto situato nella profondità terrestre in cui si genera il terremoto, l’epicentro è la sua proiezione in superficie. Secondo la Scala Mercalli l’epicentro individua la zona che ha subito i maggiori effetti in relazione all’evento sismico, che non necessariamente coincide conia precedente definizione, dipendendo in questo caso anche da altri parametri che non l’energia e la individuazione spaziale del luogo di generazione delle onde sismiche, uno dei quali può essere, ad esempio, la tipologia costruttiva degli edifici.
In ultimo vi
è da dire che i terremoti non si manifestano casualmente, masi distribuiscono
in ben determinate aree dove le forze endogene sono più attive. La regione
boracifera nel suo complesso(Larderello-Amiata)si inserisce nella porzione
occidentale di un’area a sismicità omogenea, non molto elevata, delimitata ad
Ovest dalla fascia costiera centro meridionale toscana, ad Est dai primi contrafforti
della catena appenninica ed a Nord dai Monti Livornesi.
LA SISMICITÀ’
STORICA
Esaurita questa premessa, se si analizzano i dati storici pubblicati da vari autori, sembra emergere uno “spostamento” della sismicità, a partire dall’inzio del secolo, dai margini (volterrano-massetano) verso l’interno dell’area geotermica. In particolare il massimo di attività pare concentrarsi tra le località di Serrazzano, Monterotondo M.mo, Larderello e Travale.
In tale area la distribuzione nel tempo
della sismicità appare abbastanza omogenea.
La zona di Larderello registra il
maggior numero di eventi nel periodo che va dagli inizi del secolo fino al
1950: ciò può in parte derivare dal migliore controllo della sismicità in tale
area, che ha permesso di registrare anche sismi d’intensità pari al 11°-1IP Mercalli (la Scala Mercalli ne conta XII), che con
ogni probabilità erano stati trascurati dalle precedenti cronache locali,
poiché in molti casi non rilevabili in assenza di strumentazione. A conferma
di ciò, se si considerano solo gli eventi d’intensità superiore al IV°
Mercalli, soglia al di sopra della quale la percezione umana dell’evento
diventa precisa, si nota come l’intervallo 1900-1950 non rappresenti più un
massimo di concentrazione.
Per ciò che concerne la Magnitudo
(massimo valore 10), risulta abbastanza evidente dai dati storici come, nel
secolo scorso e fino agli inizi dell’attuale, si siano manifestati terremoti
con maggiore energia, con valori anche abbastanza elevati, oscillanti tra un
minimo di 3,6 ed un massimo di 5,4.
A partire dal 1930 si ha una diminuzione
dell’energia liberata che solamente in pochi casi supera il valore di 3,6.
In particolare l’evento di massima
energia registrato in quest’ultimo periodo risulta essere quello verificatosi
presso Monterotondo M.mo il 19/8/1970 con una Magnitudo di 4,5, mentre il sisma
di maggiore intensità di cui si abbia notizia è il terremoto che colpì Travale
1’11/12/1724, che raggiunse il IX-XC grado Mercalli ed una Magnitudo
di 6,4.
Questi valori d’intensità dei terremoti
storici (e soprattutto di Magnitudo), come già evidenziato dal Prof. Barberi,
vanno presi con le dovute cautele, poiché spesso sovrastimati in quanto
ricavati da dati che spesso rispecchiavano la soggettivitàdel cronista
dell’epoca e perché riferiti ad edifici con tipologie costruttive certamente
non paragonabili con le attuali.
Ci si può domandare a questo punto se è
possibile stimare, dall’analisi dei dati storici, la probabilità che si
verifichino terremoti di notevole energia nell’area geotermica.
Una simile valutazione si può tentare se
si utilizzano alcune relazioni empiriche tramite le quali si possono anche
rendere confrontabili dati di sismicità relativi a zone diverse.
Analizzando
ad esempio i dati compresi nell’intervallo di tempo 1880-1975, ne risulta che
la probabilità del verificarsi di sismi di notevole Magnitudo nell’area
geotermica, pare essere scarsa, sicuramente più bassa del resto del territorio
regionale, nonché di quello nazionale.
SISMICITÀ’
ATTUALE
L’installazione a partire dal 1976 di
una rete di rilevamento sismico da parte dell’Enel, finalizzata al controllo ed
alla definizione di eventuali relazioni tra sfruttamento, reiniezione e
liberazione di energia sismica, ha permesso un controllo capillare ed una migliore
conoscenza delle carateristiche della sismicità dell’area.
Dai dati pubblicati emerge come vi siano
tre zone principali caratterizzate da attività sismica e cioè: Monterotondo
M.mo, Travale e Larderello. Generalmente la loro sismicità, probabilmente in
gran parte legata all’azione della risalita del materiale caldo profondo, non
dà vita, come nel Marzo scorso, a sequenze di eventi minori caratterizzate
dalla presenza di uno o più episodi di maggiore intensità (sciame sismico), ma
a singoli terremoti a bassa energia.
Se questa teoria risultasse esatta si
potrebbe supporre che la sismicità dell’area non sia dovuta ad una sola causa.
I singoli terremoti a bassa energia
sarebbero infatti generati da un meccanismo locale, direttamente legato, come
più volte detto, alla risalitadi materiale caldo, mentre, le sequenze di eventi
con episodi a Magnitudo maggiore, sarebbero dovute all’azione delle forze della
dinamica terrestre a valenza regionale. Tale ipotesi pare essere avvalorata dal
gran numero di microeventi che vengono continuamente registrati, gli
ipocentri dei quali risultano concentrarsi in una fascia a non elevata
profondità, coincidente in gran parte con quell’orizzonte di rocce fratturate
prima menzionato, indizio di un legame con cause locali. Gli ipocentri invece
dei terremoti a maggiore energia sembrano collocarsi generalmente a profondità
maggiori, forse in relazione a strutture più direttamente legate ad una
dinamica di tipo regionale.
Da alcuni anni inoltre è stata
introdotta nell’area geotermica, la pratica di reiniettare nel sottosuolo i
fluidi utilizzati nelle attività produttive. Ciò viene fatto per due motivi principali:
tentare una ricarica artificiale, se pur parziale, del ‘’serbatoio” nelle zone
di massimo sfruttamento ed evitare inquinamenti delle falde acquifere, nonché
dei corsi d’acqua e, si può aggiungere, probabilmente per abbattere i costi che
un trattamento di tali reflui comporterebbe. Tutto questo viene effettuato
sotto il controllo della Regione Toscana, competente in materia di controllo e
rilascio di autorizzazioni.
L’attività di reiniezione ha comportato
per l’Enel la necessità di monitorare in maniera continua l’area geotermica,
per evitare l’eventuale manifestarsi di conseguenze indesiderate.
Ed è appunto in tale ambito che è stata
messa in opera l’attuale rete sismica, al fine quindi di controllare quali
potessero essere le influenze della reiniezione sulla sismicità ed in particolare
per stabilire se e come questa attività potesse modificare i meccanismi di
liberazione dell’energia sismica nell’area geotermica. Dagli studi compiuti
non sembra, almeno per ora, risultare un legame direttto ed immediato tra
reiniezione e variazione delle caratteristiche sismiche delle aree in cui essa
ha luogo, tranne rare eccezioni.
Anche se non è possibile generalizzare
un rapporto di causa-effetto, alcune considerazioni, già per altro ampiamente
illustrate dal Prof. Barberi, possono essere fatte in base ai dati disponibili:
la reiniezione può
produrre un incremento nel numero degli eventi a bassa e bassissima energia, ma
non sembra modificare i meccanismi causa dei terremoti a più alta energia.
Probabilmente ciò è anche dovuto, come detto, alla loro diversa origine, legata
a fattori locali, forse influenzabili dalla reiniezione, per i primi, collegata
a strutture più profonde a valenza regionale per i secondi.
la reiniezione
probabilmente favorisce la liberazione di energia e conseguentemente non
peremette l’accumularsi di forti tensioni, riducendo così ulteriormente la
possibilità che si verifichino terremoti superficiali di tipo distruttivo.
Simili conclusioni, se pur parziali,
sono confermate da analoghe esperienze effettuate all’estero.
D’altra parte dati certi che possano
garantire la completa affidabilità di tale pratica non ve ne sono, è una
sperimentazione che va avanti nel tempo. Lo stesso monitoraggio continuo che
l’ENEL compie sulla sismicità ne è testimone.
Quello che si può dire con sicurezza è
che negli ultimi dieci anni, periodo in cui la reiniezione è stata utilizzata
in maniera continuativa, non si è registrato un significativo incremento
dell’attività sismica, per lo meno per gli eventi a più alta energia.
Certo, la non
completa conoscenza dei meccanismi che regolano la dinamica terrestre, e
quindi la genesi dei terremoti, e la scala, geologica, dei tempi, rende
necessaria la prosecuzione del controllo della sismicità e dello studio della
sua evoluzione nella nostra zona.
CONCLUSIONI
E’ comunque forse lecito azzardare
l’ipotesi che l’episodio sismico del Marzo scorso, e probabilmente anche il più
recente dell’inizio di Agosto, potrebbero, per le loro caratteristiche, essere
ricollegabili a quella attività propria delle strutture legate alla dinamica
terrestre a valenza regionale, che si manifesta normalmente con eventi di
Magnitudo massima circa pari a 4 -5 e probabili tempi di ritorno medi di 20-25
anni (terremoti del 1933 Sasso Pisano VI Mercalli, del 1946 Pomarance/ Volterra
VI Mercalli e del 1970 Monterotondo M.mo VI+). Se questa ipotesi risultusse
avere un qualche fondamento, contribuirebbe a fugare ulteriormente le
perplessità relative alla pratica della reiniezione che, come si è prima detto,
allo stato attuale delle conoscenze non pare possa estendere la propria
influenza su tali strutture.
La sismicità
con scarsa energia legata a fattori locali, la bassa probabilità che si verifichino
terremoti con alta energia, il non provato diretto rapporto causa-effetto tra
reiniezione e sismicità, la mancanza di importanti terremoti storici, sono
tutte considerzioni che non possono altro che tranquillizzare.
ALCUNE
CONSIDERAZIONI FINALI
Sicuramente la gravità degli effetti di
un terremoto è legata in gran parte alla tipologia costruttiva degli edifici.
Edifici vecchi o in condizioni di manutenzione precarie, come sono spesso
quelli presenti nei nostri centri storici, non sono esattamente ciò che sarebbe
necessario per resistere alla violenza di un terremoto.
Larichiestadi inserire il Comunedi
Pomarance in zona sismica, sentita da gran parte dei presenti in Piazza S.Anna
in quella sera di Marzo, come una esigenza improcrastinabile, non pare, a mio
giudizio, una scelta troppo oculata. E’ vero, come ebbe modo di affermare con
forza il Prof. Barberi, che è sicuramente “criminoso” non comprendere in zona
sismica un’area che ne avesse i requisiti, ma è altrettanto vero che chiedere
di esservi inseriti, magari sull’onda dell’emotività, quando questi requisiti
non vi siano o non siano sufficienti, è sicuramente quanto meno controproducente.
Quanto lo sia sarà facile sperimentarlo
al momentodi costruirsi unacasaodi modificare l’esistente, di rifare un tetto, etc., quando ci accorgeremo di dover far fronte a spese
aggiuntive, sia di progettazione, che di realizzazione, tutt’altro che
trascurabili, necessarie però per adeguare le opere agli standard richiesti
alle costruzioni in zona sismica. Lo stesso accadrà per le attività produttive
con conseguenze immaginabili.
E poi è certo: essere inseriti in area
sismica non evita che i terremoti si verifichino.
