A CURA DI ANGELO MARRUCCI (I PARTE)
Negli ultimi anni si è assistito da parte della storiografia italiana a un vero e prorio risveglio d’interesse per gli aspetti storici e archologici legati allo sfruttamento delle risorse minerarie, con tutta una serie di saggi, di studi e di articoli tesi a indagare e ad illustrare le molteplici forme culturali, tecniche ed economiche in cui si è sviluppato il millenario rapporto fra comunità umane, minerali e metallurgia. In questo panorama è ovvio che per quanto riguarda l’Italia una delle regioni privilegiate per questo genere di studi non poteva essere che la Toscana(1), e, più in particolare, l’area delle Colline Metallifere dove lo sfruttamento dei numerosi depositi minerari di questa terra vanta origini e tradizioni estremamente remote.
Il territorio di Montecastelli è noto fin dall’antichità per le mineralizzazioni di rame e di argento esistenti nella valle del Pavone: la costituzione geologica di quest’area, le tracce di ripetute attività minerarie che vi si rinvengono, la documentazione storico-archivistica al riguardo e, non ultima, la grande estensione dei lavori sotterranei intrapresi a vari livelli nella stretta e profonda gola situata fra Montecastelli e Rocca Sillana, testimoniano senza alcun dubbio il non indifferente ruolo svolto da questa ristretta zona nella storia mineraria della Val di Cecina e giustificano in pieno il profondo interesse multidisciplinare che essa suscita ancora fra ricercatori ed appassionati di discipline storiche e naturalistiche.(2) Ciò nonostante, la storia di queste miniere presenta generalizzazioni, lati oscuri e inesattezze tali da richiedere una sua revisione completa e qualche indispensabile (e, si auspica, definitivo) chiarimento.
La zona di Rocca Sillana-Montecastelli-Cerbaiola è costituita quasi esclusivamente da una grande cupola di rocce ofiolitiche (serpentiniti, gabbro diabase) della lunghezza di 5 km. a cui si accompagnano, marginalmente e con piccola estensione, ridotti lembi di marne e calcari eocenici.
Il T.Pavone, nel suo corso da Sud verso Nord, ha inciso molto profondamente questo possente ammasso di “rocce verdi” dando così origine alla stretta, impervia e suggestiva gola che separa il rilievo di Rocca Sillana da quello di Montecastelli e in cui fin dall’antichità si sono concentrate tutte le ricerche e le attività connesse allo sfruttamento delle mineralizzazioni a solfuri metallici ivi esistenti. Mentre sulla sinistra idrografica del Pavone, ossia nella porzione occidentale della gola, compaiono- quasi esclusivamente le serpentiniti (per lo più nella facies di serpentina dialagica, di colore verde cupo e con spessori di grande potenza, tanto da costituire, ad esempio, l’intero rilievo su cui è edificata la Rocca Sillana), sulla pendice opposta, incluso nelle serpentiniti, si trova un filone di gabbro di colore da verde chiaro a grigio verdastro, con struttura massiva e a grana grossa (gabbro eufotide) che, individuabile già poco a Nord di Montecastelli, attraversa il Vallone di Pietralloro per poi dirigersi direttamente verso la Grotta Mugnaioli dove raggiunge il massimo spessore (circa 45 metri) e da cui dopo aver tagliato trasversalmente il corso del Pavone, risale il pendìo di Rocca Sillana facendo perdere infine le sue tracce.(3) Questo filone è molto importante in quanto proprio esso è sede della mineralizzazione metallifera e pertanto prorio su di esso si sono sempre concentrate nel corso dei secoli l’attenzione dei ricercatori e le ripetute esperienze di coltivazione mineraria. Tale filone, che nell’area della gola del Pavone presenta uno sviluppo di oltre 700 m. verso Est, appare riconoscibile rispetto alle serpentine incassanti in quanto parzialmente alterato in steatite e quindi caratterizzato da una colorazione bianco-verdastra e coperto talora da una patina talcosa bianca. Quanto alle mineralizzazioni metallifere che vi si trovano incluse si tratta per lo più di bornitee (o erubescite o “rame paonazzo’’, di colore bronzeo passante al rosso rame nelle fratture fresche e iridescente in quelle esposte all’aria) e calcopirite (o “rame giallo” (di colore giallo ottone, iridescente nelle superfici da tempo esposte all’aria) a cui si accompagnano calcocite, sfalerite (o blenda)(4) e, in misura assai minore, galena e tetraedrite.(5) Sotto l’aspetto giaciturale la mineralizzazione era concentrata soprattutto al letto del filone e si presentava per lo più sotto forma di venette nel gabbro poco o nulla alterato e in noduli e impregnazioni diffuse nella pasta cloritica derivante dall’alterazione del gabbro.(6) Quanto all’effettiva presenza di tenori utili di argento, la questione rimane aperta. Anche se la documentazione archivistica medioevale testimonia infatti, come vedremo, di escavazioni di argento in quest’area, le successive indagini mineralogiche rendono assai perplessi circa l’esistenza nella gola del Pavone di depositi di solfuri argentiferi anche di un sia pur minimo interesse, tanto che Targioni Tozzetti poneva addirittura la questione se la miniera d’argento nota nelle carte medievali non si trovasse in una zona limitrofa a quella finora menzionata.(7) Mentre poi Savi, ad esempio, nel 1839 sosteneva di sapere che il minerale estratto conteneva “una piccola quantità d’argento”(8), D’Achiardi, dal canto suo, escludeva che nell’area di Montecastelli si potesse trovare tale minerale(9); Jervis, poi, citando ricerche di rame eseguite presso Rocca Sillana, parla di un giacimento consistente in “…pirite di rame, associata a rame pavonazzo e ad altri solfuri metallici’’DO), mentre tutti gli studi e i saggi eseguiti in questo secolo non accennano mai a questa caratteristica mineralogica, che se fosse stata presente in quantità anche relativamente modeste non sarebbe certo sfuggita all’attenzione dei ricercatori^ 1): tutto ciò fa pertanto legittimamente riflettere sulla reale consistenza di questi giacimenti argentiferi e, di conseguenza, sulla possibile durata e sull’effettiva entità delle coltivazioni minerarie qui a tal fine intraprese durante il Medioevo.
