LA MINIERA DI LIGNITE DEL PALAGIONE A POMARANCE

Tra le numerose risorse minerarie del territorio volterrano la lignite è senza dub­bio quella che ha conosciuto il destino più singolare: ricercata con impeto e con avi­dità dalla fine del Settecento e per tutto l’Ottocento in tutti gli affioramenti di ar­gille mioceniche, fu quindi diffusamente e metodicamente coltivata nel corso di questo secolo in concomitanza delle due guerre mondiali (ricorrendo, per necessità di Patria, anche allo sfruttamento inten­sivo dei giacimenti più poveri e meno si­gnificativi) per essere infine talmente tra­lasciata nel secondo dopoguerra, che og­gi risulta assai difficile (almeno per le mi­niere più piccole) riscontrare sul terreno le tracce delle attività connesse all’escavazione di questo combustibile fossile. Dal punto di vista storico fino alla prima metà dell’ottocento la lignite, eccettuato che per il suo interesse scientifico, appare assolutamente trascurata nel quadro del­le materie prime minerarie della Tosca­na. Infatti fu solo verso il 1830 – ’40 che nella nostra regione lo sviluppo del bino­mio miniere – ferrovie, la formazione di nuovi e più spregiudicati gruppi impren­ditoriali desiderosi di più efficaci e reddi­tizie forme di investimento e la necessi­tà, già manifestata alla fine del Settecen­to, di sostituire l’uso del carbone di legna (di cui si paventava già l’eccessivo sfrut­tamento) con combustibili più economici e maggiormente disponibili, resero pos­sibile tutto un proliferare di ricerche vol­te al reperimento di giacimenti utili di car­bon fossile (1).

La zona del Palagione

Nel volterrano queste prospezioni con­dussero progressivamente alla scoperta di piccoli ma numerosi depositi nelle val­li dell’Era (Montauto – Lajatico, Torri, Ca­sanova, Camporbiano), della Cecina (Buriano – Cortolla, Lama, Botro del Filare, Palagione, Montauto – Monteguidi, Monterufoli, Serrazzano I e II, S. Ippolito, Montecerboli, Mocaio, Ceramelli- Loghe, Bo­sco Tatti, Montecastelli – Colombaia) e della Cornia (Rio Guardigiano, Rio Pia­strello, Montebamboli).

Per quanto riguarda il giacimento del Pa­lagione presso Pomarance, esso fu sco­perto intorno al 1915, vale a dire in un pe­riodo in cui le difficoltà economiche di una nazione ormai prossima all’entrata in guerra obbligavano a sfruttare a fondo tut­te le risorse di materie prime del Paese ed in particolare i combustibili.

Precedentemente, sulla lignite di questa località non si trovano accenni nè alla det­tagliatissima MINERALOGIA di D’Achiardi del 1872 – ’73 (2) nè nella grande mo­nografia di Lotti del 1910 sulla geologia della Toscana (3): segno evidente che fi­no ad allora gli sforzi economici e le ri­cerche minerarie si erano concentrati al­trove, su depositi più ricchi, più facili da sfruttare e quindi maggiormente remune­rativi.

Le prime notizie ufficiali sulla miniera ri­salgono comunque al 19 aprile 1916, da­ta in cui la miniera risulta denunciata per la prima volta al R. Corpo delle Miniere. Dai documenti si apprende che proprie­tario ne era il Cav. Carlo Andrea Fabbri­cotti (a cui apparteneva la tenuta del Pa­lagione), esercente Alessandro Rosini di Pomarance, direttore dei lavori ring. Adolfo Giulio Galigani di Pieve a Nievole e sorvegliante Terzilio Sprugnoli di Poma­rance (a cui subentrò poi Giacomo Mucci).

