LA MINIERA DI RAME DI MONTECASTELLI PISANO

A CURA DI ANGELO MARRUCCI (I PARTE)

Negli ultimi anni si è assistito da parte della storiografia italiana a un vero e prorio risveglio d’interesse per gli aspetti storici e archologici le­gati allo sfruttamento delle risorse minerarie, con tutta una serie di saggi, di studi e di articoli tesi a indagare e ad illustrare le molteplici forme cul­turali, tecniche ed economiche in cui si è svilup­pato il millenario rapporto fra comunità umane, minerali e metallurgia. In questo panorama è ov­vio che per quanto riguarda l’Italia una delle re­gioni privilegiate per questo genere di studi non poteva essere che la Toscana(1), e, più in parti­colare, l’area delle Colline Metallifere dove lo sfrut­tamento dei numerosi depositi minerari di questa terra vanta origini e tradizioni estremamente re­mote.

Il territorio di Montecastelli è noto fin dall’antichità per le mineralizzazioni di rame e di argento esi­stenti nella valle del Pavone: la costituzione geo­logica di quest’area, le tracce di ripetute attività mi­nerarie che vi si rinvengono, la documentazione storico-archivistica al riguardo e, non ultima, la grande estensione dei lavori sotterranei intrapresi a vari livelli nella stretta e profonda gola situata fra Montecastelli e Rocca Sillana, testimoniano sen­za alcun dubbio il non indifferente ruolo svolto da questa ristretta zona nella storia mineraria della Val di Cecina e giustificano in pieno il profondo inte­resse multidisciplinare che essa suscita ancora fra ricercatori ed appassionati di discipline storiche e naturalistiche.(2) Ciò nonostante, la storia di que­ste miniere presenta generalizzazioni, lati oscuri e inesattezze tali da richiedere una sua revisione completa e qualche indispensabile (e, si auspica, definitivo) chiarimento.

Inquadramento geominerario

La zona di Rocca Sillana-Montecastelli-Cerbaiola è costituita quasi esclusivamente da una grande cupola di rocce ofiolitiche (serpentiniti, gabbro dia­base) della lunghezza di 5 km. a cui si accompa­gnano, marginalmente e con piccola estensione, ridotti lembi di marne e calcari eocenici.

Il T.Pavone, nel suo corso da Sud verso Nord, ha inciso molto profondamente questo possente am­masso di “rocce verdi” dando così origine alla stret­ta, impervia e suggestiva gola che separa il rilievo di Rocca Sillana da quello di Montecastelli e in cui fin dall’antichità si sono concentrate tutte le ricer­che e le attività connesse allo sfruttamento delle mineralizzazioni a solfuri metallici ivi esistenti. Mentre sulla sinistra idrografica del Pavone, ossia nella porzione occidentale della gola, compaiono- quasi esclusivamente le serpentiniti (per lo più nella facies di serpentina dialagica, di colore verde cu­po e con spessori di grande potenza, tanto da co­stituire, ad esempio, l’intero rilievo su cui è edifi­cata la Rocca Sillana), sulla pendice opposta, in­cluso nelle serpentiniti, si trova un filone di gab­bro di colore da verde chiaro a grigio verdastro, con struttura massiva e a grana grossa (gabbro eufotide) che, individuabile già poco a Nord di Mon­tecastelli, attraversa il Vallone di Pietralloro per poi dirigersi direttamente verso la Grotta Mugnaioli do­ve raggiunge il massimo spessore (circa 45 metri) e da cui dopo aver tagliato trasversalmente il cor­so del Pavone, risale il pendìo di Rocca Sillana fa­cendo perdere infine le sue tracce.(3) Questo filo­ne è molto importante in quanto proprio esso è se­de della mineralizzazione metallifera e pertanto pro­rio su di esso si sono sempre concentrate nel cor­so dei secoli l’attenzione dei ricercatori e le ripe­tute esperienze di coltivazione mineraria. Tale fi­lone, che nell’area della gola del Pavone presen­ta uno sviluppo di oltre 700 m. verso Est, appare riconoscibile rispetto alle serpentine incassanti in quanto parzialmente alterato in steatite e quindi ca­ratterizzato da una colorazione bianco-verdastra e coperto talora da una patina talcosa bianca. Quanto alle mineralizzazioni metallifere che vi si trovano incluse si tratta per lo più di bornitee (o erubescite o “rame paonazzo’’, di colore bronzeo passante al rosso rame nelle fratture fresche e iridescente in quelle esposte all’aria) e calcopirite (o “rame gial­lo” (di colore giallo ottone, iridescente nelle superfici da tempo esposte all’aria) a cui si accompagnano calcocite, sfalerite (o blenda)(4) e, in misura assai minore, galena e tetraedrite.(5) Sotto l’aspetto giaciturale la mineralizzazione era concentrata soprat­tutto al letto del filone e si presentava per lo più sotto forma di venette nel gabbro poco o nulla al­terato e in noduli e impregnazioni diffuse nella pa­sta cloritica derivante dall’alterazione del gabbro.(6) Quanto all’effettiva presenza di tenori utili di argen­to, la questione rimane aperta. Anche se la docu­mentazione archivistica medioevale testimonia in­fatti, come vedremo, di escavazioni di argento in quest’area, le successive indagini mineralogiche rendono assai perplessi circa l’esistenza nella go­la del Pavone di depositi di solfuri argentiferi an­che di un sia pur minimo interesse, tanto che Targioni Tozzetti poneva addirittura la questione se la miniera d’argento nota nelle carte medievali non si trovasse in una zona limitrofa a quella finora men­zionata.(7) Mentre poi Savi, ad esempio, nel 1839 sosteneva di sapere che il minerale estratto con­teneva “una piccola quantità d’argento”(8), D’Achiardi, dal canto suo, escludeva che nell’area di Montecastelli si potesse trovare tale minerale(9); Jervis, poi, citando ricerche di rame eseguite pres­so Rocca Sillana, parla di un giacimento consisten­te in “…pirite di rame, associata a rame pavonazzo e ad altri solfuri metallici’’DO), mentre tutti gli studi e i saggi eseguiti in questo secolo non ac­cennano mai a questa caratteristica mineralogica, che se fosse stata presente in quantità anche re­lativamente modeste non sarebbe certo sfuggita all’attenzione dei ricercatori^ 1): tutto ciò fa pertanto legittimamente riflettere sulla reale consistenza di questi giacimenti argentiferi e, di conseguenza, sul­la possibile durata e sull’effettiva entità delle colti­vazioni minerarie qui a tal fine intraprese durante il Medioevo.