Storia delle attività minerarie
Dal punto di vista cronologico, se si considera che le mineralizzazioni a solfuri di rame, carbonati di rame e rame nativo associate alle rocce ofiolitiche ampiamente presenti nelle formazioni alloctone (genericamente note come “Liguridi s.l.”) del Volterrano si presentano con caratteristiche mineralogiche e giaciturali tali (ampia disseminazione delle mineralizzazioni con concentrazioni locali distribuite irregolarmente nelle zone di faglia o di contatto e per lo più ben individuabili superficialmente come impregnazioni, vene, noduli o filoni quasi sempre di entità modesta o modestissima)(12) da non richiedere per il loro sfruttamento (certamente condotto mediante scavi a cielo aperto) particolari conoscenze di arte mineraria o complesse tecniche metallurgiche, si può ritenere per certo, anche in mancanza di specifici reperti archeologici(13) o di informazioni letterarie che attestino una icura coltivazione etrusca, che tali depositi siano stati sfruttati fin da periodi antecedenti al formarsi della nazione etrusca.(14) Date tali premesse risulta pertanto estremamente plausibile la ricostruzione di Fiumi secondo ia quale nel periodo dell’età del ferro e dell’arcaismo etrusco l’economia volterrana più che sull’agricoltura era imperniata sulla coltivazione dei vari giacimenti minerari presenti nel territorio per mezzo di tutta una serie di piccoli insediamenti (probabilmente né ricchi né densamente popolati) situati nelle immediate vicinanze dei depositi più importanti. Tuttavia, anche se la vocazione economica fondamentale di questi piccoli centri abitati era per lo più identificabile nell’attività estrattiva, è certo che essi erano completamente esclusi da quella ricchezza che caratterizzava invece i centri di lavorazione e di negoziazione del minerale.(15) In tale contesto geoeconomico, Fiumi collega i giacimenti cupriferi di Montecastelli alle stazioni preistoriche, etrusche e romane di Rocca Sillana(16)
e ad ulteriore conferma di ciò cita il ritrovamento presso Montecastelli di un’ascia ad alette della prima età del ferro.(17) Fiumi ricorda poi Rocca Sillana fra le varie stazioni dell’età del ferro situate sulle colline che fiancheggiano i maggiori corsi d’acqua della Val di Cecina(18) riportando come documentazione materiale la notizia che nel corso di lavori per ricerche minerarie intrapresi nella zona negli anni 1935-42 (dalladitta Rag.G.Boldi & C. di Goito) furono ritrovate alcune tombe contenenti fibule a navicella, braccialetti di bronzo, spille ed altro materiale villanoviano che. in parte, fu venduto a Livorno.(19) Ad ulteriore riprova dell’antichità degli insediamenti di questa zona valga infine ricordare per Montecastelli la cosiddetta “Buca delle Fate”, mentre per quanto riguarda Rocca Sillana si segnala il recentissimo ritrovamento in loco di frammenti di ceramica a vernice nera effettuato da alcuni ricercatori universitari impegnati in un progetto di ricognizione archeologica a vasto raggio della Val di Cecina.(20) Al di là di questi dati non si può andare, non esistendo per ora altro materiale documentario che permetta di descrivere meglio e meno ipoteticamente la più antica storia mineraria di questa terra. Anzi, per trovare la prime testimonianze scritte bisogna far trascorrere molto tempo e giungere almeno al XIII secolo. Infatti con la fine dell’impero romano d’Occidente, con la frammentazione territoriale e con lo sconvolgimento economico- finanziario che seguì alle invasioni barbariche, questo aspetto dell’attività economica del Volterrano declinò decisamente e lo sfruttamento dei giacimenti minerari subì un prolungato e quasi totale abbandono interrotto, probabilmente, da attività estrattive di scarso rilievo e/o estremamente localizzate.
