I CALCEDONI DI MONTERUFOLI

Situata nel settore nord-occidentale del­le Colline Metallifere, in un’aspra e solitaria zona collinare coperta da un’estesa e fittis­sima boscaglia di macchia mediterranea, l’a­rea circostante la Fattoria di Monterufoli presenta motivi di grande interesse natura­listico sia per le numerose varietà minera­logiche che vi si riscontrano (rame, quarzi, calcedoni, magnesite, zolfo, antimonite, ve­triolo, lignite, amianto ecc..) che per le dif­fuse tracce che le trascorse e differenziate attività minerarie vi hanno disseminato nel corso del tempo. La natura geologica pre­valentemente ofiolitica e alloctona della zo­na unita agli effetti prodotti su di essa dalla tettonica mioquaternaria e provocati sia dal­l’attività idrotermale connessa all’Evento Ap­penninico che dalla contiguità geografica col campo geotermico di Larderello (e quindi coi fenomeni minerogenetici ad esso connes­si), hanno infatti determinato in tutta l’area di Monterufoli caratteri mineralogici e mine­rari assai peculiari, interessanti ed eteroge­nei anche se non particolarmente ricchi o durevoli dal punto di vista di un loro sfrutta­mento economico. Di tutte queste numero­se “produzioni naturali” ce n’è comunque una che supera tutte le altre per la celebri­tà acquisita grazie alla sua riconosciuta e ap­prezzata capacità di poter essere meravigliosamente sfruttata in ambito arti­stico e artigianale, una risorsa mineraria che ha fatto conoscere ovunque quest’area del volterrano conferendole ulteriori motivi di fa­scino e d’interesse in aggiunta a quelli che già le sono propri per i toni assai marcati del suo paesaggio (clima decisamente mediter­raneo, morfologia spesso accidentata con ampie zone scoscese o franose prive di ve­getazione, frequenti e visibili alterazioni delle rocce in posto, assoluta mancanza di pre­senze o di attività antropiche stabili ecc..) e per un ambiente naturale di straordinaria suggestione. Sotto l’aspetto naturalistico il nome della Fattoria di Monterufoli risulta in­fatti ancora oggi indissolubilmente legato al­l’abbondante presenza nei suoi dintorni dei famosi e ricercati calcedoni, pietre silicee d’indiscutibile pregio estetico, la cui escavazione e il cui sfruttamento a scopo artistico-ornamentale si protrassero, come vedremo, ininterrottamente dal 1598 alla se­conda metà dell’ottocento, quasi esclusivamente per opera dell’opificio Granducale delle Pietre Dure di Firenze (1).

Ma che cosa sono i calcedoni? Perché so­no così abbondanti nel territorio di Monte­rufoli? E Perché sono stati oggetto di cosi esclusive e interessate ricerche, tanto da di­venire quasi sinonimo o emblema di questa terra? Procediamo con ordine. Sotto l’aspetto mineralogico il calcedonio al­tro non è che quarzo, o, per meglio dire, si­lice microcristallina anidra (Sio2 : biossido di silicio) connotata da una caratteristica struttura fibrosa. Chimicamente identico al quarzo, rispetto al quale ha durezza legger­mente inferiore (6,5 della scala di Mohs in­vece di 7), il calcedonio se ne differenzia però notevolmente sotto il profilo gemmo logico in quanto mentre il primo ha forma monocristallina, aspetto vetroso e frattura vetrosa-ossidianoide il secondo si presen­ta piuttosto come un vero e proprio aggre­gato micropolicristallino caratterizzato da un aspetto ceroide, semitrasparente o tra­slucido e da una frattura di tipo concoide con superficie sempre opaca, quasi smeriglia­ta o granulosa. Per la loro tessitura tipica­mente fibrosa (per lo più a fibre parallele aciculari) i calcedoni risultano notevolmen­te permeabili ai liquidi, anche a quelli più densi e viscosi: questa proprietà è stata sfruttata ampiamente nei processi di lavo­razione artigianale di queste pietre in quanto ha consentito talora di modificarne la colo­razione naturale rinforzandone (o addirittu­ra mutandone) il colore nella fasce più porose in base alle necessità dettate dall’u­tilizzazione estetica alla quale i pezzi era­no destinati.

MONTERUFOLI: Villa delle Cento Stanze

Il calcedonio si presenta in natura con un’ampia varietà di tipi e di colorazioni as­sumendo, a seconda dei casi, denominazio­ni particolari come agata, crisoprasio onice, corniola, eliotropio, ecc..’, per tale motivo il termine calcedonio dovrebbe pertanto es­sere riservato più correttamente ai tipi con colorazione omogenea, generalmente bian­castra, grigia o lattiginosa, caratterizzata ta­lora da deboli effumazioni ocracee, giallastre, giallorosate o azzurrognole, ma per evitare confusioni e per ricordare che la specie mineralogica è sempre la stessa, converrà premettere la denominazione di calcedonio a qualsiasi varietà ci si intenda riferire (calcedonio-agata ecc..).