La nostra zona non era stata a suo tempo inclusa negli elenchi dei comuni sismici perché i tecnici prosti alla classificazione sismica del territorio nazionale non ritennero che dall’ esame comparato dei dati in loro possesso ve ne fossero le motivazioni, come tennero a specificare sia il Prof. Barberi che il Prof. Scandone, né gli ultimi eventi sismici, probabilmente del tutto conformi con la sismicità storica, possono, a parer mio, con tutta probabilità fornire nuovi elementi tali da giustificare una revisione della classificazione. Non so se nel frattempo la richiesta sia stata formalizzata o vi sia stata una giusta pausa di riflessione, forse un ripensamento, una volta passata l’onda delle emozioni che talvolta possono essere cattive consigliere.
P.D. BURGASSI: ENEL DPT Vice Direzione Attività Geotermiche Centro Dimostrativo per gli usi non elettrici dell’energia geotermica. Castelnuovo V.C.
Nella regione geotermica toscana le aree interessate da
manifestazioni naturali sono state utilizzate in passato per la coltivazione
di primizie. Infatti, l’alta temperatura del terreno favoriva la crescita di
prodotti orticoli fuori stagione e le emissioni di vapori e gas formavano una
sorta di cappa di protezione nei confronti di neve e gelo.
Quando nella seconda metà del secolo passato iniziò,
attraverso l’uso di tubi in ferro chiodati, il trasporto a distanza dei fluidi
naturali (questi sin dal 1827 venivano utilizzati come fluido di processo per
l’estrazione dalle acque geotermiche dei sali di boro) lungo questi primi
vapordotti, non coibentati, nacquero le prime strutture protette, in
muratura, legno e vetro, destinate ad ospitare colture orticole.
A partire dal 1900 quando il vapore naturale cominciò ad
essere impiegato per il riscaldamento di tutte le abitazioni di Lar- derello e
dei villaggi sorti in corrispondenza dei vari stabilimenti per l’estrazione
dei sali di boro dalle acque geotermiche, aumentò il numero di queste utilizzazioni
in orticultura che venivano curate a livello familiare.
Negli anni ’30, furono costruite le prime serre, di una
certa dimensione, in legno e vetro, riscaldate con vapore geotermico
circolante attraverso tubi alettati, al servizio delle foresterie e delle mense
aziendali dei vari stabilimenti della Società Boracifera di Larderello.
Nel 1950 quando, dalla
Larderello S.p.a., furono costruiti i grandi impianti serricoli di Castelnuovo
e Lago Boracifero l’azienda agricola della Società si trasformò da fornitrice
per le necessità aziendali in produttrice e venditrice di prodotti orticoli
sui normali mercati.
TIPO DI FLUIDO
Come indicato i primi impianti utilizzavano il calore
disperso da vapordotti che trasportavano fluido dai pozzi agli impianti industriali
e alle utenze civili, successivamente cominciò ad essere impiegato vapore con
caratteristiche termodinamiche inferiori e quindi meno adatto alla produzione
di energia elettrica, questo fluido veniva fatto circolare direttamente nelle
serre utilizzando tubi alettati come corpi scaldanti.
Oggi, di norma, si utilizza
come fluido di trasporto del calore per il riscaldamento di serre acqua
trattata a temperature che variano, a seconda delle caratteristiche del fluido
geotermico che viene sfruttato. In qualche caso in impianti di vecchia costruzione
viene ancora utilizzato come fluido di riscaldamento vapore naturale, che
circola all’interno delle serre utilizzando ancora, come una volta, tubi
alettati come corpi scaldanti, ma con questo sistema, anche se è possibile
risparmiare l’energia necessaria per il pompaggio, si verifica uno sfruttamento
incompleto del potenziale energetico del fluido.
SISTEMI DI RISCALDAMENTO
Sulla base delle temperature del fluido geotermico ed in
relazione alla coltura che si intende impiantare cambia la tipologia dei
sistemi di riscaldamento che possono essere:
A circolazione
naturale di aria calda, mediante l’impiego di tubi che possono essere lisci
od alettati e posti a terra lungo le pareti delle serre. Questo sistema, adatto
per la circolazione di fluidi la cui temperatura si aggira intorno a 90°C, presenta
di n’orma piccole differenze di temperatura tra ingresso ed uscita dell’acqua
e quindi mal si presta ad uno sfruttamento razionale e completo della fonte.
Con riscaldamento del
suolo, mediante tubi in materiale plastico, interrati, nei quali viene fatta
circolare aria calda.
Questo sistema, pur essendo in grado di mantenere una
temperatura uniforme nella serra, è strettamente legato al tipo di coltivazione
ed alle temperature ottimali cui deve essere sottoposto l’apparato radicale
delle piante, comunque il riscaldamento del suolo si trova sempre abbinato ad
un altro sistema. Il primo impiego del riscaldamento del suolo in geotermia fu
realizzato nel 1969 dall’E.N.E.L., in collaborazione con l’istituto
Internazionale per le Ricerche Geotermiche del C.N.R., presso l’attuale Centro
Dimostrativo di Castelnuovo di Val di Cecina in una piccola serra pilota
(circa 200 mq.) che poteva utilizzare acqua a temperature comprese tra 30 e
70°C. (Fig. 1).
Questa serra presentava un doppio sistema di
riscaldamento, con aerotermi funzionanti con acqua a temperature di 70°C e con
tubi in polietilene interrati a 25 cm. di
profondità, nei quali circolava acqua a 25-30°C.
Riscaldamento con tubi
appesi alla struttura portante della serra, appoggiati al pavimento o
addirittura sospesi sotto i bancali o sopra i bancali stessi mediante tubi
alveolari.
Nella progettazione di
impianti di serricol- tura alimentati da fonte geotermica è necessario prima
di tutto ottimizzare il sistema cercando di integrare le caratteristiche della
fonte con le esigenze dell’utenza. È opportuno anche aumentare al massimo il
coefficiente di utilizzazione cercando nello stesso tempo di realizzare usi in
cascata e così abbassare il più possibile la temperatura finale, tenendo
presente che escluse situazioni particolarmente favorevoli il fluido
geotermico, alla fine del ciclo, deve essere reiniettato perché questo è ricco
di sali disciolti. Questa ricchezza di sali disciolti rende necessario
prevedere come fluido vettore del calore all’interno della serra, acqua
trattata in ciclo chiuso.
SITUAZIONE ATTUALE IN ITALIA
Analizzando i fluidi geotermici attualmente utilizzati
nella serricoltura in Italia si può vedere dalla tabella 1 che, per alcune serre
(in Italia circa 5 ettari) viene impiegato come fonte di riscaldamento vapore
con temperatura intorno a 120°C (ovviamente il fluido che circola nel circuito
secondario ha una temperatura di circa 90°C). Per altre serre vengono
utilizzate acque provenienti da sorgenti o pozzi a temperature variabili tra
40 e 97°C.
A questo proposito è molto
interessante il caso di Piancastagnaio dove il fluido geotermico (vapore
surriscaldato con una percentuale abbastanza elevata di gas) viene utilizzato
per produrre energia elettrica in una turbina a scarico libero; il fluido
scaricato passa in uno scambiatore a miscela a pressione atmosferica da cui
esce acqua a 97°C che viene inviata in scambiatori a piastre dove riscalda a
90°C l’acqua trattata del circuito secondario di un impianto di serricoltura,
prima di essere inviata alla reiniezione. Tra gli scambiatori a piastre e le
serre esiste un notevole dislivello per cui è necessario far passare l’acqua del
circuito secondario attraverso scambiatori a fascio tubiero posti alla stessa
quota delle serre. Di qui, dove esistono anche grandi serbatoi per l’accumulo
di calore, parte il circuito (terziario) che, in ciclo chiuso, va ad alimentare
gli impianti di produzione (Fig. 2) Un altro caso di utilizzazione integrata
dell’energia geotermica, di grande interesse, è il progetto Bulera fino ad
oggi realizzato solo parzialmente dove, partendo da fluido a 120°C, dovrebbe
essere prodotta energia elettrica, dovrebbero essere riscaldati 2 ettari di
serre, tunnels per olticoltura e
funghicoltura, vasche per allevamenti ittici e campi. (Fig. 3)
CONSIDERAZIONI
TECNICO ECONOMICHE
Occorre rilevare, come quella geotermica
presenti, rispetto alle fonti di energia convenzionali, un basso impatto ambientale,
purché siano rispettate ovviamente alcune regole fondamentali quale quella
della reiniezione di reflui inquinanti.
La caratteristica principale è data dall’alta efficienza energetica dell’energia geotermica, in particolare per i fluidi a bassa temperatura. Il rapporto tra lavoro prodotto e energia termica che è possibile ottenere dai fluidi geotermici, a partire dalle loro condizioni iniziali, sino alla temperatura ambiente, può raggiungere il 90% contro il 70-80% che può essere ottenuto con i combustibili fossili. D’altra parte il calore geotermico ha un costo decisamente inferiore rispetto a quello ottenuto da carbone, petrolio e gas naturale percui è opportuno scegliere colture molto “energivore”, cioè piante che necessitano per il loro sviluppo di alte temperature e quindi di una forte quantità di energia termica. Il mercato italiano oggi sembra incoraggiare in particolare produzione floricola florovivaistica, fiori e piante ornamentali, tra queste: aeschynanthus, ciclamino, croton dieffenbachia, euphorbia- pulcherrima (poinsettia), ficus, nephrole- pis, ortensia scheffleria, scindapsus (photos), spathiphyllum, syngonium philoden- drom, anche se non sono da disprezzare colture orticole specializzate (basilico ecc.).
Fig. 2 SCHEMA SEMPLIFICATO DELL’IMPIANTO PER RISCALDAMENTO SERRE DI PIANCASTAGNAIO FIG. 3 SCHEMA SEMPLIFICATO DEL “PROCETTO BULERA”.
Occorre tener presente però che l’incidenza delle spese di riscaldamento, utilizzando combustibili convenzionali, si aggira intorno al 15-20% del valore del prodotto venduto e pertanto è possibile rendere competitive le serre in località collinari dove sono ubicate di solito le risorse geotermiche (quindi a minor temperatura media esterna): queste sono talora lontane da grandi centri di utilizzazione del prodotto, per cui sul costo finale vengono ad avere forte incidenza, come già accennato le spese di trasporto.
PROSPETTIVE
FUTURE
Come riportato nella tabella 1 in Italia
gli impianti terricoli che utilizzano energia geotermica sono 9. Sono in corso
di realizzazione alcune iniziative di grande interesse, sia per le dimensioni
dei nuovi impianti, che per le innovazioni tecnologiche che vengono proposte.
Ad esempio a Castelnuovo di Val di Cecina
è in costruzione una serra di circa 2000 mq. destinata alla produzione di basilico
nella quale sarà utilizzato il doppio sistema di riscaldamento con aerotermi
(utilizzanti acqua a 65°C) e con riscaldamento del suolo attraverso tubi
corrugati in materiale plastico, a 40 cm di profondità nei quali circolerà l’acqua proveniente
dagli aerotermi a 35°C.
Una particolarità significativa di
questa serra è che la fonte geotermica è rappresentata dall’acqua di scarico
del teleriscaldamento del vicino paese. Questo, una volta attivato, sarà un
esempio di uso combinato del fluido geotermico con un elevato fattore di
utilizzazione, anche perché serre e teleriscaldamento presentano
approssimativamente lo stesso andamento del diagramma di carico termico. Altre
iniziative sono in corso di realizzazione a Castelgiorgio in provincia di Terni
e a Latera in provincia di Viterbo.
A Castelgiorgio con il fluido prodotto da uno dei pozzi a suo tempo perforati dal- l’E.N.E.L. (acqua a 120°C) verrà azionato un gruppo a circuito binario da 1000 KW a valle del quale l’acqua a 90°C, attraverso scambiatori a piastre, riscalderà il fluido di un circuito secondario destinato ad una iniziativa agroindustriale e a 2 ettari di serre, prima di essere reiniettata in un altro pozzo. A Latera invece un fluido bifase (acqua e vapore a 200°C) alimenterà una centrale elettrica a doppio flash e, a valle l’acqua di scarico andrà ad alimentare l’impianto di riscaldamento di quindici ettari di serre.
