MONTECATINI VAL DI CECINA

Montecatini Val di Cecina è uno di quei paesi che, per la conformazione urbani­stica ed architettonica ancora molto be­ne conservate, meriterebbe una maggiore attenzione e quindi un maggiore riguar­do da parte di chi cura e tutela il patrimo­nio dei beni monumentali.

Posto su di uno sperone di roccia subvul­canica del Pliocene medio, Montecatini V.C. domina tutte le strade della vallata, posto a cavaliere tra il Monte Volterrano e le Rocche di Miemo, al limite settentrio­nale della Catena delle Metallifere, dalle quali resta diviso dal fiume Cecina per ef­fetto delle grandi faglie che interessaro­no il territorio nelle fasi successive al Mio­cene superiore.

  1. rilievi di Montecatini V.C. diventarono promontori avanzati della grande laguna che si formò con la sommersione della in­tera Val di Cecina, conseguente ad una intensa attività tettonica che determinò lo sprofondamento del suolo ove si accumu­larono i sedimenti di argilla e quelli di sal­gemma, per effetto della fase evaporitica di acque poco profonde del mare. Con il ritiro delle acque marine e l’asse­stamento del cordone litoraneo, Montecatini V.C., già importante sotto il profilo strategico per l’affacciarsi sulla estesa vallata del Cecina, sede quest’ultima di antichissimi insediamenti preetruschi e villanoviani, si sviluppò intorno agli anni 1000 quale borgo fortificato, come risul­ta dalla documentazione storiografica dai cui testi si assume che il borgo, chiama­to allora Monte Leone, era di proprietà del Vescovo Pietro di Volterra il quale vi eser­citava l’autorità religiosa, essendo sog­getto, il paese, alla Pieve di Gabbreto.
  2. 23 luglio 1109 certo Ranieri detto “Mal­conte” cedette alla Chiesa Volterrana tutti i privilegi allora posseduti in Montecatini. Tuttavia, seppure non esista documenta­zione storica, nè vi siano reperti di epoca più antica, vi è da presupporre che Montecatini V.C. sia stata una rocca for­tificata anche in epoca romana per la de­nominazione dal nome latino (Catignano, Catinus), già importante storicamente per un prestigio militare che andò conquistan­do quale baluardo a difesa della penetra­zione barbarica.

Nella piana sottostante, subito a ridosso della pendice dell’Arzignano, sembra in­fatti che nel 306 avanti Cristo, una intera legione romana vi abbia stazionato per ol­tre dieci anni, quanto infatti è durato l’as­sedio di Volterra, caduta in mano di Ro­ma nel 296 a.C.. Narra Targioni Tozzetti nel suo libro “Viaggi in Toscana” che i contadini del luogo hanno trovato nell’arare l’esteso pianoro, molte ossa umane e “ferramenti” per una battaglia che lì sa­rebbe avvenuta tra romani e volterrani. Detto pianoro è denominato infatti “Ca­po Romano”.

Il 6 maggio 1226, col beneplacido di Fe­derigo II, il Vescovo conte si impegna a dare al Comune di Volterra e al Podestà “l’oste e la cavalcatura, salvo il diritto del Vescovo ad andare in guerra quando lo volesse per la difesa del suo feudo e del suo territorio”.

Nel 1316 nei pressi di Montecatini V.C. fu combattuta una battaglia fra Pisa e Vol­terra, vinta dai Pisani che imposero ai vinti una convenzione sui diritti che Pisa avrebbe esercitato sul teritorio del Vesco­vo conte.

Nel 1350 Montecatini V.C. è di proprietà dei Beiforti i quali istituirono il presidio del Castello con una forte guarnigione di sol­dati.

La fine delle Signorie prima, e la conqui­sta da parte dei fiorentini della città di Vol­terra, avvenuta con il famoso sacco del 1472, posero il borgo sotto il dominio me­dicee sino all’avvento degli Asburgo Lo­rena al trono di Toscana.

La comunità di Montecatini, costituita da Leopoldo I il 29 settembre 1774 a seguito di riforma dell’ordinamento amministrati­vo del granducato, venne a comprende­re ben cinque frazioni: Montecatini, Gello, Querceto, Sassa e Mazzolla. Durante la dominazione francese (1807-1814) la co­munità di Montecatini fu sottoposta alle di­pendenze della sottoprefettura di Volter­ra ed anche con la successiva restaura­zione granducale, continuò a far parte del­la cancelleria volterrana. Nel 1833 Maz­zolla passò a Volterra e Miemo, tolto al co­mune di Lajatico, andò a far parte di quel­lo di Montecatini V.C.

Montecatini, in questo periodo, non solo fu particolarmente celebre per le attività delle miniere del rame, già attive sotto il dominio mediceo ed ancora in piena effi­cienza, ma anche per la produzione del miele, il cui gusto, particolarmente squi­sito, pare fosse dovuto ai fiori di lupinella selvatica, tuttora abbondanti in quella zona.

Nel 1876 il Comune di Montecatini V.C. aveva una rendita di lire 499.040,07 e con­tava ben quattro scuole pubbliche con 206 scolari ed una scuola privata (maschi­le) con 36 allievi. La popolazione del Co­mune era di 4304 abitanti, di cui 2361 re­sidenti nel capoluogo.

Anche la documentazione storica dei nu­merosi monumenti architettonici è scar­sa, seppure il borgo ne conservi ancora numerose testimonianze.

Ne sono esempio la “Rocca” su cui risal­tava vistosamente la poderosa Torre Bei­forti che domina il paese, le mura lungo le quali sale la strada che conduce alla Chiesa intitolata a San Biagio, la bellissi­ma Piazzetta che risale al XIV secolo e che già appare nel catalogo del sinodo diocesano di Volterra del 1356, dove figura subito dopo la Chiesa di Gabbreto dalla quale dipendeva.

Fatto eccezionale e solo giustificabile con inderogabili esigenze di natura urbanisti­ca, la Chiesa in stile romanico non ha la facciata volta a ponente, rimanendo però tale fino al XVI secolo, quando la faccia­ta della chiesa venne assorbita dalla Ca­nonica e venne aperto l’attuale ingresso laterale mediante l’abolizione di un alta­re della navata di sinistra.

Fu proprio sul finire del XVI secolo che la Chiesa di San Biagio fu oggetto di acce­si contrasti tra gli abitanti di Montecatini V.C. e quelli di Gabbreto per la nomina del rettore, la cui controversia fu vinta dai montecatinesi.

Il campanile, anch’esso in stile romanico, fu eretto verso la metà del XV secolo, pri­ma ancora che la chiesa fosse elevata a Pievania (1467).

Suggestiva la parte alta e più antica del borgo, ancora interamente mantenuta nel­lo stile medioevale e recentemente restau­rata. Sono ancora visibili due torricelle pe­rimetrali del borgo, le cisterne, la ricostru­zione della cinta muraria, le porte, i vico­li, i chiassi ed anche il piccolo cimitero. Notevoli i complessi architettonici di Bu­rlano, antico feudo dei Saracini di Pisa, poi proprietà Incontri, Rocheforted ora Carmignani, quello della “Miniera”, l’an­tica località di Caporciano, con il palazzo degli uffici della “Montecatini”, l’ingresso alle gallerie e la torre di aereazione e poz­zo, nella cui località Ermanno Olmi girò la scena della nascita di Gesù nel film “Cammina cammina”.

Ancora ben tenuta, ma chiusa al culto, la chiesetta di Caporciano, che pone in mo­stra una formella di maiolica di probabile produzione Della Robbia. Notevoli anche gli apprestamenti architettonici delle mi­niere, in cui ancora campeggia intatta, con un originalissimo disegno, la guardio­la delle sentinelle.

Rimangono, nel palazzo della “Miniera” prossimo alla chiesetta, i resti e le attrez­zature di un bel teatro che ha funzionato fino al 1925.

Notevole anche il complesso antico di Casaglia, acquistata per metà dal Vescovo Conte di Volterra, che rilevò dalla proprietà del conte Ugo nel 1115.

Gabbreto fu un borgo antico, ora distrut­to, il cui nome è rimasto ad una località situata a nord di Montecatini V.C., lungo la rotabile che sale dalla Sarzanese-Valdera.

Gabbreto fu castello che Enrico VI nel 1186 concesse in feudo a Ildebrando dei Pannocchieschi Vescovo di Volterra. Il ca­stello fu distrutto dopo la battaglia del 1316 tra pisani e volterrani, ai quali ultimi fu im­posta la distruzione unitamente a quella del castello di Miemo di cui rimangono an­cora le imponenti rovine.

Gello è un borgo ormai abbandonato, ma ancora abitato da un custode al servizio dei nuovi proprietari che vengono ad abi­tarvi durante il periodo estivo o nei perio­di di fine settimana. Gello è un piccolissi­mo borgo dell’epoca medioevale, ed è for­se la località di “Agello” che Walfredo, nel­l’anno di fondazione della Badia di San Pietro in Palazzuolo di Monteverdi avve­nuta nel 754, cita per il possesso in quel borgo di una casa colonica.

Bella anche la piazza principale del ca­poluogo la quale, purtroppo, ha perduto l’antica pavimentazione in pietra arenaria grigia, che ritroviamo anche nelle costru­zioni dei palazzi e che il Tozzetti reputa molto simile alla “pietra serena della Gol­fina, della quale ha il medesimo difetto di sfarinarsi se posta lungo tempo allo sco­perto”.

Tale pietra è caratteristica del luogo ed è stata ricavata da una cava a mezzogior­no del monte in località San Marco, ora completamente in disuso.

Sovrastano la piazza la torre e la parte più antica del borgo, issata sulla punta di un costone che guarda il versante volterrano. Caratteristico anche il borgo di Ligia, una volta densamente popolato ed ora caden­te nella parte più antica, già sede di im­ponenti costruzioni ormai in rovina. Degni di citazione la fonte del “Leone”, di recente restaurata, “Vallibuia”, una con­ca boscata esposta a nord dove non giugne mai la luce solare ed il castello dell’ “Aitora” abbastanza bene conservato. Domina il paesaggio la grande croce in legno issata sulla punta del monte che ne ha preso il nome (Monte alla Croce) dal quale nascono il Botro Grande, una volta habitat della lontra, e quello della Maci­nala, il corso d’acqua arbitrariamente de­viato verso la Valdera per le necessità del­le campagne adiacenti, proprietà una vol­ta dei Gotti Lega, e già regno di grossis­simi granchi che popolavano l’alto corso del fiume.

L’economia di Montecatini V.C. fu fioren­te fino alla chiusura della Miniera del Ra­me che avvenne intorno agli anni 1911-1912 dopo una serie di grandi scio­peri conseguenti la caduta della importan­za della economia estrattiva, a seguito dell’apertura di altre miniere più ricche di minerale che misero in crisi l’escavazione del rame toscano.

Montecatini V.C. fu la sede in cui si costi­tuì il grande complesso chimico, l’attuale Montedison, una volta denominato Mon­tecatini S.p.A., il cui presidente Guido Donegani, fu spesso ospite del paese.

Oggi Montecatini Val di Cecina, è un co­mune in decadenza, con una economia mista ed una popolazione che invecchia sempre più, per la partenza dei giovani verso altri luoghi di maggiore possibilità di occupazione.

Un borgo tranquillo, costituito in massima parte da pensionati al minimo o piccoli proprietari di terra e luogo ormai di con­quista degli stranieri, i quali comprano e restaurano i vecchi poderi vuoti ed abban­donati.

Un paese nel quale il tempo sembra si sia fermato fissandosi nella immobilità dei suoi monumenti, nell’ombra della pietra grigia che ancora adorna la torre e le co­struzioni del vecchio paese, quali senti­nelle solitarie poste a guardia della sua storia e del suo passato.

Una storia minore forse, legata a perso­naggi sottomessi ai possenti del Castel­lo, sotto il vincolo religioso del vescovo conte o soggiogati dalla tirannia dei Bei­forti. Ma anche una storia di gente sag­gia e consapevole di quella semplicità con la quale ha amministrato i suoi trascorsi storicopolitici ed anche la cronaca dei fatti più recenti e contemporanei, ancora legati a quei valori di vita che sedimentano e tengono vivi i motivi di convivenza e soli­darietà tra la gente, al riparo quasi dei ter­ribili problemi che insorgono tra le con­centrazioni di popolazione dei grandi ag­glomerati urbani.

Ermanno Marconcini

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

SAN MICHELE

Itinerari turistici della zona boracifera.

Percorrendo la tortuosa strada provinciale che, abbarbicata sui filoni di gabbro, da Po­marance sale verso la sella di Montecerboli, l’occhio viene attratto, sulla destra, da una costruzione diroccata di pietra chiara in cima a una collina boscosa. È questo quanto rimane dell’eremo di S. Michele delle For­miche che, dal 1300 alla fine del ‘700, costi­tuì per molti ammalati una luce di speranza e di guarigione.

Fu il lontano 31 di maggio del 1377 infatti che il pievano di Morba fece istanza al Co­mune di Volterra perché fosse approvata la costruzione di un convento sulla cima del colle sopra il Botro delle Vignacce; l’istanza venne accolta e il convento, affidato ai padri Celestini di S. Michele Visdomini di Firenze, fu dedicato a S. Michele Arcangiolo. E i monaci che ivi si riunirono in vita eremitica si imposero lo scopo di curare i malati, in particolare i lebbrosi e gli artritici, e di sovraintendere al mantenimento di un antico bagno le cui acque avevano virtù salutari per quelle malattie.

Il bagno

Il bagno, che era già molto noto col nome di Spartaciano o Spartacciano (così è indicato in un documento del 1266), si trovava nel fondo della valle che separa gli attuali Gabbri del Conte dalla Porcareccia del Cerale: pro­prio dove il Fosso di Radicagnoli e il Botro delle Vignacce si uniscono per dare origine al Fosso di S. Michele. Il nome di questo bagno è di chiara origine romana: infatti le terre divise fra i veterani dell’impero pren­devano il nome del veterano a cui erano state assegnate: Ager Spartacianus potrebbe tra­dursi « Terra Spartaciana » o « di Spartaco »; e probabilmente le sorgenti calde di questo bagno, assieme a quelle di Morba e della Perla, facevano parte, durante l’epoca im­periale romana, del complesso delle « Aquae Volaterranae » (come dire «Le Terme di Volterra ») riportato dal più antico documento geografico che si conosca, la cosiddetta Tavola Peutingeriana.

Il lazzeretto

I Monaci Celestini, dunque, restaurarono, con molta probabilità, i resti del bagno ro­mano, vi aggiunsero un edifìcio per ospitare i malati — una specie di piccolo lazzeretto — e costruirono alcune vasche in pietra dove l’acqua termale poteva raccogliersi ra­pidamente per permettere ai lebbrosi e agli altri ammalati di bagnarvisi. E anche il bagno così sistemato fu dedicato all’Arcangiolo San Michele.

La notorietà delle virtù terapeutiche del Ba­gno di San Michele non mancò di attirare sul luogo, oltre che una folta schiera di sof­ferenti (si parla di più di 300 persone che ogni anno venivano a S. Michele a « passar l’acqua»), anche insigni naturalisti che esaminarono le sorgenti, ne descrissero le caratteristiche, ne fecero una seppur som­maria analisi. Domenico BianchelIi da Faenza (Mengo Faentino) e Gabriele Falloppio at­torno al 1550, Giovanni Targioni Tozzetti nel 1742, dedicarono accurati studi al Bagno di S. Michele; e nei secoli XV e XVII, e attorno al 1740, si provvide a restaurarne gli edilìzi. I ruderi La fama dell’Eremo, che all’epoca del suo maggior splendore era costituito da una chiesa, oltre che dal fabbricato ad uso di convento, andò declinando verso la fine del 1700. A quell’epoca le ingiurie del tempo cominciarono alarsi senijre;lsui  vetusta Bapia sfì apriron una parte del uri della crepe; I padri e e nel ia della dell’800 e, poco chiò
Celestini fulono tichiamatìa Firen  1870 era rimasto sufluogo a pasto chiesa un solo la chiesa e il c dopo, franò an abitata clall’ulti così completale rimangano irf piedi c in pie&a della bili i contraffar Il bagno, invece quenfato, dolori’ artritici quasi gitani cui la menti fermarne decretò sura.

ll panorama

Il poggio di S.Michele, oltre che i suoi ricordi storici, offre ai visitatori un magnifico panorama che si estende dai monti della Cornata e della Carlina, verso Siena, a Montecastelli, alla Rocca Sillana su fino alla Val d’Elsa e giornate se le Apuane e verso occidente la vista può spaziare fino al mare Tirreno. Nelle imme­diate vicinanze, invece, lo sguardo si perde sulle macchie fìtte che coprono i poggi verso S. Ippolito e attorno alla Valle del Ce­cina, mentre a sud spiccano i bianchi fumi delle sette torri refrigeranti di Larderello.