Dal punto di vista tipologico, i calcedoni di Monterufoli sono giustamente celebri; essi presentano infatti svariatissime colorazioni unite a una insolita gamma di trasparenze: “…se ne hanno dei bianchi, dei grigi, dei vio­lacei, dei verdi, dei gialli, dei carnicini, dei rossi con tutte le possibili sfumature; ma pre­domina per altro nei veri e propi Calcedoni un tranquillo e simpatico color fior di lino ora volgente al chiaro e ora a un violaceo livido (…). A queste tinte si aggiunge una lucen­tezza opalina e una translucidità, che dà un aspetto di gelatina alle masse più chiare, le quali per trasparenza appaiono anche gial­lognole o grigiorosee”.(2) Tra i numerosis­simi tipi di calcedonio presenti nella zona (spesso caratterizzati da esemplari bianchi lattiginosi, traslucidi, con frattura scagliosa, appannata e con superficie bernoccoluta), spiccano soprattutto quelli conosciuti come calcedoni opachi o bianco di Volterra, che, grazie alla loro quasi totale opacità, alle numerose tonalità.

MONTERUFOLI: Villa delle Cento Stanze

All’interesse scientifico e al pregio estetico di queste mineralizzazioni contribuisce inol­tre l’ampia tipologia di forme (botrioidali, co­ralloidi, stalattitici, in abiti massivi, in geodi ecc..) in cui i calcedoni si presentano in que­st’area^), anche se di norma la loro giaci­tura più comune è quella in filoni in alcuni dei quali predominano certe varietà, in altri altre. Come nota infatti Repetti: “…la singo­larità per altro di Monte Rufoli consiste nel­l’indole del suolo sparso di calcedonie traslucide tramezzo a filoni iniettati,

o fra strati di calcare compatto e di schisto mar­noso convertito in galestro, oppure in filoni penetrati fra i spacchi formati nelle subiacenti masse serpentinose, filoni che sono ripieni di botriti, ossia di geodi calcedonio­se, le quali variano fra loro sia in direzione, sia in potenza, come anche in colore. Nes­suno di cotesti filoni calcedoniosi è totalmen­te pieno e compatto; anzi poche sono le porzioni dei medesimi scevre di cavernosi­tà o screpolature, in cui non siano masse botritiche, ventri gemmati, o geodi tappez­zate di variatissime e isolate cristallizzazio­ni di quarzo jalino, e tal altre volte del calcedonio paonazzognolo contornate e ri­vestite” .(5) Proprio alla straordinaria varietà, all’ecce­

zionale abbondanza e alla non comune qua­lità estetica dei calcedoni di Monterufoli si de­vono pertanto ricondurre tutte le attente e premurose ricerche e le diffuse e prolunga­te escavazioni condotte nella zona e commis­sionate quasi unicamente da parte dell’opificio delle Pietre Dure di Firenze (che ne detenne a lungo addirittura l’esclusiva per precisa disposizione granducale) i cui lavori di mosaico hanno reso celebre e decantati ovunque questi minerali con opere d’indiscu­tibile pregio artistico. A tal fine, ad esempio, le qualità opache giallastre, venivano utiliz­zate per la realizzazione di arabeschi, foglia­mi, nastri, cartelle, penne ecc.., mentre quelle bianco-azzurrognole, rossicce o vagamente colorate servivano per comporre fiori, frutti e ancora penne.(6)

Dal punto di vista genetico, per cercare di spiegare la notevole presenza di silice concrezionaria nell’area di Monterufoli (nella for­ma di vene, globuli e filoni, costituiti per lo più da calcedonio, quarzo, opale, diaspro) nonché quella dei vari carbonati di magne­sio (magnesite, dolomite, miemite) ad essa comunemente associati, bisogna considerare attentamente sia la costituzione geologica e l’assetto tettonico della zona sia la prolunga­ta azione di un’anomala attività idrotermale correiabile al contiguo campo geotermico di Larderello e responsabile dei vistosi fenomeni di alterazione che hanno interessato, trasfor­mandole e mineralizzandole in vario modo, praticamente tutte le formazioni rocciose pre­senti nell’area.

Sotto l’aspetto geologico la zona di Monte­rufoli è caratterizzata quasi esclusivamente dalla presenza di un’imponente ed estesa col­tre di formazioni alloctone (qui traslate dalla tettonica compressiva connessa all’Evento Appenninico) e riferibili nella loro totalità sia al Complesso Ofiolitifero (ofioliti, diaspri, cal­cari a Calpionelle, argille fissili con calcari si­licei “palombini”) che alla cosiddetta Formazione di Lanciaia (una formazione se­dimentaria costituita da una varia successio­ne di brecce ad elementi prevalentemente ofiolitici, siltiti, marne, calcari marnosi, areanarie e calcari arenacei).

Ebbene, all’interno di questo caotico conte­sto litologico c’è però una formazione che su­pera tutte le altre per estensione e per potenza condizionando quindi in modo de­terminante il paesaggio e la morfologia di quasi tutta la zona considerata: quella delle ofioliti, ovvero delle rocce più diffuse e sicu­ramente più rappresentative dell’area di Mon­terufoli. Considerate nel loro insieme le ofioliti formano infatti qui un’enorme placca la cui forma può ricordare approssimativamente quella di un triangolo isoscele avente il ver­tice a Ovest-Sud-Ovest. Secondo Lotti, poi, “…la roccia ofiolitica predominante nei din­torni di Monterufoli (…) ricoperta qua e là da rocce sedimentarie” formerebbe nel suo in­sieme addirittura “un’enorme cupola circolare avente un diametro di dodici chilometri” co­stituendo così senza dubbio “la più grande massa ofiolitica della Toscana”.(7)

