Situata nel settore nord-occidentale delle Colline Metallifere, in un’aspra e solitaria zona collinare coperta da un’estesa e fittissima boscaglia di macchia mediterranea, l’area circostante la Fattoria di Monterufoli presenta motivi di grande interesse naturalistico sia per le numerose varietà mineralogiche che vi si riscontrano (rame, quarzi, calcedoni, magnesite, zolfo, antimonite, vetriolo, lignite, amianto ecc..) che per le diffuse tracce che le trascorse e differenziate attività minerarie vi hanno disseminato nel corso del tempo. La natura geologica prevalentemente ofiolitica e alloctona della zona unita agli effetti prodotti su di essa dalla tettonica mioquaternaria e provocati sia dall’attività idrotermale connessa all’Evento Appenninico che dalla contiguità geografica col campo geotermico di Larderello (e quindi coi fenomeni minerogenetici ad esso connessi), hanno infatti determinato in tutta l’area di Monterufoli caratteri mineralogici e minerari assai peculiari, interessanti ed eterogenei anche se non particolarmente ricchi o durevoli dal punto di vista di un loro sfruttamento economico. Di tutte queste numerose “produzioni naturali” ce n’è comunque una che supera tutte le altre per la celebrità acquisita grazie alla sua riconosciuta e apprezzata capacità di poter essere meravigliosamente sfruttata in ambito artistico e artigianale, una risorsa mineraria che ha fatto conoscere ovunque quest’area del volterrano conferendole ulteriori motivi di fascino e d’interesse in aggiunta a quelli che già le sono propri per i toni assai marcati del suo paesaggio (clima decisamente mediterraneo, morfologia spesso accidentata con ampie zone scoscese o franose prive di vegetazione, frequenti e visibili alterazioni delle rocce in posto, assoluta mancanza di presenze o di attività antropiche stabili ecc..) e per un ambiente naturale di straordinaria suggestione. Sotto l’aspetto naturalistico il nome della Fattoria di Monterufoli risulta infatti ancora oggi indissolubilmente legato all’abbondante presenza nei suoi dintorni dei famosi e ricercati calcedoni, pietre silicee d’indiscutibile pregio estetico, la cui escavazione e il cui sfruttamento a scopo artistico-ornamentale si protrassero, come vedremo, ininterrottamente dal 1598 alla seconda metà dell’ottocento, quasi esclusivamente per opera dell’opificio Granducale delle Pietre Dure di Firenze (1).
Ma che cosa sono i calcedoni? Perché sono così abbondanti nel territorio di Monterufoli? E Perché sono stati oggetto di cosi esclusive e interessate ricerche, tanto da divenire quasi sinonimo o emblema di questa terra? Procediamo con ordine. Sotto l’aspetto mineralogico il calcedonio altro non è che quarzo, o, per meglio dire, silice microcristallina anidra (Sio2 : biossido di silicio) connotata da una caratteristica struttura fibrosa. Chimicamente identico al quarzo, rispetto al quale ha durezza leggermente inferiore (6,5 della scala di Mohs invece di 7), il calcedonio se ne differenzia però notevolmente sotto il profilo gemmo logico in quanto mentre il primo ha forma monocristallina, aspetto vetroso e frattura vetrosa-ossidianoide il secondo si presenta piuttosto come un vero e proprio aggregato micropolicristallino caratterizzato da un aspetto ceroide, semitrasparente o traslucido e da una frattura di tipo concoide con superficie sempre opaca, quasi smerigliata o granulosa. Per la loro tessitura tipicamente fibrosa (per lo più a fibre parallele aciculari) i calcedoni risultano notevolmente permeabili ai liquidi, anche a quelli più densi e viscosi: questa proprietà è stata sfruttata ampiamente nei processi di lavorazione artigianale di queste pietre in quanto ha consentito talora di modificarne la colorazione naturale rinforzandone (o addirittura mutandone) il colore nella fasce più porose in base alle necessità dettate dall’utilizzazione estetica alla quale i pezzi erano destinati.

Il calcedonio si presenta in natura con un’ampia varietà di tipi e di colorazioni assumendo, a seconda dei casi, denominazioni particolari come agata, crisoprasio onice, corniola, eliotropio, ecc..’, per tale motivo il termine calcedonio dovrebbe pertanto essere riservato più correttamente ai tipi con colorazione omogenea, generalmente biancastra, grigia o lattiginosa, caratterizzata talora da deboli effumazioni ocracee, giallastre, giallorosate o azzurrognole, ma per evitare confusioni e per ricordare che la specie mineralogica è sempre la stessa, converrà premettere la denominazione di calcedonio a qualsiasi varietà ci si intenda riferire (calcedonio-agata ecc..).