Vicino ai muri della vecchia abbazia, sulla cima pianeggiante del poggio, sono spuntati ciuffi radi di arbusti che creano un’ambiente ombroso e piacevole, mentre il prato raso che ricopre il terreno costituisce un morbido tappeto per chi voglia scegliere il poggio di S. Michele come meta di una scampagnata.

La Badia

La Badia di S. Michele ha le sue brave leg­gende: una racconta che il 29 settembre di ogni anno, giorno della dedicazione a S. Michele Arcangelo, comparivano sul tetto e sul campanile della chiesa una grande quantità di formiche alate che in breve tempo morivano. Da qui l’appellativo di S. Michele delle Formiche; ma non basta: quando la chiesa della Badia fu in avanzato stato di rovina, se ne trasportò una campana sulla torre del Palazzo Pretorio di Pomarance. E si dice che da allora, nella stessa data del 29 settembre, le formiche alate si posino appunto su quella torre. Agli amici pomarancini il compito di controllare quanto ci sia di vero in questa storia.

La leggenda

Un’altra leggenda racconta che una volta una campana della badia si staccò dal campanile e, rotolando giù per la collina, cadde nel botro. Ma non si fermò sul greto: seguitò a sprofondare scavando nella roccia un pozzo profondissimo che poi si riempì d’acqua. Ed aggiunge che talvolta, dal bordo del pozzo, si sentono ancora i rintoc­chi della campana di S. Michele che giace sul fondo.

Il fascino della favola è alimentato dal posto veramente suggestivo dove si trova il cosid­detto «pozzo della campana». Questo è, in effetti, una profonda camera quasi cir­colare dalle pareti di pietra liscia, nel letto del Fosso di S. Michele; la sua apertura superiore è quasi nascosta dai fìtti arbusti della macchia; l’acqua vi cade da una cascatella alta poco più di tre metri ed è diffìcile apprezzare a vista quanto la cavità sia pro­fonda. Da una spaccatura longitudinale della roccia verso nord l’acqua decanta poi nel letto basso del torrente che prosegue il suo corso.

P. L. Pellegrini

Come Arrivarci.

  1. con mezzo proprio:

Percorrere la provinciale Massetana verso Pomarance fino al bivio per S. IpDolito in località Croce del Masso (sopra Montecerboli) (Km. 2,200); quindi prendere, sulla sinistra, la strada per S. Ippolito e piegare a destra al segnale indicatore per «Le Vignacce» (Km. 1,550); arrivati al podere «Le Vignacce» (il primo che si trova), fermarsi e lasciare il veicolo (Km. 1,550). Quindi procedere a piedi per la mulattiera oltre il podere che sale verso S. Michele, finché non si trovi, sulla destra, un cancello di legno; passare il cancello e seguire il sentiero che da qui si parte fino ai ruderi della Badia; poco prima di giungervi, sulla sinistra, i resti della capanna del­l’ultimo eremita. Percorso a piedi: 600 metri (circa 15 minuti).

Volendosi raggiungere il vecchio Bagno (ora ridotto a casa colonica) si può scendere dalla Badia per la stessa mulattiera e, arrivati al bivio per «Le Vignacce», proseguire a sinistra scendendo ancora intorno al poggio per circa 800 metri (altri 15 minuti). Durante il per­corso, circa 200 metri dopo il bivio, sulla sinistra, si possono scorgere i resti di un’antica miniera di rame, costituiti da una lunga galleria, ora parzialmente allagata, che si perde nella roccia; davanti al­l’imbocco è stata costruita una grossa vasca per permettere all’acqua di rimanervi a un livello di circa mezzo metro.

La strada è asfaltata fino al bivio per S. Ippolito; il resto, senza ri­vestimento antipolvere, è in buone condizioni.

  • con mezzi pubblici:

Autoservizio SITA da Larderello al Madonnino dei Gabbri; quivi si prosegue a piedi per la ripida discesa che si diparte dalla provin­ciale verso il fondo valle. A 450 metri (10 minuti di cammino) si trova il Bagno di S. Michele (ora casa colonica) con il caratteristico ponte coperto sul botro e i locali con le vasche in pietra per i bagni. Si guada il botro e si prende la mulattiera che sale attorno al poggio di S. Mi­chele; percorso fino alla Badia: circa 1400 metri (40 minuti). Du­rante il percorso, circa 600 metri dopo il bagno, si possono scorgere sulla destra i resti dell’antica miniera di rame abbandonata.

Chi desideri visitare il « Pozzo della Campana » può recarvisi scen­dendo da un sentiero molto ripido che si parte dalla strada fra il Madonnino dei Gabbri e il Bagno di S. Michele, circa 100 metri prima del Bagno; dopo 30-40 metri di percorso (5 minuti) si arriva sul greto del torrente proprio di fronte all’apertura nord del pozzo. Si consiglia di munirsi di scarpe adatte, possibilmente con suola di gomma.

LARDERELLO: RICCHEZZA DI CASA NOSTRA

PREMESSA

Nel mondo esistono numerose aree in cui si verificano manifestazioni geotermi­che, cioè dove avvengono naturali fuoriu­scite di vapore dal suolo. Quelle più note si trovano in Italia, in Islanda, in Giappone, nel Messico, in Nuova Zelanda, nelle Filip­pine, in Indonesia e nel Tibet. In Italia si trovano in varie località, ma l’area princi­pale è quella che della zona di Orvieto, passando per il Monte Amiata, si estende fino a Larderello e Radicondoli, interes­sando così parte delle province di Terni, Grosseto, Pisa e Siena.

Centrali di Larderello (1970).

Il viaggiatore che percorra la tortuosa e panoramica strada che da Volterra condu­ce a Larderello, avvertirà nell’aria un pro­gressivo aumentare di un inconfondibile odore di uova marce: è l’idrogeno solforato che emana dalle viscere della terra insie­me al vapore acqueo dei soffioni di questa dimenticata parte della Toscana. Vedrà un sempre più esteso diramarsi di grosse tubazioni che, attraverso la campagna, convogliano, dai pozzi perforati profonda­mente, il vapore naturale, alle centrali elet­triche.

CENNO STORICO

Emanazioni di vapore e sorgenti di acque calde sono sempre esistite in questa zona; infatti in una mappa risaliente al III secolo d.C., i Romani indicavano quest’area col termine di “acquae volaterranae”. Una ri­produzione di detta carta si può vedere nel museo storico di Larderello. Oggi, in tutta questa zona, esistono soltanto due o tre punti in cui si verifica dal suolo emanazio­ne superficiale spontanea di vapore, in quanto detto fluido si trova generalmente nelle profondità del terreno.

Poiché detto vapore, oltre a varie sostanze chimiche, contiene anche una buona per­centuale di acido borico, nel secolo scorso veniva usato esclusivamente per estrarvi tale prodotto. Le emanazioni di vapore venivano fatte gorgogliare in grandi pozze, le cui acque fangose venivano tenute in ebollizione violenta dal vapore stesso. Era­no i cosiddetti “Lagoni” le acque dei quali venivano pertanto ad arricchirsi di acido borico. La concentrazione di esso veniva effettuata in modo rudimentale con delle semplici caldaie scaldate a legna.

Per ovviare alle numerose difficoltà e ren­dere più economica la produzione, detti bacini furono coperti con una cupola in muratura in modo da raccogliere il vapore che aveva depositato l’acido borico nel­l’acqua e poterlo convogliare, tramite tu­bazioni di terra cotta, sotto alle caldaie ed impiegare così, per la concentrazione del­le acque boriche, il vapore anziché la le­gna. Questa struttura veniva chiamata “la­gone coperto”. Lo sfruttamento a carattere industriale fu iniziato nel 1818 da un certo Francesco De Larderei (dal quale poi la località prese il nome) che fondò una so­cietà alla quale nel 1913 se ne aggiunsero altre che successivamente si fusero in un’unica azienda.

Attualmente, dal punto di vista economico, non è conveniente utilizzare il vapore na­turale per estrarvi prodotti chimici, pertan­to esso viene impiegato principalmente per la produzione di energia elettrica. Il primo esperimento di questo genere, fu effettuato nel 1904, mettendo in azione un piccolo generatore che si trova esposto nel sopramenzionato museo di Larderello. E’ interessante segnalare che al tempo dei Romani, ma anche nel secolo scorso, le sorgenti termali della nostra zona veniva­no frequentate per la cura dei dolori reu­matici, delle affezioni della pelle e delle vie digerenti. Lo stesso Granduca di Toscana, per curarsi la gotta, era solito recarsi con la sua corte, alle terme de “La Perla”, od a quelle di Bagno al Morbo. Oggi dette salu­tari sorgenti sono pressoché ignorate.

SFRUTTAMENTO ATTUALE

Ai nostri giorni, in tutta la vasta area di cui abbiamo parlato, che è la più estesa e la più importante del mondo di questo gene­re, vi sono installate numerose centrali elettriche che producono annualmente, senza interruzioni, circa 3 miliardi di chi­lowattora di energia elettrica ad un costo molto basso. Poiché per produrre elettrici­tà, non tutto il vapore naturale è adatto, in quanto, se non possiede le dovute caratte­ristiche di temperatura, di pressione, ecc., non è utilizzabile per tale scopo, avviene pertanto che una parte di esso non venga inviato nelle centrali, perciò risulta preferi­bile sfruttarlo per altri usi, come teleriscal­damento per le abitazioni di Larderello e Castelnuovo, nonché per serre in varie zone, tra le quali, oltre a quelle tradizionali di Castelnuovo, S.Dalmazio e Larderello, anche quella dell’Amiata dove sono state costruite serre con una superficie coperta di 23 ettari.

CONCLUSIONE

Da quanto abbiamo succintamente espo­sto, risulta evidente che la nostra zona racchiuderebbe una grossa fonte di lavo­ro, una inesauribile sorgente di energia economica, pulita, non pericolosa, quindi migliore, preferibile ed assai più affidabile del metano, il cui prezzo e la cui distribu­zione rimarranno sempre soggetti e condi­zionati da imprevedibili eventi politici inter­nazionali. Se gli organi competenti, invece di restarsene chiusi nel loro piccolo guscio incrostato di scorie secolari, aprissero gli occhi almeno quanto una talpa miope, si accorgerebbero di avere a disposizione risorse immense quasi gratuite, il dono di una inesauribile miniera d’oro che potreb­be produrre ricchezza sempre crescente a tutto il comprensorio.

Quindi, se venissero prese delle iniziative pubbliche appropiate o venissero facilitati i privati che volessero prenderle, si verifi­cherebbe un proliferare di posti di lavoro e di guadagno che darebbero a questa zona grandi possibilità di sviluppo economico da fare invidia anche all’estero.

In altre parole, se Larderello dovesse ri­dursi, con poche decine di dipendenti, a produrre soltanto energia elettrica, non sfruttando completamente le potenzialità che la natura ci ha elargito abbondante­mente, la nostra comunità ne soffrirebbe, in quanto gli insediamenti urbani, sia pic­coli che grandi, da Volterra fino a Massa Marittima, si spopolerebbero sempre più, estinguendo così la vita nel nostro amato, grande territorio.

Romano Santini

BIBLIOGRAFIA (opere consultate)

R. Nasini -1 soffioni ed i lagoni della Toscana e l’industria boracifera – Tipografia editrice Italia – Roma 1930.

R. Nasini – I soffioni boraciferi toscani e l’industria dell’acido borico – Tipografia della R. Accademia dei Lincei – Roma 1906.

A. Mazzoni – L’utilizzazione del calore terre­stre – La Scuola Editrice – Brescia.

A. Mazzoni – I soffioni boraciferi toscani e gli impianti della “Larderello S.p.a.” – Anonime Arti grafiche – Bologna 1948.

ENEL – Larderello: energia elettrica del va­pore endogeno. Il Tirreno – La provincia di Pisa comune per comune – 1993.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

IL SOTTOSUOLO DELL’AREA GEOTERMICA

STORIA E PERCHÉ DI UNA SISMICITÀ

a cura dott. Rossi.

PREMESSA

L’esperienza sicuramente non piacevole vissuta in Marzo e purtroppo ripetutasi in maniera meno continuativa, seppur senz’altro significativa, nello scorso inizio di Agosto, credo abbia sollecitato in molti, oltre ad una buona dose di comprensibile apprensione, anche la curiosità, se non l’interesse, perquei fenomeni legati alla dinamica terrestre, quali sono i terremoti.

Durante la serata di Marzo trascorsa in piazza Sant’Anna, dominata dalla emotività ed allo stesso tempo dalla compostezza, le decine di teorie nate in quei giorni crollavano misera­mente o trovavano parziali quanto desiderate conferme. Certamente per alcuni la propria è rimasta l’unica e vera spiegazione degli even­ti, nonostante la precisa, puntuale, interes­santissima esposizione dei Prof.ri Barberi e Scandone, capace di illuminare le menti più distanti da simili problematiche ed, a mio giudizio, incertoqual modo anche di tranquil­lizzare.

Ritengo perciò possa essere interessante ritornare sull’argomento, perché, come geolo­go, ho la presunzione che vi sia qualcuno interessato a saperne di più riguardo un feno­meno naturale, quale è il terremoto, ancora in gran parte da indagare e non certo per aggiun­gere qualcosa a quanto i Professori hanno in quell’occasione così sapientemente illustra­to. Il solo intento è quello di ripilogare, puntua­lizzare il significato di alcuni termini e fornire alcune nozioni in maniera molto semplice e generale sul fenomeno terremoto, per aiutare, spero, chi desideri conoscerlo meglio.

IL SOTTOSUOLO

DELL’ AREA GEOTERMICA

Come primo passo credo sia necessario illu­strare per sommi capi ed in maniera, spero, semplice e schematica cosa sta sotto di noi. Il sottosuolo dell’area geotermica è oramai assai ben conosciuto. In oltre 150 anni sono state perforate diverse centinaia di pozzi, che hanno permesso, con l’ausilio anche dei metodi d’indagine indiretta (sismica, geolettrica, gravimetria,etc), di ricostruire in manie­ra abbastanza completa la successione delle formazioni rocciose.

Nel secolo scorso le perforazioni raggiunge­vano a malapena qualche decina di metri, e per questo venivano effettuate in corrispon­denza od in prossimitàdellezonedi emissione naturale di vapore endogeno, per poter così estrarre le acque boriche e lo stesso vapore a bassa pressione.

Osservando le moderne ed imponenti struttu­re delle “sonde” è evidente quanto le tecni­che di perforazione si siano trasformate nel tempo e come, con l’evoluzione tecnologica, siano aumentate progressivamente le profon­dità d’indagine.

Per tornare al sottosuolo dell’area geotermi­ca, in maniera esemplificativa questo risulta composto da una serie di formazioni geologi­che caratterizzate da rocce relativamente recenti che poggiano su di un basamento più antico.

Semplificando molto, si può dire che l’azione delle forze legate alla dinamica terrestre, cau­sa in una prima fase dell’innalzamento delle catene alpina ed appenninica, ha provocato successivamente nell’area geotermica una riduzione di spessore sia delle formazioni ge­ologiche più recenti, che del sottostante ba­samento. Ciò ha permesso al materiale ad alta temperatura, situato in profondità sotto la crosta superficiale, di risalire verso la superficie.

La presenza quindi, a profondità relativa­mente modesta, di questa sorgente di calore, ha fatto sì che l’area geotermica sia caratte­rizzata da un’anomalia del gradiente geoter­mico: la temperetaura cioè aumenta molto più velocemente, via via che si procede in profondità, rispetto ad esempio alle zone limitrofe.

Non solo, la “spinta” che ha causato la risalita del materiale caldo profondo ha provocato la fratturazione di parte delle sovrastanti rocce che costituiscono il basamento.

E’ noto che le acque d’infiltrazione proceden­do in profondità, per il veloce aumento della temperatura, si surriscaldano generando va­pore che, imprigionato nelle fratture presenti nelle rocce, viene estratto tramite la perfora­zione di pozzi.