Secondo una tradizione storiografica che risale a Raffaello Maffei l’edificazione di Montecastelli sarebbe avvenuta nel 1202 ad opera del vescovo Ildebrando Pannocchieschi (cha già da tempo rivendicava diritti sulla zona in forza del privilegio concessogli da Arrigo VI nel 1186) e di tale Guasco, capostipite dei Conti Guaschi della Rocca.(21) Le testimonianze archivistiche disponibili consentono tuttavia di retrodatare ragionevolmente la presenza dell’insediamento medioevale di circa un secolo; da un documento dell’Arch ivio Vescovile di Volterra datato 24 aprile 1115 risulta infatti che Guido e Giovanni di Gherardo donarono al Vescovo Ruggero tutti i loro possessi posti in “summo poio de monte castelli’’(22), ovvero in un luogo in cui la toponomastica indica chiaramente la preesistenza di un borgo fortificato. In ogni caso si può ipotizzare che la piena affermazione del vescovo Ildebrando su questa terra agli inizi del Duecento gli garantisse la totale “libertà e comodità di ricoltivare lungo il fiume Pavone le miniere di rame, piombo argentifero e forse oro”(23) Il possesso vescovile su questa zona non fu tuttavia privo di contrasti: basti pensare che già dal 1204 uomini di Montecastelli giurarono fedeltà e promesse di aiuto al comune di Volterra(24), acerrimo rivale e principale contendente del vescovo per il dominio sul territorio, dando così inizio a una lunga serie di lotte che si fecero progressivamente sempre più aspre e si protrassero con fasi alterne per circa un secolo e mezzo condizionado ovviamente la storia e la vita economica di questo borgo.
Quanto alle miniere di rame e di argento esse nel corso dei secoli XIII e XIV risultano attive e gestite dai vescovi di Volterra; anzi, proprio “…uno di essi Vescovi le dette in affitto agl’incontri di Siena, con patto che d’ogni dieci libbre d’argento che cavassero, gliene dovessero dare una da mettersi sotto il conio”.(25) Anche se tale citazione è purtroppo vaga e lacunosa, è però certo che in un documento del 1285 relativo a una cessione di diritti sul territorio di Montecastelli al Comune di Volterra compaiono finalmente quelli che fino ad oggi sono i primi e precisi cenni a “…pascuis, silvis, argentifodinis” e a qualsiasi altro genere “metallorum” di questa zona.(26)
Successivamente, risulta che nel 1300 il conte Gherardo del fu Guido da Fosini dei Conti d’Elci cedette al Comune di Volterra i 5/12 della metà dei suoi beni posti in Montecastelli assieme alla giurisdizione, ai diritti e al dominio sul castello stesso e sui suoi vassalli, “…comprese le cave d’argento” (27).
Nel 1301 il Comune di Volterra tentò di acquisire il completo possesso del castello e di tutti i suoi beni proponendo al Vescovo di cedere i propri diritti su Montecastelli in cambio di beni posti sulle pendici del colle di Volterra. Nel maggio dello stesso anno mori il Vescovo Ranieri dei Ricci a cui successe Ranieri Beiforti (settembre 1301). Nei pochi mesi in cui la sede fu vacante, Montecastelli si ribellò, dandosi al Comune volterrano.Nel settembre 1301 fu comunque raggiunto un accordo e il Comune di Volterra acquisì legalmente diritti e giurisdizioni su Montecastelli, compresa la nomina del podestà e l’esercizio della giustizia, più i diritti sulle risorse minerarie della zona, menzionate sempre genericamente nelle carte comunitative come “argenterie et aurifodinis”.(28) Più in particolare,la transazione, avvenuta in data 25 settembre 1301, riguardò la cessione dei diritti per le miniere d’argento poste sul lato di Silano.(29) Quanto alla palese genericità di queste citazioni, caratteristica del resto di tutte le testimonianze archivistiche medievali relative ai giacimenti minerari del Volterrano, non si può non concordare con Fiumi, secondo cui “…più che la prova di un’attività escavatrice in atto, potrebbe ritenersi che gli strumenti riportati nelle carte alludessero a stabilire un diritto in potenza; ma è certo che nel corso dei secoli si ritrovano in quei luoghi segni di sfruttamento e vestigia. Ciò è specialmente evidente per le cave di Montecastelli...’’.(30) In ogni caso, nel corso del XIV secolo le cave risultano attive, come testimonia, ad esempio, la notizia che nel 1352 il Vescovo di Volterra Filippo Beiforti affittò a tre montierini “due cave d’argento e rame o altro metallo poste nel territorio di Montecastelli sopra il fiume Pavone fra Silano e Montecastelli” a condizione che essi dessero a lui o ai suoi successori “la ventiquattresima parte di ogni metallo scavato”.(31) Quanto ai giacimenti situati sul lato di Rocca Sillana essi appaiono menzionati in un documento datato 23 gennaio 1386 e relativo alla vendita di tale castello da parte dei Petroni di Siena al Comune di Firenze; in esso si legge infatti che i proprietari senesi “…vendono due delle tre parti pro indiviso…con tutto il suo territorio e corte…con tutte le cave d’argento, rame e qualunque metallo”.(32)
Nel Quattrocento Montecastelli finì assoggettato alla giurisdizione di Firenze e sotto tale dominio appare amministrato nel 1405, nel 1410 e nel 1427.(33) Nel maggio 1431 il piccolo centro fu conquistato da Niccolò Piccinino e nell’ottobre dello stesso anno ritornò ai fiorentini. Dopo la completa conquista fiorentina del territorio volterrano, culminata nel cruento e definitivo assoggettamento del capoluogo (1472), Montecastelli fu riunito al contado di Volterra sul quale, del resto, aveva sempre gravitato economicamente e geograficamente. In tutto questo periodo l’attività mineraria fu probabilmente sporadica, superficiale o di scarsa entità dato che non ha lasciato tracce documentarie di qualche rilievo.