La prima visita di un Ispettore del Corpo delle Miniere fu effettuata in data 15 lu­glio 1916 dal perito Attilio Monticolo: dal­la relazione che egli compilò in quell’oc­casione risulta che il primo banco colti­vato si trovava a non più di 400 m. dal Possera e la sua potenza variava da 65 a 155 cm. ; la lignite estratta era nera, pi­cea, e rendeva 5500 calorie. Poiché lo strato lignitifero si mostrava pressoché orizzontale lo scavo avveniva a cielo aper­to con una trincea che si sviluppava per 30-40 metri. Sempre nel 1916 tale Fineschi iniziò l’e­splorazione del giacimento del MULINO DI TERRA ROSSA (luogo con cui si iden­tificherà da qui in avanti la vera e propria miniera del Palagione) con uno scoperchiamento di 20 metri e con un tronco di 8 metri in galleria, ma appena fu incon­trata la prima interruzione del banco i la­vori furono sospesi.

Nello stesso tempo, in località POGGIO ULIVINO fu condotto uno scavo con una galleria lunga 35 metri diretto a raggiun­gere un banco verticale di potenza com­presa fra 60 e 150 cm. Fu poi allestita una galleria di ricerca anche presso il BOR­RO DI PIETRANERA in luogo detto FON­TE A CASTRO. Qui la galleria avanzò per circa 20 metri iniziando nella lignite e pro­seguendo nell’argilla, ma ben presto del banco si persero le tracce determinandovi così la fine dei lavori.

In questo periodo nei vari cantieri del Palagione lavorarono 22 uomini e 4 donne con una produzione di 10 t. di lignite al giorno. Nel 1917 la produzione diminuì per una frana superficiale che ricoprì i la­vori precedentemente eseguiti nella zo­na del Mulino di Terra rossa. L’anno seguente la concessione minera­ria del Palagione passò alla Società Mi­neraria Galileo Palagi e C. di Firenze che in data 18 luglio 1918 sostituì il direttore Ing. Galigani con l’Ing. Camillo Boni di Fi­renze. Nello stesso anno si rintracciò il banco sulla sinistra del Possera e se ne constatarono la continuità e la regolarità. Nel 1919 si eseguirono scavi a giorno in località GORGHE e si proseguirono in lo­calità FORNACE e PURETTINO dove si riscontrò un banco della potenza di 110 cm.: si trattava comunque di banchi di di­screta potenza con lignite di buona qua­lità, ma purtroppo di estensione limitata. I lavori proseguirono fino al 1923 con una produzione complessiva di circa 2000 t. di lignite. Da ricordare è anche il fatto che tra il 1916 ed il 1923 nella Miniera del Mu­lino di Terra rossa si verificarono due gra­vi incidenti: uno mortale per rottura del tetto, l’altro abbastanza grave per incen­dio di gas.

Ubicazione dei lavori nei primi anni quaranta e dislocazione delle tre discenderie

Dopo due anni di abbandono la miniera fu riaperta nei primi mesi del 1925 e fino a tutto il 1926 vi lavorarono soltanto 3 ope­rai interni che produssero 51. di lignite al giorno “… abbattendo il carbone a rapi­na nei vecchi tracciamenti, per camere senza ripiena e senza legname”(4). Le camere misuravano circa 24 mq. ed era­no talora intercomunicanti separate da un pilastro perduto di circa 4 m. Dopo la cer­nita il carbone estratto veniva ceduto ai forni della R. Salina di Volterra, mentre lo scarto veniva consumato dall’esercente nella sua fornace di laterizi a Saline di Vol­terra.

Dal punto di vista tecnico i lavori sotter­ranei non risultarono affatto semplici. In­fatti poiché la discenderia del cantiere principale era stata scavata esattamente sotto il BOTRO DEL PALAGIONE si ave­vano inevitabilmente infiltrazioni d’acqua; a questo problema si pose rimedio con­vogliando l’acqua in due pozzetti per poi portarla a giorno con un vagoncino a bot­te da 3 quintali. D’inverno si estraevano in tutto 4 botti al giorno (12 q.), mentre in estate l’eduzione si limitava ad una sola botte giornaliera. Nel 1925 fu aperta una nuova discenderia, intermedia fra quella sopra descritta e la casa del Palagione; essa avanzò per circa 30 m. incontrando il banco lignitifero, ma fu poi abbandonata con la chiusura generale della miniera. Per la cronaca ricorderemo anche che fra questa discenderia e quella sottostante fu scavato un pozzetto profondo 12 m. che raggiunse il tetto del banco lignitifero, ma che dovette essere abbandonato poiché da esso si sprigionava una forte quantità di grisù.