Forse non è altrettanto noto che gli effetti degli stress legati alla risalita di materiale caldo sulle rocce che compongono il basa­mento, sono tutt’altro che esauriti. Essi sono infatti tuttora causa di una continua apertura di nuove fratture, e di conseguenza di una porzione consistente dell’attuale attività si­smica: tutto questo come singolo episodio nel quadro più generale della dinamica terre­stre a scala regionale ed alla sua continua evoluzione.

A conferma di ciò, dai numerosi dati presenti in letteratura, si può osservare che in prossi­mità delle zone di Larderello, Travale e Mon­terotondo M.mo, dove il materiale caldo pro­fondo è in genere risalito maggiormente, si ha anche la più alta concentrazione di eventi sismici.

A questo punto è lecito porsi le seguenti domande: quali sono le carratteristiche di questa sismicità? E’ legata solamente ad un’unica causa?

Per dare una risposta a questi quesiti il primo passo è lo studio della sua evulzione storica.

Larderello 1910.

COSA E’ UN TERREMOTO?

Prima di procedere ad un commento dei dati storici relativi alla sismicità dell’area geotermica, sembra utilefornire alcune elementari, ma necessarie nozioni riguardo la natura e le caratteristiche dei terremoti.

Intanto cosa è un terremoto? Si può definire come una brusca liberazione dell’energia accumulata da una roccia per l’azione delle forze della dinamica terrestre. In pratica è la fratturazione della roccia stessa dovuta al suo comportamento”fragile”: il terremoto è stato definito come uno dei testimoni della dinamica terrestre.

Semplificando molto, la quantità di energia liberata durante un evento sismico (in gran parte con effetto vibratorio) è funzione di molti parametri tra i quali, ad esempio, la capacità e/o la possibilità di una roccia di resistere alle sollecitazioni, in pratica delle sue caratteristiche fisico-meccaniche.

E’ espressa dalla Magnitudo, parametro non legato alla valutazione in gran parte soggettiva degli effetti prodotti da un terremoto (Sca­la Mercalli), ma alla misura della quantità di energia che si libera con il repentino aprirsi di una frattura ed il conseguente spostamento relativo dei margini della frattura stessa. La trasmissione dell’energia vibratoria, legata anch’essa in gran parte alle caratteristiche fisi­co-meccaniche dei materiali in cui si propaga, avviene attraverso la generazione di onde che, giunte in superficie, causano i noti effetti sussultori ed oscillatori.L’ipocentro è il punto situato nella profondità terrestre in cui si genera il terremoto, l’epicentro è la sua pro­iezione in superficie. Secondo la Scala Mer­calli l’epicentro individua la zona che ha su­bito i maggiori effetti in relazione all’evento sismico, che non necessariamente coincide conia precedente definizione, dipendendo in questo caso anche da altri parametri che non l’energia e la individuazione spaziale del luo­go di generazione delle onde sismiche, uno dei quali può essere, ad esempio, la tipologia costruttiva degli edifici.

In ultimo vi è da dire che i terremoti non si manifestano casualmente, masi distribuisco­no in ben determinate aree dove le forze endogene sono più attive. La regione boraci­fera nel suo complesso(Larderello-Amiata)si inserisce nella porzione occidentale di un’area a sismicità omogenea, non molto elevata, delimitata ad Ovest dalla fascia costiera cen­tro meridionale toscana, ad Est dai primi con­trafforti della catena appenninica ed a Nord dai Monti Livornesi.

LA SISMICITÀ’ STORICA

Esaurita questa premessa, se si analizzano i dati storici pubblicati da vari autori, sembra emergere uno “spostamento” della sismicità, a partire dall’inzio del secolo, dai margini (volterrano-massetano) verso l’interno del­l’area geotermica. In particolare il massimo di attività pare concentrarsi tra le località di Serrazzano, Monterotondo M.mo, Larderello e Travale.

In tale area la distribuzione nel tempo della sismicità appare abbastanza omogenea.

La zona di Larderello registra il maggior nu­mero di eventi nel periodo che va dagli inizi del secolo fino al 1950: ciò può in parte derivare dal migliore controllo della sismicità in tale area, che ha permesso di registrare anche sismi d’intensità pari al 11°-1IP Mercalli (la Scala Mercalli ne conta XII), che con ogni probabilità erano stati trascurati dalle prece­denti cronache locali, poiché in molti casi non rilevabili in assenza di strumentazione. A con­ferma di ciò, se si considerano solo gli eventi d’intensità superiore al IV° Mercalli, soglia al di sopra della quale la percezione umana dell’evento diventa precisa, si nota come l’intervallo 1900-1950 non rappresenti più un massimo di concentrazione.

Per ciò che concerne la Magnitudo (massimo valore 10), risulta abbastanza evidente dai dati storici come, nel secolo scorso e fino agli inizi dell’attuale, si siano manifestati terremoti con maggiore energia, con valori anche abba­stanza elevati, oscillanti tra un minimo di 3,6 ed un massimo di 5,4.

A partire dal 1930 si ha una diminuzione dell’energia liberata che solamente in pochi casi supera il valore di 3,6.

In particolare l’evento di massima energia registrato in quest’ultimo periodo risulta esse­re quello verificatosi presso Monterotondo M.mo il 19/8/1970 con una Magnitudo di 4,5, mentre il sisma di maggiore intensità di cui si abbia notizia è il terremoto che colpì Travale 1’11/12/1724, che raggiunse il IX-XC grado Mercalli ed una Magnitudo di 6,4.

Questi valori d’intensità dei terremoti storici (e soprattutto di Magnitudo), come già evi­denziato dal Prof. Barberi, vanno presi con le dovute cautele, poiché spesso sovrastimati in quanto ricavati da dati che spesso rispec­chiavano la soggettivitàdel cronista dell’epo­ca e perché riferiti ad edifici con tipologie costruttive certamente non paragonabili con le attuali.

Ci si può domandare a questo punto se è possibile stimare, dall’analisi dei dati storici, la probabilità che si verifichino terremoti di notevole energia nell’area geotermica.

Una simile valutazione si può tentare se si utilizzano alcune relazioni empiriche tramite le quali si possono anche rendere confrontabili dati di sismicità relativi a zone diverse.

Analizzando ad esempio i dati compresi nel­l’intervallo di tempo 1880-1975, ne risulta che la probabilità del verificarsi di sismi di notevole Magnitudo nell’area geotermica, pare essere scarsa, sicuramente più bassa del resto del territorio regionale, nonché di quello naziona­le.

SISMICITÀ’ ATTUALE

L’installazione a partire dal 1976 di una rete di rilevamento sismico da parte dell’Enel, finalizzata al controllo ed alla definizione di eventuali relazioni tra sfruttamento, reinie­zione e liberazione di energia sismica, ha permesso un controllo capillare ed una mi­gliore conoscenza delle carateristiche della sismicità dell’area.

Dai dati pubblicati emerge come vi siano tre zone principali caratterizzate da attività sismi­ca e cioè: Monterotondo M.mo, Travale e Larderello. Generalmente la loro sismicità, probabilmente in gran parte legata all’azione della risalita del materiale caldo profondo, non dà vita, come nel Marzo scorso, a se­quenze di eventi minori caratterizzate dalla presenza di uno o più episodi di maggiore intensità (sciame sismico), ma a singoli ter­remoti a bassa energia.

Se questa teoria risultasse esatta si potreb­be supporre che la sismicità dell’area non sia dovuta ad una sola causa.

I singoli terremoti a bassa energia sarebbero infatti generati da un meccanismo locale, direttamente legato, come più volte detto, alla risalitadi materiale caldo, mentre, le sequenze di eventi con episodi a Magnitudo maggiore, sarebbero dovute all’azione delle forze della dinamica terrestre a valenza regionale. Tale ipotesi pare essere avvalorata dal gran nume­ro di microeventi che vengono continuamen­te registrati, gli ipocentri dei quali risultano concentrarsi in una fascia a non elevata profondità, coincidente in gran parte con quell’orizzonte di rocce fratturate prima men­zionato, indizio di un legame con cause locali. Gli ipocentri invece dei terremoti a maggiore energia sembrano collocarsi generalmente a profondità maggiori, forse in relazione a strut­ture più direttamente legate ad una dinamica di tipo regionale.

Da alcuni anni inoltre è stata introdotta nel­l’area geotermica, la pratica di reiniettare nel sottosuolo i fluidi utilizzati nelle attività produt­tive. Ciò viene fatto per due motivi principali: tentare una ricarica artificiale, se pur parziale, del ‘’serbatoio” nelle zone di massimo sfrutta­mento ed evitare inquinamenti delle falde acquifere, nonché dei corsi d’acqua e, si può aggiungere, probabilmente per abbattere i costi che un trattamento di tali reflui compor­terebbe. Tutto questo viene effettuato sotto il controllo della Regione Toscana, competen­te in materia di controllo e rilascio di autorizza­zioni.

L’attività di reiniezione ha comportato per l’Enel la necessità di monitorare in maniera continua l’area geotermica, per evitare l’even­tuale manifestarsi di conseguenze indeside­rate.

Ed è appunto in tale ambito che è stata messa in opera l’attuale rete sismica, al fine quindi di controllare quali potessero essere le influenze della reiniezione sulla sismicità ed in partico­lare per stabilire se e come questa attività potesse modificare i meccanismi di liberazio­ne dell’energia sismica nell’area geotermica. Dagli studi compiuti non sembra, almeno per ora, risultare un legame direttto ed immedia­to tra reiniezione e variazione delle caratteri­stiche sismiche delle aree in cui essa ha luogo, tranne rare eccezioni.

Anche se non è possibile generalizzare un rapporto di causa-effetto, alcune considera­zioni, già per altro ampiamente illustrate dal Prof. Barberi, possono essere fatte in base ai dati disponibili:

  1. la reiniezione può produrre un incremento nel numero degli eventi a bassa e bassissima energia, ma non sembra modificare i mecca­nismi causa dei terremoti a più alta energia. Probabilmente ciò è anche dovuto, come detto, alla loro diversa origine, legata a fattori locali, forse influenzabili dalla reiniezione, per i primi, collegata a strutture più profonde a valenza regionale per i secondi.
  2. la reiniezione probabilmente favorisce la liberazione di energia e conseguentemente non peremette l’accumularsi di forti tensioni, riducendo così ulteriormente la possibilità che si verifichino terremoti superficiali di tipo distruttivo.

Simili conclusioni, se pur parziali, sono con­fermate da analoghe esperienze effettuate all’estero.

D’altra parte dati certi che possano garantire la completa affidabilità di tale pratica non ve ne sono, è una sperimentazione che va avanti nel tempo. Lo stesso monitoraggio continuo che l’ENEL compie sulla sismicità ne è testi­mone.

Quello che si può dire con sicurezza è che negli ultimi dieci anni, periodo in cui la reinie­zione è stata utilizzata in maniera continuati­va, non si è registrato un significativo incre­mento dell’attività sismica, per lo meno per gli eventi a più alta energia.

Certo, la non completa conoscenza dei mec­canismi che regolano la dinamica terrestre, e quindi la genesi dei terremoti, e la scala, geologica, dei tempi, rende necessaria la prosecuzione del controllo della sismicità e dello studio della sua evoluzione nella nostra zona.

CONCLUSIONI

E’ comunque forse lecito azzardare l’ipotesi che l’episodio sismico del Marzo scorso, e probabilmente anche il più recente dell’inizio di Agosto, potrebbero, per le loro caratteristi­che, essere ricollegabili a quella attività pro­pria delle strutture legate alla dinamica terre­stre a valenza regionale, che si manifesta normalmente con eventi di Magnitudo massi­ma circa pari a 4 -5 e probabili tempi di ritorno medi di 20-25 anni (terremoti del 1933 Sasso Pisano VI Mercalli, del 1946 Pomarance/ Volterra VI Mercalli e del 1970 Monterotondo M.mo VI+). Se questa ipotesi risultusse avere un qualche fondamento, contribuirebbe a fugare ulteriormente le perplessità relative alla pratica della reiniezione che, come si è prima detto, allo stato attuale delle conoscenze non pare possa estendere la propria influenza su tali strutture.

La sismicità con scarsa energia legata a fattori locali, la bassa probabilità che si veri­fichino terremoti con alta energia, il non pro­vato diretto rapporto causa-effetto tra reinie­zione e sismicità, la mancanza di importanti terremoti storici, sono tutte considerzioni che non possono altro che tranquillizzare.

ALCUNE CONSIDERAZIONI FINALI

Sicuramente la gravità degli effetti di un ter­remoto è legata in gran parte alla tipologia costruttiva degli edifici. Edifici vecchi o in condizioni di manutenzione precarie, come sono spesso quelli presenti nei nostri centri storici, non sono esattamente ciò che sarebbe necessario per resistere alla violenza di un terremoto.

Larichiestadi inserire il Comunedi Pomaran­ce in zona sismica, sentita da gran parte dei presenti in Piazza S.Anna in quella sera di Marzo, come una esigenza improcrastinabile, non pare, a mio giudizio, una scelta troppo oculata. E’ vero, come ebbe modo di afferma­re con forza il Prof. Barberi, che è sicuramente “criminoso” non comprendere in zona sismi­ca un’area che ne avesse i requisiti, ma è altrettanto vero che chiedere di esservi inse­riti, magari sull’onda dell’emotività, quando questi requisiti non vi siano o non siano sufficienti, è sicuramente quanto meno con­troproducente.

Quanto lo sia sarà facile sperimentarlo al momentodi costruirsi unacasaodi modificare l’esistente, di rifare un tetto, etc., quando ci accorgeremo di dover far fronte a spese aggiuntive, sia di progettazione, che di rea­lizzazione, tutt’altro che trascurabili, neces­sarie però per adeguare le opere agli standard richiesti alle costruzioni in zona sismica. Lo stesso accadrà per le attività produttive con conseguenze immaginabili.

E poi è certo: essere inseriti in area sismica non evita che i terremoti si verifichino.

La nostra zona non era stata a suo tempo inclusa negli elenchi dei comuni sismici per­ché i tecnici prosti alla classificazione sismica del territorio nazionale non ritennero che dall’ esame comparato dei dati in loro possesso ve ne fossero le motivazioni, come tennero a specificare sia il Prof. Barberi che il Prof. Scandone, né gli ultimi eventi sismici, proba­bilmente del tutto conformi con la sismicità storica, possono, a parer mio, con tutta proba­bilità fornire nuovi elementi tali da giustificare una revisione della classificazione. Non so se nel frattempo la richiesta sia stata formalizzata o vi sia stata una giusta pausa di riflessione, forse un ripensamento, una volta passata l’onda delle emozioni che talvolta possono essere cattive consigliere.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

ENERGIA GEOTERMICA

ALCUNE APPLICAZIONI A COLTURE PROTETTE

P.D. BURGASSI: ENEL DPT Vice Direzione Attività Geotermiche Centro Dimostrativo per gli usi non elettrici dell’energia geotermica. Castelnuovo V.C.

Nella regione geotermica toscana le aree interessate da manifestazioni natu­rali sono state utilizzate in passato per la coltivazione di primizie. Infatti, l’alta tem­peratura del terreno favoriva la crescita di prodotti orticoli fuori stagione e le emis­sioni di vapori e gas formavano una sor­ta di cappa di protezione nei confronti di neve e gelo.

Quando nella seconda metà del secolo passato iniziò, attraverso l’uso di tubi in ferro chiodati, il trasporto a distanza dei fluidi naturali (questi sin dal 1827 veniva­no utilizzati come fluido di processo per l’estrazione dalle acque geotermiche dei sali di boro) lungo questi primi vapordot­ti, non coibentati, nacquero le prime strut­ture protette, in muratura, legno e vetro, destinate ad ospitare colture orticole.

A partire dal 1900 quando il vapore natu­rale cominciò ad essere impiegato per il riscaldamento di tutte le abitazioni di Lar- derello e dei villaggi sorti in corrisponden­za dei vari stabilimenti per l’estrazione dei sali di boro dalle acque geotermiche, au­mentò il numero di queste utilizzazioni in orticultura che venivano curate a livello familiare.

Negli anni ’30, furono costruite le prime serre, di una certa dimensione, in legno e vetro, riscaldate con vapore geotermi­co circolante attraverso tubi alettati, al servizio delle foresterie e delle mense aziendali dei vari stabilimenti della Socie­tà Boracifera di Larderello.