Questa singolare caratteristica geologica è in questo caso ancora più degna di menzione in quanto l’abbondante presenza di ofioliti è assolutamente’determinante per la genesi dei depositi silicei e – ancor più – dei depositi magnesitici che vi si trovano assai spesso as­sociati (talora anche in quantità economicamente sfruttabili). Le ofioliti (o “pietre verdi”) sono infatti un’insieme di rocce di origine magmatica, di natura sia intrusiva (pe­ridotiti e gabbri) che effusiva (basalti) che me­tamorfica (serpentine: derivate dalla trasformazione delle peridotiti), la cui com­posizione chimica, ultrabasica e basica, si può descrivere molto grossolanamente come una complessa miscela di silicati di magne­sio e di ferro. Nell’area di Monterufoli il mem­bro più diffuso della cosiddetta “triade ofiolitica” (serpentina – gabbro – diabase) è rappresentato dalle serpentine, ossia da roc­ce derivate da particolari processi di meta­morfismo (serpentinizzazione) che hanno profondamente interessato le peridotiti alte­randone radicalmente la struttura mineralo­gica, originariamente costituita da Olivina (o “peridoto”), Pirosseni, e, subordinatamente, da Orneblende, Biotite e Plagioclasi. Infatti durante il processo di progressivo raffredda­mento delle periodotiti all’interno del camino di risalita (ricordiamo che si tratta di rocce di origine magmatica costituenti essenziali della crosta oceanica) può accadere che si verifi­chino condizioni d’idratazione e di tempera­tura (tra 500 e 350 C) tali da innescare nelle Olivine un processo di autometasomatosi (ov­vero un autoriadattamento a condizioni am­bientali diverse) e d’idratazione che si conclude con la loro trasformazione in Ser­pentino (il minerale principalmente rappre­sentato nelle serpentine) e in ossidi di magnesio (MgO). Se successivamente acque ricche di anidride carbonica o fluidi idroter­mali hanno modo d’attaccare queste perido­titi in avanzato stato di alterazione (cioè ormai metamorfosate in serpentiniti) – e quindi ric­che, come abbiamo visto, in ossido di magne­sio proveniente dal disfacimento dei silicati di magnesio (Pirosseni, Antiboli, Olivina) ori­ginariamente presenti nelle peridotiti iniziali – vengono finalmente a crearsi le condizioni per la precipitazione dei carbonati di magne­sio (magnesite, dolomite, miemite) e per la liberazione di molecole di biossido di silicio che poi precipitano e si cristallizzano, a se­conda delle diverse condizioni giacimentolo­giche, in varie forme e in vari abiti, dando così origine a vari tipi di quarzi e di calcedoni. Orbene, se questo è un attendibile modello genetico, perché i calcedoni non si trovano allora diffusi in tutti gli affioramenti ofiolitici?

E perché, al contrario, se ne rinviene in grande abbondanza proprio a Monterufoli? Come aveva già osservato Pilla nel secolo scorso “…/ calcedoni opachi di Monte Rufoli si trovano solamente nelle ofioliti di quel paese. In altre contrade ofiolitiche occorre bene vedere varie vene e rognoni di sostan­ze silicee; ma elle sono in forma di veri cal­cedoni, ovvero di quarzo resinite, di opale, di leucagata, né hanno mai quella qualità particolare che le rende così utili nelle ar­ti”^)’. in altre parole non sempre esiste una correlazione fra ofioliti e depositi silicei in qualche modo interessanti per quantità o qualità. Per cercare allora di spiegare per­ché queste particolari mineralizzazioni ab­biano avuto una particolare diffusione proprio in questa zona bisogna chiamare in causa un fattore qui ancor oggi assai mani­festo la cui responsabilità nel caso di que­sta minerogenesi appare senza dubbio determinante: l’attività dei fluidi idroterma­li. Se consideriamo infatti che la zona di Monterufoli si trova in palese contiguità geo­grafica col campo geotermico di Larderello – Serrazzano e coi numerosi fenomeni en­dogeni e minerogenetici da tempo in esso attivi e se osserviamo inoltre che il territo­rio in esame è interessato sia da alcune im­portanti faglie, che possono aver facilitato la risalita di fluidi idrotermali e di acque carbonatiche circolanti in profondità (cosa che del resto è ampiamente attestata in tutta la zona boracifera), che dalla fitta rete di frat­turazioni e di fessurazioni presente normal­mente in tutte le ofioliti, potrà apparire chiaro come questa singolare convergenza di fat­tori naturali abbia potuto dar luogo a una grande diffusione di depositi silicei e magnesitici in alcune aree della copertura ofiolitica di Monterufoli.