Salivamo lentamente la strada
verso Fiesole, io Lucia e Sergio, per incontrare il Maestro.
Sergio ci accompagnava, lo conosceva bene, con Lui aveva costruito Larderello. Arrivammo, un po’ di manovra a parcheggiare la macchina, poi fatti alcuni passi ci trovammo davanti ad un ambiente soggiorno, assai ampio, era lo studio con due ampie vetrate ad arco verso Firenze.
G. Michelucci firma la pergamena inserita nella prima pietra. 22/5/1956.
Scrutavo velocemente in ogni
dove, in una specie di disordine ordinato, volevo vedere tutto, carpire ogni
cosa, ma per l’emozione vidi poco.
Entrò.
Non l’avevo mai visto prima di allora, se non per fotografia; me /’aspettavo più alto, ricordo lo fissai con grande intensità come per accertarmi che fosse veramente Lui. Portava una giacca spinata di color marrone, sotto aveva una camicia di flanella quadrettata a colori; ci salutò e di li a poco ci invitò a sederci. Mi avvicinò una sedia (era un suo disegno) dalla forma insolita; tre gambe ed uno schienale ricavate da un’unica tavola, mi ricordò tanti panchetti che si casa fine ottocento, normale nell’apparire (ricordo che ben diverso fu l’impatto con casa Savio li a Galluzzo, allora ero più giovane), una normale classica porta, suonammo, ci fu aperto, ricordo una scala apparentemente ripida, ma classica, forte della sua pietra grigia, scendemmo e subito apparve un am trovavano in campagna in uso ai contadini, ebbi un attimo di perplessità, Lui mi notò “si sta bene lì” mi disse svelando un mio stupore con la malizia dolce del saggio rassicurante. Iniziò la nostra conversazione.
Parlammo delle origini dell’architettura, poi una lunga
considerazione sul Brunelleschi, sul
Rinascimento, ma il tema della spiritualità era il motivo sempre presente con
lucidità liberale scevra da ogni schema; parlava con amore anche delle cose più
semplici, della pietra, intesa non come materia, ma come cosa viva fino a
riflessioni sul suo modo di rapportarsi all’architettura insieme agli attori di
questo mondo. Quando il nostro parlare ricordò l’esperienza di Larderello il
Maestro, quasi con un cenno di malinconia rammentò i luoghi con grande affetto,
ma traspariva dalle sue parole un rincrescimento per non aver potuto avere, quasi
per una sorta di veto, un continuo rapporto con gli operai. Tale fu la mia
impressione, sulla quale meditando, ho capito e giustificato al mio essere il
perchè ed il come del suo operare a Larderello.
Disse: “Quando arrivai per la prima volta a Larderello
rimasi colpito e frastornato da quel rumore diverso, da quell’odore
particolare, dalla maestosità di quelle grandi torri ingegneristiche fumanti,
così belle, che nel pensare alla Chiesa mi venne istintivo di fare una cosa
diversa, allegra, come per isolarsi da quel naturale fragore”.
Non osavo interrompere il suo parlare, e consideravo un
privilegio ascoltarlo; Sergio, più confidenziale, ricordava volentieri
episodi a cui il Maestro felicemente partecipava, finché entrai quasi
sommessamente nel discorso: si parlava di chiese, ricordando la piccola
cappella di Sasso Pisano che tanto mi aveva colpito proprio per una sua naturalezza
plastica, organica la definirei.
Ricordo che immediatamente non focalizzò questa piccola cosa, ma dopo le mie prime battute dove esprimevo le mie considerazioni, i suoi occhi attenti si illuminarono ancor di più in quel volto dal profilo aquilino dolce ed austero e dai bianchi capelli disordinatamente pettinati con la riga che mi stava davanti leggermente inclinato sullo sfondo di Firenze: avevo forse toccato quell’origine inconscia, che maturata nel tempo si era poi sviluppata nella Chiesa dell’Autostrada.
Poi la curiosità del vedere prese il posto alle parole, ma
questa era una necessità anche per Lui; con agilità si alzò ed iniziò ad aprire
una cassettiera di un contenitore a lato mostrandoci disegni, tanti disegni,
progetti mai realizzati, idee maturate, materiale che mai avrei pensato di
vedere. Con affabilità inconsueta illustrava, in mezzo a tante carte, un
piccolo plastico “Questa è la Chiesa di Longarone” e con la rapidità di un
falco passò la mano sopra il modello togliendo il campanile “questo non va
visto” continuò +‘Tho dovuto mettere per motivi ecclesiastici, ma questa
è la chiesa dove si può camminare, sostare in ogni dove, partecipando
all’assemblea dei credenti”.
Il tempo passava veloce, il sole calante illuminava radente
Firenze, in cui già spuntavano le luci della sera “eccola là la città” disse
“piena dei suoi problemi sempre più pesanti non vivibile, bisognerebbe
organicamente rovesciarla: le strade una funzione meccanica, gli interni una
funzione umana” aveva espresso un concetto urbanistico di fondo che
andrebbe oggi indagato specie per le città d’arte.
Finì così quel pomeriggio, mentre la sera si impadroniva di
ogni cosa. Per una sorta di circostanze il Maestro scese con noi a Firenze;
doveva riprendere la macchina, lo accompagnammo al garage; come arrivammo,
quegli uomuni di macchine in tute blu lo accolsero come un oracolo. Poi
partimmo.
Incontrai altre volte negli anni il Maestro, in varie
occasioni, in particolare a convegni e mostre, la Sua presenza dava prestigio:
sempre qualcosa di nuovo c’era da scoprire, specie la sua nuova poetica con i
metalli.
L’ultima volta che ebbi modo di incontrarlo a Fiesole ero
con Sergio; doveva essere rivisto il tabernacolo della Chiesa di Larderello
secondo la nuova liturgia, ci recammo da Lui per avere il Suo pensiero.
Quantunque avanti negli anni, ricordo che seduti nel
solito soggiorno prese carta e matita e schematizzò l’idea dandoci riferimenti
per il materiale. Ci complimentammo con Lui, per il suo stato di salute. Ci
raccontò in proposito un simpatico aneddoto. Passati gli ottantacinque anni
dovetti recarmi dall’oculista per misurarmi la vista per rinnovare la
patente, il dottore vedendomi avanti negli anni cominciò a farmi leggere dalle
lettere più grandi, allora scherzando dissi “Non si fa prima a leggere di fondo
dalle più piccole?”. Da questa circostanza traspare l’integrità fisica dell’uomo
accompagnata da una corretta lezione di vita.
Nel frattempo Leonardo Savioli era venuto meno, ed in
quella circostanza mi venne spontaneo parlare della sua opera con il Maestro;
Lui intuì che ero
stato suo allievo; con semplice schiettezza e serenità espresse il suo giudizio
di stima, cosa che mi fece oltremodo piacere.
Quasi
beffandosi di tutti il Maestro se n’è andato, le feste per i suoi cento anni
sono state egualmente svolte, come era anche giusto fare, quale testimonianza
ad un artista che nell’arco della sua lunga vita ha lasciato molte opere sulle
quali tanto si è parlato e molto si dovrà ancora dire.
L’episodio
di Larderello si sviluppa dopo gli anni cinquanta. Michelucci era sessantenne,
nel pieno della maturità creativa ed intellettiva. Allora aveva già costruito
importanti opere, ma quello che in certo qual modo lo eleverà oltre i confini
nazionali dovrà ancora venire.
In quel
tempo le fabbriche boracifere erano gestite dalla LARDERELLO S.p.A. Da poco era
finito il conflitto mondiale, le tensioni politiche erano vivissime e sentite e
anche nella nostra zona le forti contrapposizioni tra classi davano origine a
posizioni faziose, riuscendo talvolta a suscitare ulteriori divisioni tra
cittadini dello stesso ceto portando a tentativi inconsulti: basti ricordare
l’ipotesi, poi fortunatamente fatta rientrare, di frazionare lo stesso Comune
di Pomarance in due entità geografiche ed amministrative.
In questo
scenario, la nuova Amministrazione della fabbrica dava inizio al rinnovamento
dell’azienda nel senso più ampio coinvolgendo l’edificato industriale per
nuove prospettive, ma contestualmente anche l’edificato civile e sociale.
E’ passato poco tempo per esprimere un sereno giudizio sul ruolo che
gli attori del momento recitarono; vi furono posizioni di Amministrazioni
contrastanti, da cui probabilmente derivarono scelte che oggi, anche per una
diversa organizzazione del complesso industriale, manifestano segni di cedimento.
Interno della Chiesa di Larderello.
Prospettiva della Chiesa di Larderello.
Si poteva
allora prevedere quanto stiamo vivendo: forse no; ma nel pensiero
dell’urbanista illuminato un timore passò; quel nostalgico rimpianto della
mancanza di rapporto con gli operai mi appare oggi svelato, Michelucci disegnò
Larderello residenziale al meglio delle concezioni urbanistiche e ne resta un
esempio, ma involontariamente avulso dalla realtà territoriale dell’intorno.
Ne
registriamo il fatto e la lezione con ragionata comprensione.
L’impostazione
del villaggio residenziale viene pensato defilato dalla fabbrica vera e
propria per motivi ambientali e salubri, vengono indicati i siti per i
complessi pubblici, sociali, sportivi, religiosi; vengono gerarchicamente
ubicati i complessi residenziali, poi l’insieme organicamente commisurato ad
una viabilità sinusoidale in virtù del declivio, piacevolmente raccordata da
naturali sentieri pedonali, il tutto immerso nel verde. Michelucci assapora la
natura, conosce i materiali, fa uso predominante della bianca pietra creandone
un aspetto cromatico nei muri di contenimento o recinzione accompagnata da
siepi di sempreverdi, ne leva la preziosità lavorandola per l’edificato.
La sua
architettura è innovante per semplicità, negli interventi industriali come in
quelli residenziali. Anche gli altri progettisti, per quanto abili, dovranno
comunque riferirsi al suo linguaggio.
La
diversità della Chiesa rispetto a
tutte le altre da Michelucci costruite, è voluta, ma allegra per questa valle
così diversa, in cui sentirsi isolati ma felici.
Quando
accompagnai Leonardo Savioli a visitarla per la prima volta, camminavamo lungo
il deambulatorio felicemente coinvolti ed attratti dalla luminosità del corpo
centrale geometricamente invetriato; anche lui avvertiva questa sensazione
diversa; in mistica penombra, quasi per avvalorarne la religiosità, è l’altare.
Michelucci
costruisce la bella torre dei dirigenti, è un segno di città, benché grande,
per la sua naturale piega modellata al terreno appare così misurata e
naturale, quasi un tronco d’albero semplicemente inghirlandato.
Tutti i piccoli villaggi residenziali costruiti all’epoca intorno alle fabbriche, subiscono l’influenza di Michelucci, sia nel linguaggio estetico che nell’uso dei materiali: ma l’esempio va oltre. I segni dell’architettura di Larderello diventano negli anni che seguono luogo comune per i costruttori locali; nei nostri paesi è facile leggere l’uso della bianca pietra per muri e per case, talvolta anche impropriamente; si legge comunque uno sforzo qualitativo nella semplicità dell’edificato, ma soprattutto ha valore il senso del rispetto dell’ambiente nell’espansione dei centri urbani.
I segni
dell’architettura restano nel tempo, tutelarli e conservarli è dovere civile
delle generazioni: questi sono i testimoni dell’evoluzione e della civiltà dei
popoli.