Dal punto di vista tipologico, i calcedoni di Monterufoli sono giustamente celebri; essi presentano infatti svariatissime colorazioni unite a una insolita gamma di trasparenze: “…se ne hanno dei bianchi, dei grigi, dei violacei, dei verdi, dei gialli, dei carnicini, dei rossi con tutte le possibili sfumature; ma predomina per altro nei veri e propi Calcedoni un tranquillo e simpatico color fior di lino ora volgente al chiaro e ora a un violaceo livido (…). A queste tinte si aggiunge una lucentezza opalina e una translucidità, che dà un aspetto di gelatina alle masse più chiare, le quali per trasparenza appaiono anche giallognole o grigiorosee”.(2) Tra i numerosissimi tipi di calcedonio presenti nella zona (spesso caratterizzati da esemplari bianchi lattiginosi, traslucidi, con frattura scagliosa, appannata e con superficie bernoccoluta), spiccano soprattutto quelli conosciuti come calcedoni opachi o bianco di Volterra, che, grazie alla loro quasi totale opacità, alle numerose tonalità.

All’interesse scientifico e al pregio estetico di queste mineralizzazioni contribuisce inoltre l’ampia tipologia di forme (botrioidali, coralloidi, stalattitici, in abiti massivi, in geodi ecc..) in cui i calcedoni si presentano in quest’area^), anche se di norma la loro giacitura più comune è quella in filoni in alcuni dei quali predominano certe varietà, in altri altre. Come nota infatti Repetti: “…la singolarità per altro di Monte Rufoli consiste nell’indole del suolo sparso di calcedonie traslucide tramezzo a filoni iniettati,
o fra strati di calcare compatto e di schisto marnoso convertito in galestro, oppure in filoni penetrati fra i spacchi formati nelle subiacenti masse serpentinose, filoni che sono ripieni di botriti, ossia di geodi calcedoniose, le quali variano fra loro sia in direzione, sia in potenza, come anche in colore. Nessuno di cotesti filoni calcedoniosi è totalmente pieno e compatto; anzi poche sono le porzioni dei medesimi scevre di cavernosità o screpolature, in cui non siano masse botritiche, ventri gemmati, o geodi tappezzate di variatissime e isolate cristallizzazioni di quarzo jalino, e tal altre volte del calcedonio paonazzognolo contornate e rivestite” .(5) Proprio alla straordinaria varietà, all’ecce
zionale abbondanza e alla non comune qualità estetica dei calcedoni di Monterufoli si devono pertanto ricondurre tutte le attente e premurose ricerche e le diffuse e prolungate escavazioni condotte nella zona e commissionate quasi unicamente da parte dell’opificio delle Pietre Dure di Firenze (che ne detenne a lungo addirittura l’esclusiva per precisa disposizione granducale) i cui lavori di mosaico hanno reso celebre e decantati ovunque questi minerali con opere d’indiscutibile pregio artistico. A tal fine, ad esempio, le qualità opache giallastre, venivano utilizzate per la realizzazione di arabeschi, fogliami, nastri, cartelle, penne ecc.., mentre quelle bianco-azzurrognole, rossicce o vagamente colorate servivano per comporre fiori, frutti e ancora penne.(6)
Dal punto di vista genetico, per cercare di spiegare la notevole presenza di silice concrezionaria nell’area di Monterufoli (nella forma di vene, globuli e filoni, costituiti per lo più da calcedonio, quarzo, opale, diaspro) nonché quella dei vari carbonati di magnesio (magnesite, dolomite, miemite) ad essa comunemente associati, bisogna considerare attentamente sia la costituzione geologica e l’assetto tettonico della zona sia la prolungata azione di un’anomala attività idrotermale correiabile al contiguo campo geotermico di Larderello e responsabile dei vistosi fenomeni di alterazione che hanno interessato, trasformandole e mineralizzandole in vario modo, praticamente tutte le formazioni rocciose presenti nell’area.
Sotto l’aspetto geologico la zona di Monterufoli è caratterizzata quasi esclusivamente dalla presenza di un’imponente ed estesa coltre di formazioni alloctone (qui traslate dalla tettonica compressiva connessa all’Evento Appenninico) e riferibili nella loro totalità sia al Complesso Ofiolitifero (ofioliti, diaspri, calcari a Calpionelle, argille fissili con calcari silicei “palombini”) che alla cosiddetta Formazione di Lanciaia (una formazione sedimentaria costituita da una varia successione di brecce ad elementi prevalentemente ofiolitici, siltiti, marne, calcari marnosi, areanarie e calcari arenacei).
