“COME ERAVAMO”

RICORDI E IMMAGINI D’ALTRI TEMPI

TEATRO DEI CORAGGIOSI ANNO 1930 circa OPERETTA L’ACQUA CHETA fra gli interpreti Giulia Funaioli, Cesare Falcini, Socrate Righi, Luisa Baldini, Argante Casanovi, Giovannina Mazzinghi, il farmacista Quadri, Dona­tello Fontanelli, Miro Bruscoli, Bartolo Bartoli ed il Maestro Sestini.

Non c’era ancora il cinema nè tantomeno la televisione, le feste da ballo erano rare. In quel tempo l’operetta impera­va ed il suo fascino arrivò fino da noi. Direi che fu proprio questo mondo e quello della commedia musicale ad inte­ressare maggiormente i nostri nonni. Si facevano anni di prove sia per il gusto di stare insieme ma anche con lo scopo di fare un buono spettacolo che sarebbe stato motivo di conversazione nelle lunghe veglie invernali sul canto del fuoco o sotto i freschi nei lunghi pomeriggi d’estate.

L’Acqua Cheta, mi ha raccontato il Falcini, fu l’unica vera operetta da noi rappresentata, fu quella che ebbe maggior

successo, fu rappresentata tre volte a Pomarance ed una volta anche a Saline di Volterra.

Mentre parla gli si illuminano gli occhi, sta rivivendo sensazioni ed emozioni che appartengono ad un mondo lontano. Il Principe dice ci mise a disposizione per quattro prove generali l’orchestra del Teatro di Larderello ed a fine rappre­sentazione ci regalò per riconoscenza il pianoforte. Si è proprio quello della Filodrammatica che si trova nel Teatro dei Coraggiosi.

Come era bravo il Quadri!! Che bella voce aveva Luisa ed ero anch’io un bravo tenore.

Mi ricordo che Giulia cadde nel ballo delle rificolone. Che applausi! la gente voleva il bis.

Guarda la fotografia, fa un lungo sospiro.

Sono morti tutti dice.

□ Il servizio una volta al giorno andava da Volterra a Massa Marittima, successivamente fu messa la “Postale” anche per Pisa e Firenze.

Mi ricordo che per arrivare a Firenze si partiva la mattina alle 5 e si arrivava alle 10.

Alla sera quando alle 8 arrivavano i due “Postali” vi era sempre un gruppetto di gente davanti la posta in Piazza De Lardarel ad aspettarli. Mi ricordo Emogene sempre con la panierina portava il mangiare ad Amleto che ritornava a casa solo il sabato.

Amleto era il fattorino, ricordo anche Aldo il Baldini, il Busoni e Cassiano.

Le macchine erano in pochissimi a possederle, si contavano sulle dita, e la gente viaggiava quasi tutta in “Postale” e quel momento dell’arrivo era un attimo importante la gente si baciava, si salutava, aveva il piacere di ritrovarsi. Si scaricavano i bagagli che spesso erano legati sul tetto. Dopodiché si vedevano gruppetti di gente che parlando animatamente si dirigevano alle proprie case grati al Postale che aveva ancora una volta ricondotto a casa un affetto.

1919 – Linea Volterra-Massa M.ma FIAT 18 B2, a gomme piene.
Nella fotografia: Biondi Jolanda, Cerboneschi Maggi Lina, Falcini Cesare, Tonelli Piero, Coppini Seraflna, Pineschi Carla, Tani Primo, fat­torino della “Postale”, Caporioni Dino, Grandi Edoardo, Bacci Cesare, Landi Ernesta.

Mario Fiossi

C’ERA UNA VOLTA: “I Veglioni”

□ Era da pochi anni finita la guerra. Soldi ne giravano pochi e di conseguenza pochi erano i divertimenti, la gente faceva a meno di tutto impe­gnata com’era nella dura battaglia della vita, ma… “Anche quest’anno a Carnevale al Teatro dei Coraggiosi faranno tre Veglioni”.