La bellezza delle
nostre città, dei nostri borghi è soprattutto merito di architetture valide ed
armoniose ove artisti hanno profuso la loro abilità ed estro in un rapporto
dipendente con la natura d’intorno associando così ineluttabilmente ai luoghi
il loro prestigio nel tempo.
In questa
chiave di lettura dovrà Larderello, ove artisti come Michelucci hanno operato
lasciando segni di sublime qualità a testimonianza di un’epoca.
Dal nostro osservatorio, chiamati per professione ad operare in questi
luoghi, abbiamo tutti il dovere di riflettere prima del fare, tenendo conto dei
molteplici aspetti che stanno dietro al costruito sia esso piccola cosa che
grande fabbrica, mirando sì all’utile e necessario ma anche alla qualità che
diventa bellezza nel giusto rapporto tra forma, materiali e rispetto totale
della natura: questa è la lezione che ci lascia Giovanni Michelucci.
Nella precedente edizione della Comunità di Pomarance fu
pubblicata, a cura del Sig. Mazzinghi Geom. Edmondo, la Storia di Pomarance
dalle origini ai primi anni del 1900.
L’Associazione Turistica in questa nuova edizione
ha deciso di continuare a scrivere la Storia di Pomarance allargando lo
sguardo a tutto il territorio circostante, e per fare ciò saranno pubblicati
documenti inediti che si trovano per lo più presso /’Archivio Storico Comunale.
In considerazione della difficoltà di lettura, e
pensando specialmente ai ragazzi delle scuole che potranno così ricercarci
date e notizie utili all’apprendimento della Storia del territorio, i documenti
pubblicati saranno corredati da ampie note e spiegazioni:
Il primo documento che viene pubblicato sono gli “STATUTI DI MICCIANO’’ del 1473.
CENNI STORICI SU MICCIANO
Micciano.
□ La leggenda fa risalire l’origine di Micciano
ad un certo MITIUS, legionario romano e veterano di molte guerre, che a
seguito della Legge Julia, voluta da Giulio Cesare nel 59 A.C., ebbe in
assegnazione il territorio dove oggi sorge l’abitato con i confinanti terreni
in parte incolti ed in parte coperti di boschi.
Il documento più vecchio in cui si parla di Micciano si trova nell’Archivio Vescovile di Volterra e risale al 947, allorché il Vescovo Bosone concesse l’investitura di Piovano al Prete Giovanni di Giovanni ed al Diacono Pietro di Rutilio.
Ritroviamo
il nome di Micciano nel 1014 in un privilegio imperiale con il quale l’imperatore
Arrigo l°, fra le altre chiese e possessi, concede ai Monaci di S. Pietro a
Monteverdi anche Micciano con la sua corte e con tutti i beni in essa
esistenti.
Nel 1176
il Papa Alessandro III0 con una sua bolla conferma la donazione a
favore della Badia di S. Pietro in Monteverdi.
Nel 1186
Micciano e la sua corte viene in possesso del Vescovo di Volterra Ildebrando
dei Pannocchieschi grazie ad un diploma, datato 28 Agosto, ed inviatogli da S.
Miniato dall’imperatore tedesco Enrico IV°.
Il 17
febbraio 1203 gli uomini di Micciano giurano obbedienza al Comune di Volterra
nelle mani del Potestà Ranieri di Montespertoli.
Il 27
agosto 1208 ha luogo la formale cessione di Micciano ai Consoli di Volterra da
parte dell’Abate del monastero di Monteverdi. Durante la lotta tra il Vescovo
di Volterra, Galgano Pannocchieschi, ed il Comune, Micciano risulta essere
fortificato.
Nel 1288
troviamo che il Castello di Micciano era tassato dal Comune di Volterra per £.
3.400 l’anno.
Nel 1356
la Chiesa di Micciano è designata Matrice di cinque cure succursali oltre a
due spedali.
nel 1411
negli Statuti di Volterra si trova il Castello di Micciano fra quelli nei quali
rendeva giustizia un giudice civile eletto dal Magistrato civico di Volterra.
Nel 1472 a seguito della guerra delle miniere tra Volterra e Firenze, Micciano passa sotto la giurisdizione civile e criminale di Pomarance divenuto Capoluogo del Vicariato della Val di Cecina che oltre a Micciano comprendeva Libbiano, Montecerboli, Montegemoli, Sasso, La Leccia, Querceto, Gello, Mazzolla e Montecastelli.
STATUTI DI MICCIANO anno 1473
Documento originale.
PROHEMIO
Adlaude et gloria et honore dello innipotente et clemente Iddio e della sua gloriosa madre vergine maria et del beato messer (1) San Giovanni babtista et di Messere San Michelagnolo, et generalmente di tutta la celestal corte del paradiso, et ad honore et gloria et magnificentia del magnifico et potente popolo fiorentino et ad perpetua pace di tutti li homini del comune di Miccano.
Questi sono gli statuti et ordinamenti
del comune di Miccano di valdicecina coaderenti e distretto di Firenze, facti
et ordinati per li prudenti et discreti Huomini, Lorenzo di baiardo et hic (2)
di Giannone amendue del comune predetto aventi piena auctorita e balia (3) di
poter ordinare, statuire e riformare il detto commune come pare epiace loro sotto gliannj del
nostro signor Jesus MCCCCLXXIIJ in dictione settima e quali statuti sono questi
cioè.
NOTE
Messer, Messere : Anticamente Mio Sire,
Mio Signore, o francesamente Monsignore. Titolo dato ai grandi ed ai prelati
sino al Secolo XVI °.
Hic : Questo, cioè Lorenzo di Baiardo e
Lorenzo di Giannone.
Balia : Dal latino potestas che significa
autorità, potere, signoria, potestà assoluta.
PROEMIO
EZ Ai giorni di oggi l’introduzione è normalmente una breve presentazione fatta dall’Autore o da altra persona per presentare un libro. Negli anni in cui furono scritti questi Statuti, cioè la legge fondamentale con la quale si regge e governa uno Stato, il Proemio era prima di tutto una parte integrante dell’opera, poi era una esplicita manifestazione di riverenza ai Santi patroni del luogo e della città di Firenze e di obbedienza al popolo fiorentino.
L’invocazione ai santi inizia
sempre con Dio quale supremo reggitore dell’universo, e la “sua gloriosa madre
Vergine Maria” a significare quanto grande fosse il culto per la Madonna fra il
popolo, anche se bisognerà arrivare all’anno 1854 perchè la Chiesa proclami il
dogma della Immacolata Concezione.
In secondo luogo, e non a
caso, ma sempre come segno di riverenza e sottomissione, prima viene invocato
San Giovanni Battista patrono di Firenze la cui festa si celebra il 24
Giugno, poi San Michelagnolo (San Michele Arcangelo) patrono di Micciano che
viene festeggiato il 29 Settembre.
Il segno di riverenza ed
obbedienza al popolo fiorentino è dato dalia frase “ad honore et gloria et
magnificentia del magnifico e potente popolo fiorentino” che vuol dire che ciò
che stavano per fare era prima di tutto per onore e gloria ecc. ecc. del popolo
fiorentino ed in secondo del popolo di Micciano.
A questo punto è doveroso
notare che ci riferiamo ancora al “Popolo Fiorentino” in quanto nel 1473,
nonostante l’avvento di Lorenzo dei Medici (1469) sembrava ancora che il
possessore del potere fosse il popolo.
Nel secondo capoverso del
Proemio è doveroso far notare come ancora viene specificata la sudditanza di
Micciano a Firenze con la parola “Coaderenti” (persone che diano la ioro
adesione alle stesse correnti di pensiero e di azione) e “distretto” di Firenze
(territorio compreso nella giurisdizione militare e civile di Firenze).
Un altro punto degno di nota
è la frase “in dictione settima”perchè denota che anche se nella prima parte si
fa riferimento al popolo fiorentino nel conteggio di quando furono scritti
gli Statuti ci si riferisce al momento in cui (1469) Lorenzo dei Medici
diviene capo della sua famiglia, segno questo che oramai il potere di Lorenzo
si era già affermato.
“In
dictione settima” vuol dire più precisamente: «durante il periodo in cui avevano
diritto di parlare gli eletti per la settima volta dal giorno in cui Lorenzo
dei Medici divenne capo della sua famiglia e quindi di Firenze (1469)». Dal
momento che le nomine venivano normalmente fatte nei mesi di Giugno e
Dicembre, si avrebbe: fino al Dicembre 1469 quelli che erano già in carica
all’avvento di Lorenzo dei Medici; due elezioni nel 1470; due elezioni nel
1471; due elezioni nel 1472;
ed infine una, la
settima, nel 1473.
PROHEMIO
DELLA ELECTIONE DI TUTTI GLUFFICI Imprima acciocché al Comune e homini di Miccano sieno bene et utilmente governati e che sulle faccende del Comune habbino ad operare essi detti statutari^ ordinorono, providono, statuirono et deliberemo che per lo advenire ogni sei mesi il consolo o vero vicario del detto comune sia tenuto e debbi almeno per otto dì innanzi la fine del suo ufficio alla pena di soldi venti da essere condennato di facto, ragunar nella casa del detto comune di Miccano uno homo per ciascuna casa o vero famiglia di detto Comune et a quelli così raunati proporre di doversi eleggere un nuovo consolo o vero vicario et uno consiglieri et uno Camarlingo equali così electu habbino assuccedere allufficio passato et così electi si debbino mettere a partito ciascuno di per se et quelli che rimarranno, cioè che sivincera per partito, quelli sintendino essere veramente et iuridicamente electi, e quelli così electi habbino auctorita, potestà et balia, cioè electi consolo consiglieree Camarlingho di poter fare et exercitare tutte le faccende e cose appartenenti al detto Commune e mandare ambasciatori porre datij preste, et ogni altra gravezza per poter pagare il vicario di Ripamarranci, et il cero di santo Giovanni, o, Signori Fiorentini, et tutto quello che intorno alle predette cose sarà fatto per li sopradetti Consolo, consiglieri e Camarlingho o due diloro dacordo vagli e tengha si come fossi facto per tutto il detto Commune, et il loro ufficio duri mesi sei et non più et habbino in detto tempo per loro salario dello havere et pecunia del detto Commune soldi XX per uno et habbino divieto ciacsuno di loro almeno un anno dal dì che haranno diposto lufficio et non possi scambiare el padre el figliolo et exverso helino fratello l’altro ne el zio el nipote et exverso, intendendosi detti parentadi per linea maschulina, et sieno tenuti et debbino fare scrivere tuute lopere et meriti et altre spese di Commune che si facessino alloro tempo et nel fine delloro ufficio farele stanziare in Commune, se il Camarlingho pagera alcuna spesa prima stanziai sintendi pagherà di suo proprio.
PROEMIO
DELLA ELEZIONE DELLE CARICHE
PUBBLICHE
In questo
capitolo vengono stabilite dettagliatamente tutte le regole che devono essere
applicate per la elezione delle cariche comunali affinchè non vi sia alcuna
possibilità di errore.
La prima
regola è che il Console in carica, almeno 8 giorni prima della fine del suo
mandato di 6 mesi, riunisca nella Casa del Comune un uomo per ogni famiglia o
casa esistenti nel Comune per proporre loro la nuova elezione di un Console o
Vicario, di un Consigliere e di un Camarlingho (Cassiere).
La dimostrazione
dello stato di incertezza che regnava nel 1473 è dimostrata ancora una volta
dalle parole “Console o Vicario” poiché Console è il magistrato degli antichi
comuni italiani, mentre Vicario è colui che esercita la autorità nel nome
dell’imperatore.
Le cariche
venivano fatte dal popolo rappresentato in questo caso dai capi famiglia.