Nel 1950 quando, dalla Larderello S.p.a., furono costruiti i grandi impianti serricoli di Castelnuovo e Lago Boracifero l’azien­da agricola della Società si trasformò da fornitrice per le necessità aziendali in pro­duttrice e venditrice di prodotti orticoli sui normali mercati.

TIPO DI FLUIDO

Come indicato i primi impianti utilizzavano il calore disperso da vapordotti che traspor­tavano fluido dai pozzi agli impianti indu­striali e alle utenze civili, successivamente cominciò ad essere impiegato vapore con caratteristiche termodinamiche inferiori e quindi meno adatto alla produzione di ener­gia elettrica, questo fluido veniva fatto cir­colare direttamente nelle serre utilizzando tubi alettati come corpi scaldanti.

Oggi, di norma, si utilizza come fluido di trasporto del calore per il riscaldamento di serre acqua trattata a temperature che variano, a seconda delle caratteristiche del fluido geotermico che viene sfruttato. In qualche caso in impianti di vecchia co­struzione viene ancora utilizzato come fluido di riscaldamento vapore naturale, che circola all’interno delle serre utilizzan­do ancora, come una volta, tubi alettati come corpi scaldanti, ma con questo si­stema, anche se è possibile risparmiare l’energia necessaria per il pompaggio, si verifica uno sfruttamento incompleto del potenziale energetico del fluido.

SISTEMI DI RISCALDAMENTO

Sulla base delle temperature del fluido geotermico ed in relazione alla coltura che si intende impiantare cambia la tipo­logia dei sistemi di riscaldamento che possono essere:

  • A circolazione naturale di aria calda, me­diante l’impiego di tubi che possono es­sere lisci od alettati e posti a terra lungo le pareti delle serre. Questo sistema, adatto per la circolazione di fluidi la cui temperatura si aggira intorno a 90°C, pre­senta di n’orma piccole differenze di tem­peratura tra ingresso ed uscita dell’acqua e quindi mal si presta ad uno sfruttamento razionale e completo della fonte.
  • Con riscaldamento del suolo, mediante tubi in materiale plastico, interrati, nei quali viene fatta circolare aria calda.

Questo sistema, pur essendo in grado di mantenere una temperatura uniforme nel­la serra, è strettamente legato al tipo di coltivazione ed alle temperature ottimali cui deve essere sottoposto l’apparato ra­dicale delle piante, comunque il riscalda­mento del suolo si trova sempre abbina­to ad un altro sistema. Il primo impiego del riscaldamento del suolo in geotermia fu realizzato nel 1969 dall’E.N.E.L., in col­laborazione con l’istituto Internazionale per le Ricerche Geotermiche del C.N.R., presso l’attuale Centro Dimostrativo di Castelnuovo di Val di Cecina in una pic­cola serra pilota (circa 200 mq.) che po­teva utilizzare acqua a temperature com­prese tra 30 e 70°C. (Fig. 1).

Questa serra presentava un doppio siste­ma di riscaldamento, con aerotermi fun­zionanti con acqua a temperature di 70°C e con tubi in polietilene interrati a 25 cm. di profondità, nei quali circolava acqua a 25-30°C.

  • Riscaldamento con tubi appesi alla strut­tura portante della serra, appoggiati al pa­vimento o addirittura sospesi sotto i ban­cali o sopra i bancali stessi mediante tu­bi alveolari.

Nella progettazione di impianti di serricol- tura alimentati da fonte geotermica è ne­cessario prima di tutto ottimizzare il siste­ma cercando di integrare le caratteristiche della fonte con le esigenze dell’utenza. È opportuno anche aumentare al massimo il coefficiente di utilizzazione cercando nel­lo stesso tempo di realizzare usi in casca­ta e così abbassare il più possibile la tem­peratura finale, tenendo presente che escluse situazioni particolarmente favore­voli il fluido geotermico, alla fine del ciclo, deve essere reiniettato perché questo è ricco di sali disciolti. Questa ricchezza di sali disciolti rende necessario prevedere come fluido vettore del calore all’interno della serra, acqua trattata in ciclo chiuso.

SITUAZIONE ATTUALE IN ITALIA

Analizzando i fluidi geotermici attualmen­te utilizzati nella serricoltura in Italia si può vedere dalla tabella 1 che, per alcune ser­re (in Italia circa 5 ettari) viene impiegato come fonte di riscaldamento vapore con temperatura intorno a 120°C (ovviamen­te il fluido che circola nel circuito secon­dario ha una temperatura di circa 90°C). Per altre serre vengono utilizzate acque provenienti da sorgenti o pozzi a tempe­rature variabili tra 40 e 97°C.

A questo proposito è molto interessante il caso di Piancastagnaio dove il fluido geotermico (vapore surriscaldato con una percentuale abbastanza elevata di gas) viene utilizzato per produrre energia elet­trica in una turbina a scarico libero; il flui­do scaricato passa in uno scambiatore a miscela a pressione atmosferica da cui esce acqua a 97°C che viene inviata in scambiatori a piastre dove riscalda a 90°C l’acqua trattata del circuito secon­dario di un impianto di serricoltura, prima di essere inviata alla reiniezione. Tra gli scambiatori a piastre e le serre esiste un notevole dislivello per cui è necessario far passare l’acqua del circuito secondario attraverso scambiatori a fascio tubiero po­sti alla stessa quota delle serre. Di qui, dove esistono anche grandi serbatoi per l’accumulo di calore, parte il circuito (ter­ziario) che, in ciclo chiuso, va ad alimen­tare gli impianti di produzione (Fig. 2) Un altro caso di utilizzazione integrata dell’energia geotermica, di grande inte­resse, è il progetto Bulera fino ad oggi realizzato solo parzialmente dove, parten­do da fluido a 120°C, dovrebbe essere prodotta energia elettrica, dovrebbero es­sere riscaldati 2 ettari di serre, tunnels per olticoltura e funghicoltura, vasche per al­levamenti ittici e campi. (Fig. 3)

CONSIDERAZIONI TECNICO ECONOMICHE

Occorre rilevare, come quella geotermi­ca presenti, rispetto alle fonti di energia convenzionali, un basso impatto ambien­tale, purché siano rispettate ovviamente alcune regole fondamentali quale quella della reiniezione di reflui inquinanti.

La caratteristica principale è data dall’al­ta efficienza energetica dell’energia geo­termica, in particolare per i fluidi a bassa temperatura. Il rapporto tra lavoro prodot­to e energia termica che è possibile otte­nere dai fluidi geotermici, a partire dalle loro condizioni iniziali, sino alla tempera­tura ambiente, può raggiungere il 90% contro il 70-80% che può essere ottenu­to con i combustibili fossili. D’altra parte il calore geotermico ha un costo decisa­mente inferiore rispetto a quello ottenuto da carbone, petrolio e gas naturale percui è opportuno scegliere colture molto “energivore”, cioè piante che necessita­no per il loro sviluppo di alte temperatu­re e quindi di una forte quantità di ener­gia termica. Il mercato italiano oggi sem­bra incoraggiare in particolare produzio­ne floricola florovivaistica, fiori e piante or­namentali, tra queste: aeschynanthus, ci­clamino, croton dieffenbachia, euphorbia- pulcherrima (poinsettia), ficus, nephrole- pis, ortensia scheffleria, scindapsus (pho­tos), spathiphyllum, syngonium philoden- drom, anche se non sono da disprezza­re colture orticole specializzate (basilico ecc.).

Fig. 2 SCHEMA SEMPLIFICATO DELL’IMPIANTO PER RISCALDAMENTO SERRE DI PIANCASTAGNAIO
FIG. 3 SCHEMA SEMPLIFICATO DEL “PROCETTO BULERA”.

Occorre tener presente però che l’inci­denza delle spese di riscaldamento, uti­lizzando combustibili convenzionali, si ag­gira intorno al 15-20% del valore del pro­dotto venduto e pertanto è possibile ren­dere competitive le serre in località colli­nari dove sono ubicate di solito le risorse geotermiche (quindi a minor temperatu­ra media esterna): queste sono talora lon­tane da grandi centri di utilizzazione del prodotto, per cui sul costo finale vengo­no ad avere forte incidenza, come già ac­cennato le spese di trasporto.

PROSPETTIVE FUTURE

Come riportato nella tabella 1 in Italia gli impianti terricoli che utilizzano energia geotermica sono 9. Sono in corso di rea­lizzazione alcune iniziative di grande in­teresse, sia per le dimensioni dei nuovi impianti, che per le innovazioni tecnolo­giche che vengono proposte.

Ad esempio a Castelnuovo di Val di Ce­cina è in costruzione una serra di circa 2000 mq. destinata alla produzione di ba­silico nella quale sarà utilizzato il doppio sistema di riscaldamento con aerotermi (utilizzanti acqua a 65°C) e con riscalda­mento del suolo attraverso tubi corrugati in materiale plastico, a 40 cm di profon­dità nei quali circolerà l’acqua provenien­te dagli aerotermi a 35°C.

Una particolarità significativa di questa serra è che la fonte geotermica è rappre­sentata dall’acqua di scarico del teleri­scaldamento del vicino paese. Questo, una volta attivato, sarà un esempio di uso combinato del fluido geotermico con un elevato fattore di utilizzazione, anche per­ché serre e teleriscaldamento presenta­no approssimativamente lo stesso anda­mento del diagramma di carico termico. Altre iniziative sono in corso di realizza­zione a Castelgiorgio in provincia di Ter­ni e a Latera in provincia di Viterbo.

A Castelgiorgio con il fluido prodotto da uno dei pozzi a suo tempo perforati dal- l’E.N.E.L. (acqua a 120°C) verrà aziona­to un gruppo a circuito binario da 1000 KW a valle del quale l’acqua a 90°C, at­traverso scambiatori a piastre, riscalde­rà il fluido di un circuito secondario de­stinato ad una iniziativa agroindustriale e a 2 ettari di serre, prima di essere reiniet­tata in un altro pozzo. A Latera invece un fluido bifase (acqua e vapore a 200°C) alimenterà una cen­trale elettrica a doppio flash e, a valle l’ac­qua di scarico andrà ad alimentare l’im­pianto di riscaldamento di quindici ettari di serre.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

GIOVANNI MICHELUCCI

RICORDO DI FLORESTANO BARGELLI.

Salivamo lentamente la strada verso Fiesole, io Lucia e Sergio, per incon­trare il Maestro.

Sergio ci accompagnava, lo cono­sceva bene, con Lui aveva costruito Larderello. Arrivammo, un po’ di mano­vra a parcheggiare la macchina, poi fatti alcuni passi ci trovammo davanti ad un ambiente soggiorno, assai ampio, era lo studio con due ampie vetrate ad arco verso Firenze.

G. Michelucci firma la pergamena inserita nella prima pietra. 22/5/1956.

Scrutavo velocemente in ogni dove, in una specie di disordine ordinato, volevo vedere tutto, carpire ogni cosa, ma per l’emozione vidi poco.

Entrò.

Non l’avevo mai visto prima di allora, se non per fotografia; me /’aspettavo più alto, ricordo lo fissai con grande inten­sità come per accertarmi che fosse ve­ramente Lui. Portava una giacca spinata di color marrone, sotto aveva una ca­micia di flanella quadrettata a colori; ci salutò e di li a poco ci invitò a sederci. Mi avvicinò una sedia (era un suo disegno) dalla forma insolita; tre gambe ed uno schienale ricavate da un’unica tavola, mi ricordò tanti panchetti che si casa fine ottocento, normale nell’apparire (ricordo che ben diverso fu l’impatto con casa Savio li a Galluzzo, allora ero più giovane), una normale classica porta, suonammo, ci fu aperto, ricordo una scala apparentemente ripida, ma classica, forte della sua pietra grigia, scendemmo e subito apparve un am trovavano in campagna in uso ai con­tadini, ebbi un attimo di perplessità, Lui mi notò “si sta bene lì” mi disse sve­lando un mio stupore con la malizia dolce del saggio rassicurante. Iniziò la nostra conversazione.

Parlammo delle origini dell’architet­tura, poi una lunga considerazione sul Brunelleschi, sul Rinascimento, ma il tema della spiritualità era il motivo sempre presente con lucidità liberale scevra da ogni schema; parlava con amore anche delle cose più semplici, della pietra, intesa non come materia, ma come cosa viva fino a riflessioni sul suo modo di rapportarsi all’architettura insieme agli attori di questo mondo. Quando il nostro parlare ricordò l’espe­rienza di Larderello il Maestro, quasi con un cenno di malinconia rammentò i luoghi con grande affetto, ma traspariva dalle sue parole un rincrescimento per non aver potuto avere, quasi per una sorta di veto, un continuo rapporto con gli operai. Tale fu la mia impressione, sulla quale meditando, ho capito e giustificato al mio essere il perchè ed il come del suo operare a Larderello.

Disse: “Quando arrivai per la prima volta a Larderello rimasi colpito e frastornato da quel rumore diverso, da quell’odore particolare, dalla maestosità di quelle grandi torri ingegneristiche fumanti, così belle, che nel pensare alla Chiesa mi venne istintivo di fare una cosa diversa, allegra, come per isolarsi da quel naturale fragore”.

Non osavo interrompere il suo par­lare, e consideravo un privilegio ascol­tarlo; Sergio, più confidenziale, ricorda­va volentieri episodi a cui il Maestro fe­licemente partecipava, finché entrai quasi sommessamente nel discorso: si parlava di chiese, ricordando la piccola cappella di Sasso Pisano che tanto mi aveva colpito proprio per una sua na­turalezza plastica, organica la definirei.

Ricordo che immediatamente non focalizzò questa piccola cosa, ma dopo le mie prime battute dove esprimevo le mie considerazioni, i suoi occhi attenti si illuminarono ancor di più in quel volto dal profilo aquilino dolce ed austero e dai bianchi capelli disordinatamente pettinati con la riga che mi stava davanti leggermente inclinato sullo sfondo di Firenze: avevo forse toccato quell’origi­ne inconscia, che maturata nel tempo si era poi sviluppata nella Chiesa dell’Autostrada.

Poi la curiosità del vedere prese il posto alle parole, ma questa era una necessità anche per Lui; con agilità si alzò ed iniziò ad aprire una cassettiera di un contenitore a lato mostrandoci disegni, tanti disegni, progetti mai rea­lizzati, idee maturate, materiale che mai avrei pensato di vedere. Con affabilità inconsueta illustrava, in mezzo a tante carte, un piccolo plastico “Questa è la Chiesa di Longarone” e con la rapidità di un falco passò la mano sopra il modello togliendo il campanile “questo non va visto” continuò +‘Tho dovuto mettere per motivi ecclesiastici, ma que­sta è la chiesa dove si può camminare, sostare in ogni dove, partecipando all’assemblea dei credenti”.

Il tempo passava veloce, il sole calante illuminava radente Firenze, in cui già spuntavano le luci della sera “eccola là la città” disse “piena dei suoi problemi sempre più pesanti non vivibile, bisognerebbe organicamente rovesciarla: le strade una funzione meccanica, gli interni una funzione umana” aveva espresso un concetto urbanistico di fondo che andrebbe oggi indagato specie per le città d’arte.

Finì così quel pomeriggio, mentre la sera si impadroniva di ogni cosa. Per una sorta di circostanze il Maestro scese con noi a Firenze; doveva ripren­dere la macchina, lo accompagnammo al garage; come arrivammo, quegli uomuni di macchine in tute blu lo ac­colsero come un oracolo. Poi partimmo.

Incontrai altre volte negli anni il Ma­estro, in varie occasioni, in particolare a convegni e mostre, la Sua presenza dava prestigio: sempre qualcosa di nuovo c’era da scoprire, specie la sua nuova poetica con i metalli.

L’ultima volta che ebbi modo di in­contrarlo a Fiesole ero con Sergio; doveva essere rivisto il tabernacolo della Chiesa di Larderello secondo la nuova liturgia, ci recammo da Lui per avere il Suo pensiero.

Quantunque avanti negli anni, ricor­do che seduti nel solito soggiorno prese carta e matita e schematizzò l’idea dandoci riferimenti per il materiale. Ci complimentammo con Lui, per il suo stato di salute. Ci raccontò in proposito un simpatico aneddoto. Passati gli ottantacinque anni dovetti recarmi dal­l’oculista per misurarmi la vista per rin­novare la patente, il dottore vedendomi avanti negli anni cominciò a farmi leg­gere dalle lettere più grandi, allora scherzando dissi “Non si fa prima a leggere di fondo dalle più piccole?”. Da questa circostanza traspare l’integrità fi­sica dell’uomo accompagnata da una corretta lezione di vita.