Anche se secondo Lotti la genesi di queste mineralizzazioni andava ricercata nell’azio­ne di acque termali silicifere che avrebbero interessato sia le masse ofiolitiche che gli altri membri della copertura alloctona – pro­vocando nelle serpentine la trasformazione del feldspato e del diallagio rispettivamen­te in opale e smaragdite(9) (un minerale in cristalli aciculari di colore verde erba o ver­de smeraldo piuttosto diffuso nell’area) e ri­ducendo le serpentine stesse a una pasta resinosa, oltre a determinare la silicizzazione delle altre rocce interessate al fenome­no – appare oggi certo, come abbiamo visto, che la minerogenesi dei calcedoni e della magnesite di Monterufoli debba essere at­tribuita all’azione di acque vadose ricche di anidride carbonica sui silicati di magnesio presenti nelle ofioliti, con la conseguente for­mazione – vale la pena di ripeterlo – di vari carbonati di magnesio (magnesite, dolomi­te, miemite) e con la separazione di silice libera poi precipitata e cristallizzata in va­rie forme (quarzo, opale, calcedonio, aga­ta, crisoprasio, corniola ecc..) e in vari abiti. Sotto l’aspetto giacimentologico può esse­re infine interessante osservare che l’au­mento delle mineralizzazioni silicee rispetto a quelle magnesitiche risulta direttamente proporzionale alla profondità del giacimen­to: la causa di questo fenomeno è probabil­mente da ricercarsi “nel particolare comportamento delle soluzioni di silice che possono mantenersi sovrassature per perio­di di tempo molto lunghi. Nelle zone più su­perficiali del giacimento è logico ammettere che la deposizione della magnesite dalle so­luzioni circolanti sia un fenomeno piuttosto rapido e che quindi venga accompagnato da una scarsa deposizione di silice. Nelle zone più profonde invece dove le velocità di deposizione della magnesite sono più basse si raggiungono i tempi necessari al­la deposizione completa anche della silice con aumento quindi dei noduli opalini”.(10) La deposizione del biossido di silicio avvie­ne quindi molto più lentamente di quella del­la magnesite ed ha luogo nei livelli più profondi del giacimento.

Quanto alla distribuzione spaziale di questi depositi silicei e magnesitici è possibile de­limitare un’area abbastanza precisa in quan­to tutte le località note per gli affioramenti e le escavazioni risultano per lo più ubicate nell’area compresa fra la Fattoria di Monte­rufoli, Casa Malentrata, la Fattoria di Caselli, Casa la Pieve, Villetta e Serrazzano.

Per narrare la storia dello sfruttamento del­le pietre dure di Monterufoli occorrerebbe almeno un libro: tante sono infatti le notizie, i fatti, gli spunti che emergono dalla consul­tazione dei fascicoli di documenti conservati nella Filza 59 dell’Archivio Maffei presso la Biblioteca Guarnacci di Volterra. Se si con­sidera l’importanza di questi materiali docu­mentari (unitamente a quella dei documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Fi­renze e presso l’Archivio dell’opificio delle Pietre Dure) e, soprattutto, l’effettiva (e pa­radossale) carenza di notizie sulla storia economica dei tanto celebrati calcedoni vol­terrani apparirà senza dubbio chiara la ne­cessità di un’attenta e completa indagine archivistica finalizzata alla ricostruzione sto­rica delle vicende legate all’escavazione e all’utilizzazione di questi caratteristici mi­nerali.

Date queste premesse, risulta pertanto chia­ro che in questa sede non si potrà far altro che tracciare alcune linee generali di una storia ancora tutta da scrivere.

Le prime notizie documentate relative all’e­sistenza di minerali silicei nei pressi di Mon­terufoli risalgono al 1516 quando Antonio di Gentile Guidi da Volterra, in una memoria riguardante alcune risorse minerarie del vol­terrano, ebbe a descrivere chiaramente la presenza del quarzo nell’area considerata nel modo seguente: “…in quello di Monteruffoli vi sono i Berilli fini: sono dal Castello delle Donne, per andare per la Via della Ser­ra, a mano manca, v’è un poggio molto gros­so, tiene Querce sù la cima, vi sono certe crepacce, e certi peli lunghi, v’è di belle pia­stre, e vi sono suso appiccate ad uso di Diamanti” .(11)

La prima notizia certa sull’effettiva escavazione di queste pietre si trova comunque in una lettera del 1598 in cui Cosimo Fei, prov­veditore delle Saline di Volterra, chiedeva un rimborso per le spese occorsegli per il trasporto delle pietre cavate da Monterufo­li.(12) Era accaduto infatti che già dal 1580 si era definitivamente affermata a Firenze, dietro reiterata iniziativa del Granduca Fran­cesco I (che nel 1572 aveva chiamato a Fi­renze due esperti milanesi specializzati nella lavorazione del cristallo di rocca), un’“offi­cina” specializzata nella lavorazione artigia­nale delle pietre dure: ciò aveva provocato pertanto che le ricerche di questi minerali si concentrassero tra l’altro anche nella te­nuta di Monterufoli che, divenuta proprietà dei Maffei di Volterra nel 1535, era già nota da tempo per l’eccezionale abbondanza e varietà di calcedoni e pietre dure che affio­ravano dal suo sottosuolo(13): proprio per questa ragione “… ogni tanto tempo i Mini­stri della galleria, solevano mandare perso­ne intendenti a Monte Ruffoli per scavare calcedoni per uso dè lavori”.(14) In questo stato di cose vi è ragione di credere, come ha notato Batistini, che fin dalle prime mis­sioni della Real Galleria dovessero covare sordi risentimenti tra l’amministrazione Granducale e la famiglia Maffei in merito al­l’effettiva giurisdizione sulle cave e sui cri­teri relativi al loro sfruttamento(15): ciò appare confermato indirettamente dal fatto che con Bando del 10 febbraio 1609 il gran­duca Ferdinando I stabilì l’assoluto divieto di estrarre ed esportare tutte le pietre atte ad essere lucidate, riservandone l’uso esclu­sivo alla Galleria Granducale.(16) Questa provvide infatti all’alacre sfruttamento del­le cave, come risulta, ad esempio, dalla te­stimonianza di Orazio Cangi, che dopo essere stato in Sicilia e in Corsica a scopri­re cave, rimise nel 1612 una nota di spese fatte per la Galleria nella sua gita a Volter­ra alla ricerca di calcedoni.(17)