Il territorio di Montecastelli e le zone di attività mineraria

Storia delle attività minerarie

Dal punto di vista cronologico, se si considera che le mineralizzazioni a solfuri di rame, carbonati di rame e rame nativo associate alle rocce ofiolitiche ampiamente presenti nelle formazioni alloctone (ge­nericamente note come “Liguridi s.l.”) del Volter­rano si presentano con caratteristiche mineralogi­che e giaciturali tali (ampia disseminazione delle mineralizzazioni con concentrazioni locali distribuite irregolarmente nelle zone di faglia o di contatto e per lo più ben individuabili superficialmente come impregnazioni, vene, noduli o filoni quasi sempre di entità modesta o modestissima)(12) da non ri­chiedere per il loro sfruttamento (certamente con­dotto mediante scavi a cielo aperto) particolari co­noscenze di arte mineraria o complesse tecniche metallurgiche, si può ritenere per certo, anche in mancanza di specifici reperti archeologici(13) o di informazioni letterarie che attestino una icura col­tivazione etrusca, che tali depositi siano stati sfrut­tati fin da periodi antecedenti al formarsi della na­zione etrusca.(14) Date tali premesse risulta per­tanto estremamente plausibile la ricostruzione di Fiumi secondo ia quale nel periodo dell’età del ferro e dell’arcaismo etrusco l’economia volterrana più che sull’agricoltura era imperniata sulla coltivazione dei vari giacimenti minerari presenti nel territorio per mezzo di tutta una serie di piccoli insediamenti (probabilmente né ricchi né densamente popolati) situati nelle immediate vicinanze dei depositi più importanti. Tuttavia, anche se la vocazione econo­mica fondamentale di questi piccoli centri abitati era per lo più identificabile nell’attività estrattiva, è certo che essi erano completamente esclusi da quella ricchezza che caratterizzava invece i centri di lavorazione e di negoziazione del minerale.(15) In tale contesto geoeconomico, Fiumi collega i gia­cimenti cupriferi di Montecastelli alle stazioni prei­storiche, etrusche e romane di Rocca Sillana(16)
e ad ulteriore conferma di ciò cita il ritrovamento presso Montecastelli di un’ascia ad alette della prima età del ferro.(17) Fiumi ricorda poi Rocca Sillana fra le varie stazioni dell’età del ferro situate sulle colline che fiancheggiano i maggiori corsi d’acqua della Val di Cecina(18) riportando come documentazione materiale la notizia che nel cor­so di lavori per ricerche minerarie intrapresi nella zona negli anni 1935-42 (dalladitta Rag.G.Boldi & C. di Goito) furono ritrovate alcune tombe con­tenenti fibule a navicella, braccialetti di bronzo, spille ed altro materiale villanoviano che. in par­te, fu venduto a Livorno.(19) Ad ulteriore riprova dell’antichità degli insediamenti di questa zona valga infine ricordare per Montecastelli la cosid­detta “Buca delle Fate”, mentre per quanto riguar­da Rocca Sillana si segnala il recentissimo ritro­vamento in loco di frammenti di ceramica a ver­nice nera effettuato da alcuni ricercatori univer­sitari impegnati in un progetto di ricognizione ar­cheologica a vasto raggio della Val di Cecina.(20) Al di là di questi dati non si può andare, non esi­stendo per ora altro materiale documentario che permetta di descrivere meglio e meno ipotetica­mente la più antica storia mineraria di questa terra. Anzi, per trovare la prime testimonianze scritte bi­sogna far trascorrere molto tempo e giungere al­meno al XIII secolo. Infatti con la fine dell’impero romano d’Occidente, con la frammentazione ter­ritoriale e con lo sconvolgimento economico- finanziario che seguì alle invasioni barbariche, questo aspetto dell’attività economica del Volter­rano declinò decisamente e lo sfruttamento dei giacimenti minerari subì un prolungato e quasi to­tale abbandono interrotto, probabilmente, da at­tività estrattive di scarso rilievo e/o estremamen­te localizzate.