La mancata
convocazione di quella che potremmo chiamare Assemblea Popolare comportava per
il Console o Vicario in carica la multa di 20 soldi, praticamente tutto il suo
stipendio. Una volta effettuata la nomina, gli eletti avevano il massimo
potere e le loro decisioni prese con la maggioranza dei due terzi erano
vincolanti per tutti. Essi potevano imporre dazi, prestiti ed ogni altro tipo
di imposte per ricavare le cifre occorrenti per le spese comunali, il Vicario
di Ripamarranci ed il Cero che ogni Comune doveva portare a Firenze per la
festa di S.Giovanni.
Gli eletti
erano ricompensati con 20 soldi, e non potevano essere rieletti subito ma
bensì solo dopo un anno. Non potevano passare la carica al figlio o ad altro
parente maschio. Dovevano trascrivere tutto ciò che veniva fatto affinchè il
loro operato potesse essere facilmente controllato.
Ultima annotazione di questo capitolo, ma non certamente la minore, è il fatto che chi ricopriva cariche pubbliche pagava in proprio gli errori o le mancanze commesse, vedasi il caso del Camarlingho a cui veniva addebitata ogni spesa effettuata se prima la somma non era stata stanziata.
ATra le frazioni del nostro Comune, Lib- biano, una delle più piccole, si distingue per una serie di aspetti che ne fanno una realtà unica, di notevole interesse sia sul piano naturalistico e paesaggistico sia sul piano storico – culturale, di cui le case e le strade costituiscono tuttora vivente e, per molti versi, intatta testimonianza. Libbiano (castrum Liviani) sorse in epoca romana, precisamente ai tempi della legge lulia (59 a.C.), con cui Giulio Cesare assegnò ai suoi veterani, tra i quali, appunto, questo Livius, parte dei territori conquistati (la medesima origine hanno i centri vicini di Micciano, Serrazzano, Lustignano).
LIBBIANO: La Torre
Successivamente divenne un castello che, per la sua posizione strategica e di confine e per le ricchezze minerarie del suo territorio, fu a lungo conteso tra i monaci dell’Abbazia di S. Pietro in PalazzoIo (Monteverdi) ed il Vescovo di Volterra. Prevalse alla fine quest’ultimo, ma l’effettivo godimento dei diritti feudali da parte dei Vescovi fu ostacolato per molto tempo dalla potente famiglia dei nobili Cavalcanti (talora avversari, talora alleati degli stessi Vescovi).
Sottomesso in modo definitivo a Volterra
agli inizi del 1400, Libbiano ne seguì la sorte quando la città di S. Lino fu
conquistata dai Fiorentini, avidi di quelle ricchezze minerarie (allume,
zolfo, vetriolo) delle quali lo stesso territorio libbianese era
particolarmente ricco.
Neanche sotto il dominio fiorentino venne
meno l’influenza dei Cavalcanti che risiedettero a Libbiano praticamente fino
al 1776, allorché il paese venne a far parte a tutti gli effetti della comunità
di Pomarance.
La popolazione di Libbiano ammontava nel 1845 a 279
abitanti (più o meno quelli del 1551:202), mentre nel 1861 era salita a 453,
cioè era quasi raddoppiata. Come si spiega questo aumento? Con tutta
probabilità esso è dovuto allo sviluppo delle attività minerarie (zolfo e
vetriolo, rame e calcedonio) che, in tale periodo, interessò un po’ tutto il
Pomaranci no. Questa attività si protrasse fino a tempi relativamente vicini
(durante la 1° Guerra Mondiale funzionava, vicino a Villetta, una miniera di carbon fossile, i cui dipendenti erano esentati dal servizio
militare ed il cui prodotto era inviato a Casino di Terra con una ferrovia a
carrelli) e consentì di mantenere relativamente stabile la popolazione.
La situazione cominciò decisamente a mutare col venir meno
dell’attività mineraria (a parte quella di carbon fossile la chiusura delle miniere risale a fine ’800); a
questo punto la popolazione si trovò, infatti, davanti a due alternative: o
lavorare a mezzadria dai Conti Guidi di Serra e fare i boscaioli ed i
carbonai, oppure cercare lavoro più lontano, ad esempio a Larderello, dove lo
sviluppo della primitiva industria chimica in direzione della produzione di
energia elettrica offriva nuove opportunità. Gradualmente il numero di coloro
che lavoravano nell’industria boracifera (e che andavano e tornavano da
Libbiano a Larderello prima a piedi e poi in bicicletta) aumentò e comportò una
prima significativa ondata migratoria verso Larderello ed i paesi vicini.
Quando la Larderello S.p.A. concesse finalmente un
automezzo per trasportare i lavoratori, sembrò che il fenomeno potesse essere
arginato. Si trattò di una breve illusione: alla fine degli anni ’50, quando
fu costruito il villaggio residenziale di Larderello, molti furono i Libbianesi
che lasciarono il loro paese, cui pure erano attaccati, per andare ad abitare
in un centro che offriva loro troppe più comodità. Cominciò così un esodo
sempre più accentuato, continuato negli anni recenti, anche se, ultimamente,
il centro di attrazione (non solo per Libbiano) non era più Larderello, ma
Pomarance.
I dati qui di seguito riportati illustrano bene l’entità e
l’andamento del fenomeno: anno 1961 abitanti 232 anno 1971 abitanti 137 anno
1981 abitanti 101 31/12/1988 abitanti 80
Attualmente gli abitanti di Libbiano hanno un’età media che supera i 60 anni. I bambini sono solo poche unità e scarso è il numero degli adulti che non hanno raggiunto l’età pensionabile: mancano infatti intere generazioni, quelle dell’età di mezzo. Questo può far supporre un paese quasi addormentato ed immobile, ma la realtà non è tale: è anzi sorprendente vedere come i Libbianesi, anche quelli che hanno superato gli ottanta, riescano a condurre una vita sufficientemente attiva ed autonoma, a non stare con le mani in mano e a non aspettare l’aiuto altrui, sicché chi non conosce certi personaggi prova incredulità quando viene a sapere che sono nati agli albori del secolo XX. Del resto Libbiano non è quel paesino sonnolento che ci si potrebbe aspettare anche per altri motivi.
La sua dislocazione decentrata, il suo
essere fuori dal mondo (cioè lontano dai centri e dalle principali vie di
comunicazione), se per un verso è stato il motivo della sua decadenza,
dall’altro lato ne fa un angolo, come dicevo all’inizio, unico, dove l’orologio
della storia sembra essersi fermato a tempi più su misura umana e dove il
rapporto armonico tra uomo e natura non è un’utopia ma una realtà vissuta e
quotidiana.
Il discorso vale, in primo luogo, per
quello che riguarda le case che, ad eccezione del Circolo A.R.C.A.L.
(inaugurato nel 1969), sono tutte vecchie di secoli, anche se poi gli interni,
grazie alla solerzia degli abitanti, sia di quelli a tempo pieno che di quelli
che a Libbiano tornano ogni tanto, sono stati ristrutturati con criteri moderni.
Certo, proprio per questo, qualcosa è andato perduto: dai pavimenti in cotto ai soffitti con travi e travicelli, ai grandi focarili, teatro di lunghe veglie invernali al canto del fuoco. All’esterno, però, tutto è rimasto come una volta: le mura delle case, senza intonaco, fatte di mattoni o delle caratteristiche pietre bianche, i numerosi archi ciechi, le due stradine lastricate che portano alla torre, i muretti intorno al paese, affacciandosi ai quali si può spaziare da un lato sull’ampio panorama della valle del Trossa e, più oltre, di Volterra e delle sue colline, dall’altro su un succedersi di alture coperte di boschi foltissimi e degradanti verso la foresta di Monterufoli.
Sono queste
qualità, unitamente alla naturale simpatia umana degli abitanti, a far sì che
Libbiano, sia in estate, quando la campagna assume un aspetto quasi magico,
sia nelle altre stagioni, specie in tempo di caccia o di funghi, continui ad
essere meta di non poca gente. Gente
che ci abitava e che, quasi mai, lascia
passare troppo tempo senza tornarci a far una visita o, magari, gente di fuori,
gente di città lontane, che a Libbiano ci capita una volta per caso e ci si
innamora, lasciandosi prendere dall’incanto del silenzio, dell’antico,
imparando ad amare le cicale che friniscono e l’ombra degli alberi sulla
piccola piazza.
Laura Longinotti
NOTE BIBLIOGRAFICHE:
Giovanni Targioni
Tozzetti – Relazione d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana –
FORNI Editori Bologna
Don Mario Bocci –
L’Araldo di Volterra – Settimanale della diocesi di Volterra – 9/4/1972
A CURA DEGLI ARCHITETTI M.C. BIANCHI, M. SALVI, M. TALOCCHINI
Il monumento che abbiamo preso in esame,
si trova a Montecerboli una frazione del Comune di Pomarance, situata
nell’estremità meridionale della provincia di Pisa, in una zona
prevalentemente collinare, tagliata fuori dalle grandi vie di comunicazione.
Dal punto di vista geologico siamo in
presenza di argille spesso lignitifere e lacustri, serpentina e gabbro; il
nucleo storico, all’interno del quale si trova il monumento da noi rilevato, è
interamente fondato su gabbro e si trova a 375 m. sul livello del mare.
Interessante dal punto di vista
geologico è la vicinanza con Larderello e i conosciutissimi fenomeni endogeni,
dai quali pare derivare il nome di Montecerboli.
Interno della Chiesa di San Cerbone (1925 ca.) – Coll. Rossi U.
Si dice infatti che il nome fosse in origine Montecerbero a causa delle abbondanti emissioni sulfuree accompagnate da fummacchi, che facevano pensare alle porte dell’inferno, o al mitico guardiano delle medesime. Esiste comunque, anche un’altra teoria che fa risalire il nome a Monte Cervuli, per l’abbondanza dei cervi in questa zona; tesi questa avvalorata dal fatto che lo stemma della comunità, raffigura appunto un cervo sullo sfondo delle colline. «Non vi sono notizie antecedenti al 1000 riguardanti il castello di Montecerboli; la notizia più antica ce la fornisce il dott. E. Fiumi in una publicazione del 1934, egli parla di un atto stipulato nel 1003, che trovasi nell’archivio Vescovile di Volterra. In tale atto, Montecerboli, è chiamato “Monte Cerbero’’ ed il torrente che scorre alla base del monte è detto “Possula”, oggi Possera» (1).
Allo stato attuale Montecerboli è un
paese che conta circa 1500 abitanti, che vive essenzialmente del lavoro che i
soffioni boraciferi assicurano alla produzione dell’energia elettrica. A
questa industria è stato legato anche lo sviluppo demografico e quindi
edilizio; quest’ultimo ha avuto un notevole incremento dopo secoli di stasi,
proprio all’inizio di questo secolo, quando l’industria boracifera
“Larderello” (oggi Enel -Eni) ampliò gli stabilimenti ed assunse molta
nuova manodopera.
Lo stato di conservazione del nucleo
storico, che è rimasto piuttosto decentrato rispetto allo sviluppo edilizio
attuale è al momento, soddisfacente, pur con gli inevitabili restauri scorretti
eseguiti negli anni passati.
Il castello di Montecerboli trovandosi nell’area gravitazionale della città di Volterra, vede tutta la sua storia, legata appunto alla storia di Volterra di cui è stato per lungo tempo tributario; si trova notizia difatti, che nella primà metà del 1400, il Vescovo di Volterra, Roberto Ardinari, conferiva il titolo di conte di Montecerboli, ad Antonio di Pasquino Broccardi; i Broccami nel XV secolo erano una facoltosa famiglia di Montecerboli dove possedevano molte terre, ed avevano investito molti capitali nel commercio volterrano per lo zolfo ed allume che allora si estraevano dal territorio dei soffioni. La Comunità e cura amministrativa di Montecerboli, in antico comprendeva “ville e villaggi” oggi in gran parte perduti, ma sappiamo che al 1200 erano: S. Maria, S. Ippolito, Bagni a Morba, Libbiano e Spartacciano. Questo dimostra, che seppure di modeste dimensioni, il castello godeva di una certa autonomia, ed anche di uno statuto e di misure proprie e questo lo troviamo ampiamente testimoniato dal dizionario Geografico Fisico e Storico della Toscana di E. Repetti, di cui riportiamo un ampio stralcio: “Montecerboli in Val di Cecina.