Anche durante il Cinquecento le informazioni relative alle miniere della zona sono in verità piuttosto scarse e solo documenti appartenenti all’ultimo ventennio del secolo servono a illuminarci, più o meno direttamente, circa l’effettiva condizione in cui dovevano trovarsi i giacimenti della valle del Pavone.
Ignorate da Leandro Alberti nella sua Descrittone del 1550 e telegraficamente menzionate dal capitano fiorentino Giovanni Rondinelli in una sua relazione conoscitiva del 1580 sul territorio volterrano diretta al Granduca Ferdinando I (senza il minimo accenno al fatto se esse si trovassero in attività)(35), le miniere di Montecastelli appaiono finalmente ricordate nel 1589 da Lodovico Falconcini, che descrive queste cave d’argento e rame come “feracissime di detti metalli” e ubicate “presso la riva del torrente Pavone, nella quale sono state trovate anche oggi delle piscine in cui si lavava la gleba d’argento”. Egli riporta inoltre di avere appreso che ‘ ‘per due volte vi è stato cavato argento e rame per molti anni continui ogni volta, da duecento anni in qua ad istanza del Vescovo di Volterra allora signore di quelle miniere. Il luogo poi ov’esse si trovano appellasi Montepelato o Monte deH’Oro” .(36)
Da questi pur brevi si può insomma dedurre che nel corso del Quattrocento e, soprattutto, del Cinquecento le attività minerarie locali dovettero inarrestabilmente declinare, svolgendosi dapprima in modo saltuario o occasionale per poi cessare del tutto. A ulteriore suffragio di questa tesi basti pensare che nel periodo compreso fra il 1472 e gli ultimi decenni del Cinquecento l’economia e la società del Volterrano subirono profondi cambiamenti a causa della sempre più accentuata specializzazione che andò progressivamente caratterizzando l’intera economia regionale: in tale contesto accadde così che molte attività prima fiorenti scomparvero, il commercio dei prodotti minerari della zona (soprattutto vetriolo e zolfo) venne a mancare, la scoperta dell’allume si rivelò infine illusoria e soltanto l’estrazione e la commercializzazione del salgemma riuscirono a mantenere, con singolare quanto interessante continuità, la loro tradizionale importanza.(37) Alla fine del XVI secolo si registrano però i primi segnali di una ripresa d’interesse per i giacimenti di Montecastelli. Da una lettera di Giovanni Rossi, ministro delle cave, diretta al Granduca e datata 11 aprile 1582, si apprende infatti che era stato dato ordine di riaprire la miniera di Montecastelli entro quello stesso anno, ma che non se ne era fatto niente fino ad allora perché i lavori si erano concentrati sulla miniera di Montecatini Val di Cecina e che, altresì, si sarebbe dato inizio alle opere necessarie appena fosse stato avviato il processo di fusione del minerale estratto da quest’ultima miniera.(38) In altre parole, prima di procedere all’apertura di un nuovo cantiere si voleva esser certi di aver avviato nella maniera più opporuna e completa lo sfruttamento della miniera che sembrava garantire i migliori risultati. In una lettera di Bernardo Giorgi, ministro economo delle miniere, datata 20 novembre 1584 si legge poi che sebbene fossero trascorsi due anni e la miniera non fosse ancora stata riattivata, essa pareva offrire ottime prospettive, tanto che si perorava con grande entusiasmo un pronto inizio dei lavori: “…sotto braccia 11 ci trovo della miniera assai e di miglior qualità che la prima che si manda di saggio… e la miniera va per filoni e non a noccioli come quella di Montecatini ed io ci ho grande speranza” .(39) Le ricerche proseguirono anche nel 1585 e si concentrarono per lo più nel cosiddetto Vallone di Baldo (o Vallone del Bardo), poco a Nord di Grotta Mugnaioli, dove furono rinvenuti convincenti indizi di “minerale di rame, e sovente ancora di piriti di ferro” che dettero luogo a lavori di escavazione.(40) Le belle speranze lasciate intravedere da Giorgi andarono però presto deluse in quanto il rame faticosamente ottenuto da Montecatini e da Montecastelli si era dimostrato inutilizzabile per le manifatture, cosicché si richiedeva di far venire da Venezia un tal maestro Francesco Neretti “…a raffinare centocinquanta migliaia di quel metallo che si trovano nel castello di Firenze, e che era talmente agro che senza ridurlo non potea farsene nulla di buono”.(41) La ripresa di interessi per le mineralizzazioni metallifere della zona contagiò presto anche gli abitanti di Montecastelli che cominciarono a intravedere nel ritrovamento di un ricco filone la possibilità di arricchirsi e di svincolarsi finalmente dalla misera e stagnante vita economica che affliggeva questo piccolo borgo della Maremma volterrana. Alcuni documenti e una pianta del 1605 attestano infatti una lite sorta fra alcuni paesani per il possesso di un nuovo filone di rame casualmente scoperto sulle pendici orientali del poggio di Montecastelli, ovvero nell’area digradante verso la Val di Cecina, in prossimità del Pod. la Casina(42): una vicenda che però, probabilmente, non ebbe esiti di rilievo, dato che successivamente non ha lasciato tracce documentarie di alcun genere e che la zona in oggetto non si è mostrata particolarmente significativa dal punto vista giacimentologico.