Anche se in questo periodo le ricerche do­vettero essere assai intense, le pietre cavate a Monterufoli trovarono inizialmente scarsa applicazione in quanto a causa delle picco­le dimensioni dei blocchi esse apparivano del tutto inadatte ad essere utilizzate per il rivestimento delle vaste superfici interne del­la Cappella dei Principi in S.Lorenzo: per ta­le motivo si preferiva quindi far sovente ricorso a pietre importate dall’estero.

Ma a partire dalla metà del Seicento l’atten­zione finì per concentrarsi esclusivamente sulle risorse del Granducato conducendo così, anche nella zona alla progressiva sco­perta di nuovi depositi silicei come ad esem­pio nel caso di quello del bianco di Caselli – che non è molto duro, ma è “di pelle fina e candida” – o di quelli del paonazzo o dei verdi (agli inizi del ’700).(18) Da allora pra­ticamente ogni anno è documentata una missione a Monterufoli che veniva alloggiata e ospitata nella villa dei Maffei. Ogni anno si preparavano i materiali per l’anno succes­sivo e si cavavano quelli predisposti l’anno precedente applicando in certi casi anche un particolare trattamento termico (già no­to nell’antichità, unitamente all’esposizione prolungata alla luce solare del minerale grezzo di colore troppo chiaro) con lo sco­po di rinforzarne le colorazioni: i calcedoni venivano sotterrati riscaldandoli lentamen­te per poi venire lentamente raffreddati, ben sapendo che la porosità selettiva della pie­tra è infatti tale da consentire, tra l’altro, un assorbimento differenziato di eventuali fo­sfati organici naturali presenti nel terreno. L’insofferenza e il risentimento dei Maffei nei confronti della prerogativa granducale an­darono però acutizzandosi a tal punto che il Granduca Francesco I di Lorena in data 31 ottobre 1758 si vide costretto ad emana­re un bando in cui veniva confermato quanto espresso nell’editto del 1609 e in cui si in­giungevano pene rigorose (fino a 50 scudi e a dieci anni di carcere) nei confronti di chiunque scavasse, estraesse o vendesse i calcedoni della tenutaci 9) Sempre nel 1758 fu inoltre stabilito di mettere addirittu­ra delle guardie “a conservazione e custo­dia delle Pietre Dure di Monte Rufoli”; alle guardie “non fu assegnato alcuno appaia­mento” essendo loro solamente consentita la facoltà di portare armi da fuoco grazie a una semplice licenza che ricevevano gratis

dal Reale Guardaroba. Queste nuove restri­zioni provocarono le giuste lagnanze dei Maffei che, pur essendo i proprietari dei ter­reni in cui si trovavano le cave, si erano da prima visti compensare da Casa Medici sol­tanto con “qualche regalo di lavori di cal­cedoni lavorati in Galleria” per essere poi completamente ignorati dai Lorena ed anzi addirittura compresi, essi stessi, nell’ingiun­zione di divieto del 1758.(20) Ogni rimostran­za cadde tuttavia nel vuoto.

A sorvegliare le cave furono così poste ini­zialmente tre guardie (poi divenute quattro) scelte fra i giovani contadini della zona: nel 1761, ad esempio, troviamo Sabatino Querci, Salvadore di Bernardo Sarri, Paolo di Giovanni Danzini e Ottaviano di Pio Danzini.(21)

Che la fama dei calcedoni di Monterufoli (e quindi il reale interesse per il loro impiego) non fosse comunque limitata all’ambito re­gionale – determinando cosi un’inevitabile contenzioso per il loro monopolio – è testi­moniato anche dal tipo di committenza in­teressata a questi materiali: è del 1755, ad esempio, una richiesta della Real Corte di Napoli per un quantitativo di pietre dure che “devono cavarsi nella Val di Cecina, in luo­go detto Monte Rufoli, Monte Quercioli e Querceto” .(22)

In questo clima di evidente espropriazione, l’attrito fra i Maffei e il Granduca andò fa­cendosi realmente insostenibile tanto da sfo­ciare infine nel 1788 in un’iniziativa del tutto autonoma della famiglia proprietaria con la quale Niccolò Luigi Maffei stabilì che per i dieci anni successivi la casa Maffei avreb­be ceduto calcedoni al Sig. Morandi di Fi­renze e alla Galleria Granducale, qualora ne avesse fatto richiesta.(23) Fu solo l’inizio di una rapida riappropriazione, tant’è che ai primi dell’ottocento le cave risultano gesti­te completamente dai Maffei che vi eserci­tavano un assoluto controllo.