Secondo una tradizione storiografica che risale a Raffaello Maffei l’edificazione di Montecastelli sarebbe avvenuta nel 1202 ad opera del vesco­vo Ildebrando Pannocchieschi (cha già da tem­po rivendicava diritti sulla zona in forza del privi­legio concessogli da Arrigo VI nel 1186) e di tale Guasco, capostipite dei Conti Guaschi della Roc­ca.(21) Le testimonianze archivistiche disponibi­li consentono tuttavia di retrodatare ragionevol­mente la presenza dell’insediamento medioeva­le di circa un secolo; da un documento dell’Ar­ch ivio Vescovile di Volterra datato 24 aprile 1115 risulta infatti che Guido e Giovanni di Gherardo donarono al Vescovo Ruggero tutti i loro posses­si posti in “summo poio de monte castelli’’(22), ovvero in un luogo in cui la toponomastica indica chiaramente la preesistenza di un borgo fortificato. In ogni caso si può ipotizzare che la piena affer­mazione del vescovo Ildebrando su questa terra agli inizi del Duecento gli garantisse la totale “li­bertà e comodità di ricoltivare lungo il fiume Pa­vone le miniere di rame, piombo argentifero e for­se oro”(23) Il possesso vescovile su questa zo­na non fu tuttavia privo di contrasti: basti pensa­re che già dal 1204 uomini di Montecastelli giu­rarono fedeltà e promesse di aiuto al comune di Volterra(24), acerrimo rivale e principale conten­dente del vescovo per il dominio sul territorio, dan­do così inizio a una lunga serie di lotte che si fe­cero progressivamente sempre più aspre e si pro­trassero con fasi alterne per circa un secolo e mez­zo condizionado ovviamente la storia e la vita eco­nomica di questo borgo.

Quanto alle miniere di rame e di argento esse nel corso dei secoli XIII e XIV risultano attive e gesti­te dai vescovi di Volterra; anzi, proprio “…uno di essi Vescovi le dette in affitto agl’incontri di Sie­na, con patto che d’ogni dieci libbre d’argento che cavassero, gliene dovessero dare una da mettersi sotto il conio”.(25) Anche se tale citazione è pur­troppo vaga e lacunosa, è però certo che in un documento del 1285 relativo a una cessione di di­ritti sul territorio di Montecastelli al Comune di Vol­terra compaiono finalmente quelli che fino ad oggi sono i primi e precisi cenni a “…pascuis, silvis, argentifodinis” e a qualsiasi altro genere “metallorum” di questa zona.(26)

Successivamente, risulta che nel 1300 il conte Gherardo del fu Guido da Fosini dei Conti d’Elci cedette al Comune di Volterra i 5/12 della metà dei suoi beni posti in Montecastelli assieme alla giurisdizione, ai diritti e al dominio sul castello stesso e sui suoi vassalli, “…comprese le cave d’argento” (27).

Nel 1301 il Comune di Volterra tentò di acquisire il completo possesso del castello e di tutti i suoi beni proponendo al Vescovo di cedere i propri di­ritti su Montecastelli in cambio di beni posti sulle pendici del colle di Volterra. Nel maggio dello stes­so anno mori il Vescovo Ranieri dei Ricci a cui successe Ranieri Beiforti (settembre 1301). Nei pochi mesi in cui la sede fu vacante, Monteca­stelli si ribellò, dandosi al Comune volterrano.Nel settembre 1301 fu comunque raggiunto un accor­do e il Comune di Volterra acquisì legalmente di­ritti e giurisdizioni su Montecastelli, compresa la nomina del podestà e l’esercizio della giustizia, più i diritti sulle risorse minerarie della zona, men­zionate sempre genericamente nelle carte comunitative come “argenterie et aurifodinis”.(28) Più in particolare,la transazione, avvenuta in data 25 settembre 1301, riguardò la cessione dei diritti per le miniere d’argento poste sul lato di Silano.(29) Quanto alla palese genericità di queste citazioni, caratteristica del resto di tutte le testimonianze archivistiche medievali relative ai giacimenti mi­nerari del Volterrano, non si può non concordare con Fiumi, secondo cui “…più che la prova di un’attività escavatrice in atto, potrebbe ritenersi che gli strumenti riportati nelle carte alludessero a stabilire un diritto in potenza; ma è certo che nel corso dei secoli si ritrovano in quei luoghi se­gni di sfruttamento e vestigia. Ciò è specialmen­te evidente per le cave di Montecastelli...’’.(30) In ogni caso, nel corso del XIV secolo le cave ri­sultano attive, come testimonia, ad esempio, la notizia che nel 1352 il Vescovo di Volterra Filip­po Beiforti affittò a tre montierini “due cave d’ar­gento e rame o altro metallo poste nel territorio di Montecastelli sopra il fiume Pavone fra Silano e Montecastelli” a condizione che essi dessero a lui o ai suoi successori “la ventiquattresima par­te di ogni metallo scavato”.(31) Quanto ai giaci­menti situati sul lato di Rocca Sillana essi appaio­no menzionati in un documento datato 23 gen­naio 1386 e relativo alla vendita di tale castello da parte dei Petroni di Siena al Comune di Firen­ze; in esso si legge infatti che i proprietari senesi “…vendono due delle tre parti pro indiviso…con tutto il suo territorio e corte…con tutte le cave d’ar­gento, rame e qualunque metallo”.(32)

Nel Quattrocento Montecastelli finì assoggettato alla giurisdizione di Firenze e sotto tale dominio appare amministrato nel 1405, nel 1410 e nel 1427.(33) Nel maggio 1431 il piccolo centro fu con­quistato da Niccolò Piccinino e nell’ottobre dello stesso anno ritornò ai fiorentini. Dopo la comple­ta conquista fiorentina del territorio volterrano, cul­minata nel cruento e definitivo assoggettamento del capoluogo (1472), Montecastelli fu riunito al contado di Volterra sul quale, del resto, aveva sempre gravitato economicamente e geografica­mente. In tutto questo periodo l’attività mineraria fu probabilmente sporadica, superficiale o di scar­sa entità dato che non ha lasciato tracce docu­mentarie di qualche rilievo.