Dopo i tutto sommato insoddisfacenti tentativi medicei di fine Cinquecento é quindi la volta di alcuni privati a provare ad intraprendere l’esplorazione o la coltivazione dei siti minerari tradizionalmente più interessanti. Ma la tragica esperienza di un certo Nardone, che nel 1636 perse la vita nella miniera di Montecatini, segnò la fine di ogni tentativo di riattivazione nella zona per tutto il XVII secolo “…e sino al 1751 niunopensò altrimenti né a Monte Castelli né a Montecatini” .(43) Proprio in questa data sappiamo infatti che una Società di Livorno tentò di riprendere la coltivazione della miniera di Montecatini, ma essa ebbe vita breve e non fece che poco o nulla.(44) Quanto alle miniere di Montecastelli esse furono pressoché dimenticate per tutto il Settecento: a convalida di ciò basti il fatto che perfino Targioni Tozzetti, che quasi sempre costituisce una fonte straordinariamente acuta, preziosa e attendibile di osservazioni dirette, trascurò di visitare la zona nel corso delle sue ricognizioni storiconaturalistiche, ammettendo apertamente di non conoscere nemmeno il luogo preciso ove queste miniere si trovassero.(45)
Per giungere ad un vero e proprio periodo di sfruttamento ben documentato bisogna cosi giungere al 1832, anno di inizio di tutta una serie di lavori che, prolungatisi fino alla fine del secolo, hanno prodotto vestigia esterne e opere sotterranee di rilevante interesse per l’archeologia industriale del nostro territorio oltre a rappresentare il vero e proprio apogeo nella coltivazione di questi giacimenti.
Per capire come andarono le cose bisogna però fare un piccolo passo indietro e tornare al 1825, quando gli imprenditori Sebastiano Kleiber e Giacomo Luigi Le Blanc si unirono in società con l’intraprendente Luigi Porte per assumere la gestione dell’Al lumiera di Montioni. Giovandosi dei capitali di Kleiber e Le Blanc, Porte stipulò nel 1827 una serie di contratti con cui acquistò i diritti di escavazione per la miniera di Montecatini e , visto che gli affari andavano bene, i tre soci istituirono nel 1830 una società anonima che prese il nome di Società d’industria Minerale.^) Forte del successo iniziale di Montecatini, Porte si pose il problema del trattamento metallurgico del minerale da lì estratto riuscendo addirittura a farsi accordare dal Granduca una parte dello stabilimento dell’Accesa per costruirvi una fonderia di rame e già che il bilancio della Società era in attivo Porte iniziò con l’acquisto di alcuni terreni in data 28 febbraio 1832 anche la coltivazione della miniera di rame di Montecastelli, la cui direzione tecnica fu affidata ad Augusto Schneider, già ispettore della miniera di Montecatini.(47) Le ingenti spese richieste dai complessi lavori di esplorazione e di sfruttamento del giacimento di Montecatini segnarono però il rapido declino della Società che .infatti, già alla fine del 1832 entrò in crisi, costringendo Porte, in base a quanto previsto dalla convenzione costitutiva, a rinunciare a tutti i suoi diritti in favore di Kleiber e Le Blanc. Durante il 1832 furono comunque eseguiti alcuni lavori di saggio nel grosso filone di gabbro minerallizzato di Grotta Mugnaioli che consistettero in due gallerie (la più bassa delle quali ubicata a circa 4 m. di altezza sul letto del Pavone) impostate a quote altimetriche diverse, l’una profonda 45 m., l’altra 50. In questi due cantieri le escavazioni proseguirono ininterrottamente fino a parte del 1834 con una produzione complessiva di circa 7 t. (19.486 libbre) di “buonissimo minerale” che fu ridotto in metallo alla fonderia dell’Accesa (48), gestita, come si è visto, dalla stessa Società.