Non tutti potevano permettersi di parteciparvi, era già un lusso poter andare ad uno. Nelle famiglie più modeste dove c’erano ragazze da marito si cominciava a fare i conti; con tanti sacrifici si sarebbe potuto comprare la stoffa e cucire un vestito da sera.

Si forse uno era possibile. Non si poteva certo andare a tutti e tre perché era usanza cambiarsi di abito ad ogni festa.

Questo forse era il problema più grosso, ma anche prenotare un palco non era impresa facile. Il primo ed il secondo ordine erano padronali; il terzo ordine “la Piccionaia” veniva affittato. Bisognava fare una lunga coda davanti alla “Bottega di Settimo” che al mattino, quando alle otto andava ad aprire il suo negozio, trovava sempre un folto gruppo di giovanottelli che a pagamento facevano la fila fin dalla sera prima per prendere in affitto “il Palco”. Non a tutti toccava ed i meno fortunati dovevano accontentarsi si andare davanti al teatro a veder entrare la gente e poter ammirare, anche di sfuggita, i vestiti delle ragazze che ne parlavano già da mesi. Anche per l’abito da sera esisteva quasi un rito: si andava a comperare la stoffa anche fuori Pomarance, non si doveva dire il colore, la sarta che lo cuciva non doveva farne parola con nessuno, le aiutanti erano diffidate a parlarne. Doveva essere una sorpresa. Ognuna in cuor suo sperava di essere la più elegante e l’effetto sorpresa doveva contribuire a questo e, perché no, anche a vincere quel premio che a volte veniva messo in palio per la “Miss” più bella.

Arrivava così la sera del ballo.

  1. ero ancora un ragazzetto ma mi ricordo abbastanza bene i particolari importanti di quelle feste. Noi del loggione si arrivava molto presto, carichi di dolciumi che durante la notte si sarebbero mangiati. Non si voleva perdere niente, per noi non era soltanto una festa da ballo, ma uno spettacolo pieno di luci e di colori, di bei vestiti ed anche di gente importante.

Piano piano i palchi si riempivano, arrivavano più tardi le persone che più contavano, la sala da ballo tutta addobbata di fiori e di festoni rimane­va vuota e chiuso il grande portale di accesso smaltato sotto il “Palchettone”.

Gli occhi di tutti erano concentrati su quel portone; tutto ad un tratto si apriva e dietro vi erano le coppie che avrebbero aperto il ballo. L’orchestra che stava sul palcoscenico intonava un “Valzer” e la prima coppia scioglieva il “nastro di raso bianco” e seguita dalle altre dava inizio a quel lungo valzer, proibito ai ballerini non valenti.

Mi ricordo che la festa cresceva in un turbinio di musica, di coriandoli e stelle filanti; ai piani inferiori si facevano battaglie con i coriandoli, se ne consumavano sacchi, tanto che per due o tre volte si dovevano interrompere le danze per spazzare il pavimento.

La festa dilagava dappertutto, coinvolgeva tutti. Per le scale c’era sempre una grande confusione, i giovanotti e le ragazze si rincorrevano, scherzavano e, perché no, si nascondevano per scambiarsi furtivi baci.

Le storie d’amore che nascevano in quelle serate, qualcuna continuava, altre finivano, ma erano comunque oggetto di conversazione per i mesi che seguivano.

  1. veglione più allegro e più bello era senza dubbio quello “Mascherato”; mi ricordo un anno di avervi partecipato vestito da “Gatto con gli stiva­li”. Il costume era bellissimo, ricercato e curato in tutti i particolari. Lo aveva realizzato “Giorgio” diventato poi uno dei più importanti costumisti italiani. I costumi da lui realizzati presso la sartoria “Cerratelli” per i film di Zeffirelli hanno vinto anche dei premi “Oscar” e quell’anno vinse con me il suo primo premio per il miglior costume.

Passarono gli anni ’50 e i veglioni per un periodo non furono più fatti. Altri furono i luoghi d’incontro dei giovani, furono fatte nuove sale da ballo e il cinema fu uno dei passatempi più frequentati dalla gente.