Anche durante il Cinquecento le informazioni re­lative alle miniere della zona sono in verità piut­tosto scarse e solo documenti appartenenti all’ul­timo ventennio del secolo servono a illuminarci, più o meno direttamente, circa l’effettiva condi­zione in cui dovevano trovarsi i giacimenti della valle del Pavone.

Ignorate da Leandro Alberti nella sua Descritto­ne del 1550 e telegraficamente menzionate dal capitano fiorentino Giovanni Rondinelli in una sua relazione conoscitiva del 1580 sul territorio vol­terrano diretta al Granduca Ferdinando I (senza il minimo accenno al fatto se esse si trovassero in attività)(35), le miniere di Montecastelli appaiono finalmente ricordate nel 1589 da Lodovico Falconcini, che descrive queste cave d’argento e rame come “feracissime di detti metalli” e ubicate “presso la riva del torrente Pavone, nella quale sono state trovate anche oggi delle piscine in cui si lavava la gleba d’argento”. Egli riporta inoltre di avere appreso che ‘ ‘per due volte vi è stato ca­vato argento e rame per molti anni continui ogni volta, da duecento anni in qua ad istanza del Ve­scovo di Volterra allora signore di quelle minie­re. Il luogo poi ov’esse si trovano appellasi Mon­tepelato o Monte deH’Oro” .(36)

Da questi pur brevi si può insomma dedurre che nel corso del Quattrocento e, soprattutto, del Cin­quecento le attività minerarie locali dovettero inar­restabilmente declinare, svolgendosi dapprima in modo saltuario o occasionale per poi cessare del tutto. A ulteriore suffragio di questa tesi basti pen­sare che nel periodo compreso fra il 1472 e gli ultimi decenni del Cinquecento l’economia e la società del Volterrano subirono profondi cambia­menti a causa della sempre più accentuata spe­cializzazione che andò progressivamente carat­terizzando l’intera economia regionale: in tale con­testo accadde così che molte attività prima fiorenti scomparvero, il commercio dei prodotti minerari della zona (soprattutto vetriolo e zolfo) venne a mancare, la scoperta dell’allume si rivelò infine illusoria e soltanto l’estrazione e la commercia­lizzazione del salgemma riuscirono a mantene­re, con singolare quanto interessante continuità, la loro tradizionale importanza.(37) Alla fine del XVI secolo si registrano però i primi segnali di una ripresa d’interesse per i giacimen­ti di Montecastelli. Da una lettera di Giovanni Ros­si, ministro delle cave, diretta al Granduca e da­tata 11 aprile 1582, si apprende infatti che era sta­to dato ordine di riaprire la miniera di Monteca­stelli entro quello stesso anno, ma che non se ne era fatto niente fino ad allora perché i lavori si era­no concentrati sulla miniera di Montecatini Val di Cecina e che, altresì, si sarebbe dato inizio alle opere necessarie appena fosse stato avviato il pro­cesso di fusione del minerale estratto da quest’ul­tima miniera.(38) In altre parole, prima di proce­dere all’apertura di un nuovo cantiere si voleva esser certi di aver avviato nella maniera più opporuna e completa lo sfruttamento della miniera che sembrava garantire i migliori risultati. In una lettera di Bernardo Giorgi, ministro economo delle miniere, datata 20 novembre 1584 si legge poi che sebbene fossero trascorsi due anni e la miniera non fosse ancora stata riattivata, essa pareva of­frire ottime prospettive, tanto che si perorava con grande entusiasmo un pronto inizio dei lavori: “…sotto braccia 11 ci trovo della miniera assai e di miglior qualità che la prima che si manda di sag­gio… e la miniera va per filoni e non a noccioli come quella di Montecatini ed io ci ho grande spe­ranza” .(39) Le ricerche proseguirono anche nel 1585 e si concentrarono per lo più nel cosiddetto Vallone di Baldo (o Vallone del Bardo), poco a Nord di Grotta Mugnaioli, dove furono rinvenuti convincenti indizi di “minerale di rame, e soven­te ancora di piriti di ferro” che dettero luogo a la­vori di escavazione.(40) Le belle speranze lasciate intravedere da Giorgi andarono però presto de­luse in quanto il rame faticosamente ottenuto da Montecatini e da Montecastelli si era dimostrato inutilizzabile per le manifatture, cosicché si richie­deva di far venire da Venezia un tal maestro Fran­cesco Neretti “…a raffinare centocinquanta mi­gliaia di quel metallo che si trovano nel castello di Firenze, e che era talmente agro che senza ri­durlo non potea farsene nulla di buono”.(41) La ripresa di interessi per le mineralizzazioni me­tallifere della zona contagiò presto anche gli abi­tanti di Montecastelli che cominciarono a intrave­dere nel ritrovamento di un ricco filone la possi­bilità di arricchirsi e di svincolarsi finalmente dal­la misera e stagnante vita economica che afflig­geva questo piccolo borgo della Maremma volter­rana. Alcuni documenti e una pianta del 1605 at­testano infatti una lite sorta fra alcuni paesani per il possesso di un nuovo filone di rame casualmen­te scoperto sulle pendici orientali del poggio di Montecastelli, ovvero nell’area digradante verso la Val di Cecina, in prossimità del Pod. la Casina(42): una vicenda che però, probabilmente, non ebbe esiti di rilievo, dato che successivamente non ha lasciato tracce documentarie di alcun genere e che la zona in oggetto non si è mostrata parti­colarmente significativa dal punto vista giacimen­tologico.