Nel frattempo Leonardo Savioli era venuto meno, ed in quella circostanza mi venne spontaneo parlare della sua opera con il Maestro; Lui intuì che ero
stato suo allievo; con semplice schiettezza e serenità espresse il suo giudizio di stima, cosa che mi fece oltremodo piacere.

Quasi beffandosi di tutti il Maestro se n’è andato, le feste per i suoi cento anni sono state egualmente svolte, come era anche giusto fare, quale te­stimonianza ad un artista che nell’arco della sua lunga vita ha lasciato molte opere sulle quali tanto si è parlato e molto si dovrà ancora dire.

L’episodio di Larderello si sviluppa dopo gli anni cinquanta. Michelucci era sessantenne, nel pieno della maturità creativa ed intellettiva. Allora aveva già costruito importanti opere, ma quello che in certo qual modo lo eleverà oltre i confini nazionali dovrà ancora venire.

In quel tempo le fabbriche boracifere erano gestite dalla LARDERELLO S.p.A. Da poco era finito il conflitto mondiale, le tensioni politiche erano vivissime e sentite e anche nella nostra zona le forti contrapposizioni tra classi davano origine a posizioni faziose, riu­scendo talvolta a suscitare ulteriori di­visioni tra cittadini dello stesso ceto portando a tentativi inconsulti: basti ri­cordare l’ipotesi, poi fortunatamente fatta rientrare, di frazionare lo stesso Comune di Pomarance in due entità ge­ografiche ed amministrative.

In questo scenario, la nuova Ammi­nistrazione della fabbrica dava inizio al rinnovamento dell’azienda nel senso più ampio coinvolgendo l’edificato industria­le per nuove prospettive, ma contestualmente anche l’edificato civile e sociale.

E’ passato poco tempo per esprime­re un sereno giudizio sul ruolo che gli attori del momento recitarono; vi furono posizioni di Amministrazioni contrastan­ti, da cui probabilmente derivarono scelte che oggi, anche per una diversa organizzazione del complesso industria­le, manifestano segni di cedimento.

Interno della Chiesa di Larderello.
Prospettiva della Chiesa di Larderello.

Si poteva allora prevedere quanto stiamo vivendo: forse no; ma nel pen­siero dell’urbanista illuminato un timore passò; quel nostalgico rimpianto della mancanza di rapporto con gli operai mi appare oggi svelato, Michelucci disegnò Larderello residenziale al meglio delle concezioni urbanistiche e ne resta un esempio, ma involontariamente avulso dalla realtà territoriale dell’intorno.

Ne registriamo il fatto e la lezione con ragionata comprensione.

L’impostazione del villaggio residen­ziale viene pensato defilato dalla fabbri­ca vera e propria per motivi ambientali e salubri, vengono indicati i siti per i complessi pubblici, sociali, sportivi, re­ligiosi; vengono gerarchicamente ubicati i complessi residenziali, poi l’insieme or­ganicamente commisurato ad una via­bilità sinusoidale in virtù del declivio, piacevolmente raccordata da naturali sentieri pedonali, il tutto immerso nel verde. Michelucci assapora la natura, conosce i materiali, fa uso predominan­te della bianca pietra creandone un aspetto cromatico nei muri di contenimento o recinzione accompa­gnata da siepi di sempreverdi, ne leva la preziosità lavorandola per l’edificato.

La sua architettura è innovante per semplicità, negli interventi industriali come in quelli residenziali. Anche gli altri progettisti, per quanto abili, dovranno comunque riferirsi al suo linguaggio.

La diversità della Chiesa rispetto a
tutte le altre da Michelucci costruite, è voluta, ma allegra per questa valle così diversa, in cui sentirsi isolati ma felici.

Quando accompagnai Leonardo Savioli a visitarla per la prima volta, camminavamo lungo il deambulatorio felicemente coinvolti ed attratti dalla luminosità del corpo centrale geometri­camente invetriato; anche lui avvertiva questa sensazione diversa; in mistica penombra, quasi per avvalorarne la religiosità, è l’altare.

Michelucci costruisce la bella torre dei dirigenti, è un segno di città, benché grande, per la sua naturale piega mo­dellata al terreno appare così misurata e naturale, quasi un tronco d’albero semplicemente inghirlandato.

Tutti i piccoli villaggi residenziali costruiti all’epoca intorno alle fabbriche, subiscono l’influenza di Michelucci, sia nel linguaggio estetico che nell’uso dei materiali: ma l’esempio va oltre. I segni dell’architettura di Larderello diventano negli anni che seguono luogo comune per i costruttori locali; nei nostri paesi è facile leggere l’uso della bianca pietra per muri e per case, talvolta anche im­propriamente; si legge comunque uno sforzo qualitativo nella semplicità dell’edificato, ma soprattutto ha valore il senso del rispetto dell’ambiente nel­l’espansione dei centri urbani.

I segni dell’architettura restano nel tempo, tutelarli e conservarli è dovere civile delle generazioni: questi sono i te­stimoni dell’evoluzione e della civiltà dei popoli.

La bellezza delle nostre città, dei nostri borghi è soprattutto merito di architet­ture valide ed armoniose ove artisti hanno profuso la loro abilità ed estro in un rapporto dipendente con la natura d’intorno associando così ineluttabilmente ai luoghi il loro prestigio nel tempo.

In questa chiave di lettura dovrà Larderello, ove artisti come Michelucci hanno operato lasciando segni di subli­me qualità a testimonianza di un’epoca.

Dal nostro osservatorio, chiamati per professione ad operare in questi luoghi, abbiamo tutti il dovere di riflettere prima del fare, tenendo conto dei molteplici aspetti che stanno dietro al costruito sia esso piccola cosa che grande fabbrica, mirando sì all’utile e necessario ma anche alla qualità che diventa bellezza nel giusto rapporto tra forma, materiali e rispetto totale della natura: questa è la lezione che ci lascia Giovanni Michelucci.

Studio prospettivo della Chiesa di Sasso Pisano.

Florestano Bargelli

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

STATUTI DI MICCIANO 1473

A cura di A. Merlini.

Nella precedente edizione della Co­munità di Pomarance fu pubblicata, a cura del Sig. Mazzinghi Geom. Edmon­do, la Storia di Pomarance dalle origi­ni ai primi anni del 1900.

L’Associazione Turistica in questa nuova edizione ha deciso di continua­re a scrivere la Storia di Pomarance al­largando lo sguardo a tutto il territorio circostante, e per fare ciò saranno pub­blicati documenti inediti che si trovano per lo più presso /’Archivio Storico Co­munale.

In considerazione della difficoltà di lettura, e pensando specialmente ai ra­gazzi delle scuole che potranno così ri­cercarci date e notizie utili all’appren­dimento della Storia del territorio, i do­cumenti pubblicati saranno corredati da ampie note e spiegazioni:

Il primo documento che viene pubbli­cato sono gli “STATUTI DI MICCIANO’’ del 1473.

CENNI STORICI SU MICCIANO

Micciano.

□ La leggenda fa risalire l’origine di Micciano ad un certo MITIUS, legiona­rio romano e veterano di molte guerre, che a seguito della Legge Julia, voluta da Giulio Cesare nel 59 A.C., ebbe in assegnazione il territorio dove oggi sor­ge l’abitato con i confinanti terreni in parte incolti ed in parte coperti di bo­schi.

Il documento più vecchio in cui si par­la di Micciano si trova nell’Archivio Ve­scovile di Volterra e risale al 947, allor­ché il Vescovo Bosone concesse l’in­vestitura di Piovano al Prete Giovanni di Giovanni ed al Diacono Pietro di Rutilio.

Ritroviamo il nome di Micciano nel 1014 in un privilegio imperiale con il quale l’imperatore Arrigo l°, fra le al­tre chiese e possessi, concede ai Mo­naci di S. Pietro a Monteverdi anche Micciano con la sua corte e con tutti i beni in essa esistenti.

Nel 1176 il Papa Alessandro III0 con una sua bolla conferma la donazione a favore della Badia di S. Pietro in Mon­teverdi.

Nel 1186 Micciano e la sua corte vie­ne in possesso del Vescovo di Volter­ra Ildebrando dei Pannocchieschi gra­zie ad un diploma, datato 28 Agosto, ed inviatogli da S. Miniato dall’imperatore tedesco Enrico IV°.

Il 17 febbraio 1203 gli uomini di Mic­ciano giurano obbedienza al Comune di Volterra nelle mani del Potestà Ra­nieri di Montespertoli.

Il 27 agosto 1208 ha luogo la forma­le cessione di Micciano ai Consoli di Volterra da parte dell’Abate del mona­stero di Monteverdi. Durante la lotta tra il Vescovo di Volterra, Galgano Pan­nocchieschi, ed il Comune, Micciano ri­sulta essere fortificato.

Nel 1288 troviamo che il Castello di Micciano era tassato dal Comune di Volterra per £. 3.400 l’anno.

Nel 1356 la Chiesa di Micciano è de­signata Matrice di cinque cure succur­sali oltre a due spedali.

nel 1411 negli Statuti di Volterra si trova il Castello di Micciano fra quelli nei quali rendeva giustizia un giudice civile eletto dal Magistrato civico di Vol­terra.

Nel 1472 a seguito della guerra del­le miniere tra Volterra e Firenze, Mic­ciano passa sotto la giurisdizione civi­le e criminale di Pomarance divenuto Capoluogo del Vicariato della Val di Ce­cina che oltre a Micciano comprende­va Libbiano, Montecerboli, Montegemoli, Sasso, La Leccia, Querceto, Gello, Mazzolla e Montecastelli.

STATUTI DI MICCIANO anno 1473

Documento originale.

PROHEMIO

Adlaude et gloria et honore dello innipoten­te et clemente Iddio e della sua gloriosa ma­dre vergine maria et del beato messer (1) San Giovanni babtista et di Messere San Michelagnolo, et generalmente di tutta la celestal corte del paradiso, et ad honore et glo­ria et magnificentia del magnifico et poten­te popolo fiorentino et ad perpetua pace di tutti li homini del comune di Miccano.

Questi sono gli statuti et ordinamenti del co­mune di Miccano di valdicecina coaderenti e distretto di Firenze, facti et ordinati per li prudenti et discreti Huomini, Lorenzo di baiardo et hic (2) di Giannone amendue del comune predetto aventi piena auctorita e balia (3) di poter ordinare, statuire e rifor­mare il detto commune come pare epiace loro sotto gliannj del nostro signor Jesus MCCCCLXXIIJ in dictione settima e quali statuti sono questi cioè.

NOTE

  1. Messer, Messere : Anticamente Mio Si­re, Mio Signore, o francesamente Mon­signore. Titolo dato ai grandi ed ai prela­ti sino al Secolo XVI °.
  2. Hic : Questo, cioè Lorenzo di Baiardo e Lorenzo di Giannone.
  3. Balia : Dal latino potestas che significa autorità, potere, signoria, potestà asso­luta.

PROEMIO

EZ Ai giorni di oggi l’introduzione è normal­mente una breve presentazione fatta dall’Autore o da altra persona per presentare un libro. Negli anni in cui furono scritti que­sti Statuti, cioè la legge fondamentale con la quale si regge e governa uno Stato, il Proemio era prima di tutto una parte inte­grante dell’opera, poi era una esplicita ma­nifestazione di riverenza ai Santi patroni del luogo e della città di Firenze e di obbedien­za al popolo fiorentino.

L’invocazione ai santi inizia sempre con Dio quale supremo reggitore dell’universo, e la “sua gloriosa madre Vergine Maria” a significare quanto grande fosse il culto per la Madonna fra il popolo, anche se bisogne­rà arrivare all’anno 1854 perchè la Chiesa proclami il dogma della Immacolata Conce­zione.

In secondo luogo, e non a caso, ma sem­pre come segno di riverenza e sottomissio­ne, prima viene invocato San Giovanni Bat­tista patrono di Firenze la cui festa si cele­bra il 24 Giugno, poi San Michelagnolo (San Michele Arcangelo) patrono di Micciano che viene festeggiato il 29 Settembre.

Il segno di riverenza ed obbedienza al po­polo fiorentino è dato dalia frase “ad hono­re et gloria et magnificentia del magnifico e potente popolo fiorentino” che vuol dire che ciò che stavano per fare era prima di tutto per onore e gloria ecc. ecc. del popo­lo fiorentino ed in secondo del popolo di Mic­ciano.

A questo punto è doveroso notare che ci riferiamo ancora al “Popolo Fiorentino” in quanto nel 1473, nonostante l’avvento di Lo­renzo dei Medici (1469) sembrava ancora che il possessore del potere fosse il popolo.

Nel secondo capoverso del Proemio è do­veroso far notare come ancora viene spe­cificata la sudditanza di Micciano a Firenze con la parola “Coaderenti” (persone che diano la ioro adesione alle stesse correnti di pensiero e di azione) e “distretto” di Fi­renze (territorio compreso nella giurisdizio­ne militare e civile di Firenze).

Un altro punto degno di nota è la frase “in dictione settima”perchè denota che anche se nella prima parte si fa riferimento al po­polo fiorentino nel conteggio di quando fu­rono scritti gli Statuti ci si riferisce al momen­to in cui (1469) Lorenzo dei Medici diviene capo della sua famiglia, segno questo che oramai il potere di Lorenzo si era già affer­mato.

“In dictione settima” vuol dire più preci­samente: «durante il periodo in cui aveva­no diritto di parlare gli eletti per la settima volta dal giorno in cui Lorenzo dei Medici divenne capo della sua famiglia e quindi di Firenze (1469)». Dal momento che le nomi­ne venivano normalmente fatte nei mesi di Giugno e Dicembre, si avrebbe: fino al Dicembre 1469 quelli che erano già in carica all’avvento di Lorenzo dei Medici; due elezioni nel 1470; due elezioni nel 1471; due elezioni nel 1472;

ed infine una, la settima, nel 1473.

PROHEMIO

DELLA ELECTIONE DI TUTTI GLUFFICI Imprima acciocché al Comune e homini di Miccano sieno bene et utilmente gover­nati e che sulle faccende del Comune habbino ad operare essi detti statutari^ ordinorono, providono, statuirono et de­liberemo che per lo advenire ogni sei me­si il consolo o vero vicario del detto co­mune sia tenuto e debbi almeno per otto dì innanzi la fine del suo ufficio alla pena di soldi venti da essere condennato di fac­to, ragunar nella casa del detto comune di Miccano uno homo per ciascuna casa o vero famiglia di detto Comune et a quelli così raunati proporre di doversi eleggere un nuovo consolo o vero vicario et uno consiglieri et uno Camarlingo equali così electu habbino assuccedere allufficio pas­sato et così electi si debbino mettere a partito ciascuno di per se et quelli che ri­marranno, cioè che sivincera per partito, quelli sintendino essere veramente et iuridicamente electi, e quelli così electi hab­bino auctorita, potestà et balia, cioè electi consolo consiglieree Camarlingho di po­ter fare et exercitare tutte le faccende e cose appartenenti al detto Commune e mandare ambasciatori porre datij preste, et ogni altra gravezza per poter pagare il vicario di Ripamarranci, et il cero di san­to Giovanni, o, Signori Fiorentini, et tutto quello che intorno alle predette cose sa­rà fatto per li sopradetti Consolo, consi­glieri e Camarlingho o due diloro dacordo vagli e tengha si come fossi facto per tutto il detto Commune, et il loro ufficio duri mesi sei et non più et habbino in detto tempo per loro salario dello havere et pecunia del detto Commune soldi XX per uno et habbino divieto ciacsuno di loro al­meno un anno dal dì che haranno dipo­sto lufficio et non possi scambiare el pa­dre el figliolo et exverso helino fratello l’altro ne el zio el nipote et exverso, inten­dendosi detti parentadi per linea maschulina, et sieno tenuti et debbino fare scri­vere tuute lopere et meriti et altre spese di Commune che si facessino alloro tem­po et nel fine delloro ufficio farele stan­ziare in Commune, se il Camarlingho pagera alcuna spesa prima stanziai sinten­di pagherà di suo proprio.

PROEMIO

DELLA ELEZIONE DELLE CARICHE PUB­BLICHE

In questo capitolo vengono stabilite det­tagliatamente tutte le regole che devono es­sere applicate per la elezione delle cariche comunali affinchè non vi sia alcuna possi­bilità di errore.