Nel 1836 la morte di Kleiber incrinò l’equilibrio ormai già compromesso della Società. Leblanc dette allora in affitto la sua metà di proprietà a tale Bech e ai due fratelli banchieri Orazio e Alfredo Hall, sciogliendo così definitivamente la Società d’industria Minerale. Nel 1837 i fratelli Hall rilevarono tutte le vecchie quote e dettero vita a una nuova società, convenzionalmente definita Società di Monte Catini, nominando come direttore amministrativo Pietro Igino Coppi. Nel 1839 entrò in società anche Francesco Giuseppe Sloane che divenne progressivamente il detentore della maggiore quota azionaria e nel 1840 al gruppo dei soci si unì anche Coppi; nel 1841, infine, divenne socio anche il conte Demetrio Boutourline, una presenza determinante che fino al 1871 (anno della morte di Sloane) contribuì a dare il maggiore impulso ai lavori minerari sia a Montecatini che a Montecastelli. Fu infatti proprio nel periodo compreso fra il 1841 e il 1869 che a Montecastelli si svolsero i lavori più imponenti e approfonditi di di tutta la sua storia mineraria, con opere di tale grandiosità che i loro evidenti resti (pozzi, saggi, edifici, gallerie ecc.) suscitano ancora oggi la sincera meraviglia di ogni visitatore.
Fra il 1841 e il 1842 venne approntata la galleria principale (la cosiddetta “galleria Isabella”) che fu impostata sul fondo del Vallone di Pietralloro, poche decine di metri a Sud di Grotta Mugnaioli, a circa 5 m. sopra la sponda destra del Pavone, con lo scopo di intercettare il filone in profondità. Al termine della galleria Isabella, ovvero a circa 120 m. dall’ingresso, intorno al 1850 fu poi scavato un pozzo che si spinse alla profondità di oltre 100 m. sotto il letto del torrente e che aveva il compito sia di esplorare completamente la parte più profonda (il “letto”) del filone sia di servire per l’estrazione di quanto veniva scavato nei livelli più bassi della miniera. Quest’ultima funzione, in particolare, veniva svolta mediante un saliscendi azionato da un ruotone idraulico messo in moto dalle acque del Pavone che, imbrigliate con una diga di presa appositamente costruita circa 500 m. più a Sud, venivano introdotte all’interno della miniera tramite un gorile adduttore per essere poi fatte defluire circa 630 m. più a valle dell’imbocco della galleria Isabella per mezzo di un’apposita galleria di scolo lunga circa 700 metri. (49) Sopra il pozzo erano insomma poste due macchine idrauliche a ruota : una per l’estrazione del minerale e della roccia sterile, l’altra per l’esaurimento dell’acqua “per mezzo di pompe aspiranti e prementi a doppio effetto” .(50)
Nel periodo 1841-1850 i lavori si concentrarono unicamente sulla sponda destra del Pavone ottenendo dai numerosi filoni iniettati della zona circa 121. (36.000 libbre) di ottimo minerale (per lo più bornite e calcopirite).(51) Certo è comunque che nel 1850 i filoni situati dal lato di Rocca Sillana, ‘ ‘quantunque pure essi consistenti per la massima parte in bellissima Philipsite (bornite)”, risultavano ancora inesplorati.(52)
In ogni caso la miniera di Montecastelli assunse un notevole importanza a livello nazionale tanto da essere costantemente annoverata fra i maggiori depositi cupriferi dell’Italia centrale.(53) Col progredire dei lavori ci si rese conto però che due fattori avrebbero limitato drasticamente la vita e le possibilità produttive di questa miniera, ovvero:
a) il campo di coltivazione di proprietà della Società di Monte Catini che dalle ricerche condotte in profondità andava apparendo purtroppo limitato proprio dalla parte in cui il giacimento si stava mostrando più ricco(54);
b) le caratteristiche giaciturali della mineralizzazione utile, che risultava prevalentememte disseminata nella matrice rocciosa determinando cosi la presenza di minerale “povero” poché a basso tenore.
Per la combinazione di questi due motivi i lavori di coltivazione del filone cuprifero non si svolsero pertanto unicamente in sotterraneo: l’ampia dispersione del minerale nella matrice impose infatti l’abbattimento a cielo aperto di notevoli quantità di roccia, soprattutto nell’area di Grotta Mugnaioli, dove il filone mostrava la maggiore potenza. La presenza prevalente di minerale “povero” unitamente all’ubicazione estremamente disagiata della miniera (praticamente priva di vie d’accesso idonee all’attività intrapresa), convinsero pertanto i gerenti ad attivare sul posto un impianto di trattamento meccanico per l’arricchimento del minerale. Nel 1868 entrò così in funzione un impianto di lavaggio che però ebbe vita brevissima.(55) Infatti nello stesso anno, nonostante i soddisfacenti risultati ottenuti da tale tecnica di arricchimento, l’attività di lavaggio fu soppressa e nel 1869, per motivi, come vedremo, per lo più indipendenti dalle condizioni del giacimento, fu chiusa pure la miniera ed ogni lavoro abbandonato.
Proprio nei pressi dell’ingresso della galleria Isabella esistono tuttora i fabbricati della miniera: ebbene. a giudicare dall’entità, dalla dimensione e dalla vastità degli stessi si possono facilmente dedurre sia l’importanza che a questa miniera fu attribuita dai suoi proprietari sia gli ingenti capitali che vi furono investiti nella certezza (rivelatasi poi illusoria) di lucrosi guadagni. Si tratta, più in particolare, di un complesso di vari edifici (oggi completamente scoperchiati e privi di porte, finestre per le successive asportazioni di travature, tegoli, macchinari ed ogni tipo di infissi) che, riuniti in un sol corpo della lunghezza di circa 75 m. e della larghezza approssimativa da 10 a 15 metri, erano in parte adibiti all’impianto di laveria e a magazzini; mentre in altri locali trovavano posto le officine di riparazione, le stanze riservate agli operai e gli alloggi per il personale dirigente.