Questa nuova situazione condusse nel 1826 a una serie di convenzioni con la Real Gal­leria che, come ebbe a scrivere in seguito Carlo Siries, direttore della galleria, in una lettera a Giulio Maffei “…non tolgono alla di lei famiglia la facoltà di vendere o di dona­re… Danni potrebbero esser fatti alle ca­ve…come accadde allorché anni fa fu permesso al Morandi di scavarvi a suo pia­cere… Da qui in avanti sarà mia cura fare nuove provviste mediante le quali la di lei famiglia sarà largamente compensata”.(24) Nel 1836 la corte granducale tornò a chie­dere la privativa di escavazione, ma le pre­tese dei Maffei furono giudicate troppo onerose e il progetto fu abbandonato.

Sempre nel 1836 i Maffei vennero citati in giudizio da Giuseppe Galeotti, curatore di Giovanni Antonio Paoletti, in relazione alle escavazioni di calcedonio da loro intrapre­se sul Poggio di Castiglione. Benché con­dannati dal Tribunale di Volterra i Maffei ripresero dopo pochi anni possesso delle ca­ve sul Castiglione per riperderle poi defini­tivamente nel 1861.(25)

Nel frattempo continuavano ogni anno le missioni da parte della Galleria Granduca­le: l’ultima di cui si ha notizia ebbe luogo nel 1855 e fu capeggiata da Niccolò Betti.(26) I Maffei erano rimasti così signori incontra­stati delle cave e veri e propri imprenditori di pietre dure: circa l’attività di estrazione in questo periodo basti dire che nel 1858 fu­rono scavate e pulite 10.000 libbre di pietre dure a Fonte Gabbra e 7.500 libbre a Malendrata e che i pezzi non venivano più spaccati ma segati a mano con sega a fer­ro dolce senza denti e a rena smerigliata; i cavatori erano quattro o cinque e tutti del­la zona, mentre segantini erano due e vol­terrani. Gli utensili impiegati consistevano in mazze, martelli, subbie, corde, pali di fer­ro, frulloni, spianatoi, paletti per “mine”, se­ghe a smeriglio, manici, telai, zappe oltre a un particolare trapano a corde chiamato “violino”, mentre per gli sbancamenti più grossi venivano impegnati addirittura dei contadini coi buoi.(27) Per facilitare le fati­cose e lunghe operazioni di taglio i Maffei pensarono anche di acquistare una sega meccanica azionata da un motore, ma il co­sto troppo elevato del macchinario li dissua­se, obbligandoli così a rivolgersi al sig. Vassilio Perdicary, proprietario delle cave di marmi di Monterombolo presso Campiglia Marittima, ogni qual volta avessero bisogno di far segare delle lastre.(28)

Assai richiesti sul mercato delle lavorazio­ni artigianali, i calcedoni procurarono ai Maf­fei anche soddisfazioni non soltanto economiche: nel 1850, ad esempio, la dire­zione delle II. e RR. Scuole Tecniche d’Arti e Manifatture di Firenze ricevette dai Maf­fei (dietro sua specifica e premurosa richie­sta) ben ventidue campioni di pietre dure e di brecce scavate nei possessi di Monteru­foli onde esporli nel Museo Tecnologico annesso(29) e nel 1854 una nutrita serie di esemplari fece bella mostra di sé alla gran­de esposizione fiorentina organizzata dallo stesso lstituto(30); nel 1862, infine, Niccolò Maffei fu addirittura premiato all’Esposizione internazionale di Londra “per la notabi­le bellezza della calcedonia da lui recentemente scoperta e per la sua colle­zione di minerali”.(31) Ma furono gli ultimi momenti di gloria per queste splendide pie­tre il cui declino, unitamente alla diminuita richiesta del mercato, appare indissolubil­mente legato a quello della famiglia Maffei che, travolta da varie avversità, perse nel giro di pochi anni tutto il suo immenso pa­trimonio e con esso la Tenuta di Monteru­foli che fu definitivamente ceduta nel 1887, segnando così la fine delle escavazioni di calcedonio in tutta la zona.

Per ricostruire l’esatta ubicazione delle va­rie cave sul territorio risulta senza dubbio indispensabile la descrizione datane da Giu­seppe Antonio Torricelli da Fiesole e pub­blicata da Targioni Tozzetti nel tomo III delle sue Relazioni assieme ad un’accuratissima illustrazione di queste mineralizzazioni e ad acute osservazioni sulla loro genesi.(32) Si apprende così che presso un “Uccellare da Tordi” passava un filare di “Bianchi stietti” che si prolungava poi fin oltre il Ritasso “ne ’Monti di S.Antonio” (oggi Poggio di Casti­glione); ben tre grossi filoni (rispettivamente di calcedoni paonazzi, di carnicini e di bian­chi) si trovavano poi sulla parte occidenta­le del Monte Quercioli, un rilievo poco a Nord del Pod. Gabbra, mentre sul “Monte di S.Antonio” passava un bel filone di bian­co e giallo. Calcedoni di vari colori erano poi segnalati presso il Pod. Sorbi, nel “Fiume del Mulino di Sorbi” e nel “Borro degli Scopi”.