Ebbene, all’interno di questo caotico contesto litologico c’è però una formazione che supera tutte le altre per estensione e per potenza condizionando quindi in modo determinante il paesaggio e la morfologia di quasi tutta la zona considerata: quella delle ofioliti, ovvero delle rocce più diffuse e sicuramente più rappresentative dell’area di Monterufoli. Considerate nel loro insieme le ofioliti formano infatti qui un’enorme placca la cui forma può ricordare approssimativamente quella di un triangolo isoscele avente il vertice a Ovest-Sud-Ovest. Secondo Lotti, poi, “…la roccia ofiolitica predominante nei dintorni di Monterufoli (…) ricoperta qua e là da rocce sedimentarie” formerebbe nel suo insieme addirittura “un’enorme cupola circolare avente un diametro di dodici chilometri” costituendo così senza dubbio “la più grande massa ofiolitica della Toscana”.(7)
Questa singolare caratteristica geologica è in questo caso ancora più degna di menzione in quanto l’abbondante presenza di ofioliti è assolutamente’determinante per la genesi dei depositi silicei e – ancor più – dei depositi magnesitici che vi si trovano assai spesso associati (talora anche in quantità economicamente sfruttabili). Le ofioliti (o “pietre verdi”) sono infatti un’insieme di rocce di origine magmatica, di natura sia intrusiva (peridotiti e gabbri) che effusiva (basalti) che metamorfica (serpentine: derivate dalla trasformazione delle peridotiti), la cui composizione chimica, ultrabasica e basica, si può descrivere molto grossolanamente come una complessa miscela di silicati di magnesio e di ferro. Nell’area di Monterufoli il membro più diffuso della cosiddetta “triade ofiolitica” (serpentina – gabbro – diabase) è rappresentato dalle serpentine, ossia da rocce derivate da particolari processi di metamorfismo (serpentinizzazione) che hanno profondamente interessato le peridotiti alterandone radicalmente la struttura mineralogica, originariamente costituita da Olivina (o “peridoto”), Pirosseni, e, subordinatamente, da Orneblende, Biotite e Plagioclasi. Infatti durante il processo di progressivo raffreddamento delle periodotiti all’interno del camino di risalita (ricordiamo che si tratta di rocce di origine magmatica costituenti essenziali della crosta oceanica) può accadere che si verifichino condizioni d’idratazione e di temperatura (tra 500 e 350 C) tali da innescare nelle Olivine un processo di autometasomatosi (ovvero un autoriadattamento a condizioni ambientali diverse) e d’idratazione che si conclude con la loro trasformazione in Serpentino (il minerale principalmente rappresentato nelle serpentine) e in ossidi di magnesio (MgO). Se successivamente acque ricche di anidride carbonica o fluidi idrotermali hanno modo d’attaccare queste peridotiti in avanzato stato di alterazione (cioè ormai metamorfosate in serpentiniti) – e quindi ricche, come abbiamo visto, in ossido di magnesio proveniente dal disfacimento dei silicati di magnesio (Pirosseni, Antiboli, Olivina) originariamente presenti nelle peridotiti iniziali – vengono finalmente a crearsi le condizioni per la precipitazione dei carbonati di magnesio (magnesite, dolomite, miemite) e per la liberazione di molecole di biossido di silicio che poi precipitano e si cristallizzano, a seconda delle diverse condizioni giacimentologiche, in varie forme e in vari abiti, dando così origine a vari tipi di quarzi e di calcedoni. Orbene, se questo è un attendibile modello genetico, perché i calcedoni non si trovano allora diffusi in tutti gli affioramenti ofiolitici?
E perché, al contrario, se ne rinviene in grande abbondanza proprio a Monterufoli? Come aveva già osservato Pilla nel secolo scorso “…/ calcedoni opachi di Monte Rufoli si trovano solamente nelle ofioliti di quel paese. In altre contrade ofiolitiche occorre bene vedere varie vene e rognoni di sostanze silicee; ma elle sono in forma di veri calcedoni, ovvero di quarzo resinite, di opale, di leucagata, né hanno mai quella qualità particolare che le rende così utili nelle arti”^)’. in altre parole non sempre esiste una correlazione fra ofioliti e depositi silicei in qualche modo interessanti per quantità o qualità. Per cercare allora di spiegare perché queste particolari mineralizzazioni abbiano avuto una particolare diffusione proprio in questa zona bisogna chiamare in causa un fattore qui ancor oggi assai manifesto la cui responsabilità nel caso di questa minerogenesi appare senza dubbio determinante: l’attività dei fluidi idrotermali. Se consideriamo infatti che la zona di Monterufoli si trova in palese contiguità geografica col campo geotermico di Larderello – Serrazzano e coi numerosi fenomeni endogeni e minerogenetici da tempo in esso attivi e se osserviamo inoltre che il territorio in esame è interessato sia da alcune importanti faglie, che possono aver facilitato la risalita di fluidi idrotermali e di acque carbonatiche circolanti in profondità (cosa che del resto è ampiamente attestata in tutta la zona boracifera), che dalla fitta rete di fratturazioni e di fessurazioni presente normalmente in tutte le ofioliti, potrà apparire chiaro come questa singolare convergenza di fattori naturali abbia potuto dar luogo a una grande diffusione di depositi silicei e magnesitici in alcune aree della copertura ofiolitica di Monterufoli.