Da una relazione stilata nel 1926 da A. Monticolo (5) si apprende che mentre gli strati del fondo valle e di parte delle spon­de cessavano dopo un percorso di 15-30 m., dimostrando di essere spezzoni “do­vuti a colossali scoscendimenti cagiona­ti dall’erosione del Possera”, più promet­tente si mostrava invece l’affioramento del Mulino di Terra rossa. Per Monticolo questo deposito presentava infatti le mi­gliori condizioni geologiche (banco immergentesi sotto una potente serie di ges­si e calcari non molto disturbati) per un eventuale e proficuo sfruttamento inten­sivo, tanto più che se pure la potenza del­l’affioramento non era molto consistente (80 cm.), ottima risultava invece la quali­tà della lignite.

Nel 1933 De Castro e Pilotti ritornarono sull’argomento nel quadro del loro accu­rato lavoro sui depositi e sulle potenziali­tà lignitifere della Toscana (6). Anche in questa occasione i due autori dopo aver ricordato le esplorazioni condotte in pas­sato nelle aree limitrofe di Gorghe, For­nace e Purettino, si dicevano convinti che la presenza evidente di un banco dello spessore di 80-100 cm., pur “dislocato e rotto in vari pezzi di varia grandezza, immersi nelle argille mioceniche più o me­no franose”, costituiva un’ottima premes­sa al ritrovamento di uno strato continuo in sede, e individuavano quindi in questo giacimento – come già aveva fatto Monticolo – ottime prospettive di sfruttamento. Ciò nonostante dal 1926 al 1940 la minie­ra restò chiusa. A riettivarla provvide il nuovo proprieta­rio della tenuta del Palagione, Avv. Lin­coln Ricci (come si evince dal permesso biennale rilasciato in data 2 novembre 1940) che affidò la direzione della minie­ra all’lng. Angelo Porciatti di La Spezia. Nel primo mese di attività effettiva i lavo­ri si concentrarono in tre diversi cantieri:

  1. a circa 80 m. di quota sul Possera, a circa 300 m. sul BOTRO DI DOCCIA (sul­la sponda sinistra), con due trincee e con una galleria di 15 m. I ritrovamenti di li­gnite furono qui assai sporadici (comples­sivamente 12-141. di lignite picea altera­ta) tanto che poi del banco fu persa ogni traccia;
  2. sulla sponda del Possera, al contatto fra i calcari e le sabbie gialle e le argille mioceniche sottostanti, con una trincea lunga 14 m.;
  3. nel luogo dei vecchi lavori degli anni 1916 – ’23 e 1925 – ’26, ovvero in luogo detto IL MOLINUCCIO, circa 750 m. a nord del Mulino di Terra rossa, nell’inci­sione del Botro del Palagione. In questa zona infatti si erano concentrati i lavori più importanti condotti in passato, poiché pro­prio qui più che altrove erano oggettiva­mente evidenti i migliori indizi per una fa­vorevole coltivazione del giacimento. In base a ciò, nel luglio del 1941, ring. Por­ciatti presentò un esauriente programma di riattivazione e sviluppo della vecchia miniera, suffragando il suo ottimismo coi dati raccolti dai vecchi lavori e con le ca­ratteristiche geominerarie del luogo, che avrebbero garantito, a suo parere, lavori facili e redditizi (7).

Nell’ottobre dello stesso anno il permes­so di ricerca fu ceduto dall’avv. Ricci ai sigg. Corrado Bagnoli e Comm. Luigi Pa­rini di La Spezia, ma con questa nuova gestione ricerche e lavori non conobbe­ro alcun progresso.