Tra le località di estrazione più importanti o dimostratesi più durature nel corso del tempo spiccano comunque l’antica cava an­cor oggi visibile presso il Pod. Monterufolino, in cui si possono chiaramente osservare le giaciture delle vene silicee en­tro le ofioliti alterate, e le numerose e ric­che cave un tempo esistenti presso i poderi Sorbi e Gabbra, poco a NNO di Villetta, già celebri in passato per le notevoli mineraliz­zazioni presenti ed oggi malamente acces­sibili per la fitta vegetazione che ricopre la zona. In particolare, presso Sorbi si aveva­no escavazioni nel Fosso Rimandrio, nel Fosso Rivivo (un botro che faceva da con­fine fra il Pod. Gabbra e il Podernuovo), nel Fosso Morocco e nella Serra al Fabbro (presso il Pod. Malentrata), mentre nei din­torni di Gabbra c’erano cave importanti al Monte Quercioli, alla Fonte di Gabbra e alla Porcareccia.(33) Grossi filoni erano poi conosciuti anche lungo il Ritasso, sul Pog­gio di Castiglione (detto un tempo Poggio di S.Antonio), nel Fosso degli Scopai e a Sud della Fattoria di Monterufoli, nel Botro delle Acque Calde (o “Botro di Campora”). Naturalmente, oltre a queste località più no­te ve ne erano molte altre ad essere inte­ressate dalla presenza dei vari filoni silicei, spesso anche su ampie superfici, e poiché nell’area affioravano “Calcedoni di tutti i co­lori, cioè il Bianco, e il Bianco e Giallo, il Bianco e Rosso, il Pavonazzo, il Rosso, il Carnato, il Verde con macchia Bianca, lo Scuro, e cento altri colori(34), ne consegui­va che tutte le cave erano caratterizzate dal­la particolare varietà di calcedonio che vi si rinveniva: si aveva così bianco al Boschet­to, misto grigio alle Pianacce, giallo-celeste al Poggio di Castiglione e al Monte Quercioli, rosso-turchino nel Fosso Rivivo, ver­de ai Gabbrucci, rosso-granata al Pod. Sorbi, nero, alla Ficaia.(35) Altre cave si tro­vavano infine nei dintorni di Caselli (Pod. la Pieve, la Serra, i Capannoni) al Poggio dei Gabbri, al Vallino(36) e nell’area a Nord-Ovest di Serrazzano, nota da tempo per la particolare presenza di corniola (un tipo di calcedonio uniformemente colorato in rosso più o meno sanguigno).

Ma al di là delle cave “storiche”, apposita­mente individuate e coltivate per l’estrazio­ne dei calcedoni (e che fornirono in notevoli quantità campioni di straordinaria qualità estetica), nuove località sono state ricono­sciute in tempi più recenti, durante la ricer­ca e l’escavazione di giacimenti di magnesite, un minerale a cui il calcedonio e il quarzo si trovano, come si è detto, as­sai spesso associati (risultando, però, in questo caso veri e propri elementi “di distur­bo”). Tra queste sono da menzionare le ri­cerche condotte nella valle del T. Ritasso (presso Villetta) e nel Fosso di Malentrata; specialmente in quest’ultima località le mineralizzazioni silicee e magnesitiche pre­sentano grande diffusione e pertanto pro­prio in questa zona si sono concentrate e succedute quasi tutte le attività minerarie. Qui i minerali (dolomite, magnesite, miemi­te, quarzo, calcedonio, crisoprasio e dia­spro) si rinvengono estesamente lungo le sponde del fosso e nei grossi massi che giacciono nel suo letto. Sulla destra idrogra­fica del fosso è ancora visibile, quasi a li­vello dell’alveo e seminascosta fra la vegetazione, una piccola galleria di ricerca di breve sviluppo in cui si possono riscon­trare modeste mineralizzazioni di idroma­gnesite (un carbonato basico di magnesio in forma per lo più di fini cristalli aciculari bianchi lunghi alcuni millimetri).

Decisamente più frequenti e senza dubbio più interessanti sono comunque le numero­se discariche che si trovano nel tratto com­preso fra la confluenza col Ritasso e la piccola miniera: vi si segnalano in partico­lare il crisoprasio (varietà di calcedonio di colore verde traslucido per presenza di ni­chel), la dolomite e il quarzo, sia in varietà ialina che latteo-calcedoniosa.

Estese ricerche e importanti escavazioni di magnesite furono inoltre intraprese anche nel Fosso degli Scopai, un affluente di de­stra del Ritasso, dove, a partire da circa 300 m. a monte della confluenza e per oltre 400 m. di lunghezza, furono riconosciuti 14 filo­ni di magnesite per la cui escavazione, alla fine degli anni Venti, vennero impiegati 150 operai con una produzione annua di 10.000 t. di minerale commerciabile. Lo sfruttamen­to di questi depositi riprese poi soprattutto nel periodo 1928-1950 per opera del Conte Ugolino Della Gherardesca, estendendosi anche al contiguo Botro di Carnovale.

Esemplare di Calcedonio di Monterufoli

Ma, assieme al Fosso di Malentrata e al Fos­so degli Scopai, l’altra località importante per le mineralizzazioni a magnesite e a cal­cedonio è senza dubbio quella rappresen­tata dal già ricordato Poggio di Castiglione (presso Canneto), dove fra la fitta vegeta­zione è ancora possibile osservare piccole cave e diverse discariche (una di esse si tro­va a ridosso della strada provinciale per Canneto) incluse fra le rocce serpentinose profondamente alterate e silicizzate che co­stituiscono la parte più alta del rilievo.