Castelletto con chiesa plebana di San cerbone già filiale
della pieve di S. Maria a Morba, cui fu riunita nella comunità giuridica; è
circa 4 miglia a scirocco delle Pomarance, diocesi di Volterra, compartimento
di Pisa.
Risiede sopra un piccolo poggetto di gabbro fra la strada
provinciale massetana, che gli passa a ponente e il torrente Possera, confluente
a sinistra della Cecina. Senza perdersi in congetture sull’origine
del nome di Montecerboli, io non trovo
notizie d’esso, ne dei loro signori, che sieno più antiche di quelle pubblicate
daH’Ammirato Juniore, nelle aggiunte alle vite fatte de Vescovi di Volterra del
vecchio Ammirato.
Fra le quali un contratto del 14 gennaio 1160, rogato in Volterra nel Chiostro della cattedrale, vertente sopra una permuta fatta tra il Vescovo Galgano di Volterra e un certo conte Guglielmino, figlio del conte Rainuccio, e fratello di una altro conte Lottario, quando Guglielmino cede al Vescovo prenominato tutto ciò, che tanto egli che donna bella di lui moglie, possedevano nei castelli e distretti di Monte Cuccari, di Camporena, di Laiatico, di Ghizzano, e di Cedri in Val d’Era. In cambio di tali beni, il vescovo Galgano, rinunziò, ai due coniugi, la terza parte del castello, borgo e corte di Montecerboli’’.
La quale ultima espressione ci dà chiaramente a conoscere
che la Comunità di Montecerboli, fino a quell’età aveva misure sue proprie.
Con altro strumento della stessa provenineza, scritto il 20 dicembre 1173 nel
palazzo Vescovile di Volterra, Ranieri degli Libertini, Vescovo di detta
città fece fine a quietanza per L. 300 pagategli dal comune di Volterra di
tutto ciò che poteva pretendere rispetto ai dazi, condanne penali etc.; che il comune predetto aveva nei tempi addietro imposto e
fatto pagare agli abitanti delle Pomarance, di Montecerboli, di Leccia, di
Sasso, di Serrazzano, paesi sui quali i vescovi volterrani avevano allora doppia
giurisdizione. Infatti nel mese successivo, governava in Montecerboli, un
rettore vescovo di Volterra, del quale ne da prova il seguente documento tra
le carte della Comunità di Volterra relative a prestazioni di giuramento d’ubbidienza,
a quel comune. Esiste un atto rogato in Montecerboli per Ranieri degli
Libertini, in cui con i consiglieri elegge e costituisce un sindaco per recarsi
a Volterra a giurare obbedienza a quel podestà e colà difendere le liti
relative alla comunità di Montecerboli.
Quindi troviamo nei secoli XIII e XIV, che a seconda delle
disserzioni e pacificazioni fra i vescovi e i rappresentanti il comune di
Volterra, gli uomini di Montecerboli prestavano obbedienza di sudditanza alla
città piuttosto che al loro prelato. Solamente per concordia fatta ne! 1253, fu
stabilita la restituzione al vescovo Ranieri del castello sopra nominato, a
condizione che alla morte di lui tornassero in potere della citta. Frattanto,
per interesse comune delle parti, a seconda di una nuova convenzione fatta nel
1226 fra il vescovo Alberto Scalari e il Comune di Volterra: “si esigevano
le collette, le condanne e ogni altro diritto”.
Intorno a questa stessa età Montecerboli, a tenore dello
Statuto volterrano del 1228, pagava di tassa annua lire 7286.
Mediante alcune trattative concluse nel 1319 state
rinnovate quattro anni dopo fra i rappresentanti della città e Rainuccio,
restò convenuto che i rettori di Montecerboli e degli altri 4 castelli, si
dovessero estrarre da una borsa di 200 probi cittadini volterrani, a patto di
ricevere la investitura del Vescovo. Ma con il tempo si mancò ai patti per
cui il 29/12/1394 furo
no stabiliti tra il vescovo e il comune di Volterra, nuove convenzioni con le
quali fu determinato che il giurisdicente di Montecerboli, non si poteva
nominare eccetto che fra i cittadini volterrani.
Finalmente dallo statuto di Volterra del 1411, rilevasi che allora nel castello di Montecerboli, faceva ragione un ufficiale inviatovi dal comune di Volterra. Uno degli ultimi atti tendenti a provare un resto di dominio che in Montecerboli avevano i Vescovi, fu scoperto dallo stesso Ammirato Juniore nell’archivio delle Riformagioni di Firenze; è una provvisione della Signoria fatta nel 1429, dalla quale risulta che il comune di Volterra, stante la ribellione accaduta nel 1427, aveva perduto il diritto di eleggere i suoi podestà e i suoi giurisdicenti del contado Volterrano, ma siccome i rettori della repubblica fiorentina avevano molta stima del Vescovo Stefano da Prato, Vescovo di Volterra, vollero conservare in favore suo gli antichi diritti, fra i quali, quello di eleggere e di poter inviare ogni sei mesi i rettori a governare nel civile gli abitanti dei castelli delle Ripomarance, Laccia, Sasso e Serrazzano rilasciandogli per detto tempo anche la regalia delle condannazioni. (Ammirato dei vescovi di Volterra). Non sembra però che ai successori del vescovo Stefano Aliotti fosse continuato un tal privilegio dalla repubblica fiorentina a nome della quale d’ora in poi Montecerboli si governava con tutto il restante contado.
La Chiesa Parrocchiale di San Cerbone, fu eretta in battesimale dopo che l’antica sua chiesa matrice di S. Maria a Morba, cadde in rovina. La qual trasalazione avvenne verso il 1400 giacché la Pieve a Morba esisteva nel 1335 cosi come attesta il sinodo volterrano dello stesso anno. Sul declinare del secolo medesimo venne rammentata ancora da “Ugolino da Montecerboli” nella sua opera “De Balneis”.
Delineato sommariamente il quadro
storico e ambientale in cui ci troviamo, cercheremo ora di scendere nei
particolari e cioè nell’esame tipologico di questo monumento.
Ci troviamo di fronte ad una chiesa a
pianta rettangolare ad una sola navata con annesse due altre costruzioni di
incerta datazione ed un campanile piuttosto recente(1902).
La struttura in elevazione della chiesa è realizzata con muratura a sacco in laterizio, che all’esterno è lasciato a facciavista, mentre all’interno è allo stato attuale intonacato così come lo era già nel ’600.
Ingresso della Chiesa
La copertura alla “lombarda” èsorretta
da tre capriate ed è stata più volte manomessa, come troviamo ampiamente
documentato, per cui è impossibile stabilire come fosse in origine; dalle
lesioni che si riscontrano sulla facciata, si può però ipotizzare che non fosse
una copertura a spinta eliminata. Sul lato posteriore sinistro esisteva un
campanile a vela con due campane, che franò agli inizi di questo secolo e non
fu più ricostruito; si preferì, malauguratamente, costruirne uno nuovo, che
come si può vedere, fa brutta mostra di sé sul lato destro della chiesa.
Abbiamo trovato scarne notizie di questa
chiesa nelle pubblicazioni consultate; comunque dall’opera di Moretti Stopani
(Chiese Romaniche in Val di Cecina), abbiamo potuto trarre alcune valide
indicazioni, nonché la convinzione che l’oggetto del nostro studio si inquadra
perfettamente nella tipologia delle sopra citate chiese, sebbene sia stato
costruito probabilmente in economia e materiali poveri.
È comunque da notare l’archivolta con ghiera di cotto stampata a zigzag, che si ritrova anche in altre chiese dei dintorni (Beiforte e Monteguidi) e il basamento di pietre a vista arenaria indicatore di un’influenza pisano lucchese filtrate daH’ambiente volterrano; anche qui il materiale impiegato è meno pregiato. Anche i materiali da costruzione sono tipici di questa zona: arenarie, travertino, laterìzio e gabbro verde. Sicuramente interessante è il bordo in laterizio stampato in varie fogge che si trova sui paramenti esterni poco sotto la copertura. Non è da escudere che questi siano gli “idoletti” di cui parla Targioni Tozzetti in una relazione di viaggio in questi luoghi.
La chiesa plebana di San Cerbone,
dipendeva in origine dalla Pieve a Morba di cui in seguito prese i titoli e
il fonte battesimale, come si trova testimoniato in una lettera di Don Mario
Bocci archivista dell’archivio Vescovile di Volterra:
“Della Pievania di San Giovanni a Morba,
rimane oggi solamente l’abside incorporato ad una casa colonica.
La pieve apparteneva come diocesi al nucleo primitivo della chiesa volterrana come fanno fede i due privilegi di papa Alessandro III al Vescovo S. Ugo (1117 e 1179). La pieve era collegiata cioè possedeva un piccolo capitolo dei canonici: all’atto della costituzione dei Sesti Vicariali viene riconosciuta al Capo Sesto della Maremma o di Montagna ed ha sette rettorie che da essa dipendono come filiali cioè S. Cerbone e Montecerboli, San Michele e Spartacciano, S.S. Salvatore e Castelnuovo ecc”.
Di certo è che già nel 1400 la pieve minacciva rovina. Il 24 Novembre 1460, il vescovo G. Neroni, ad una istanza del Vicario Consiglieri, e popolo della Comunità di Montecerboli, risponde che, “attesa la penuria del clero (sappiamo infatti che nel periodo che va dal 1310 al 1315, essendo vacante il posto di pievano, tenne per qualche tempo la pieve, il prete Cinzio, rettore di S. Cerbone a Montecerboli) e tenuità delle rendite della chiesa di san Cerbone: “Propter guerras, pestilentias nancnon alias calamitates etgravedines’’ aggrega, unisce e incorpora ad essa la pieve “… quae sub venerando vocabulo Sancti Joannis de Morba est sita infra metas vestrae Curtis et sine cura animarum, cum omnibus suis pertinetisis juribus actionibus ecclesiis et oratoriisi’’. Cosi il nome, la gloria e la supremazia di Morba, cessarono e i titoli con il fonte battesimale passarono alla chiesa di Montecerboli. Della struttura della Pieve a Morba, come si è già detto, non rimane che parte dell’abside; sappiamo solo che era a forma basilicale con tre navate di tre campate l’una su pilastri di pietra, con tre altari al presbiterio.
Dietro l’altare Maggiore era l’abside e sopra due finestrelle laterali oblunghe, sulla facciata vi erano degli archetti pensili e sulla porta maggiore un occhio con rosone. Grazie all’interessamento personale di Don Mario Bocci, Archivista della Mensa Vescovile di Volterra, siamo riusciti ad avere le copie di alcune visite pastorali da cui abbiamo tratto utili indicazioni sul succedersi dei numerosi rifacimenti subiti dalla chiesa. Ci è stata utile anche la consultazione dei manoscritti contabili della comunità di Montecerboli di cui abbiamo preso visione nell’Archivio comunale di Pomarance. Tutto quanto sopra scritto verrà riportato in seguito in stralci tradotti o in testo integrale.
Montecerboli (PI). Il castello
Sono queste le uniche notizie attendibili peraltro scarse
a cui abbiamo potuto attingere.