Anche se secondo Lotti la genesi di queste mineralizzazioni andava ricercata nell’azione di acque termali silicifere che avrebbero interessato sia le masse ofiolitiche che gli altri membri della copertura alloctona – provocando nelle serpentine la trasformazione del feldspato e del diallagio rispettivamente in opale e smaragdite(9) (un minerale in cristalli aciculari di colore verde erba o verde smeraldo piuttosto diffuso nell’area) e riducendo le serpentine stesse a una pasta resinosa, oltre a determinare la silicizzazione delle altre rocce interessate al fenomeno – appare oggi certo, come abbiamo visto, che la minerogenesi dei calcedoni e della magnesite di Monterufoli debba essere attribuita all’azione di acque vadose ricche di anidride carbonica sui silicati di magnesio presenti nelle ofioliti, con la conseguente formazione – vale la pena di ripeterlo – di vari carbonati di magnesio (magnesite, dolomite, miemite) e con la separazione di silice libera poi precipitata e cristallizzata in varie forme (quarzo, opale, calcedonio, agata, crisoprasio, corniola ecc..) e in vari abiti. Sotto l’aspetto giacimentologico può essere infine interessante osservare che l’aumento delle mineralizzazioni silicee rispetto a quelle magnesitiche risulta direttamente proporzionale alla profondità del giacimento: la causa di questo fenomeno è probabilmente da ricercarsi “nel particolare comportamento delle soluzioni di silice che possono mantenersi sovrassature per periodi di tempo molto lunghi. Nelle zone più superficiali del giacimento è logico ammettere che la deposizione della magnesite dalle soluzioni circolanti sia un fenomeno piuttosto rapido e che quindi venga accompagnato da una scarsa deposizione di silice. Nelle zone più profonde invece dove le velocità di deposizione della magnesite sono più basse si raggiungono i tempi necessari alla deposizione completa anche della silice con aumento quindi dei noduli opalini”.(10) La deposizione del biossido di silicio avviene quindi molto più lentamente di quella della magnesite ed ha luogo nei livelli più profondi del giacimento.
Quanto alla distribuzione spaziale di questi depositi silicei e magnesitici è possibile delimitare un’area abbastanza precisa in quanto tutte le località note per gli affioramenti e le escavazioni risultano per lo più ubicate nell’area compresa fra la Fattoria di Monterufoli, Casa Malentrata, la Fattoria di Caselli, Casa la Pieve, Villetta e Serrazzano.
Per narrare la storia dello sfruttamento delle pietre dure di Monterufoli occorrerebbe almeno un libro: tante sono infatti le notizie, i fatti, gli spunti che emergono dalla consultazione dei fascicoli di documenti conservati nella Filza 59 dell’Archivio Maffei presso la Biblioteca Guarnacci di Volterra. Se si considera l’importanza di questi materiali documentari (unitamente a quella dei documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Firenze e presso l’Archivio dell’opificio delle Pietre Dure) e, soprattutto, l’effettiva (e paradossale) carenza di notizie sulla storia economica dei tanto celebrati calcedoni volterrani apparirà senza dubbio chiara la necessità di un’attenta e completa indagine archivistica finalizzata alla ricostruzione storica delle vicende legate all’escavazione e all’utilizzazione di questi caratteristici minerali.
Date queste premesse, risulta pertanto chiaro che in questa sede non si potrà far altro che tracciare alcune linee generali di una storia ancora tutta da scrivere.
Le prime notizie documentate relative all’esistenza di minerali silicei nei pressi di Monterufoli risalgono al 1516 quando Antonio di Gentile Guidi da Volterra, in una memoria riguardante alcune risorse minerarie del volterrano, ebbe a descrivere chiaramente la presenza del quarzo nell’area considerata nel modo seguente: “…in quello di Monteruffoli vi sono i Berilli fini: sono dal Castello delle Donne, per andare per la Via della Serra, a mano manca, v’è un poggio molto grosso, tiene Querce sù la cima, vi sono certe crepacce, e certi peli lunghi, v’è di belle piastre, e vi sono suso appiccate ad uso di Diamanti” .(11)
La prima notizia certa sull’effettiva escavazione di queste pietre si trova comunque in una lettera del 1598 in cui Cosimo Fei, provveditore delle Saline di Volterra, chiedeva un rimborso per le spese occorsegli per il trasporto delle pietre cavate da Monterufoli.(12) Era accaduto infatti che già dal 1580 si era definitivamente affermata a Firenze, dietro reiterata iniziativa del Granduca Francesco I (che nel 1572 aveva chiamato a Firenze due esperti milanesi specializzati nella lavorazione del cristallo di rocca), un’“officina” specializzata nella lavorazione artigianale delle pietre dure: ciò aveva provocato pertanto che le ricerche di questi minerali si concentrassero tra l’altro anche nella tenuta di Monterufoli che, divenuta proprietà dei Maffei di Volterra nel 1535, era già nota da tempo per l’eccezionale abbondanza e varietà di calcedoni e pietre dure che affioravano dal suo sottosuolo(13): proprio per questa ragione “… ogni tanto tempo i Ministri della galleria, solevano mandare persone intendenti a Monte Ruffoli per scavare calcedoni per uso dè lavori”.(14) In questo stato di cose vi è ragione di credere, come ha notato Batistini, che fin dalle prime missioni della Real Galleria dovessero covare sordi risentimenti tra l’amministrazione Granducale e la famiglia Maffei in merito all’effettiva giurisdizione sulle cave e sui criteri relativi al loro sfruttamento(15): ciò appare confermato indirettamente dal fatto che con Bando del 10 febbraio 1609 il granduca Ferdinando I stabilì l’assoluto divieto di estrarre ed esportare tutte le pietre atte ad essere lucidate, riservandone l’uso esclusivo alla Galleria Granducale.(16) Questa provvide infatti all’alacre sfruttamento delle cave, come risulta, ad esempio, dalla testimonianza di Orazio Cangi, che dopo essere stato in Sicilia e in Corsica a scoprire cave, rimise nel 1612 una nota di spese fatte per la Galleria nella sua gita a Volterra alla ricerca di calcedoni.(17)
Anche se in questo periodo le ricerche dovettero essere assai intense, le pietre cavate a Monterufoli trovarono inizialmente scarsa applicazione in quanto a causa delle piccole dimensioni dei blocchi esse apparivano del tutto inadatte ad essere utilizzate per il rivestimento delle vaste superfici interne della Cappella dei Principi in S.Lorenzo: per tale motivo si preferiva quindi far sovente ricorso a pietre importate dall’estero.