Ma il fascino di quelle serate era cosi intenso che non si tardò a riprendere questa bella abitudine. Ne sono stato anch’io protagonista, ho addob­bato la sala con rose, con mimose, con festoni colorati e lucenti, ho scorazzato anch’io per le scale su per i palchi con amici e amiche. Ho anch’io insieme ad una ragazza sciolto il “nastro bianco di raso”, ho ballato anch’io il lungo valzer ed ho respirato anch’io quell’atmosfera magi­ca che solo il “Teatro” sapeva dare. Da diversi anni il “Teatro dei Coraggiosi” è chiuso in attesa di restauri. Speriamo che il tempo non sia impietoso e che si possa giungere in tempo a salvare questo patrimonio che non è solo importante per la sua architettura, ma è soprattutto importante per il significato che ha avuto per tutta la comunità per tanti anni “Veglioni” a parte.

Pomarance Teatro dei “Coraggiosi” – 1950 (1° veglione)
Nella foto: Bianchi Gerardo, Dei Lunetta, Fignani Valeria, Manghetti Stefano detto “Il Chiorre”.

In estate, appena finita la scuola, andavo per lunghi periodi dai miei nonni.

Abitavano a “Poggiamonti”, lo ricordo come il posto più bello e più felice della mia fanciullezza.

Il giorno scorazzavo sull’aia e nel bosco in cerca di lucertole con i miei cugini e mio zio di poco più grande di me e la sera…………

Al sopraggiungere della sera, terminati i lunghi giochi, ci sedevamo tutti intorno al grande tavolo e tra chiacchere e grande con­fusione consumavamo il modesto pasto che mia nonna “la massaia” ci preparava. E poi a letto. Qui mi assaliva una sorta di malinconia ed una voglia scottante dei miei genitori, non potevo rimanere a letto con i miei cugini e mia nonna allora veniva con il lume a petrolio in mano, mi prendeva in braccio e mi portava nel grande letto, dove mio nonno sorridente mi accoglieva e mi avvolgeva con un grande abbraccio. Mi addormentavo così tra loro sommerso di affetto e di profumo di lavanda. Non era ancora giorno che mi svegliavo, sentivo mio nonno alzarsi, si vestiva.

Dove va?” domandavo.

Zitto, dormi!” rispondeva la nonna “è presto, nonno va a segare”.

Mia nonna era una bella donna, alta e rassicurante, con una mano reggeva il paniere in cui era il cibo che si portava nel campo con l’altra dava mano a me che piccolo piccolo la seguivo, mentre mi raccontava storie di maghi, di principi, di api e di farfalle. Si arrivava nel campo, faceva un grande caldo, tutto era sole e oro; il cielo, l’aria, il grano gli armenti e gli uomini erano immersi in una atmosfera pesante e risplendente che sprizzava giallo; solo la grande quercia dove ci sedevamo per mangiare conserva­va ancora il suo colore reale: verde, un’intenso verde, impenetrabile e fresco.

Si mangiava zuppa con cipolle, pomodori e cetrioli e poco più. Si beveva acqua dal fiasco ricoperto di vimini mentre i buoi poco più là, sempre al fresco, ruminavano il fieno che mio nonno non dimenticava mai. Poi ci si riposava, si dormiva qualche ora, fino a che il sole impietoso non smetteva di scottare, poi si riprendeva il lavoro: i buoi venivano riattaccati alla macchina che segava, mio nonno vi prendeva posto e si ricominciava. Il grano veniva falciato dalla macchina e dietro dietro una moltitudine di persone lo raccoglieva, ne faceva dei “balzi” che ammonticava poi in grandi “Barche”.

E la fatica ?

La fatica era dura, vera, sfibrante, si leggeva sui volti dei contadini rugosi e bruciati, si leggeva nel passo delle donne: sfiancato e lento e si leggeva nella camiciola di lana del nonno, molle e appiccicosa che bucava di grano quando alla sera tornava e mi prendeva in collo per baciarmi.