La prima regola è che il Console in cari­ca, almeno 8 giorni prima della fine del suo mandato di 6 mesi, riunisca nella Casa del Comune un uomo per ogni famiglia o casa esistenti nel Comune per proporre loro la nuova elezione di un Console o Vicario, di un Consigliere e di un Camarlingho (Cas­siere).

La dimostrazione dello stato di incertez­za che regnava nel 1473 è dimostrata an­cora una volta dalle parole “Console o Vi­cario” poiché Console è il magistrato degli antichi comuni italiani, mentre Vicario è co­lui che esercita la autorità nel nome dell’im­peratore.

Le cariche venivano fatte dal popolo rap­presentato in questo caso dai capi famiglia.

La mancata convocazione di quella che potremmo chiamare Assemblea Popolare comportava per il Console o Vicario in cari­ca la multa di 20 soldi, praticamente tutto il suo stipendio. Una volta effettuata la no­mina, gli eletti avevano il massimo potere e le loro decisioni prese con la maggioran­za dei due terzi erano vincolanti per tutti. Es­si potevano imporre dazi, prestiti ed ogni al­tro tipo di imposte per ricavare le cifre oc­correnti per le spese comunali, il Vicario di Ripamarranci ed il Cero che ogni Comune doveva portare a Firenze per la festa di S.Giovanni.

Gli eletti erano ricompensati con 20 sol­di, e non potevano essere rieletti subito ma bensì solo dopo un anno. Non potevano pas­sare la carica al figlio o ad altro parente ma­schio. Dovevano trascrivere tutto ciò che ve­niva fatto affinchè il loro operato potesse es­sere facilmente controllato.

Ultima annotazione di questo capitolo, ma non certamente la minore, è il fatto che chi ricopriva cariche pubbliche pagava in pro­prio gli errori o le mancanze commesse, ve­dasi il caso del Camarlingho a cui veniva ad­debitata ogni spesa effettuata se prima la somma non era stata stanziata.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

UNO SGUARDO SU LIBBIANO

TRA STORIA E PRESENTE

ATra le frazioni del nostro Comune, Lib- biano, una delle più piccole, si distingue per una serie di aspetti che ne fanno una realtà unica, di notevole interesse sia sul piano naturalistico e paesaggistico sia sul piano storico – culturale, di cui le case e le strade costituiscono tuttora vivente e, per molti versi, intatta testimonianza. Libbiano (castrum Liviani) sorse in epo­ca romana, precisamente ai tempi della legge lulia (59 a.C.), con cui Giulio Cesa­re assegnò ai suoi veterani, tra i quali, ap­punto, questo Livius, parte dei territori conquistati (la medesima origine hanno i centri vicini di Micciano, Serrazzano, Lustignano).

LIBBIANO: La Torre

Successivamente divenne un castello che, per la sua posizione strategica e di confine e per le ricchezze minerarie del suo territorio, fu a lungo conteso tra i mo­naci dell’Abbazia di S. Pietro in PalazzoIo (Monteverdi) ed il Vescovo di Volterra. Prevalse alla fine quest’ultimo, ma l’effet­tivo godimento dei diritti feudali da parte dei Vescovi fu ostacolato per molto tem­po dalla potente famiglia dei nobili Caval­canti (talora avversari, talora alleati degli stessi Vescovi).

Sottomesso in modo definitivo a Volterra agli inizi del 1400, Libbiano ne seguì la sorte quando la città di S. Lino fu conqui­stata dai Fiorentini, avidi di quelle ricchez­ze minerarie (allume, zolfo, vetriolo) del­le quali lo stesso territorio libbianese era particolarmente ricco.

Neanche sotto il dominio fiorentino ven­ne meno l’influenza dei Cavalcanti che ri­siedettero a Libbiano praticamente fino al 1776, allorché il paese venne a far parte a tutti gli effetti della comunità di Poma­rance.

La popolazione di Libbiano ammontava nel 1845 a 279 abitanti (più o meno quel­li del 1551:202), mentre nel 1861 era sa­lita a 453, cioè era quasi raddoppiata. Co­me si spiega questo aumento? Con tutta probabilità esso è dovuto allo sviluppo delle attività minerarie (zolfo e vetriolo, ra­me e calcedonio) che, in tale periodo, in­teressò un po’ tutto il Pomaranci no. Que­sta attività si protrasse fino a tempi rela­tivamente vicini (durante la 1° Guerra Mondiale funzionava, vicino a Villetta, una miniera di carbon fossile, i cui dipenden­ti erano esentati dal servizio militare ed il cui prodotto era inviato a Casino di Terra con una ferrovia a carrelli) e consentì di mantenere relativamente stabile la popo­lazione.

La situazione cominciò decisamente a mutare col venir meno dell’attività mine­raria (a parte quella di carbon fossile la chiusura delle miniere risale a fine ’800); a questo punto la popolazione si trovò, in­fatti, davanti a due alternative: o lavora­re a mezzadria dai Conti Guidi di Serra e fare i boscaioli ed i carbonai, oppure cercare lavoro più lontano, ad esempio a Larderello, dove lo sviluppo della primiti­va industria chimica in direzione della pro­duzione di energia elettrica offriva nuove opportunità. Gradualmente il numero di coloro che lavoravano nell’industria bo­racifera (e che andavano e tornavano da Libbiano a Larderello prima a piedi e poi in bicicletta) aumentò e comportò una pri­ma significativa ondata migratoria verso Larderello ed i paesi vicini.

Quando la Larderello S.p.A. concesse fi­nalmente un automezzo per trasportare i lavoratori, sembrò che il fenomeno po­tesse essere arginato. Si trattò di una bre­ve illusione: alla fine degli anni ’50, quan­do fu costruito il villaggio residenziale di Larderello, molti furono i Libbianesi che lasciarono il loro paese, cui pure erano attaccati, per andare ad abitare in un cen­tro che offriva loro troppe più comodità. Cominciò così un esodo sempre più ac­centuato, continuato negli anni recenti, anche se, ultimamente, il centro di attra­zione (non solo per Libbiano) non era più Larderello, ma Pomarance.

I dati qui di seguito riportati illustrano be­ne l’entità e l’andamento del fenomeno: anno 1961 abitanti 232 anno 1971 abitanti 137 anno 1981 abitanti 101 31/12/1988 abitanti 80

Attualmente gli abitanti di Libbiano han­no un’età media che supera i 60 anni. I bambini sono solo poche unità e scarso è il numero degli adulti che non hanno raggiunto l’età pensionabile: mancano in­fatti intere generazioni, quelle dell’età di mezzo. Questo può far supporre un pae­se quasi addormentato ed immobile, ma la realtà non è tale: è anzi sorprendente vedere come i Libbianesi, anche quelli che hanno superato gli ottanta, riescano a condurre una vita sufficientemente at­tiva ed autonoma, a non stare con le ma­ni in mano e a non aspettare l’aiuto altrui, sicché chi non conosce certi personaggi prova incredulità quando viene a sapere che sono nati agli albori del secolo XX. Del resto Libbiano non è quel paesino sonnolento che ci si potrebbe aspettare anche per altri motivi.

La sua dislocazione decentrata, il suo es­sere fuori dal mondo (cioè lontano dai centri e dalle principali vie di comunica­zione), se per un verso è stato il motivo della sua decadenza, dall’altro lato ne fa un angolo, come dicevo all’inizio, unico, dove l’orologio della storia sembra essersi fermato a tempi più su misura umana e dove il rapporto armonico tra uomo e na­tura non è un’utopia ma una realtà vis­suta e quotidiana.

Il discorso vale, in primo luogo, per quel­lo che riguarda le case che, ad eccezio­ne del Circolo A.R.C.A.L. (inaugurato nel 1969), sono tutte vecchie di secoli, anche se poi gli interni, grazie alla solerzia de­gli abitanti, sia di quelli a tempo pieno che di quelli che a Libbiano tornano ogni tan­to, sono stati ristrutturati con criteri mo­derni.

Certo, proprio per questo, qualcosa è an­dato perduto: dai pavimenti in cotto ai sof­fitti con travi e travicelli, ai grandi focarili, teatro di lunghe veglie invernali al canto del fuoco. All’esterno, però, tutto è rima­sto come una volta: le mura delle case, senza intonaco, fatte di mattoni o delle ca­ratteristiche pietre bianche, i numerosi ar­chi ciechi, le due stradine lastricate che portano alla torre, i muretti intorno al pae­se, affacciandosi ai quali si può spaziare da un lato sull’ampio panorama della valle del Trossa e, più oltre, di Volterra e delle sue colline, dall’altro su un succedersi di alture coperte di boschi foltissimi e degra­danti verso la foresta di Monterufoli.

Sono queste qualità, unitamente alla na­turale simpatia umana degli abitanti, a far sì che Libbiano, sia in estate, quando la campagna assume un aspetto quasi ma­gico, sia nelle altre stagioni, specie in tempo di caccia o di funghi, continui ad essere meta di non poca gente. Gente

che ci abitava e che, quasi mai, lascia passare troppo tempo senza tornarci a far una visita o, magari, gente di fuori, gen­te di città lontane, che a Libbiano ci capi­ta una volta per caso e ci si innamora, la­sciandosi prendere dall’incanto del silen­zio, dell’antico, imparando ad amare le ci­cale che friniscono e l’ombra degli alberi sulla piccola piazza.

Laura Longinotti

NOTE BIBLIOGRAFICHE:

  1. Giovanni Targioni Tozzetti – Relazione d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana – FORNI Editori Bologna
  2. Don Mario Bocci – L’Araldo di Volterra – Settima­nale della diocesi di Volterra – 9/4/1972
  3. La Comunità di Pomarance
  4. Repetti – Dizionario geografico, fisico storico della Toscana – 1835 – 1845

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

LA CHIESA DI SAN CERBONE A MONTECERBOLI (I PARTE)

A CURA DEGLI ARCHITETTI M.C. BIANCHI, M. SALVI, M. TALOCCHINI

Il monumento che abbiamo preso in esa­me, si trova a Montecerboli una frazione del Comune di Pomarance, situata nell’estremità meridionale della provincia di Pisa, in una zo­na prevalentemente collinare, tagliata fuori dal­le grandi vie di comunicazione.

Dal punto di vista geologico siamo in presen­za di argille spesso lignitifere e lacustri, ser­pentina e gabbro; il nucleo storico, all’interno del quale si trova il monumento da noi rileva­to, è interamente fondato su gabbro e si trova a 375 m. sul livello del mare.

Interessante dal punto di vista geologico è la vicinanza con Larderello e i conosciutissimi fe­nomeni endogeni, dai quali pare derivare il no­me di Montecerboli.

Interno della Chiesa di San Cerbone (1925 ca.) – Coll. Rossi U.

Si dice infatti che il nome fosse in origine Montecerbero a causa delle abbondanti emissioni sulfuree accompagnate da fummacchi, che fa­cevano pensare alle porte dell’inferno, o al mi­tico guardiano delle medesime. Esiste comun­que, anche un’altra teoria che fa risalire il no­me a Monte Cervuli, per l’abbondanza dei cervi in questa zona; tesi questa avvalorata dal fat­to che lo stemma della comunità, raffigura ap­punto un cervo sullo sfondo delle colline. «Non vi sono notizie antecedenti al 1000 riguar­danti il castello di Montecerboli; la notizia più antica ce la fornisce il dott. E. Fiumi in una publicazione del 1934, egli parla di un atto stipu­lato nel 1003, che trovasi nell’archivio Vesco­vile di Volterra. In tale atto, Montecerboli, è chiamato “Monte Cerbero’’ ed il torrente che scorre alla base del monte è detto “Possula”, oggi Possera» (1).

Allo stato attuale Montecerboli è un paese che conta circa 1500 abitanti, che vive essenzial­mente del lavoro che i soffioni boraciferi assi­curano alla produzione dell’energia elettrica. A questa industria è stato legato anche lo svi­luppo demografico e quindi edilizio; quest’ul­timo ha avuto un notevole incremento dopo se­coli di stasi, proprio all’inizio di questo seco­lo, quando l’industria boracifera “Larderello” (oggi Enel -Eni) ampliò gli stabilimenti ed as­sunse molta nuova manodopera.

Lo stato di conservazione del nucleo storico, che è rimasto piuttosto decentrato rispetto al­lo sviluppo edilizio attuale è al momento, sod­disfacente, pur con gli inevitabili restauri scor­retti eseguiti negli anni passati.

Il castello di Montecerboli trovandosi nell’area gravitazionale della città di Volterra, vede tut­ta la sua storia, legata appunto alla storia di Volterra di cui è stato per lungo tempo tribu­tario; si trova notizia difatti, che nella primà me­tà del 1400, il Vescovo di Volterra, Roberto Ardinari, conferiva il titolo di conte di Montecer­boli, ad Antonio di Pasquino Broccardi; i Broc­cami nel XV secolo erano una facoltosa fami­glia di Montecerboli dove possedevano molte terre, ed avevano investito molti capitali nel commercio volterrano per lo zolfo ed allume che allora si estraevano dal territorio dei sof­fioni. La Comunità e cura amministrativa di Montecerboli, in antico comprendeva “ville e villaggi” oggi in gran parte perduti, ma sap­piamo che al 1200 erano: S. Maria, S. Ippolito, Bagni a Morba, Libbiano e Spartacciano. Questo dimostra, che seppure di modeste di­mensioni, il castello godeva di una certa au­tonomia, ed anche di uno statuto e di misure proprie e questo lo troviamo ampiamente te­stimoniato dal dizionario Geografico Fisico e Storico della Toscana di E. Repetti, di cui ri­portiamo un ampio stralcio: “Montecerboli in Val di Cecina.

Castelletto con chiesa plebana di San cerbo­ne già filiale della pieve di S. Maria a Morba, cui fu riunita nella comunità giuridica; è circa 4 miglia a scirocco delle Pomarance, diocesi di Volterra, compartimento di Pisa.

Risiede sopra un piccolo poggetto di gabbro fra la strada provinciale massetana, che gli passa a ponente e il torrente Possera, con­fluente a sinistra della Cecina. Senza perder­si in congetture sull’origine del nome di Mon­tecerboli, io non trovo notizie d’esso, ne dei loro signori, che sieno più antiche di quelle pub­blicate daH’Ammirato Juniore, nelle aggiunte alle vite fatte de Vescovi di Volterra del vec­chio Ammirato.

Fra le quali un contratto del 14 gennaio 1160, rogato in Volterra nel Chiostro della cattedra­le, vertente sopra una permuta fatta tra il Ve­scovo Galgano di Volterra e un certo conte Gu­glielmino, figlio del conte Rainuccio, e fratello di una altro conte Lottario, quando Guglielmi­no cede al Vescovo prenominato tutto ciò, che tanto egli che donna bella di lui moglie, pos­sedevano nei castelli e distretti di Monte Cuccari, di Camporena, di Laiatico, di Ghizzano, e di Cedri in Val d’Era. In cambio di tali beni, il vescovo Galgano, rinunziò, ai due coniugi, la terza parte del castello, borgo e corte di Mon­tecerboli’’.

La quale ultima espressione ci dà chiaramen­te a conoscere che la Comunità di Montecer­boli, fino a quell’età aveva misure sue proprie. Con altro strumento della stessa provenineza, scritto il 20 dicembre 1173 nel palazzo Vesco­vile di Volterra, Ranieri degli Libertini, Vesco­vo di detta città fece fine a quietanza per L. 300 pagategli dal comune di Volterra di tutto ciò che poteva pretendere rispetto ai dazi, con­danne penali etc.; che il comune predetto ave­va nei tempi addietro imposto e fatto pagare agli abitanti delle Pomarance, di Montecerbo­li, di Leccia, di Sasso, di Serrazzano, paesi sui quali i vescovi volterrani avevano allora dop­pia giurisdizione. Infatti nel mese successivo, governava in Montecerboli, un rettore vesco­vo di Volterra, del quale ne da prova il seguente documento tra le carte della Comunità di Vol­terra relative a prestazioni di giuramento d’ub­bidienza, a quel comune. Esiste un atto roga­to in Montecerboli per Ranieri degli Libertini, in cui con i consiglieri elegge e costituisce un sindaco per recarsi a Volterra a giurare obbe­dienza a quel podestà e colà difendere le liti relative alla comunità di Montecerboli.