Successivamente, con D.M. del 24 mag­gio 1942, la concessione passò a Giusep­pe Bocchese di Vicenza, titolare di una filanda di bozzoli, che, tra proroghe e am­pliamenti, la mantenne fino alla chiusura definitiva della miniera, nel novembre del 1947. L’Azienda Mineraria Bocchese eb­be sede a Pomarance.

Gli auspicati lavori di riattivazione incon­trarono tuttavia seri ostacoli dovuti alla dif­ficile situazione italiana nell’economia di guerra. Infatti come documenta esaurien­temente una precisa relazione di Porciatti del settembre 1942 “… il progetto di rin­novo (…) va effettuandosi purtroppo con esasperante lentezza e con enorme spre­co di denaro; anzitutto per l’impossibilità di trovare la maestranza che sarebbe ne­cessaria ai lavori previsti e poi per le dif­ficoltà di trovare materiali occorrenti e so­prattutto per le difficoltà di trovare traspor­ti per farli affluire in miniera. I sindacati dei lavoratori locali e vicini, continuamen­te ed insistentemente richiesti, non han­no personale da assegnare: i pochi mina­tori della zona furono assegnati e mobili­tati dalla Forestale ai tagliatori e carbonizzatori di boschi e se ne abbiamo richie­sto alcuno ci è stato inesorabilmente ri­fiutato (…). In questa critica circostanza l’Azienda Mineraria Bocchese non si è abbattuta, ma ha cercato con i pochi ope­rai raggranellati, quasi tutti vecchi e gio­vanissimi, di sviluppare i lavori” (8).

Tra gli interventi più importanti di questo periodo bisogna ricordare l’escavazione di due nuove discenderie e la progressi­va riapertura della discenderia vecchia, interamente tagliata nel carbone per 125 m. Fu inoltre eseguita la tubazione del Bo­tro del Palagione ottenendo così ‘‘un bel­lissimo piazzale all’imbocco delle scen­derle 1 e 3”. Tale piazzale era più alto di circa m. 1,60 della strada di servizio per cui fu eseguito un muro di sostegno col risultato di ricavare ‘‘un bellissimo piano caricatore” che sarebbe stato poi ricoper­to da 200 mq. di lamiera. In un piccolo fabbricato fu poi allestita una centralina termoelettrica azionata da una locomobile e da un alternatore capace di fornire un’e­nergia di 20 Kw e furono installati un motoargano, una motopompa con la relati­va tubatura per l’emunzione dell’acqua dalle gallerie, un elettrotrasportatore e due motorini sussidiari. Fu infine sistema­ta la via provvisoria di accesso che immet­teva sulla strada provinciale presso il Mu­lino di Possera.

Nel settembre 1942 la maestranza era li­mitata a soli 12 operai, dei quali solo 2 po­tevano considerarsi allievi minatori.

Miniera del Palagione: un gruppo di minatori

Le difficoltà di questa miniera non erano comunque terminate: il 7 novembre 1942 un violento nubifragio si abbatté sulla zo­na provocando lo straripamento del Bo­tro del Palagione (che correva sotto il piazzale) con la conseguente inondazio­ne di tutto il piazzale e delle due discen­derie e con l’annegamento delle pompe. L’alluvione asportò circa 8 t. di trito e 1 t. di pezzatura dai due monti che si tro­vavano sul piazzale.

Per rendere ulteriormente conto delle pre­carie condizioni in cui si svolgevano i la­vori in sotterraneo basti dire che nell’au­tunno del 1942 l’avanzamento della di­scenderia n. 2 fu sospeso poiché il car­buro già assegnato per le lampade ad acetilene dei minatori non era stato distri­buito all’Azienda. In quello stesso perio­do si apprestò un importante lavoro di bo­nifica sotto al piazzale approntando un canale sotterraneo murato a volta per convogliarvi il Botro del Palagione ed eli­minare così il pericolo di future alluvioni della miniera. Nei primi mesi del 1943 fu completata e attivata la centrale termoe­lettrica e furono prosciugate mediante elettropompa le discenderie allagate, che vennero quindi nuovamente armate, ren­dendo così possibile la ripresa degli avan­zamenti. Furono poi allestiti piazzali di ca­rico e di raccordo fra le tre discenderie, un piazzale per la stazione di partenza della teleferica che avrebbe dovuto col­legare la miniera con la villa del Palagio­ne (per la quale opera furono approntati macchinari e 40 vagonetti o benne dalla Ditta Lenni e Cancelli di Livorno) oltre al restauro delle strade di accesso alla mi­niera. Tutti questi lavori impegnarono 25 operai per un totale di 1400 giornate.