Dalla Visita pastorale di Mons.L. Alamanni
Registro I carta 26 tergo e
segg :
“27aprile 1599’’…“Pieve di S. Gio.Battista di Morba’’
…Proseguendo la visita
arrivò alla chiesa pl e ban a non più occupata di S. Giovanni a Morba, che si dice sia
annessa alla chiesa di San Cerbone del castello di Montecerboli. È in pessimo
stato per quel che riguarda il tetto le pareti e il pavimento. Le porte sono
vecchie e malandate, e chiuderle serve a poco perchè vi entra ogni genere di
animali. C’e un altro altare di pietra consacrata e sopra l’altare c’è una
croce soltanto con due candelabri, c’è un’icona piccola ed antica con al
centro l’immagine della Beata Vergine, a destra un’immagine di Giovanni Apostolo
e a sinistra un’immagine di San Giovanni Battista ma tuttavia quella immagine
della B.M. Vergime fu oggetto di grandissima devozione presso le popolazioni
locali e limitrofe. La chiesa minaccia rovina in ogni sua parte ed ha bisogno
di una grossa opera di restauro…
“Pieve di San Cerbone del Castello di Montecerboli;
…e proseguendo il viaggio il reverendissimo Padre arrivò al castello di Montecerboli dove fu ricevuto con grandi onoreficenze dal pievano a dalla popolazione. Arrivò nella chiesa di San Cerbone, una volta espletate le funzioni di rito dopo aver cantato la preghiera benedisse il popolo diede l’assoluzione ai morti con la mitra, il pluviale e il bastone. Visitò il S.S.Eucarestia che è conservato sopra l’altare di detta chiesa in un armadietto di legno a forma di tabernacolo… poi visitò il fonte battesimale che è a destra dell’ingresso della chiesa. L’acqua per lavare gli infanti viene conservata in un vaso di terracotta ed è un coperchio dello stesso materiale, ed è incluso in un luogo a forma di altare in decenti condizioni e chiuso a chiave, e nelle restanti cose è in buono stato. L’olio santo viene conservato in un luogo ed in condizioni decenti. C’è soltanto un ’altare di pietra con la pietra consacrata, decente.
Sopra l’altare c’è una croce di legno dipinta e dorata con
quattro candelabri di legno e due di ferro…
La chiesa è lunga venti braccia e larga circa nove
braccia, il tetto, le pareti e il pavimento sono in buone condizioni.
Ci sono due piccole campane dalla parte dell’epistola, che sono trattenute in quel luogo con pericolo che cadano.Nella chiesa c’è una tribuna lignea (pulpito) abbastanza decente,non c’è confessionale. Sopra la porta c’è soltanto un “Oculus“ che è schermato con un drappo di lino. A sinistra dell’ingresso della chiesa c’è il cimitero chiuso da ogni parte e “cum cruce decenter retentum”.
Le porte della chiesa sono di legno e sono
vecchie,tuttavia la sera vengono chiuse a chiave.
All’ingresso della chiesa c’è un vaso per l’acqua benedetta
in decenti condizioni. La chiesa è appena sufficiente per la popolazione,
tuttavia è situata in un luogo così alpestre che non vale la pena di allargarla…
Le famiglie sotto la cura
di questa chiesa sono circa 53, te anime circa 250 di cui 180 hanno ricevuto la
Sacra Eucarestia…’’
Questa è una delle piu interessanti Visite pastorali, di
seguito daremo il resoconto di altre visite pastorali posteriori a questa e
riporteremo un interessante frammento che abbiamo avuto in questo periodo.
Le visite pastorali
precedenti al 1599 si possono riassumere in questa formula: “la chiesa per
quanto riguarda l’edificio è in buone condizioni, conserva il sacramento
dell’eucarestia in buone condizioni e così l’olio santo e le crismate; ha il
fonte battesimale in buone condizioni”. C’è poi un frammento del 1477 allegato
alla visita del 1463 di Mons. Giugni: “…La chiesa è stata restaurata ed è
bella in ogni sua parte… e similmente il cimitero è in buone condizioni ed è
recintato con un muro si che non possono entrarvi bestie e fiere…”
Visita Ighirami 30 Ottobre 1618 carta 694: “…vide poi il
fonte battesimale a destra di chi entra che è di pietra e contiene solo un
vaso nel quale c’e un cratere di stagno per battezzare gli infanti, questo
fonte è chiuso con coperchio di legno e a chiave. Vide poi vasi dell’olio
santo, che sono di stagno e sono conservati in un armadietto nella parete a
destra dell’altare con la loro borsa di seta. Sopra l’altare maggiore c’è
un’immagine indecentissima.; all’interno della chiesa, nella parete anteriore
è infissa una grande croce di legno dipinta ed antica; a metà della chiesa, a
destra di chi entra, sopra il fonte battesimale c’è un pulpito ligneo abbastanza
decente. C’è a Sinistra di chi entra il feretro con suo panno nero. Nella
chiesa non ci sono sepolture e per quanto riguarda il pavimento, il tetto e le
pareti è in buone condizioni sebbene le pereti siano quà e la scrostate.
Vicino all’altare dal lato del Vangelo c’è un confessionale in decenti
condizioni.
L’occhio della chiesa non
è chiuso ne con tela ne con vetro; le porte della chiesa sono in buone condizioni.
Vide poi la sacrestia che è dietro l’altare maggiore nella quale fu trovato un
calice con la coppa d’argento e il piede e la patena dorati’’.
Nel 1686 il vescovo Dal Rosso annota che la chiesa di Montecerboli è stata nuovamente riparata dal pievano Antonio Mazzocchi di Castiglion d’Orcia: “Felicitur olim fuit ecclesia ut ex murorum dirutorum cementis aperte dignoscitur; fertur enim, bellicis oricalcisundequeque circumsonantibus ecclesia fuisse diruta et plura passa belli detrimenta…” (Don Mario Bocci)
Una delle porte sul cimitero
Dalla cosultazione dei partiti e deliberazioni del Comune
di Montecerboli si sono ricavati dati abbastanza precisi sull’entità delle
opere di restauro di cui la chiesa ha avuto bisogno, ma non sulla qualità di
questi interventi come si può prevedere da diversi documenti.
Accanto all’indagine storica abbiamo portato avanti
un’altro tipo di indagine basata sull’osservazione del monumento in esame sia
dal punto di vista statico che da quello dell’uso dei materiali,nonché dal
deterioramento di questi ultimi.
Il corpo di fabbrica della chiesa è realizzato in massima parte con una muratura a sacco in laterizio, fatta eccezione per la base che è costituita da grosse pietre squadrate in arenarea, provenienti probabilmente dalla Pieve a Morba.
La canonica
Sull’aspetto frontale c’è da notare il diverso
comportamento all’usura dei singoli mattoni:difatti mentre alcuni sono gravemente
deteriorati, altri sono in buonissime condizioni; questo fenomeno che in un
primo momento ci ha fatto pensare ad una diversa datazione dei materiali ha invece
con tutta probabilità avuto origine dalla diversa cottura ed alla diversa esposizione
alle intemperie dei singoli elementi.
La finestra sopra la porta, che nelle vite pastorali è
descritta come oculus, è stata probabilmente ricostruita in epoca recente,per
cui è molto difficile stabilire la forma della finestra originale. La struttura
presenta delle lesioni che si possono far risalire al primo dopoguerra.Sulla natura
di queste lesioni si possono fare più ipotesi: spinta della copertura, cedimento
delle fondazioni, degrado dei materiali. Esclusa l’ipotesi di un cedimento fondarla
chiesa è interamente fondata su gabbro) restano le altre due, che sono
probabilmente concomitanti: di fatti se da un lato la copertura esercita
sicuramente una spinta sia perpendicolare,che si suppone uguale lungo tutto il
lato su cui appoggiano i correnti, avrebbe dovuto provocare i medesimi danni
lungo tutto il lato suddetto; se questo non è avvenuto invece che in luoghi ben
definiti è perchè alla spinta della copertura, in questi luoghi si è aggiunto
il degrado dei materiali dovuto all’infiltrazione prolungata di acqua piovana.
Come si trova ampiamente documentato nella ricerca storica la copertura ha
avuto spesso bisogno di essere riparata e questo fa legittimamente supporre
che ci siano stati periodi abbastanza lunghi durante i quali l’acqua piovana
è filtrata liberamente all’interno del sacco, provocando la disgregazione del
legante interno al sacco e quello della stessa malta che lega i mattoni. Il
lato destro nel suo insieme è poco leggibile a causa del recente campanile e
dell’ attuale sacrestia che ne occupano una parte notevole. Da notare la
finestra monofora, murata dall’interno, e la fila di elementi in laterizio
decorata a rilievo di pregevole fattura inseriti nel bordo poco sotto la
copertura.
Del campanile c’è poco da dire, costruito tra il 1902 e il
1909 (Progetto di Carlo Bonucci di Pomarance detto il Falugi), risulta in
buone condizioni, fatta eccezione dei solai intermedi in legno che risultano
particolarmente deteriorati.
La sacrestia che si raccorda al campanile con una
ammorsatura in laterizio, è per il resto costruita con pietrame frammisto a
laterizio. Non abbiamo notizie sufficenti per datare con precisione questa
costruzione, che comunque non esisteva ancora alla metà del XVII secolo. Sul
lato posteriore della chiesa è per cosi dire appiccicata una costruzione a
pianta triangolare che secondo le testimonianze raccolte dalle visite
pastorali è la originaria sacrestia.
L’altro fianco laterale della chiesa (di fronte alla chiesa della Misericordia) è molto più leggibile ed apre una serie di problemi a cui non è facile dare una risposta. La prima cosa che vien fatto notare sono senz’altro le due porte chiuse, che si trovano circa tre metri sopra il piano stradale. Queste porte, che dovevano aprirsi su un terrapieno dove era situato il cimitero sono state chiuse con materiali diversi, il che fa pensare ad epoche diverse; la loro soglia si trova a 40 cm. più in alto rispetto al piano del pavimento della chiesa. Lo sbancamento del cimitero ci ha permesso di di vedere la struttura di fondazione che poggia direttamente sulla roccia viva, eccezion fatta per l’estremità posteriore che ha dovuto essere sostenuta con uno sperone in pietra,costruito probabilmente proprio quando fu spostato il cimitero. Anche su questo lato è presente la fila di elementi in laterizio decorati simile a quella che si trova sul lato opposto; osservando bene l’estremità posteriore in alto si può notare lo strappo causato dalla caduta del campanile(inizi del 900) che non fu più ricostruito. All’interno della chiesa,molto è stato cambiato rispetto a ciò che risulta scritto nelle visite pastorali. Ci sono adesso altari in stucco, uno maggiore e due laterali, sopra il maggiore c’era un’immagine raffigurante la vergine tra i santi(oggi restaurata e conservata nella nuova Chiesa parrocchiale di Montecerboli). Sull’altare di destra c’era un crocifisso in legno di scuola senese, che anch’esso è stato portato nella nuova chiesa; sull ’altare di sinistra vi è una statua della vergine con il bambino.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
Archivio storico Comunale di Pomarance Filza 378 e seg.ino
alla 803
Rassegna “Larderello“ 1955-1956
Repetti
“Dizionario Geografico e fisico della toscana V.3 Fi. 1839
Targioni Tozzetti: Relazione di alcuni viaggi fatti in
diverse parti della Toscana Fi.1770
C. Ceccarelli: “Val di Cecina” Monografia geografica.
Faenza 1913.
S. Pieri: “Toponamastica della toscana meridionale e
dell’arcipelago Toscano.
M.Salmi: “Architettura Panoramica in toscana” 1929
Chiese Romaniche nella campagna toscana 1959
Scheneider: “Regester Volterranorum” Roma 1907
Volpe: “Maremma” Gr.1924-1930 Zuccagni Orlandini A. Atlante geografico fisico storico della toscana. 1832.
Moretti-Stopani “Chiese romaniche in Val di Cecina”
1970
Visite pastorali dall ’Archivio della Curia Vescovile di
Volterra.
S. Mastrodicasa: “Dissesti statici delle strutture
edilizie Hoepli Milano 1977”.