Circa i motivi per i quali il 30 settembre 1869 la miniera fu abbandonata, un autore come Jervis è tassativo: per mancanza di prodotto(56); Lotti, invece, che raccolse le testimonianze dei nuovi proprietari, riporta, senza ulteriori indicazioni, che i motivi della cessazione furono indipendenti dalle effettive condizioni del giacimento.(57) E probabilmente aveva un buona parte di ragione. Certo è che le caratteristiche giacimentologiche generali della mineralizzazione non erano delle migliori presentandosi essa, come si è detto, prevalentemente disseminata nel gabbro in minute particelle e solo localmente concentrata in venette, piccole lenti e noduli.(58)
NOTE BIBLIOGRAFICHE
- cfr. ad es. il recentissimo Inventario del patrimonio minerario e mineralogico in Toscana. Aspetti naturalistici e storicoarcheologici. Firenze, Regione Toscana, 1991, 2 voli., con ampia bibliografia. Dal punto di vista storiografico si veda inoltre A. MENICONI – Studi antichi e recenti sulle miniere medievali in Toscana: alcune considerazioni, in: “Ricerche Storiche”, a. XIV, n. 1, gennaio-caprile 1984, pp. 49-56;
- cfr. G. BRIZZI & R. MELI – L’antica minerà di Montecastelli e i minerali delle rocce circostanti, in: “Rivista Mineralogica Italiana”, a. XII, n. 3, luglio-settembre 1989, pp. 163-178: A. MARRUCCI – Note di storia mineraria, in: “La Comunità di Pomarance”, a. Ili, 1989, n. 4, pp. 22-24, poi comparso in versione corretta, integrata e definitiva come Montecastelli, note di storia mineraria, in: “La Spalletta”, a. Vili, n.1, 5 gennaio 1991, pp.23-26; U. GELLI & G. GIORGI – La miniera del Pavone a Montecastelli Pisano, in: “La Comunità di Pomarance”, a. V, 1991, n.1, pp.22-26;
- cfr. G. BRIZZI & R. MELI – L’antica miniera cit., p.169:
- Idem, pp.170-173;
- F. ARISI ROTA & L. VIGHI – Le manifestazioni cuprifere nelle rocce verdi, in: La Toscana meridionale. Fondamenti geologico minerari per una prospettiva di valorizzazione delle risorse naturali. Rend. S.I.M.P., 27 (fase, sp.), p. 368;
- Ibidem
- G. TARGIONI TOZZETTI – Relazioni d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana. Firenze, 2.ed., Stamperia Granducale di G.Cambiagi, 1768-1779, 1. VII, p. 392;
- P. SAVI – uelle rocce ofiolitiche e delle masse metalliche in esse contenute, in: Id. – Memorie per servire allo studio della costituzione fisica della Toscana. Pisa, F.lli Nistri, 1839, p. 80;
- A. D’ACHIARDI • Mineralogia della Toscana. Pisa, 1872-73, t. Il, pp. 299 e 375;
- G. JERVIS –I tesori sotterranei d’Italia. Torino, Loescher, 1874, t.ll, p.423; un accenno alla presenza di argento e addirittura di oro nella gola del Pavone si trova inoltre in G.VOLPE – Montieri: costituzione politica, struttura sociale, attività economica d’una terra toscana nel secolo XIII, in: “Maremma”, a. I, 1924; fase. I, p. 29;
- cfr. ad es. l’esauriente indagine mineralogica di G. BRIZZI & R. MELI, cit., in cui non compare mai menzione della galena e dove la sfalerite è segnalata come “non molto frequente” (pp. 170-173);
- F. ARISI ROTA & L. VIGHI – Le manifestazioni cit., p. 362;
- Finora nel Volterrano non è mai stato rinvenuto niente di simile alla subbia di rame, di epoca probabilmente etrusca, ritrovata nel secolo scorso in un’antica galleria di ricerca mineraria nei pressi di Gerfalco (cfr. T. HAUPT – Rendimento di conto del mio servizio in Italia. Firenze, Le Monnier, 1889. P 118);
- cfr. G. TANELLI –1 depositi metalliferi dell’Etruria e le attività estrattive degli Etruschi, in: Secondo Congresso Nazionale Etrusco. Atti. Roma, G. Bretschneider. 1989, voi. Ili, p. 1413;
- cfr. E. FIUMI – La facies arcaica del territorio volterrano, in: “Studi Etruschi”, a. XXIX, 1961, p. 283 nota 83;
- idem, p.283;
- idem, p.283 nota 80;
- idem, pp.259-262;
- idem, p.262 nota 25;
- Comunicazione personale del Doti.Andrea Augenti:
- cfr. R. MAFFEI – Storia volterrana, pubblicata per cura di A. Cinci. Volterra, Tip. Sborgi, 1887, p. 96;