Ma a partire dalla metà del Seicento l’attenzione finì per concentrarsi esclusivamente sulle risorse del Granducato conducendo così, anche nella zona alla progressiva scoperta di nuovi depositi silicei come ad esempio nel caso di quello del bianco di Caselli – che non è molto duro, ma è “di pelle fina e candida” – o di quelli del paonazzo o dei verdi (agli inizi del ’700).(18) Da allora praticamente ogni anno è documentata una missione a Monterufoli che veniva alloggiata e ospitata nella villa dei Maffei. Ogni anno si preparavano i materiali per l’anno successivo e si cavavano quelli predisposti l’anno precedente applicando in certi casi anche un particolare trattamento termico (già noto nell’antichità, unitamente all’esposizione prolungata alla luce solare del minerale grezzo di colore troppo chiaro) con lo scopo di rinforzarne le colorazioni: i calcedoni venivano sotterrati riscaldandoli lentamente per poi venire lentamente raffreddati, ben sapendo che la porosità selettiva della pietra è infatti tale da consentire, tra l’altro, un assorbimento differenziato di eventuali fosfati organici naturali presenti nel terreno. L’insofferenza e il risentimento dei Maffei nei confronti della prerogativa granducale andarono però acutizzandosi a tal punto che il Granduca Francesco I di Lorena in data 31 ottobre 1758 si vide costretto ad emanare un bando in cui veniva confermato quanto espresso nell’editto del 1609 e in cui si ingiungevano pene rigorose (fino a 50 scudi e a dieci anni di carcere) nei confronti di chiunque scavasse, estraesse o vendesse i calcedoni della tenutaci 9) Sempre nel 1758 fu inoltre stabilito di mettere addirittura delle guardie “a conservazione e custodia delle Pietre Dure di Monte Rufoli”; alle guardie “non fu assegnato alcuno appaiamento” essendo loro solamente consentita la facoltà di portare armi da fuoco grazie a una semplice licenza che ricevevano gratis
dal Reale Guardaroba. Queste nuove restrizioni provocarono le giuste lagnanze dei Maffei che, pur essendo i proprietari dei terreni in cui si trovavano le cave, si erano da prima visti compensare da Casa Medici soltanto con “qualche regalo di lavori di calcedoni lavorati in Galleria” per essere poi completamente ignorati dai Lorena ed anzi addirittura compresi, essi stessi, nell’ingiunzione di divieto del 1758.(20) Ogni rimostranza cadde tuttavia nel vuoto.
A sorvegliare le cave furono così poste inizialmente tre guardie (poi divenute quattro) scelte fra i giovani contadini della zona: nel 1761, ad esempio, troviamo Sabatino Querci, Salvadore di Bernardo Sarri, Paolo di Giovanni Danzini e Ottaviano di Pio Danzini.(21)
Che la fama dei calcedoni di Monterufoli (e quindi il reale interesse per il loro impiego) non fosse comunque limitata all’ambito regionale – determinando cosi un’inevitabile contenzioso per il loro monopolio – è testimoniato anche dal tipo di committenza interessata a questi materiali: è del 1755, ad esempio, una richiesta della Real Corte di Napoli per un quantitativo di pietre dure che “devono cavarsi nella Val di Cecina, in luogo detto Monte Rufoli, Monte Quercioli e Querceto” .(22)
In questo clima di evidente espropriazione, l’attrito fra i Maffei e il Granduca andò facendosi realmente insostenibile tanto da sfociare infine nel 1788 in un’iniziativa del tutto autonoma della famiglia proprietaria con la quale Niccolò Luigi Maffei stabilì che per i dieci anni successivi la casa Maffei avrebbe ceduto calcedoni al Sig. Morandi di Firenze e alla Galleria Granducale, qualora ne avesse fatto richiesta.(23) Fu solo l’inizio di una rapida riappropriazione, tant’è che ai primi dell’ottocento le cave risultano gestite completamente dai Maffei che vi esercitavano un assoluto controllo.