A partire dai primi mesi del ’43 le notizie ufficiali si fanno più scarse. Risulta per­tanto preziosa la testimonianza diretta del sig. Ottavino Cipriani di Montecerboli che lavorò allora, appena quindicenne, nella miniera del Palagione (9). Ebbene, in que­sto periodo erano presenti 25 operai sud­divisi in due turni: dalle 5 alle 13 e dalle 13 alle 21 ; di notte il lavoro veniva sospe­so. Il minerale scavato dal minatore con l’aiuto di 2-3 operai veniva caricato su va­goncini poi trainati all’esterno dall’arga­no a motore. Il salario oscillava dalle 280 alle 300 lire mensili. Da Cipriani appren­diamo che inizialmente come motore era stata installata una caldaia a vapore il cui rifornimento d’acqua era garantito dalle donne che la trasportavano continuamen­te dal Possera con tinelli di legno. Con­duttore della caldaia era tale Nello di Bal­lerò e fuochista Ilio Grossini. Successiva­mente la caldaia fu collegata alla nuova centralina termoelettrica che assicurò co­sì l’illuminazione elettrica alle gallerie. Alla fine del 1943 fu iniziato un pozzo di ricerca del diametro di 120 cm. che fu spinto alla profondità di oltre 100 m. Ca­porale della miniera era allora Giusto Ros­si di Pomarance. Fu questo l’ultimo lavo­ro importante ad essere eseguito visto che per il proseguire della guerra le atti­vità rallentarono fino a cessare del tutto e i vari progetti di meccanizzazione e di ammodernamento (tra cui la teleferica) non poterono essere realizzati.

Nel 1944 la miniera versava nel più com­pleto stato di abbandono e veniva utiliz­zata dagli abitanti del luogo come rifugio antiaereo.

Alcuni lavori furono ripresi nel 1946 nel tentativo di raggiungere un lembo di ban­co al termine di una discenderia allaga­ta, ma le persistenti infiltrazioni d’acqua e la mancanza di mezzi di eduzione im­pedirono il raggiungimento dello scopo. Altre modeste ricerche, sia in sotterraneo che in superficie, eseguite in località CO­LOMBAIA dettero risultati del tutto irrile­vanti. Da una relazione tecnica del novembre 1947 compilata dall’lng. Riccardo De Marpillero si apprendono poi altre notizie interessanti: “… durante il periodo di tem­po nel quale l’Alta Italia è stata tagliata dal resto della penisola dalla linea Goti­ca, certo Taddiello, persona che si dice­va di fiducia del sig. Bocchese, vendette tutta l’armatura del Palagione, ivi compre­so il legname di armatura delle scenderie n. 1 e 2 e relativi livelli, dimodoché in seguito ad allagamento tali opere risulta­rono distrutte. Solo la scenderia n. 3 non venne disarmata, ma a seguito di una pie­na del Possera fu in parte allagata cau­sando la rovina delle vecchie opere” (10). Sulla base di un attento esame dei vec­chi lavori, dall’analisi delle precedenti re­lazioni di Porciatti e dal fatto che le pri­me quattro traverse della discenderia n. 3 si erano arrestate non per avere esau­rito il banco, ma perchè le esalazioni di gas ed il calore intenso non permetteva­no agli uomini di procedere nell’avanza­mento (tanto che i minatori denominava­no quella zona “Maremma”), De Marpillero si convinse che il banco di lignite do­veva proseguire verso sud, oltre i vecchi lavori: fece pertanto eseguire due son­daggi per valutarne l’esatta posizione e l’eventuale consistenza, ma entrambi eb­bero esito negativo. Per niente scoraggia­to, De Marpillero propose allora l’apertu­ra di due nuove gallerie ed un pozzo, ma tutti questi progetti non approdarono a nulla dato che da allora la miniera fu de­finitivamente abbandonata nonostante il parere più che favorevole del tecnico sulla prosecuzione dei lavori: ”… la lignite del Palagione è, a mio avviso, sebbene lamel­lare, una delle migliori ligniti che io cono­sca. Dalle analisi che ho fatto eseguire all’Uva a Savona risulta uno scarso tenore di ceneri, un’alta percentuale di sostan­ze volatili e basso tenore di zolfo; abbru­ciando non agglomera, il che non è lieve vantaggio. Sarebbe veramente deplore­vole lasciare inutilizzata sotto terra una si­mile lignite” (11).