Dopo i tutto sommato insoddisfacenti tentativi me­dicei di fine Cinquecento é quindi la volta di al­cuni privati a provare ad intraprendere l’esplora­zione o la coltivazione dei siti minerari tradizio­nalmente più interessanti. Ma la tragica esperien­za di un certo Nardone, che nel 1636 perse la vi­ta nella miniera di Montecatini, segnò la fine di ogni tentativo di riattivazione nella zona per tutto il XVII secolo “…e sino al 1751 niunopensò altri­menti né a Monte Castelli né a Montecatini” .(43) Proprio in questa data sappiamo infatti che una Società di Livorno tentò di riprendere la coltiva­zione della miniera di Montecatini, ma essa eb­be vita breve e non fece che poco o nulla.(44) Quanto alle miniere di Montecastelli esse furono pressoché dimenticate per tutto il Settecento: a convalida di ciò basti il fatto che perfino Targioni Tozzetti, che quasi sempre costituisce una fonte straordinariamente acuta, preziosa e attendibile di osservazioni dirette, trascurò di visitare la zo­na nel corso delle sue ricognizioni storico­naturalistiche, ammettendo apertamente di non conoscere nemmeno il luogo preciso ove queste miniere si trovassero.(45)

Planimetria della zona mineraria di Montecastelli (F. Federici, 1941)

Per giungere ad un vero e proprio periodo di sfrut­tamento ben documentato bisogna cosi giunge­re al 1832, anno di inizio di tutta una serie di la­vori che, prolungatisi fino alla fine del secolo, han­no prodotto vestigia esterne e opere sotterranee di rilevante interesse per l’archeologia industria­le del nostro territorio oltre a rappresentare il ve­ro e proprio apogeo nella coltivazione di questi giacimenti.

Per capire come andarono le cose bisogna però fare un piccolo passo indietro e tornare al 1825, quando gli imprenditori Sebastiano Kleiber e Gia­como Luigi Le Blanc si unirono in società con l’in­traprendente Luigi Porte per assumere la gestio­ne dell’Al lumiera di Montioni. Giovandosi dei ca­pitali di Kleiber e Le Blanc, Porte stipulò nel 1827 una serie di contratti con cui acquistò i diritti di escavazione per la miniera di Montecatini e , vi­sto che gli affari andavano bene, i tre soci istitui­rono nel 1830 una società anonima che prese il nome di Società d’industria Minerale.^) Forte del successo iniziale di Montecatini, Porte si po­se il problema del trattamento metallurgico del mi­nerale da lì estratto riuscendo addirittura a farsi accordare dal Granduca una parte dello stabili­mento dell’Accesa per costruirvi una fonderia di rame e già che il bilancio della Società era in atti­vo Porte iniziò con l’acquisto di alcuni terreni in data 28 febbraio 1832 anche la coltivazione del­la miniera di rame di Montecastelli, la cui direzione tecnica fu affidata ad Augusto Schneider, già ispettore della miniera di Montecatini.(47) Le in­genti spese richieste dai complessi lavori di esplo­razione e di sfruttamento del giacimento di Mon­tecatini segnarono però il rapido declino della So­cietà che .infatti, già alla fine del 1832 entrò in crisi, costringendo Porte, in base a quanto previsto dalla convenzione costitutiva, a rinunciare a tutti i suoi diritti in favore di Kleiber e Le Blanc. Durante il 1832 furono comunque eseguiti alcuni lavori di saggio nel grosso filone di gabbro minerallizzato di Grotta Mugnaioli che consistettero in due gallerie (la più bassa delle quali ubicata a cir­ca 4 m. di altezza sul letto del Pavone) impostate a quote altimetriche diverse, l’una profonda 45 m., l’altra 50. In questi due cantieri le escavazioni pro­seguirono ininterrottamente fino a parte del 1834 con una produzione complessiva di circa 7 t. (19.486 libbre) di “buonissimo minerale” che fu ridotto in metallo alla fonderia dell’Accesa (48), gestita, come si è visto, dalla stessa Società.