P. Sampaolesi: “Discorso sulla metodologia generale del restauro dei monumenti”. Firenze 1977. Ringrazio vivamente gli Archietti Talocchini, Bianchi e Salvi per aver concesso la pubblicazione di questo interessante studio universitario che ci permette di conoscere ancora di più il nostro patrimonio storico artistico spesso sottovalutato e lasciato nel piu completo degrado.
Il 24 agosto, giorno di S.Bartolomeo
apostolo, è avvenuta la riapertura al pubblico della parrocchiale di Montegemoli,
e vi si è celebrato la consueta festa titolare e patronale.
I restauri, portati a termine col concorso di tutta la popolazione, mettono in evidenza la struttura molto antica della chiesa, di chiara impostazione romanica, almeno duecentesca, se non più antica. Ma il fatto stesso di questo recupero architettonico mette in evidenza anche la sensibilità del sacerdote ufficiatore Don Luciano che precedentemente restaurò la chiesa romanica di Castelquerceto e recentemente ha abbellito quella di Saline dove risiede.
Lo stesso Don Luciano ha commissionato
una ricerca storica su Montegemoli dalla quale risulta che un “Regesto”, o
registro, di documenti volterrani, stampato all’inizio di questo secolo,
contiene, tra molte altre, queste notizie.
Il vescovo di Volterra, Bertelli alla cerimonia di apertura (agosto 1993)
Nel 1133 avevano possessi in Montegemoli
gli abati di Morrona, monastero beneficato dai conti Cadolingi di Fucecchio.
Nel 1176, con una sua bolla solennissima,
papa Alessandro III garantì protezione alla Badia di Monteverdi pei diritti da
essa posseduti sopra castello corte e chiesa di Montegemoli.
Tale giurisdizione monteverdina, nel
1208, l’abate Ranieri la concesse ai consoli del Comune di Volterra.
Non si conosce a pieno l’estensione di
tutti questi diritti degli abati; ma il giorno 8 luglio 1226 i conti palatini
Guglielmo e Bonifazio del fu conte lldebrandino degli Aldobrandeschi di Soana
Pitigliano e Grosseto, stando presso il castello di Montegemoli nella chiesa di
S.Bartolomeo, presente Seracino prete della parrocchia, e Affricante rettore
della corte e castellano pei volterrani, fecero registrare tutti i loro
diritti e ragioni feudali.
Nel 1257 i conti palatini lldebrandino e
Umberto del fu conte Guglielmo, in lite coi volterrani pei castelli di
Montegemoli e Silano, fecero compromesso di queste differenze nel capitano
anziani e consiglio di Firenze.
Le liti però continuavano ancora nel
1285 quando Guido di Montfort marito di
Margherita Aldobrandeschi, insieme a Gherardo di Fosini procuratore dei
volterrani, fecero arbitri della contesa circa il castello e le acque salse,
il consiglio del Comune di Siena.
Guido di Montfort, scomunicato dal papa, fece perdere molti dei diritti degli Aldobrandeschi, ma il 2 agosto 1297, nella divisione avvenuta in Santa Fiora tra i conti, per sorteggio toccarono a lldebrandino Novello, oltre Silano e Montegemoli, i diritti su Roccastrada, Suvereto, Pietra Batignano, Massa, Scarlino, Giuncarico ecc.
Sono tempi persone e luoghi “danteschi”, e fatti ben conosciuti dagli abitanti di Valdicecina. Tra questi c’è lo scrittore poeta e pittore Bindino da Travale, forse dei Pannocchieschi, ma che non disdegna chiamarsi “il porcaro” di Valdicecina. E’ lui che, irridendo le megalomanie dell’Alighieri, nel 1415 nella reggia di Napoli mette in bocca al re Giacomo d’Angiò, di fronte agli ambasciatori di Siena e Firenze, un discorso carico di traslati contro la superbia di Dante, tra cui l’allusione a Montegemoli e Montecoloreto, per cui fa sospettare che la madre e la matrigna del poeta non avessero ascendenze nobiliari.
Argomentando su queste memorie, al
PaliodelleContradedi Pomarance 1987, Dante fu incoronato con “l’Alloro di Montegemoli”,
e la sceneggiatura sui racconti di Bindino fece vincere il primo premio alla
Contrada Marzocco.
Oggi, nell’occasione della riapertura di questa chiesa, esasperando certamente l’implicazione su Montegemoli registrata da Bindino, non si potrebbe pensare che il poeta fosse stato battezzato in questa chiesa? Dante, nato nel 1265, perse la madre a cinque anni e il padre in seconde nozze sposò Lapa di Montecoloreto.
In quel tempo, certamente, il “bel San Giovanni” di Montegemoli si sarebbe dovuto trovare nella grandissima pieve vecchia di Micciano, che non sappiamo precisamente quando crollò o fu distrutta; Montegemoli però (piccolo mondo di nobili potenti) ebbe prestissimo un fonte battesimale dove battezzare anche l’Alighieri.
Una
Madonna di grande devozione
Con la riapertura della chiesa parrocchiale viene messa in evidenza e collocata più vicina ai fedeli la devotissima immagine della Madonna col Bambino, tela su tavola che i cultori dell’arte collocano almeno nell’ambito del Millequattrocento.
E’ difficile documentare se il quadretto
è la rimanenza di un polittico antico, nato e voluto intero per la chiesa,
oppure, come in altre chiese, il polittico fu messo a circondare un’immagine
più antica e già venerata.
Don Luciano, nella ricerca da lui eseguita,
lascia in sospeso le due possibilità. Infatti un inventario del secolo XVII
così descrive in chiesa la “mostra” dell’altare: “Un quadro d’altezza di
braccia quattro e larga tre fatta di nuovo da me prete Antonio Telleschi l’anno
1642 tutta a mie spese e di mio proprio con l’infrascritti santi, donata con
sua cornice di noce e sua coperta di tela turchina, cioè LA MADONNA ANTICA
ch’io ci ho trovato. Nel Quadro “nuovo” da capo il Padre
Eterno, a mano destra S.Bartolomeo titolo della chiesa, S.Antonio abate e
S.Francesco, a mano sinistra S. Verdiana S.Lucia e S.Cecilia. Quale mi gosta in
tutto Scudi Cinquanta.”
Madonna antica e quadro “nuovo” con
santi. E il quadro vecchio?
Un documento del secolo XV riporta una
lettera al Vescovo da parte dell’Opera Parrocchiale che sollecita una decisione
per un polittico (così sembra) essendo disponibili tra 1437 e 39 almeno Lire
165 (tra erbe di Pasco e bestiami venduti) per compiere questa pittura.
“Ricordo a Voi Monsigniore Messer lo Vescovo de’ fatti della Chiesa di Montegiemoli e Ch’Ella vi sia raccomandata, perché l’opera di decta Chiesa fecie fare una tavola di legniame per l’Autare di decta Chiesa, la quale si fecie per farla dipigniere e ponerla a decta Altare, considerato che e denari che bisognano per decta dipintura ci sono.”
Era una tavola di contorno per questa
Madonnina, che anche allora, poteva chiamarsi “antica”?
Un ricercatore, americano di Boston, Rolf Bagemihl, che ha lasciato sue scritture presso i signori
Cantini e Cucini, famiglie che iniziarono i lavori di restauro alla facciata
della chiesa, è di questo parere.
Il campanile della Chiesa
Egli parla, come pittore, di Francesco
di Neri Giuntarini da Volterra, e quale committente, o testatore, di Coluccio
Frescolini da Montegemoli, il quale espresse le sue ultime volontà nel giugno
1348. Come nessuno può giurare su Dante e Montegemoli, anche se la seduzione di
Bindino da Travale è grande, così nessuno può sposare senza matura riflessione
le suggestioni dell’americano: il pittore volterrano Francesco di Neri era a
suo tempo conosciuto come Francesco di “maestro Giotto”.
Comunque trovare a Montegemoli richiami
danteschi, uniti a luminosità giottesche, è quanto basta per definire “solare”
la devozione di questi popolani alla loro Madonna, e concludere con le parole
del divino poeta
“Vergine madre
figlia del tuo figlio umile ed alta più che creatura (sei tu nel cielo)
La Torre del Castello di Montegemoli.
meridiana face di caritate e giuso
intra i mortali
se’ di speranza fontana verace”
Una speranza che dona “nobiltà”
alla madre dell’Alighieri, alle nostre madri e a ciascuno di noi.
Numerosi altri santi e devozioni
Antonio di Pietro Telleschi da Castelfiorentino, diocesi di Firenze, risulta “canonico” nel suo paese, quando dal Comune di Montegemoli, tramite il nobile volterrano Gaspero Bardini, il 4 ottobre 1614 fu presentato al vescovo Luca Alamanni perché lo nominasse a succedere a prete Niccolò Maffii di Pomarance, che un mese prima aveva rinunciato la cura d’anime per vivere del proprio patrimonio familiare.
La cura d’anime, paese e campagna,
consisteva in 45 famiglie e quasi 400 persone (la peste del 1630 le ridurrà
assai); le rendite vengono segnalate in quaranta sacca di grano, computateci 48
staia per decime prediali.
Il vescovo, prima di nominare questo
prete, che poi risulterà bravissimo, tramite il vicario Carlo Mazzinghi e
Jacopo Petrini del comune fece affiggere editti alla chiesa del paese, e poi lo
fece esaminare rigorosamente dall’arcidiacono Baldassarre Bardini, dal teologo
Guglielmo Bava agostiniano e dal giurista Antonio Panzerini dei conventuali
di Volterra. Nella visita pastorale , che l’Alamanni aveva fatto il 7 aprile
1606 coi canonici Pierpaolo Minucci e Ottaviano Cecchi, viene descritto
l’altare maggiore sopra cui c’è un’icona “antica” con la Beata Vergine
Maria S.Bartolomeo apostolo e molti altri santi.
Non si dice quali, ma forse non c’è Santa Verdiana che è valdesana di Castelfiorentino. A mezza chiesa, a destra en trando, c’è l’altare di S.Sebastiano “eretto come si asserisce per voto di peste dalla famiglia Pieri” ma a devozione di tutto il popolo; l’icona contiene le immagini di S.Sebastiano S.Antonio e S.Rocco. Di fronte, a sinistra, c’è l’altare della Compagnia del Corpus Domini, composta di uomini e donne che vanno in processione, ed hanno commissionato un’icona nuovissima.
Dentro il castello c’è un Oratorio
dedicato a San Michele arcangelo, di cui è patrona la famiglia Barzottelli. Il
cappellano, canonico Angelo Guidi, vi deve celebrare sabato domenica e lunedì;
fare la festa l’otto maggio, apparizione di S.Michele, e quella di S.Macario
con uffizio il giorno seguente.
Nell’icona ci sono le immagini della Beata
vergine di S.Michele S.Giovanni e S.Macario.
Fuori castello c’è l’Oratorio di San
Sebastiano. A un miglio lachiesadi S.Niccolò a Celli, già parrocchiale oggi
unita a S.Bartolomeo; vi si fa la festa titolare il 6 dicembre e la
commemorazione di S.Macario.
I Guidi, affittuari dei beni, per
contratto vi devono piantare una vigna; ma per loro devozione hanno eretto un
Oratorio di S.Caterina alla loro villa di Serra.
Antonio Telleschi era sempre vivo nel 1652, e il vescovo Giovanni Gerini nella visita del 7 aprile (domenica in Albis) testimoniò che tutti i giorni festivi insegna la dottrina cristiana e i rudimenti della fede cattolica, proclama le feste e le vigilie, spiega il vangelo e i documenti della morale. Per Pasqua tutti si sono comunicati, e in parrocchia non c’è nessun pubblico peccatore.
Don Mario Bocci
Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.
La Storia Continua
Gestisci Consenso Cookie
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.