Questa nuova situazione condusse nel 1826 a una serie di convenzioni con la Real Galleria che, come ebbe a scrivere in seguito Carlo Siries, direttore della galleria, in una lettera a Giulio Maffei “…non tolgono alla di lei famiglia la facoltà di vendere o di donare… Danni potrebbero esser fatti alle cave…come accadde allorché anni fa fu permesso al Morandi di scavarvi a suo piacere… Da qui in avanti sarà mia cura fare nuove provviste mediante le quali la di lei famiglia sarà largamente compensata”.(24) Nel 1836 la corte granducale tornò a chiedere la privativa di escavazione, ma le pretese dei Maffei furono giudicate troppo onerose e il progetto fu abbandonato.
Sempre nel 1836 i Maffei vennero citati in giudizio da Giuseppe Galeotti, curatore di Giovanni Antonio Paoletti, in relazione alle escavazioni di calcedonio da loro intraprese sul Poggio di Castiglione. Benché condannati dal Tribunale di Volterra i Maffei ripresero dopo pochi anni possesso delle cave sul Castiglione per riperderle poi definitivamente nel 1861.(25)
Nel frattempo continuavano ogni anno le missioni da parte della Galleria Granducale: l’ultima di cui si ha notizia ebbe luogo nel 1855 e fu capeggiata da Niccolò Betti.(26) I Maffei erano rimasti così signori incontrastati delle cave e veri e propri imprenditori di pietre dure: circa l’attività di estrazione in questo periodo basti dire che nel 1858 furono scavate e pulite 10.000 libbre di pietre dure a Fonte Gabbra e 7.500 libbre a Malendrata e che i pezzi non venivano più spaccati ma segati a mano con sega a ferro dolce senza denti e a rena smerigliata; i cavatori erano quattro o cinque e tutti della zona, mentre segantini erano due e volterrani. Gli utensili impiegati consistevano in mazze, martelli, subbie, corde, pali di ferro, frulloni, spianatoi, paletti per “mine”, seghe a smeriglio, manici, telai, zappe oltre a un particolare trapano a corde chiamato “violino”, mentre per gli sbancamenti più grossi venivano impegnati addirittura dei contadini coi buoi.(27) Per facilitare le faticose e lunghe operazioni di taglio i Maffei pensarono anche di acquistare una sega meccanica azionata da un motore, ma il costo troppo elevato del macchinario li dissuase, obbligandoli così a rivolgersi al sig. Vassilio Perdicary, proprietario delle cave di marmi di Monterombolo presso Campiglia Marittima, ogni qual volta avessero bisogno di far segare delle lastre.(28)
Assai richiesti sul mercato delle lavorazioni artigianali, i calcedoni procurarono ai Maffei anche soddisfazioni non soltanto economiche: nel 1850, ad esempio, la direzione delle II. e RR. Scuole Tecniche d’Arti e Manifatture di Firenze ricevette dai Maffei (dietro sua specifica e premurosa richiesta) ben ventidue campioni di pietre dure e di brecce scavate nei possessi di Monterufoli onde esporli nel Museo Tecnologico annesso(29) e nel 1854 una nutrita serie di esemplari fece bella mostra di sé alla grande esposizione fiorentina organizzata dallo stesso lstituto(30); nel 1862, infine, Niccolò Maffei fu addirittura premiato all’Esposizione internazionale di Londra “per la notabile bellezza della calcedonia da lui recentemente scoperta e per la sua collezione di minerali”.(31) Ma furono gli ultimi momenti di gloria per queste splendide pietre il cui declino, unitamente alla diminuita richiesta del mercato, appare indissolubilmente legato a quello della famiglia Maffei che, travolta da varie avversità, perse nel giro di pochi anni tutto il suo immenso patrimonio e con esso la Tenuta di Monterufoli che fu definitivamente ceduta nel 1887, segnando così la fine delle escavazioni di calcedonio in tutta la zona.
Per ricostruire l’esatta ubicazione delle varie cave sul territorio risulta senza dubbio indispensabile la descrizione datane da Giuseppe Antonio Torricelli da Fiesole e pubblicata da Targioni Tozzetti nel tomo III delle sue Relazioni assieme ad un’accuratissima illustrazione di queste mineralizzazioni e ad acute osservazioni sulla loro genesi.(32) Si apprende così che presso un “Uccellare da Tordi” passava un filare di “Bianchi stietti” che si prolungava poi fin oltre il Ritasso “ne ’Monti di S.Antonio” (oggi Poggio di Castiglione); ben tre grossi filoni (rispettivamente di calcedoni paonazzi, di carnicini e di bianchi) si trovavano poi sulla parte occidentale del Monte Quercioli, un rilievo poco a Nord del Pod. Gabbra, mentre sul “Monte di S.Antonio” passava un bel filone di bianco e giallo. Calcedoni di vari colori erano poi segnalati presso il Pod. Sorbi, nel “Fiume del Mulino di Sorbi” e nel “Borro degli Scopi”.