Nel 1836 la morte di Kleiber incrinò l’equilibrio or­mai già compromesso della Società. Leblanc dette allora in affitto la sua metà di proprietà a tale Bech e ai due fratelli banchieri Orazio e Alfredo Hall, sciogliendo così definitivamente la Società d’in­dustria Minerale. Nel 1837 i fratelli Hall rilevaro­no tutte le vecchie quote e dettero vita a una nuova società, convenzionalmente definita Società di Monte Catini, nominando come direttore ammi­nistrativo Pietro Igino Coppi. Nel 1839 entrò in so­cietà anche Francesco Giuseppe Sloane che di­venne progressivamente il detentore della mag­giore quota azionaria e nel 1840 al gruppo dei soci si unì anche Coppi; nel 1841, infine, divenne so­cio anche il conte Demetrio Boutourline, una pre­senza determinante che fino al 1871 (anno della morte di Sloane) contribuì a dare il maggiore im­pulso ai lavori minerari sia a Montecatini che a Montecastelli. Fu infatti proprio nel periodo com­preso fra il 1841 e il 1869 che a Montecastelli si svolsero i lavori più imponenti e approfonditi di di tutta la sua storia mineraria, con opere di tale grandiosità che i loro evidenti resti (pozzi, saggi, edifici, gallerie ecc.) suscitano ancora oggi la sin­cera meraviglia di ogni visitatore.

Fra il 1841 e il 1842 venne approntata la galleria principale (la cosiddetta “galleria Isabella”) che fu impostata sul fondo del Vallone di Pietralloro, poche decine di metri a Sud di Grotta Mugnaioli, a circa 5 m. sopra la sponda destra del Pavone, con lo scopo di intercettare il filone in profondità. Al termine della galleria Isabella, ovvero a circa 120 m. dall’ingresso, intorno al 1850 fu poi sca­vato un pozzo che si spinse alla profondità di ol­tre 100 m. sotto il letto del torrente e che aveva il compito sia di esplorare completamente la par­te più profonda (il “letto”) del filone sia di servire per l’estrazione di quanto veniva scavato nei li­velli più bassi della miniera. Quest’ultima funzio­ne, in particolare, veniva svolta mediante un sa­liscendi azionato da un ruotone idraulico messo in moto dalle acque del Pavone che, imbrigliate con una diga di presa appositamente costruita cir­ca 500 m. più a Sud, venivano introdotte all’in­terno della miniera tramite un gorile adduttore per essere poi fatte defluire circa 630 m. più a valle dell’imbocco della galleria Isabella per mezzo di un’apposita galleria di scolo lunga circa 700 me­tri. (49) Sopra il pozzo erano insomma poste due macchine idrauliche a ruota : una per l’estrazio­ne del minerale e della roccia sterile, l’altra per l’esaurimento dell’acqua “per mezzo di pompe aspiranti e prementi a doppio effetto” .(50)

Nel periodo 1841-1850 i lavori si concentrarono unicamente sulla sponda destra del Pavone ot­tenendo dai numerosi filoni iniettati della zona cir­ca 121. (36.000 libbre) di ottimo minerale (per lo più bornite e calcopirite).(51) Certo è comunque che nel 1850 i filoni situati dal lato di Rocca Sillana, ‘ ‘quantunque pure essi consistenti per la mas­sima parte in bellissima Philipsite (bornite)”, ri­sultavano ancora inesplorati.(52)

In ogni caso la miniera di Montecastelli assunse un notevole importanza a livello nazionale tanto da essere costantemente annoverata fra i mag­giori depositi cupriferi dell’Italia centrale.(53) Col progredire dei lavori ci si rese conto però che due fattori avrebbero limitato drasticamente la vita e le possibilità produttive di questa miniera, ov­vero:

a) il campo di coltivazione di proprietà della So­cietà di Monte Catini che dalle ricerche condotte in profondità andava apparendo purtroppo limi­tato proprio dalla parte in cui il giacimento si sta­va mostrando più ricco(54);

b) le caratteristiche giaciturali della mineralizza­zione utile, che risultava prevalentememte disse­minata nella matrice rocciosa determinando cosi la presenza di minerale “povero” poché a basso tenore.

Per la combinazione di questi due motivi i lavori di coltivazione del filone cuprifero non si svolse­ro pertanto unicamente in sotterraneo: l’ampia di­spersione del minerale nella matrice impose in­fatti l’abbattimento a cielo aperto di notevoli quan­tità di roccia, soprattutto nell’area di Grotta Mu­gnaioli, dove il filone mostrava la maggiore po­tenza. La presenza prevalente di minerale “po­vero” unitamente all’ubicazione estremamente di­sagiata della miniera (praticamente priva di vie d’accesso idonee all’attività intrapresa), convin­sero pertanto i gerenti ad attivare sul posto un im­pianto di trattamento meccanico per l’arricchimen­to del minerale. Nel 1868 entrò così in funzione un impianto di lavaggio che però ebbe vita bre­vissima.(55) Infatti nello stesso anno, nonostan­te i soddisfacenti risultati ottenuti da tale tecnica di arricchimento, l’attività di lavaggio fu soppres­sa e nel 1869, per motivi, come vedremo, per lo più indipendenti dalle condizioni del giacimento, fu chiusa pure la miniera ed ogni lavoro abban­donato.

Proprio nei pressi dell’ingresso della galleria Isa­bella esistono tuttora i fabbricati della miniera: eb­bene. a giudicare dall’entità, dalla dimensione e dalla vastità degli stessi si possono facilmente de­durre sia l’importanza che a questa miniera fu at­tribuita dai suoi proprietari sia gli ingenti capitali che vi furono investiti nella certezza (rivelatasi poi illusoria) di lucrosi guadagni. Si tratta, più in par­ticolare, di un complesso di vari edifici (oggi com­pletamente scoperchiati e privi di porte, finestre per le successive asportazioni di travature, tego­li, macchinari ed ogni tipo di infissi) che, riuniti in un sol corpo della lunghezza di circa 75 m. e della larghezza approssimativa da 10 a 15 metri, erano in parte adibiti all’impianto di laveria e a ma­gazzini; mentre in altri locali trovavano posto le officine di riparazione, le stanze riservate agli ope­rai e gli alloggi per il personale dirigente.