Quindi troviamo nei secoli XIII e XIV, che a se­conda delle disserzioni e pacificazioni fra i ve­scovi e i rappresentanti il comune di Volterra, gli uomini di Montecerboli prestavano obbe­dienza di sudditanza alla città piuttosto che al loro prelato. Solamente per concordia fatta ne! 1253, fu stabilita la restituzione al vescovo Ra­nieri del castello sopra nominato, a condizio­ne che alla morte di lui tornassero in potere della citta. Frattanto, per interesse comune del­le parti, a seconda di una nuova convenzione fatta nel 1226 fra il vescovo Alberto Scalari e il Comune di Volterra: “si esigevano le collet­te, le condanne e ogni altro diritto”.

Intorno a questa stessa età Montecerboli, a te­nore dello Statuto volterrano del 1228, paga­va di tassa annua lire 7286.

Mediante alcune trattative concluse nel 1319 state rinnovate quattro anni dopo fra i rappre­sentanti della città e Rainuccio, restò conve­nuto che i rettori di Montecerboli e degli altri 4 castelli, si dovessero estrarre da una borsa di 200 probi cittadini volterrani, a patto di rice­vere la investitura del Vescovo. Ma con il tem­po si mancò ai patti per cui il 29/12/1394 furo­
no stabiliti tra il vescovo e il comune di Volter­ra, nuove convenzioni con le quali fu determi­nato che il giurisdicente di Montecerboli, non si poteva nominare eccetto che fra i cittadini volterrani.

Finalmente dallo statuto di Volterra del 1411, rilevasi che allora nel castello di Montecerbo­li, faceva ragione un ufficiale inviatovi dal co­mune di Volterra. Uno degli ultimi atti tenden­ti a provare un resto di dominio che in Monte­cerboli avevano i Vescovi, fu scoperto dallo stesso Ammirato Juniore nell’archivio delle Riformagioni di Firenze; è una provvisione della Signoria fatta nel 1429, dalla quale risulta che il comune di Volterra, stante la ribellione ac­caduta nel 1427, aveva perduto il diritto di eleg­gere i suoi podestà e i suoi giurisdicenti del contado Volterrano, ma siccome i rettori della repubblica fiorentina avevano molta stima del Vescovo Stefano da Prato, Vescovo di Volter­ra, vollero conservare in favore suo gli antichi diritti, fra i quali, quello di eleggere e di poter inviare ogni sei mesi i rettori a governare nel civile gli abitanti dei castelli delle Ripomarance, Laccia, Sasso e Serrazzano rilasciandogli per detto tempo anche la regalia delle condan­nazioni. (Ammirato dei vescovi di Volterra). Non sembra però che ai successori del vesco­vo Stefano Aliotti fosse continuato un tal privi­legio dalla repubblica fiorentina a nome della quale d’ora in poi Montecerboli si governava con tutto il restante contado.

La Chiesa Parrocchiale di San Cerbone, fu eretta in battesimale dopo che l’antica sua chiesa matrice di S. Maria a Morba, cadde in rovina. La qual trasalazione avvenne verso il 1400 giacché la Pieve a Morba esisteva nel 1335 cosi come attesta il sinodo volterrano del­lo stesso anno. Sul declinare del secolo me­desimo venne rammentata ancora da “Ugoli­no da Montecerboli” nella sua opera “De Balneis”.

Delineato sommariamente il quadro storico e ambientale in cui ci troviamo, cercheremo ora di scendere nei particolari e cioè nell’esame tipologico di questo monumento.

Ci troviamo di fronte ad una chiesa a pianta rettangolare ad una sola navata con annesse due altre costruzioni di incerta datazione ed un campanile piuttosto recente(1902).

La struttura in elevazione della chiesa è realizzata con muratura a sacco in laterizio, che all’esterno è lasciato a facciavista, mentre al­l’interno è allo stato attuale intonacato così co­me lo era già nel ’600.

Ingresso della Chiesa

La copertura alla “lombarda” èsorretta da tre capriate ed è stata più volte manomessa, co­me troviamo ampiamente documentato, per cui è impossibile stabilire come fosse in origine; dalle lesioni che si riscontrano sulla facciata, si può però ipotizzare che non fosse una co­pertura a spinta eliminata. Sul lato posteriore sinistro esisteva un campanile a vela con due campane, che franò agli inizi di questo secolo e non fu più ricostruito; si preferì, malaugura­tamente, costruirne uno nuovo, che come si può vedere, fa brutta mostra di sé sul lato de­stro della chiesa.

Abbiamo trovato scarne notizie di questa chie­sa nelle pubblicazioni consultate; comunque dall’opera di Moretti Stopani (Chiese Romani­che in Val di Cecina), abbiamo potuto trarre alcune valide indicazioni, nonché la convinzio­ne che l’oggetto del nostro studio si inquadra perfettamente nella tipologia delle sopra cita­te chiese, sebbene sia stato costruito proba­bilmente in economia e materiali poveri.

È comunque da notare l’archivolta con ghiera di cotto stampata a zigzag, che si ritrova an­che in altre chiese dei dintorni (Beiforte e Mon­teguidi) e il basamento di pietre a vista arena­ria indicatore di un’influenza pisano lucchese filtrate daH’ambiente volterrano; anche qui il materiale impiegato è meno pregiato. Anche i materiali da costruzione sono tipici di questa zona: arenarie, travertino, laterìzio e gabbro verde. Sicuramente interessante è il bordo in laterizio stampato in varie fogge che si trova sui paramenti esterni poco sotto la copertura. Non è da escudere che questi siano gli “idoletti” di cui parla Targioni Tozzetti in una rela­zione di viaggio in questi luoghi.

La chiesa plebana di San Cerbone, dipende­va in origine dalla Pieve a Morba di cui in se­guito prese i titoli e il fonte battesimale, come si trova testimoniato in una lettera di Don Ma­rio Bocci archivista dell’archivio Vescovile di Volterra:

“Della Pievania di San Giovanni a Morba, ri­mane oggi solamente l’abside incorporato ad una casa colonica.

La pieve apparteneva come diocesi al nucleo primitivo della chiesa volterrana come fanno
fede i due privilegi di papa Alessandro III al Ve­scovo S. Ugo (1117 e 1179). La pieve era col­legiata cioè possedeva un piccolo capitolo dei canonici: all’atto della costituzione dei Sesti Vi­cariali viene riconosciuta al Capo Sesto della Maremma o di Montagna ed ha sette rettorie che da essa dipendono come filiali cioè S. Cer­bone e Montecerboli, San Michele e Spartacciano, S.S. Salvatore e Castelnuovo ecc”.

Di certo è che già nel 1400 la pieve minacciva rovina. Il 24 Novembre 1460, il vescovo G. Neroni, ad una istanza del Vicario Consiglieri, e popolo della Comunità di Montecerboli, rispon­de che, “attesa la penuria del clero (sappia­mo infatti che nel periodo che va dal 1310 al 1315, essendo vacante il posto di pievano, ten­ne per qualche tempo la pieve, il prete Cinzio, rettore di S. Cerbone a Montecerboli) e tenui­tà delle rendite della chiesa di san Cerbone: “Propter guerras, pestilentias nancnon alias calamitates etgravedines’’ aggrega, unisce e incorpora ad essa la pieve “… quae sub ve­nerando vocabulo Sancti Joannis de Morba est sita infra metas vestrae Curtis et sine cura animarum, cum omnibus suis pertinetisis juribus actionibus ecclesiis et oratoriisi’’. Cosi il no­me, la gloria e la supremazia di Morba, ces­sarono e i titoli con il fonte battesimale passa­rono alla chiesa di Montecerboli. Della strut­tura della Pieve a Morba, come si è già detto, non rimane che parte dell’abside; sappiamo solo che era a forma basilicale con tre navate di tre campate l’una su pilastri di pietra, con tre altari al presbiterio.

Dietro l’altare Maggiore era l’abside e sopra due finestrelle laterali oblunghe, sulla faccia­ta vi erano degli archetti pensili e sulla porta maggiore un occhio con rosone. Grazie all’in­teressamento personale di Don Mario Bocci, Archivista della Mensa Vescovile di Volterra, siamo riusciti ad avere le copie di alcune visi­te pastorali da cui abbiamo tratto utili indica­zioni sul succedersi dei numerosi rifacimenti subiti dalla chiesa. Ci è stata utile anche la con­sultazione dei manoscritti contabili della comu­nità di Montecerboli di cui abbiamo preso vi­sione nell’Archivio comunale di Pomarance. Tutto quanto sopra scritto verrà riportato in se­guito in stralci tradotti o in testo integrale.

Montecerboli (PI). Il castello

Sono queste le uniche notizie attendi­bili peraltro scarse a cui abbiamo potuto attingere.

Dalla Visita pastorale di Mons.L. Ala­manni

Registro I carta 26 tergo e segg :

“27aprile 1599’’…“Pieve di S. Gio.Bat­tista di Morba’’

…Proseguendo la visita arrivò alla chie­sa pl e ban a non più occupata di S. Gio­vanni a Morba, che si dice sia annessa alla chiesa di San Cerbone del castello di Montecerboli. È in pessimo stato per quel che riguarda il tetto le pareti e il pa­vimento. Le porte sono vecchie e malan­date, e chiuderle serve a poco perchè vi entra ogni genere di animali. C’e un al­tro altare di pietra consacrata e sopra l’al­tare c’è una croce soltanto con due can­delabri, c’è un’icona piccola ed antica con al centro l’immagine della Beata Vergine, a destra un’immagine di Giovanni Aposto­lo e a sinistra un’immagine di San Gio­vanni Battista ma tuttavia quella immagi­ne della B.M. Vergime fu oggetto di gran­dissima devozione presso le popolazioni locali e limitrofe. La chiesa minaccia ro­vina in ogni sua parte ed ha bisogno di una grossa opera di restauro…

“Pieve di San Cerbone del Castello di Montecerboli;

…e proseguendo il viaggio il reverendis­simo Padre arrivò al castello di Montecer­boli dove fu ricevuto con grandi onoreficenze dal pievano a dalla popolazione. Arrivò nella chiesa di San Cerbone, una volta espletate le funzioni di rito dopo aver cantato la preghiera benedisse il popolo diede l’assoluzione ai morti con la mitra, il pluviale e il bastone. Visitò il S.S.Euca­restia che è conservato sopra l’altare di detta chiesa in un armadietto di legno a forma di tabernacolo… poi visitò il fonte battesimale che è a destra dell’ingresso della chiesa. L’acqua per lavare gli infanti viene conservata in un vaso di terracotta ed è un coperchio dello stesso materia­le, ed è incluso in un luogo a forma di al­tare in decenti condizioni e chiuso a chia­ve, e nelle restanti cose è in buono stato. L’olio santo viene conservato in un luo­go ed in condizioni decenti. C’è soltanto un ’altare di pietra con la pietra consacra­ta, decente.

Sopra l’altare c’è una croce di legno di­pinta e dorata con quattro candelabri di legno e due di ferro…

La chiesa è lunga venti braccia e larga cir­ca nove braccia, il tetto, le pareti e il pa­vimento sono in buone condizioni.

Ci sono due piccole campane dalla par­te dell’epistola, che sono trattenute in quel luogo con pericolo che cadano.Nel­la chiesa c’è una tribuna lignea (pulpito) abbastanza decente,non c’è confessiona­le. Sopra la porta c’è soltanto un “Oculus“ che è schermato con un drappo di lino. A sinistra dell’ingresso della chiesa c’è il cimitero chiuso da ogni parte e “cum cruce decenter retentum”.

Le porte della chiesa sono di legno e so­no vecchie,tuttavia la sera vengono chiu­se a chiave.

All’ingresso della chiesa c’è un vaso per l’acqua benedetta in decenti condizioni. La chiesa è appena sufficiente per la po­polazione, tuttavia è situata in un luogo così alpestre che non vale la pena di al­largarla…

Le famiglie sotto la cura di questa chiesa sono circa 53, te anime circa 250 di cui 180 hanno ricevuto la Sacra Eucare­stia…’’

Questa è una delle piu interessanti Visite pastorali, di seguito daremo il resoconto di altre visite pastorali posteriori a questa e riporteremo un interessante frammento che abbiamo avuto in questo periodo.

Le visite pastorali precedenti al 1599 si possono riassumere in questa formula: “la chiesa per quanto riguarda l’edificio è in buone condizioni, conserva il sacra­mento dell’eucarestia in buone condizio­ni e così l’olio santo e le crismate; ha il fonte battesimale in buone condizioni”. C’è poi un frammento del 1477 allegato alla visita del 1463 di Mons. Giugni: “…La chiesa è stata restaurata ed è bella in ogni sua parte… e similmente il cimitero è in buone condizioni ed è recintato con un muro si che non possono entrarvi bestie e fiere…”

Visita Ighirami 30 Ottobre 1618 carta 694: “…vide poi il fonte battesimale a destra di chi entra che è di pietra e contiene so­lo un vaso nel quale c’e un cratere di sta­gno per battezzare gli infanti, questo fonte è chiuso con coperchio di legno e a chia­ve. Vide poi vasi dell’olio santo, che so­no di stagno e sono conservati in un ar­madietto nella parete a destra dell’altare con la loro borsa di seta. Sopra l’altare maggiore c’è un’immagine indecentissi­ma.; all’interno della chiesa, nella pa­rete anteriore è infissa una grande croce di legno dipinta ed antica; a metà della chiesa, a destra di chi entra, sopra il fon­te battesimale c’è un pulpito ligneo abba­stanza decente. C’è a Sinistra di chi en­tra il feretro con suo panno nero. Nella chiesa non ci sono sepolture e per quan­to riguarda il pavimento, il tetto e le pare­ti è in buone condizioni sebbene le pere­ti siano quà e la scrostate. Vicino all’al­tare dal lato del Vangelo c’è un confes­sionale in decenti condizioni.

L’occhio della chiesa non è chiuso ne con tela ne con vetro; le porte della chiesa so­no in buone condizioni. Vide poi la sacre­stia che è dietro l’altare maggiore nella quale fu trovato un calice con la coppa d’argento e il piede e la patena dorati’’.

Nel 1686 il vescovo Dal Rosso annota che la chiesa di Montecerboli è stata nuova­mente riparata dal pievano Antonio Maz­zocchi di Castiglion d’Orcia: “Felicitur olim fuit ecclesia ut ex murorum dirutorum cementis aperte dignoscitur; fertur enim, bellicis oricalcisundequeque circumsonantibus ecclesia fuisse diruta et plura passa belli detrimenta…” (Don Ma­rio Bocci)

Una delle porte sul cimitero

Dalla cosultazione dei partiti e delibera­zioni del Comune di Montecerboli si so­no ricavati dati abbastanza precisi sull’en­tità delle opere di restauro di cui la chie­sa ha avuto bisogno, ma non sulla quali­tà di questi interventi come si può preve­dere da diversi documenti.

Accanto all’indagine storica abbiamo por­tato avanti un’altro tipo di indagine basa­ta sull’osservazione del monumento in esame sia dal punto di vista statico che da quello dell’uso dei materiali,nonché dal deterioramento di questi ultimi.

Il corpo di fabbrica della chiesa è realiz­zato in massima parte con una muratura a sacco in laterizio, fatta eccezione per la base che è costituita da grosse pietre squadrate in arenarea, provenienti probabilmente dalla Pieve a Morba.

La canonica

Sull’aspetto frontale c’è da notare il diver­so comportamento all’usura dei singoli mattoni:difatti mentre alcuni sono grave­mente deteriorati, altri sono in buonissi­me condizioni; questo fenomeno che in un primo momento ci ha fatto pensare ad una diversa datazione dei materiali ha in­vece con tutta probabilità avuto origine dalla diversa cottura ed alla diversa espo­sizione alle intemperie dei singoli ele­menti.