Tra le località di estrazione più importanti o dimostratesi più durature nel corso del tempo spiccano comunque l’antica cava ancor oggi visibile presso il Pod. Monterufolino, in cui si possono chiaramente osservare le giaciture delle vene silicee entro le ofioliti alterate, e le numerose e ricche cave un tempo esistenti presso i poderi Sorbi e Gabbra, poco a NNO di Villetta, già celebri in passato per le notevoli mineralizzazioni presenti ed oggi malamente accessibili per la fitta vegetazione che ricopre la zona. In particolare, presso Sorbi si avevano escavazioni nel Fosso Rimandrio, nel Fosso Rivivo (un botro che faceva da confine fra il Pod. Gabbra e il Podernuovo), nel Fosso Morocco e nella Serra al Fabbro (presso il Pod. Malentrata), mentre nei dintorni di Gabbra c’erano cave importanti al Monte Quercioli, alla Fonte di Gabbra e alla Porcareccia.(33) Grossi filoni erano poi conosciuti anche lungo il Ritasso, sul Poggio di Castiglione (detto un tempo Poggio di S.Antonio), nel Fosso degli Scopai e a Sud della Fattoria di Monterufoli, nel Botro delle Acque Calde (o “Botro di Campora”). Naturalmente, oltre a queste località più note ve ne erano molte altre ad essere interessate dalla presenza dei vari filoni silicei, spesso anche su ampie superfici, e poiché nell’area affioravano “Calcedoni di tutti i colori, cioè il Bianco, e il Bianco e Giallo, il Bianco e Rosso, il Pavonazzo, il Rosso, il Carnato, il Verde con macchia Bianca, lo Scuro, e cento altri colori(34), ne conseguiva che tutte le cave erano caratterizzate dalla particolare varietà di calcedonio che vi si rinveniva: si aveva così bianco al Boschetto, misto grigio alle Pianacce, giallo-celeste al Poggio di Castiglione e al Monte Quercioli, rosso-turchino nel Fosso Rivivo, verde ai Gabbrucci, rosso-granata al Pod. Sorbi, nero, alla Ficaia.(35) Altre cave si trovavano infine nei dintorni di Caselli (Pod. la Pieve, la Serra, i Capannoni) al Poggio dei Gabbri, al Vallino(36) e nell’area a Nord-Ovest di Serrazzano, nota da tempo per la particolare presenza di corniola (un tipo di calcedonio uniformemente colorato in rosso più o meno sanguigno).
Ma al di là delle cave “storiche”, appositamente individuate e coltivate per l’estrazione dei calcedoni (e che fornirono in notevoli quantità campioni di straordinaria qualità estetica), nuove località sono state riconosciute in tempi più recenti, durante la ricerca e l’escavazione di giacimenti di magnesite, un minerale a cui il calcedonio e il quarzo si trovano, come si è detto, assai spesso associati (risultando, però, in questo caso veri e propri elementi “di disturbo”). Tra queste sono da menzionare le ricerche condotte nella valle del T. Ritasso (presso Villetta) e nel Fosso di Malentrata; specialmente in quest’ultima località le mineralizzazioni silicee e magnesitiche presentano grande diffusione e pertanto proprio in questa zona si sono concentrate e succedute quasi tutte le attività minerarie. Qui i minerali (dolomite, magnesite, miemite, quarzo, calcedonio, crisoprasio e diaspro) si rinvengono estesamente lungo le sponde del fosso e nei grossi massi che giacciono nel suo letto. Sulla destra idrografica del fosso è ancora visibile, quasi a livello dell’alveo e seminascosta fra la vegetazione, una piccola galleria di ricerca di breve sviluppo in cui si possono riscontrare modeste mineralizzazioni di idromagnesite (un carbonato basico di magnesio in forma per lo più di fini cristalli aciculari bianchi lunghi alcuni millimetri).
Decisamente più frequenti e senza dubbio più interessanti sono comunque le numerose discariche che si trovano nel tratto compreso fra la confluenza col Ritasso e la piccola miniera: vi si segnalano in particolare il crisoprasio (varietà di calcedonio di colore verde traslucido per presenza di nichel), la dolomite e il quarzo, sia in varietà ialina che latteo-calcedoniosa.
Estese ricerche e importanti escavazioni di magnesite furono inoltre intraprese anche nel Fosso degli Scopai, un affluente di destra del Ritasso, dove, a partire da circa 300 m. a monte della confluenza e per oltre 400 m. di lunghezza, furono riconosciuti 14 filoni di magnesite per la cui escavazione, alla fine degli anni Venti, vennero impiegati 150 operai con una produzione annua di 10.000 t. di minerale commerciabile. Lo sfruttamento di questi depositi riprese poi soprattutto nel periodo 1928-1950 per opera del Conte Ugolino Della Gherardesca, estendendosi anche al contiguo Botro di Carnovale.

Ma, assieme al Fosso di Malentrata e al Fosso degli Scopai, l’altra località importante per le mineralizzazioni a magnesite e a calcedonio è senza dubbio quella rappresentata dal già ricordato Poggio di Castiglione (presso Canneto), dove fra la fitta vegetazione è ancora possibile osservare piccole cave e diverse discariche (una di esse si trova a ridosso della strada provinciale per Canneto) incluse fra le rocce serpentinose profondamente alterate e silicizzate che costituiscono la parte più alta del rilievo.