Circa i motivi per i quali il 30 settembre 1869 la miniera fu abbandonata, un autore come Jervis è tassativo: per mancanza di prodotto(56); Lotti, invece, che raccolse le testimonianze dei nuovi proprietari, riporta, senza ulteriori indicazioni, che i motivi della cessazione furono indipendenti dalle effettive condizioni del giacimento.(57) E proba­bilmente aveva un buona parte di ragione. Certo è che le caratteristiche giacimentologiche gene­rali della mineralizzazione non erano delle migliori presentandosi essa, come si è detto, prevalente­mente disseminata nel gabbro in minute particelle e solo localmente concentrata in venette, picco­le lenti e noduli.(58)

NOTE BIBLIOGRAFICHE

  1. cfr. ad es. il recentissimo Inventario del patrimonio minera­rio e mineralogico in Toscana. Aspetti naturalistici e storico­archeologici. Firenze, Regione Toscana, 1991, 2 voli., con am­pia bibliografia. Dal punto di vista storiografico si veda inoltre A. MENICONI – Studi antichi e recenti sulle miniere medieva­li in Toscana: alcune considerazioni, in: “Ricerche Storiche”, a. XIV, n. 1, gennaio-caprile 1984, pp. 49-56;
  2. cfr. G. BRIZZI & R. MELI – L’antica minerà di Montecastelli e i minerali delle rocce circostanti, in: “Rivista Mineralogica Italiana”, a. XII, n. 3, luglio-settembre 1989, pp. 163-178: A. MARRUCCI – Note di storia mineraria, in: “La Comunità di Pomarance”, a. Ili, 1989, n. 4, pp. 22-24, poi comparso in ver­sione corretta, integrata e definitiva come Montecastelli, no­te di storia mineraria, in: “La Spalletta”, a. Vili, n.1, 5 gen­naio 1991, pp.23-26; U. GELLI & G. GIORGI – La miniera del Pavone a Montecastelli Pisano, in: “La Comunità di Poma­rance”, a. V, 1991, n.1, pp.22-26;
  3. cfr. G. BRIZZI & R. MELI – L’antica miniera cit., p.169:
  4. Idem, pp.170-173;
  5. F. ARISI ROTA & L. VIGHI – Le manifestazioni cuprifere nelle rocce verdi, in: La Toscana meridionale. Fondamenti geo­logico minerari per una prospettiva di valorizzazione delle ri­sorse naturali. Rend. S.I.M.P., 27 (fase, sp.), p. 368;
  6. Ibidem
  7. G. TARGIONI TOZZETTI – Relazioni d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana. Firenze, 2.ed., Stamperia Gran­ducale di G.Cambiagi, 1768-1779, 1. VII, p. 392;
  8. P. SAVI – uelle rocce ofiolitiche e delle masse metalliche in esse contenute, in: Id. – Memorie per servire allo studio della costituzione fisica della Toscana. Pisa, F.lli Nistri, 1839, p. 80;
  9. A. D’ACHIARDI • Mineralogia della Toscana. Pisa, 1872-73, t. Il, pp. 299 e 375;
  10. G. JERVIS –I tesori sotterranei d’Italia. Torino, Loescher, 1874, t.ll, p.423; un accenno alla presenza di argento e addi­rittura di oro nella gola del Pavone si trova inoltre in G.VOL­PE – Montieri: costituzione politica, struttura sociale, attività economica d’una terra toscana nel secolo XIII, in: “Marem­ma”, a. I, 1924; fase. I, p. 29;
  11. cfr. ad es. l’esauriente indagine mineralogica di G. BRIZ­ZI & R. MELI, cit., in cui non compare mai menzione della ga­lena e dove la sfalerite è segnalata come “non molto frequen­te” (pp. 170-173);
  12. F. ARISI ROTA & L. VIGHI – Le manifestazioni cit., p. 362;
  13. Finora nel Volterrano non è mai stato rinvenuto niente di simile alla subbia di rame, di epoca probabilmente etrusca, ritrovata nel secolo scorso in un’antica galleria di ricerca mi­neraria nei pressi di Gerfalco (cfr. T. HAUPT – Rendimento di conto del mio servizio in Italia. Firenze, Le Monnier, 1889. P 118);
  14. cfr. G. TANELLI –1 depositi metalliferi dell’Etruria e le atti­vità estrattive degli Etruschi, in: Secondo Congresso Nazio­nale Etrusco. Atti. Roma, G. Bretschneider. 1989, voi. Ili, p. 1413;
  15. cfr. E. FIUMI – La facies arcaica del territorio volterrano, in: “Studi Etruschi”, a. XXIX, 1961, p. 283 nota 83;
  16. idem, p.283;
  17. idem, p.283 nota 80;
  18. idem, pp.259-262;
  19. idem, p.262 nota 25;
  20. Comunicazione personale del Doti.Andrea Augenti:
  21. cfr. R. MAFFEI – Storia volterrana, pubblicata per cura di A. Cinci. Volterra, Tip. Sborgi, 1887, p. 96;