Mario Rossi

IL PROFUMO DELL’ESTATE

Finita la scuola, cominciava il gran caldo, pochi andavano al mare ed i ragazzi meno fortunati rimanevano in paese.

Nei lunghi pomeriggi assolati gli anziani meriggiavano sotto gli alberi, le donne finite le faccende domestiche si riversavano nelle strade, sugli scalini, nei punti più freschi, a sferruzzare o a pulire verdure e frutta per la marmellata. Noi ragazzi si giocava, sotto gli alberi del parco, sotto i freschi del “giardinello” oppure tra il verde del boschetto della “Villa”.

L’estate scorreva lenta in questo paese pieno di luce, di caldo e di sole.

E la sera? La sera, gli uomini dopo il lavoro uscivano per andare al “Circolo”, noi ragazzi, dopo corse affannate per prendere lucciole, si giocava a “rimpiattarello” mentre le donne con i più piccoli se ne andavano per le vie del paese a cercare refrigerio. Ricordo che tutto profumava di erba e grano falciato, di ginestre sfiorite, di polvere arsa di tigli e di rose.

La vita scorreva lenta, monotona non succedeva mai niente.

Poi all’improvviso: Il Palio!

Fu un’invenzione per sentirsi vivi, per interrompere la monotonia delle vacanze estive, fu l’invenzione che stimolò la fantasia e la creatività, fu l’invenzione che rievocava l’istinto alla competizione così fortemente radicato nelle genti di Toscana. Ricordo che all’inizio era una competizione calcistica tra i rioni del Marzocco e del Centro. Il rione del Marzocco intese subito fin dal primo anno vestire la sua mascotte con il suo capitano con vestiti medioevali, che ricordavano il suo antico passato. Lo ricordo ancora: Paimira e Mario coloratissimi con calzamaglie e giubbetti e la bandiera del Marzocco che apriva il piccolo corteo. Si rimase un po’ tutti allibiti, ci piacque e si decise tacitamente che si sarebbe potuto far meglio.

Nacque un terzo rione, il Paese Novo e la competizione si allargò: si premiava non solo chi vinceva il torneo di calcio, ma si cominciò a premiare soprattutto la contrada che riusciva a fare il migliore corteggio prima, e dopo la migliore sfilata storica. Di quei primi anni ricordo vagamente alcuni episodi e personaggi:

Meri, giovanissima vestita da Lucia, e Michele un Don Abbondio simpatico e scanzonato. Marta, superba Minerva e fierissima Amneris. Ricordo Catuscia con il bellissimo costume della regina Isabella e Alberto bravissimo nella parte di Nerone.

Un quarto rione si costituì, agguerrito e pieno di iniziative il Gelso. Bella la sua Batterflai e riuscitissimi il conte di Cavour e la sua affascinante contessa di Castiglione.

Mentre scrivo si affacciano alla mia mente volti ed episodi di Cleopatra, Antonietta, Napoleone, Giuseppina, Semiramide, Ulisse, Robin Hud, la regina di Saba, il Doge di Venezia, Paolo e Francesca e soprattutto balzano alla mia mente le persone che presta­rono i loro volti a questi personaggi: e vedo Giacomo, Claudia, Mila, Vaschilio, Vanda, Andrea, Paolo, Gabriella, Renata, Franca e tanti tanti altri. Questo gioco ci affascinò tutti, fu interrotta la competizione calcistica e si dette spazio solamente alle sfilate che rievocavano periodi ed episodi storici.

Il gioco nel corso degli anni si affinò, si ingrandì si crearono scenografie dove le comparse recitavano scene di vita passata. Diventò teatro popolare.

Finita la scuola comincia il gran caldo, molti vanno al mare… molti lavorano, inventano, creano, si riuniscono, parlano, discutono. Tutto profuma di erba, di grano falciato, di ginestre sfiorite, di polvere arsa, di tigli, di rose e… di colla, di vernice e di legno.

Scenografia “La processione di S. Giovanni del 1598“ – Contrada Paese Novo, 1988.

Mario Rossi

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

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