Qui le ricerche individuarono alcuni filoni dello spessore variabile dal a 5 m. e di lunghezza oscillante da alcune decine ad oltre 200 m. e si concentrarono soprattutto sulle pendici meridionali ed orientali del poggio, a quote medio-alte. Le mineralizzazioni magnesitiche del Poggio di Castiglione si presentano sotto forma di noduli o blocchi di magnesite di colore bianco-giallastro, inglobati in concrezioni di silice calcedoniosa contenenti una notevole percentuale di ferro e di calcio. Notevole è, infine, qui la presenza del quarzo.
Angelo MARRUCCI
NOTE BIBLIOGRAFICHE
- Cfr. G. TARGIONI TOZZETTI, Relazioni di alcuni viaggi fatti in diverse parti delia Toscana. 2.ed. Firenze, Stamperia Granducale, 1768-79, till, p. 316 e A. PAMPALONI MARTELLI, Le raccolte lapidee dell’opificio delle Pietre Dure, in: Splendori di pietre dure. L’arte di Corte nella Firenze dei Gran- duchi. Firenze, Giunti, 1988, p. 272.
- A. D’ACHIARDI, Mineralogia della Toscana. Pisa, Nistri, 1872-73, v. I, p. 101.
- Cfr. L. PILLA, Breve cenno sulla ricchezza minerale Toscana. Pisa, Vannucchi, 1845, p. 103.
- Cfr. G. BRIZZI & R. MELI, Le pietre silicee della Fattoria di Monterufoli, in: “Riv. Min. It.”, 3, 1988, pp. 101-110.
- E. REPETTI, Dizionario geografico fisico storico della Toscana. Firenze, per l’autore ed editore, 1833-43, pp. 517-18.
- Cfr. G. TARGIONI TOZZETTI, cit. p. 305.
- B. LOTTI, Geologia della Toscana. Mem. Descr. Carta Geol. d’It., Roma, 1910, p. 251.
- L. PILLA, cit., p. 104.
- B. Lotti, cit., p. 251.
- M. FRANZINI, La magnesite, in: La Toscana meridionale. Fondamenti geologico- minerari per una prospettiva di valorizzazione delle risorse naturali. Rend. S.I.M.P., 27 (fase, sp.), 1971, p. 510.
- G. TARGIONI TOZZETTI, cit., t. IX, p. 26.
- Cfr. A. PAMPALONI MARTELLI, cit., p. 272.
- L’esistenza dei calcedoni di Monterufoli alla metà del Cinquecento era già ampiamente nota: oltre agli scritti menzionati da Targioni Tozzetti (t. Ili, p. 316 e segg.) si può ricordare ad esempio la Descrittione di tutta Italia del frate bolognese Leandro Alberti (1550) in cui si legge (c.50r.) che nell’area in questione “…retrovansi Pietre da Porfido, Serpentino, Agata, Calcedonii, con molte simili preziose pietre di diverse maniere et de diversi colori…”.
- G. TARGIONI TOZZETTI, cit., p. 316.
- G. BATISTINI, / calcedoni di Monterufoli, in: Università della Terza Età di Volterra – Programma anno accademico 1988-89, xerocopie.
- A. PAMPALONI MARTELLI, cit.
- ibidem
- G. TARGIONI TOZZETTI, cit., t. Ili, p.321.
- B.G.V., Archivio Maffei, filza 59. Il documento è molto prezioso ai fini della storia delle escavazioni in quanto vi si trova conservata in due fascicoli la maggior parte dei documenti relativi alla gestione delle cave (lettere, permessi di escavazione, notifiche, trattative, pagamenti agli operai, spese per acquisto di materiali ecc.) dai primi del Seicento a tutto l’ottocento.
- ibidem
- ibidem
- ibidem
- ibidem
- Cfr. G. BATISTINI, cit.
- B.G.V., Archivio Maffei, cit.
- A. PAMPALONI MARTELLI, cit.
- Gli strumenti impiegati per l’estrazione del minerale (e quindi i sistemi di coltivazione delle cave) si possono parzialmente ricostruire grazie alle numerose ricevute di pagamento relative alla metà del secolo scorso e conservate in B.G.V., Archivio Maffei, cit.
- ibidem
- ibidem
- Cfr. Catalogo dei prodotti naturali e industriali della Toscana presentati all’esposizione fatta in Firenze nel 1854 nell’l. e R. Istituto Tecnico, 2.ed., Firenze, Tip. Tofani, 1854, pp. 79-80. I campioni esposti portano i numeri dall’839 all’879.
- Esposizione Internazionale dell’anno 1862. Regno d’Italia. Elenco degli espositori premiati. Londra, Eyre e Spottiswoode, 1862 p.6.
- G. TARGIONI TOZZETTI, cit., t. Ili, pp. 316-327.
- B.G.V., Archivio Maffei, cit.
- G. TARGIONI TOZZETTI, cit., t. Ili, p.322.
- Cfr. G. BATISTINI, cit.
- B.G.V., Archivio Maffei, cit.
Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.