  22. cfr. Biblioteca Guarnacci Volterra (B.G.V.), ms. 11347, Per­gamene dell’Archivio Vescovile trascritte da G. Mariani, sca­tola 1, doc. 225, e M. CAVALLINI – Montecastelli, in: “Il Co­razziere”, a. LI, n. 43, 23 ottobre 1932, p. 2;
  23. M. BOCCI – Montecastelli Valdicecina, in: “L’Araldo”, a. XLII, n. 25, 25 giugno 1972, p. 4;
  24. F. SCHNEIDER – Regestum Volaterranum. Roma, Loe­scher, 1907, p. 91, n. 263;
  25. G. TARGIONI TOZZETTI – Relazioni cit., p. 392;
  26. Archivio Storico Comunale Volterra (A.S.C.V.), filza S ne­ra 1, c. 125r.; il documento reca la data 18 marzo 1285:
  27. E. REPETTI – Dizionario geografico fisico storico della To­scana. Firenze, per l’autore e editore, 1833-43, t. Ili, p. 341:
  28. cfr. A.S.C.V., filza S nera 1, c. 127r.; il documento reca la data 19 settembre 1301;
  29. cfr. M. CAVALLINI, cit., p. 2;
  30. E. FIUMI – L’utilizzazione dei lagoni boraciferi della To­scana nell’industria medievale. Firenze. Dott.Carlo Cya, 1943. p.71;
  31. M. CAVALLINI – Notizie e spogli d’archivio, in: ‘Rasse­gna Volterrana”, a. I, 1924, fase. Il, p. 84;
  32. Archivio di Stato di Firenze (A.S.F.), Capitoli del Comune, registro 5, cc. 179 V.-180 r.;
  33. cfr. P FABBRI – Montecastelli: un comune medioevale del­la maremma volterrana, in: “Volterra”,36) L. FALCONCINI – Storia dell’antichissima città di Volterra. Volterra, Sborgi, 1876, pp. 583-585. Il toponimo “Monte dell’Oro” è tuttora presente nella denominazione locale del profondo e scosceso canalo­ne che sovrasta l’antica miniera di Montecastelli, detto, ap­punto, “Vallone (o Borro) di Pietralloro”;
  34. cfr. A.K. ISAACS – Volterra nel Cinquecento: alcune pro­spettive di ricerca, in: “Bollettino Storico Pisano”, a. LVIII, 1989, pp. 189-205;
  35. cfr. C. RIDOLFI – D’alcune miniere della Maremma. Cen­ni storico-economici per servire all’eccitamento dell’industria che si occupa di trarne profitto, in: “Giornale agrario tosca­no”, n. 24, 1832, t. VI, p. 495:
  36. Ibidem;
  37. P. SAVI – Delle rocce ofiolitiche cit., p. 78;
  38. C. RIDOLFI – D’alcune minere cit., p. 495;
  39. B.G.V., Archivio Maffei, filza 57; sull’intera vicenda si ve­da A. MARRUCCI – Montecastelli: note cit., in cui oltre ai do­cumenti è riprodotta anche la planimetria citata con l’ubica­zione di alcune cave e filoni della zona: si tratta finora della prima indicazione della presenza di minerali di rame sul ver­sante orientale del colle di Montecastelli;
  40. C. RIDOLFI, cit., p.495. In merito alle condizioni dell’atti­vità mineraria nelle Colline Metallifere durante il Seicento si veda anche: A. MARRUCCI – Panorama minerario del territo­rio volterrano alla metà del XVII secolo, in: “La Comunità di Pomarance”, a. IV. 1990, n. 3. pp. 22-26;
  41. cfr. A. RIPARBELLI – Storia di Montecatini Val di Cecina e delle sue miniere. Firenze. Tip. Giuntina, 1980, p. 81;
  42. Idem. t. VII, p. 392;
  43. A. RIPARBELLI – Luigi Porte e la “sua” Maremma nel pri­mo Ottocento (1779-1843), in: “Boll. Soc. St. Maremmana”, a. XXVIII, 1987, n. 51, fase. sp. “I Lorena e la Maremma”, p.156;
  44. Idem, p.157;
  45. P. SAVI, Delle rocce ofiolitiche cit., p.80;
  46. cfr. B. LOTTI – Sul giacimento cuprifero di Montecastelli in provincia di Pisa, in: “Boll. R. Com. Geol. It.”, a. XVI, 1885, fase 3/4, pp. 83-84;
  47. G. JERVIS – I tesori cit., t.ll, p.423;
  48. cfr. P SAVI – Rapporto sui prodotti del regno inorganico: minerali metallici, in: Rapporto della Pubblica Esposizione dei prodotti naturali e industriali della Toscana fatta in Firenze nel novembre 1850. Firenze. Tip. della Casa di Correzione, 1851, p. 50;
  49. Ibidem;
  50. cfr. C. PERAZZI – Intorno ai giacimenti cupriferi contenuti nei monti serpentinosi dell’Italia Centrale. Torino, Stamperia Reale, 1864, pp. 20-21;
  51. Idem, p.21;
  52. cfr. B. LOTTI – Sul giacimento cit.. p. 84;
  53. G. JERVIS, cit., t. Il, p. 423:
  54. cfr. B. LOTTI, cit., p. 84;

si veda B. LOTTI – Geologia della Toscana Mem. Descr. CartaGeol. d’It., XII, 1910, p. 257 e L. GERBELLA -Il proble­ma del rame in Italia, in: “L’ingegnere”, n. 4, 15 aprile 1940. p. 287

(CONTINUA)

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

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