- cfr. Biblioteca Guarnacci Volterra (B.G.V.), ms. 11347, Pergamene dell’Archivio Vescovile trascritte da G. Mariani, scatola 1, doc. 225, e M. CAVALLINI – Montecastelli, in: “Il Corazziere”, a. LI, n. 43, 23 ottobre 1932, p. 2;
- M. BOCCI – Montecastelli Valdicecina, in: “L’Araldo”, a. XLII, n. 25, 25 giugno 1972, p. 4;
- F. SCHNEIDER – Regestum Volaterranum. Roma, Loescher, 1907, p. 91, n. 263;
- G. TARGIONI TOZZETTI – Relazioni cit., p. 392;
- Archivio Storico Comunale Volterra (A.S.C.V.), filza S nera 1, c. 125r.; il documento reca la data 18 marzo 1285:
- E. REPETTI – Dizionario geografico fisico storico della Toscana. Firenze, per l’autore e editore, 1833-43, t. Ili, p. 341:
- cfr. A.S.C.V., filza S nera 1, c. 127r.; il documento reca la data 19 settembre 1301;
- cfr. M. CAVALLINI, cit., p. 2;
- E. FIUMI – L’utilizzazione dei lagoni boraciferi della Toscana nell’industria medievale. Firenze. Dott.Carlo Cya, 1943. p.71;
- M. CAVALLINI – Notizie e spogli d’archivio, in: ‘Rassegna Volterrana”, a. I, 1924, fase. Il, p. 84;
- Archivio di Stato di Firenze (A.S.F.), Capitoli del Comune, registro 5, cc. 179 V.-180 r.;
- cfr. P FABBRI – Montecastelli: un comune medioevale della maremma volterrana, in: “Volterra”,36) L. FALCONCINI – Storia dell’antichissima città di Volterra. Volterra, Sborgi, 1876, pp. 583-585. Il toponimo “Monte dell’Oro” è tuttora presente nella denominazione locale del profondo e scosceso canalone che sovrasta l’antica miniera di Montecastelli, detto, appunto, “Vallone (o Borro) di Pietralloro”;
- cfr. A.K. ISAACS – Volterra nel Cinquecento: alcune prospettive di ricerca, in: “Bollettino Storico Pisano”, a. LVIII, 1989, pp. 189-205;
- cfr. C. RIDOLFI – D’alcune miniere della Maremma. Cenni storico-economici per servire all’eccitamento dell’industria che si occupa di trarne profitto, in: “Giornale agrario toscano”, n. 24, 1832, t. VI, p. 495:
- Ibidem;
- P. SAVI – Delle rocce ofiolitiche cit., p. 78;
- C. RIDOLFI – D’alcune minere cit., p. 495;
- B.G.V., Archivio Maffei, filza 57; sull’intera vicenda si veda A. MARRUCCI – Montecastelli: note cit., in cui oltre ai documenti è riprodotta anche la planimetria citata con l’ubicazione di alcune cave e filoni della zona: si tratta finora della prima indicazione della presenza di minerali di rame sul versante orientale del colle di Montecastelli;
- C. RIDOLFI, cit., p.495. In merito alle condizioni dell’attività mineraria nelle Colline Metallifere durante il Seicento si veda anche: A. MARRUCCI – Panorama minerario del territorio volterrano alla metà del XVII secolo, in: “La Comunità di Pomarance”, a. IV. 1990, n. 3. pp. 22-26;
- cfr. A. RIPARBELLI – Storia di Montecatini Val di Cecina e delle sue miniere. Firenze. Tip. Giuntina, 1980, p. 81;
- Idem. t. VII, p. 392;
- A. RIPARBELLI – Luigi Porte e la “sua” Maremma nel primo Ottocento (1779-1843), in: “Boll. Soc. St. Maremmana”, a. XXVIII, 1987, n. 51, fase. sp. “I Lorena e la Maremma”, p.156;
- Idem, p.157;
- P. SAVI, Delle rocce ofiolitiche cit., p.80;
- cfr. B. LOTTI – Sul giacimento cuprifero di Montecastelli in provincia di Pisa, in: “Boll. R. Com. Geol. It.”, a. XVI, 1885, fase 3/4, pp. 83-84;
- G. JERVIS – I tesori cit., t.ll, p.423;
- cfr. P SAVI – Rapporto sui prodotti del regno inorganico: minerali metallici, in: Rapporto della Pubblica Esposizione dei prodotti naturali e industriali della Toscana fatta in Firenze nel novembre 1850. Firenze. Tip. della Casa di Correzione, 1851, p. 50;
- Ibidem;
- cfr. C. PERAZZI – Intorno ai giacimenti cupriferi contenuti nei monti serpentinosi dell’Italia Centrale. Torino, Stamperia Reale, 1864, pp. 20-21;
- Idem, p.21;
- cfr. B. LOTTI – Sul giacimento cit.. p. 84;
- G. JERVIS, cit., t. Il, p. 423:
- cfr. B. LOTTI, cit., p. 84;
si veda B. LOTTI – Geologia della Toscana Mem. Descr. CartaGeol. d’It., XII, 1910, p. 257 e L. GERBELLA -Il problema del rame in Italia, in: “L’ingegnere”, n. 4, 15 aprile 1940. p. 287
Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.