Qui le ricerche individuarono alcuni filoni dello spessore variabile dal a 5 m. e di lun­ghezza oscillante da alcune decine ad ol­tre 200 m. e si concentrarono soprattutto sulle pendici meridionali ed orientali del pog­gio, a quote medio-alte. Le mineralizzazio­ni magnesitiche del Poggio di Castiglione si presentano sotto forma di noduli o bloc­chi di magnesite di colore bianco-giallastro, inglobati in concrezioni di silice calcedonio­sa contenenti una notevole percentuale di ferro e di calcio. Notevole è, infine, qui la presenza del quarzo.

Angelo MARRUCCI

NOTE BIBLIOGRAFICHE

  1. Cfr. G. TARGIONI TOZZETTI, Relazioni di alcuni viaggi fatti in diverse parti delia To­scana. 2.ed. Firenze, Stamperia Granduca­le, 1768-79, till, p. 316 e A. PAMPALONI MARTELLI, Le raccolte lapidee dell’opificio delle Pietre Dure, in: Splendori di pietre du­re. L’arte di Corte nella Firenze dei Gran- duchi. Firenze, Giunti, 1988, p. 272.
  2. A. D’ACHIARDI, Mineralogia della Tosca­na. Pisa, Nistri, 1872-73, v. I, p. 101.
  3. Cfr. L. PILLA, Breve cenno sulla ricchez­za minerale Toscana. Pisa, Vannucchi, 1845, p. 103.
  4. Cfr. G. BRIZZI & R. MELI, Le pietre sili­cee della Fattoria di Monterufoli, in: “Riv. Min. It.”, 3, 1988, pp. 101-110.
  5. E. REPETTI, Dizionario geografico fisico storico della Toscana. Firenze, per l’autore ed editore, 1833-43, pp. 517-18.
  6. Cfr. G. TARGIONI TOZZETTI, cit. p. 305.
  7. B. LOTTI, Geologia della Toscana. Mem. Descr. Carta Geol. d’It., Roma, 1910, p. 251.
  8. L. PILLA, cit., p. 104.
  9. B. Lotti, cit., p. 251.
  10. M. FRANZINI, La magnesite, in: La To­scana meridionale. Fondamenti geologico- minerari per una prospettiva di valorizzazio­ne delle risorse naturali. Rend. S.I.M.P., 27 (fase, sp.), 1971, p. 510.
  11. G. TARGIONI TOZZETTI, cit., t. IX, p. 26.
  12. Cfr. A. PAMPALONI MARTELLI, cit., p. 272.
  13. L’esistenza dei calcedoni di Monterufo­li alla metà del Cinquecento era già ampia­mente nota: oltre agli scritti menzionati da Targioni Tozzetti (t. Ili, p. 316 e segg.) si può ricordare ad esempio la Descrittione di tut­ta Italia del frate bolognese Leandro Alber­ti (1550) in cui si legge (c.50r.) che nell’area in questione “…retrovansi Pietre da Porfi­do, Serpentino, Agata, Calcedonii, con mol­te simili preziose pietre di diverse maniere et de diversi colori…”.
  14. G. TARGIONI TOZZETTI, cit., p. 316.
  15. G. BATISTINI, / calcedoni di Monteru­foli, in: Università della Terza Età di Volter­ra – Programma anno accademico 1988-89, xerocopie.
  16. A. PAMPALONI MARTELLI, cit.
  17. ibidem
  18. G. TARGIONI TOZZETTI, cit., t. Ili, p.321.
  19. B.G.V., Archivio Maffei, filza 59. Il do­cumento è molto prezioso ai fini della sto­ria delle escavazioni in quanto vi si trova conservata in due fascicoli la maggior par­te dei documenti relativi alla gestione delle cave (lettere, permessi di escavazione, no­tifiche, trattative, pagamenti agli operai, spe­se per acquisto di materiali ecc.) dai primi del Seicento a tutto l’ottocento.
  20. ibidem
  21. ibidem
  22. ibidem
  23. ibidem
  24. Cfr. G. BATISTINI, cit.
  25. B.G.V., Archivio Maffei, cit.
  26. A. PAMPALONI MARTELLI, cit.
  27. Gli strumenti impiegati per l’estrazione del minerale (e quindi i sistemi di coltivazio­ne delle cave) si possono parzialmente ri­costruire grazie alle numerose ricevute di pagamento relative alla metà del secolo scorso e conservate in B.G.V., Archivio Maf­fei, cit.
  28. ibidem
  29. ibidem
  30. Cfr. Catalogo dei prodotti naturali e in­dustriali della Toscana presentati all’espo­sizione fatta in Firenze nel 1854 nell’l. e R. Istituto Tecnico, 2.ed., Firenze, Tip. Tofani, 1854, pp. 79-80. I campioni esposti porta­no i numeri dall’839 all’879.
  31. Esposizione Internazionale dell’anno 1862. Regno d’Italia. Elenco degli esposi­tori premiati. Londra, Eyre e Spottiswoode, 1862 p.6.
  32. G. TARGIONI TOZZETTI, cit., t. Ili, pp. 316-327.
  33. B.G.V., Archivio Maffei, cit.
  34. G. TARGIONI TOZZETTI, cit., t. Ili, p.322.
  35. Cfr. G. BATISTINI, cit.
  36. B.G.V., Archivio Maffei, cit.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

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