Termina dunque cosi, con questo giudi­zio paradossalmente ottimistico, la storia di questa piccola miniera: una storia, co­me si è potuto capire, “minore” sia per­chè estremamente travagliata nel suo svi­luppo attraversato da difficoltà, interruzio­ni e ostacoli di ogni sorta, sia perchè si­curamente emblematica della situazione mineraria generale (e lignitifera in parti­colare) di quest’area della Toscana, ric­ca, appunto, di giacimenti poveri.

E oggi? Che cosa rimane oggi di tutte le opere e le attività intraprese nella zona del Palagione? Ebbene, i resti materiali di tut­ta questa storia sono oggi pressoché scomparsi, mascherati perfettamente dal­la vegetazione o cancellati per sempre dalle frane o dalle piene del Possera: so­lo con difficoltà se ne possono intuire le tracce tra le oasi di pini e le fitte chiazze di macchia mediterranea che costellano qua e là i rotondi e spaziosi pendìi argil­losi digradanti su questo tratto della Val di Possera.

Dott. Angelo Marrucci

NOTE BIBLIOGRAFICHE

  1. Sui fattori che determinarono la ricerca e il primo sfruttamento del carbon fossile toscano ponendo quindi le premesse alle prospezioni e coltivazioni di questo secolo si veda A. GIUN­TIMI – La grande illusione. La scoperta del car­bon fossile nella Toscana della prima metà dell’Ottocento, in: “Ricerche Storiche”, anno XIX, n. 1, gennaio – aprile 1989, pp. 3-43;
  2. A. D’ACHIARDI – Mineralogia della Tosca­na. Pisa, Nistri, 1872 – ’73, 2 voli.;
  3. B. LOTTI – Geologia della Toscana. Mem. Descr. C. Geol. d’lt., XIII, Roma, 1910;
  4. Corpo delle Miniere, Distretto di Firenze – Permessi e Concessioni, Provincia di Pisa n. 45/30 “Pomarance”: A. Porciatti – Relazione – Progetto per la riapertura della vecchia mi­niera del Palagione, 31 luglio 1941, p. 1. Re­lazione inedita;
  5. Ibidem, Permessi e Concessioni, III 21 – Pi­sa “Miniera di lignite Petranera e Palagione”: A. MONTICOLO – Giacimenti lignitiferi: terri­torio di Pomarance e regioni attigue, 18 set­tembre 1926, pp. 4-7. Relazione inedita;
  6. C. DE CASTRO e C. PILOTTI -1 giacimenti di lignite della Toscana. Mem. Descr. C. Geol. d’lt., XXIII, Roma, 1933, pp. 133-134;
  7. cfr. nota 4
  8. Corpo delle Miniere, Distretto di Firenze – Permessi e Concessioni, Prov. di Pisa n. 45/30 “Pomarance”;
  9. Le notizie sono state raccolte e cortesemen­te trasmessemi dall’amico Jader Spinelli al quale va il mio sincero ringraziamento;
  10. cfr. nota 8: R. DE MARPILLERO – Relazio­ne sulle ricerche del Palagione, 18 ottobre 1947. Relazione inedita;
  11. cfr. nota 10

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

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