La finestra sopra la porta, che nelle vite pastorali è descritta come oculus, è sta­ta probabilmente ricostruita in epoca re­cente,per cui è molto difficile stabilire la forma della finestra originale. La struttu­ra presenta delle lesioni che si possono far risalire al primo dopoguerra.Sulla na­tura di queste lesioni si possono fare più ipotesi: spinta della copertura, cedimen­to delle fondazioni, degrado dei materia­li. Esclusa l’ipotesi di un cedimento fon­darla chiesa è interamente fondata su gabbro) restano le altre due, che sono probabilmente concomitanti: di fatti se da un lato la copertura esercita sicuramen­te una spinta sia perpendicolare,che si suppone uguale lungo tutto il lato su cui appoggiano i correnti, avrebbe dovuto provocare i medesimi danni lungo tutto il lato suddetto; se questo non è avvenuto invece che in luoghi ben definiti è perchè alla spinta della copertura, in questi luo­ghi si è aggiunto il degrado dei materiali dovuto all’infiltrazione prolungata di ac­qua piovana. Come si trova ampiamente documentato nella ricerca storica la co­pertura ha avuto spesso bisogno di esse­re riparata e questo fa legittimamente supporre che ci siano stati periodi abba­stanza lunghi durante i quali l’acqua pio­vana è filtrata liberamente all’interno del sacco, provocando la disgregazione del legante interno al sacco e quello della stessa malta che lega i mattoni. Il lato de­stro nel suo insieme è poco leggibile a causa del recente campanile e dell’ attua­le sacrestia che ne occupano una parte notevole. Da notare la finestra monofora, murata dall’interno, e la fila di elementi in laterizio decorata a rilievo di pregevo­le fattura inseriti nel bordo poco sotto la copertura.

Del campanile c’è poco da dire, costrui­to tra il 1902 e il 1909 (Progetto di Carlo Bonucci di Pomarance detto il Falugi), ri­sulta in buone condizioni, fatta eccezio­ne dei solai intermedi in legno che risul­tano particolarmente deteriorati.

La sacrestia che si raccorda al campani­le con una ammorsatura in laterizio, è per il resto costruita con pietrame frammisto a laterizio. Non abbiamo notizie sufficenti per datare con precisione questa costru­zione, che comunque non esisteva anco­ra alla metà del XVII secolo. Sul lato po­steriore della chiesa è per cosi dire ap­piccicata una costruzione a pianta trian­golare che secondo le testimonianze rac­colte dalle visite pastorali è la originaria sacrestia.

L’altro fianco laterale della chiesa (di fron­te alla chiesa della Misericordia) è molto più leggibile ed apre una serie di proble­mi a cui non è facile dare una risposta. La prima cosa che vien fatto notare sono senz’altro le due porte chiuse, che si tro­vano circa tre metri sopra il piano strada­le. Queste porte, che dovevano aprirsi su un terrapieno dove era situato il cimitero sono state chiuse con materiali diversi, il che fa pensare ad epoche diverse; la lo­ro soglia si trova a 40 cm. più in alto ri­spetto al piano del pavimento della chie­sa. Lo sbancamento del cimitero ci ha permesso di di vedere la struttura di fon­dazione che poggia direttamente sulla roccia viva, eccezion fatta per l’estremi­tà posteriore che ha dovuto essere soste­nuta con uno sperone in pietra,costruito probabilmente proprio quando fu spostato il cimitero. Anche su questo lato è presen­te la fila di elementi in laterizio decorati simile a quella che si trova sul lato oppo­sto; osservando bene l’estremità poste­riore in alto si può notare lo strappo cau­sato dalla caduta del campanile(inizi del 900) che non fu più ricostruito. All’inter­no della chiesa,molto è stato cambiato ri­spetto a ciò che risulta scritto nelle visite pastorali. Ci sono adesso altari in stucco, uno maggiore e due laterali, sopra il mag­giore c’era un’immagine raffigurante la vergine tra i santi(oggi restaurata e con­servata nella nuova Chiesa parrocchiale di Montecerboli). Sull’altare di destra c’e­ra un crocifisso in legno di scuola sene­se, che anch’esso è stato portato nella nuova chiesa; sull ’altare di sinistra vi è una statua della vergine con il bambino.

NOTE BIBLIOGRAFICHE

Archivio storico Comunale di Pomarance Fil­za 378 e seg.ino alla 803

Rassegna “Larderello“ 1955-1956

  • Repetti “Dizionario Geografico e fisico del­la toscana V.3 Fi. 1839

Targioni Tozzetti: Relazione di alcuni viaggi fat­ti in diverse parti della Toscana Fi.1770

C. Ceccarelli: “Val di Cecina” Monografia geo­grafica. Faenza 1913.

S. Pieri: “Toponamastica della toscana meri­dionale e dell’arcipelago Toscano.

M.Salmi: “Architettura Panoramica in tosca­na” 1929

Chiese Romaniche nella campagna toscana 1959

  1. Scheneider: “Regester Volterranorum” Ro­ma 1907
  2. Volpe: “Maremma” Gr.1924-1930 Zuccagni Orlandini A. Atlante geografico fisi­co storico della toscana. 1832.

Moretti-Stopani “Chiese romaniche in Val di Cecina” 1970

Visite pastorali dall ’Archivio della Curia Vesco­vile di Volterra.

S. Mastrodicasa: “Dissesti statici delle strut­ture edilizie Hoepli Milano 1977”.

P. Sampaolesi: “Discorso sulla metodologia generale del restauro dei monumenti”. Firen­ze 1977. Ringrazio vivamente gli Archietti Talocchini, Bianchi e Salvi per aver concesso la pubbli­cazione di questo interessante studio univer­sitario che ci permette di conoscere ancora di più il nostro patrimonio storico artistico spes­so sottovalutato e lasciato nel piu completo de­grado.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

LA CHIESA DI MONTEGEMOLI

È LA CHIESA DI DANTE ALIGHIERI?

di Don Mario Bocci

Il 24 agosto, giorno di S.Bartolomeo apostolo, è avvenuta la riapertura al pubblico della parrocchiale di Montege­moli, e vi si è celebrato la consueta festa titolare e patronale.

I restauri, portati a termine col concorso di tutta la popolazione, mettono in evi­denza la struttura molto antica della chie­sa, di chiara impostazione romanica, almeno duecentesca, se non più antica. Ma il fatto stesso di questo recupero architettonico mette in evidenza anche la sensibilità del sacerdote ufficiatore Don Luciano che precedentemente re­staurò la chiesa romanica di Castelquerceto e recentemente ha abbellito quella di Saline dove risiede.

Lo stesso Don Luciano ha commissio­nato una ricerca storica su Montegemoli dalla quale risulta che un “Regesto”, o registro, di documenti volterrani, stam­pato all’inizio di questo secolo, contiene, tra molte altre, queste notizie.

Il vescovo di Volterra, Bertelli alla cerimonia di apertura (agosto 1993)

Nel 1133 avevano possessi in Montege­moli gli abati di Morrona, monastero beneficato dai conti Cadolingi di Fucec­chio.

Nel 1176, con una sua bolla solennissi­ma, papa Alessandro III garantì prote­zione alla Badia di Monteverdi pei diritti da essa posseduti sopra castello corte e chiesa di Montegemoli.

Tale giurisdizione monteverdina, nel 1208, l’abate Ranieri la concesse ai con­soli del Comune di Volterra.

Non si conosce a pieno l’estensione di tutti questi diritti degli abati; ma il giorno 8 luglio 1226 i conti palatini Guglielmo e Bonifazio del fu conte lldebrandino degli Aldobrandeschi di Soana Pitigliano e Grosseto, stando presso il castello di Montegemoli nella chiesa di S.Bartolomeo, presente Seracino prete della parrocchia, e Affricante rettore del­la corte e castellano pei volterrani, fece­ro registrare tutti i loro diritti e ragioni feudali.

Nel 1257 i conti palatini lldebrandino e Umberto del fu conte Guglielmo, in lite coi volterrani pei castelli di Montegemoli e Silano, fecero compromesso di queste differenze nel capitano anziani e consi­glio di Firenze.

Le liti però continuavano ancora nel 1285 quando Guido di Montfort marito di Mar­gherita Aldobrandeschi, insieme a Ghe­rardo di Fosini procuratore dei volterra­ni, fecero arbitri della contesa circa il castello e le acque salse, il consiglio del Comune di Siena.

Guido di Montfort, scomunicato dal papa, fece perdere molti dei diritti degli Aldobrandeschi, ma il 2 agosto 1297, nella divisione avvenuta in Santa Fiora tra i conti, per sorteggio toccarono a llde­brandino Novello, oltre Silano e Monte­gemoli, i diritti su Roccastrada, Suvereto, Pietra Batignano, Massa, Scarlino, Giuncarico ecc.

Sono tempi persone e luoghi “dante­schi”, e fatti ben conosciuti dagli abitanti di Valdicecina. Tra questi c’è lo scrittore poeta e pittore Bindino da Travale, forse dei Pannocchieschi, ma che non disde­gna chiamarsi “il porcaro” di Valdiceci­na. E’ lui che, irridendo le megalomanie dell’Alighieri, nel 1415 nella reggia di Napoli mette in bocca al re Giacomo d’Angiò, di fronte agli ambasciatori di Siena e Firenze, un discorso carico di traslati contro la superbia di Dante, tra cui l’allusione a Montegemoli e Montecoloreto, per cui fa sospettare che la madre e la matrigna del poeta non aves­sero ascendenze nobiliari.

Argomentando su queste memorie, al PaliodelleContradedi Pomarance 1987, Dante fu incoronato con “l’Alloro di Mon­tegemoli”, e la sceneggiatura sui rac­conti di Bindino fece vincere il primo premio alla Contrada Marzocco.

Oggi, nell’occasione della riapertura di questa chiesa, esasperando certamen­te l’implicazione su Montegemoli regi­strata da Bindino, non si potrebbe pen­sare che il poeta fosse stato battezzato in questa chiesa? Dante, nato nel 1265, perse la madre a cinque anni e il padre in seconde nozze sposò Lapa di Montecoloreto.

In quel tempo, certamente, il “bel San Giovanni” di Montegemoli si sarebbe dovuto trovare nella grandissima pieve vecchia di Micciano, che non sappiamo precisamente quando crollò o fu distrut­ta; Montegemoli però (piccolo mondo di nobili potenti) ebbe prestissimo un fonte battesimale dove battezzare anche l’Alighieri.

Una Madonna di grande devozione

Con la riapertura della chiesa parroc­chiale viene messa in evidenza e collo­cata più vicina ai fedeli la devotissima immagine della Madonna col Bambino, tela su tavola che i cultori dell’arte collo­cano almeno nell’ambito del Millequattrocento.

E’ difficile documentare se il quadretto è la rimanenza di un polittico antico, nato e voluto intero per la chiesa, oppure, come in altre chiese, il polittico fu messo a circondare un’immagine più antica e già venerata.

Don Luciano, nella ricerca da lui esegui­ta, lascia in sospeso le due possibilità. Infatti un inventario del secolo XVII così descrive in chiesa la “mostra” dell’altare: “Un quadro d’altezza di braccia quattro e larga tre fatta di nuovo da me prete Antonio Telleschi l’anno 1642 tutta a mie spese e di mio proprio con l’infrascritti santi, donata con sua cornice di noce e sua coperta di tela turchina, cioè LA MADONNA ANTICA ch’io ci ho trovato. Nel Quadro “nuovo” da capo il Padre
Eterno, a mano destra S.Bartolomeo titolo della chiesa, S.Antonio abate e S.Francesco, a mano sinistra S. Verdiana S.Lucia e S.Cecilia. Quale mi gosta in tutto Scudi Cinquanta.”

Madonna antica e quadro “nuovo” con santi. E il quadro vecchio?

Un documento del secolo XV riporta una lettera al Vescovo da parte dell’Opera Parrocchiale che sollecita una decisione per un polittico (così sembra) essendo disponibili tra 1437 e 39 almeno Lire 165 (tra erbe di Pasco e bestiami venduti) per compiere questa pittura.

“Ricordo a Voi Monsigniore Messer lo Vescovo de’ fatti della Chiesa di Montegiemoli e Ch’Ella vi sia raccomandata, perché l’opera di decta Chiesa fecie fare una tavola di legniame per l’Autare di decta Chiesa, la quale si fecie per farla dipigniere e ponerla a decta Altare, con­siderato che e denari che bisognano per decta dipintura ci sono.”

Era una tavola di contorno per questa Madonnina, che anche allora, poteva chiamarsi “antica”?

Un ricercatore, americano di Boston, Rolf Bagemihl, che ha lasciato sue scrit­ture presso i signori Cantini e Cucini, famiglie che iniziarono i lavori di restau­ro alla facciata della chiesa, è di questo parere.

Il campanile della Chiesa

Egli parla, come pittore, di Francesco di Neri Giuntarini da Volterra, e quale com­mittente, o testatore, di Coluccio Fre­scolini da Montegemoli, il quale espres­se le sue ultime volontà nel giugno 1348. Come nessuno può giurare su Dante e Montegemoli, anche se la seduzione di Bindino da Travale è grande, così nes­suno può sposare senza matura rifles­sione le suggestioni dell’americano: il pittore volterrano Francesco di Neri era a suo tempo conosciuto come Fran­cesco di “maestro Giotto”.

Comunque trovare a Montegemoli ri­chiami danteschi, uniti a luminosità giot­tesche, è quanto basta per definire “so­lare” la devozione di questi popolani alla loro Madonna, e concludere con le paro­le del divino poeta

“Vergine madre figlia del tuo figlio umile ed alta più che creatura (sei tu nel cielo)

La Torre del Castello di Montegemoli.

meridiana face di caritate e giuso intra i mortali se’ di speranza fontana verace”

Una speranza che dona “nobiltà” alla madre dell’Alighieri, alle nostre madri e a ciascuno di noi.

Numerosi altri santi e devozioni

Antonio di Pietro Telleschi da Castelfiorentino, diocesi di Firenze, risulta “cano­nico” nel suo paese, quando dal Comu­ne di Montegemoli, tramite il nobile vol­terrano Gaspero Bardini, il 4 ottobre 1614 fu presentato al vescovo Luca Alamanni perché lo nominasse a succedere a pre­te Niccolò Maffii di Pomarance, che un mese prima aveva rinunciato la cura d’anime per vivere del proprio patrimo­nio familiare.

La cura d’anime, paese e campagna, consisteva in 45 famiglie e quasi 400 persone (la peste del 1630 le ridurrà assai); le rendite vengono segnalate in quaranta sacca di grano, computateci 48 staia per decime prediali.

Il vescovo, prima di nominare questo prete, che poi risulterà bravissimo, tra­mite il vicario Carlo Mazzinghi e Jacopo Petrini del comune fece affiggere editti alla chiesa del paese, e poi lo fece esa­minare rigorosamente dall’arcidiacono Baldassarre Bardini, dal teologo Gugliel­mo Bava agostiniano e dal giurista Anto­nio Panzerini dei conventuali di Volterra. Nella visita pastorale , che l’Alamanni aveva fatto il 7 aprile 1606 coi canonici Pierpaolo Minucci e Ottaviano Cecchi, viene descritto l’altare maggiore sopra cui c’è un’icona “antica” con la Beata Vergine Maria S.Bartolomeo apostolo e molti altri santi.

Non si dice quali, ma forse non c’è Santa Verdiana che è valdesana di Castelfiorentino. A mezza chiesa, a destra en­
trando, c’è l’altare di S.Sebastiano “eret­to come si asserisce per voto di peste dalla famiglia Pieri” ma a devozione di tutto il popolo; l’icona contiene le imma­gini di S.Sebastiano S.Antonio e S.Rocco. Di fronte, a sinistra, c’è l’altare della Compagnia del Corpus Domini, composta di uomini e donne che vanno in processione, ed hanno commissiona­to un’icona nuovissima.

Dentro il castello c’è un Oratorio dedica­to a San Michele arcangelo, di cui è patrona la famiglia Barzottelli. Il cappel­lano, canonico Angelo Guidi, vi deve celebrare sabato domenica e lunedì; fare la festa l’otto maggio, apparizione di S.Michele, e quella di S.Macario con uffizio il giorno seguente.

Nell’icona ci sono le immagini della Be­ata vergine di S.Michele S.Giovanni e S.Macario.

Fuori castello c’è l’Oratorio di San Seba­stiano. A un miglio lachiesadi S.Niccolò a Celli, già parrocchiale oggi unita a S.Bartolomeo; vi si fa la festa titolare il 6 dicembre e la commemorazione di S.Macario.

I Guidi, affittuari dei beni, per contratto vi devono piantare una vigna; ma per loro devozione hanno eretto un Oratorio di S.Caterina alla loro villa di Serra.

Antonio Telleschi era sempre vivo nel 1652, e il vescovo Giovanni Gerini nella visita del 7 aprile (domenica in Albis) testimoniò che tutti i giorni festivi inse­gna la dottrina cristiana e i rudimenti della fede cattolica, proclama le feste e le vigilie, spiega il vangelo e i documenti della morale. Per Pasqua tutti si sono comunicati, e in parrocchia non c’è nes­sun pubblico peccatore.

Don Mario Bocci

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.