Tutti gli articoli di Alessandro Scamporrino

STATUTI DI MICCIANO 1473

A cura di A. Merlini.

Nella precedente edizione della Co­munità di Pomarance fu pubblicata, a cura del Sig. Mazzinghi Geom. Edmon­do, la Storia di Pomarance dalle origi­ni ai primi anni del 1900.

L’Associazione Turistica in questa nuova edizione ha deciso di continua­re a scrivere la Storia di Pomarance al­largando lo sguardo a tutto il territorio circostante, e per fare ciò saranno pub­blicati documenti inediti che si trovano per lo più presso /’Archivio Storico Co­munale.

In considerazione della difficoltà di lettura, e pensando specialmente ai ra­gazzi delle scuole che potranno così ri­cercarci date e notizie utili all’appren­dimento della Storia del territorio, i do­cumenti pubblicati saranno corredati da ampie note e spiegazioni:

Il primo documento che viene pubbli­cato sono gli “STATUTI DI MICCIANO’’ del 1473.

CENNI STORICI SU MICCIANO

Micciano.

□ La leggenda fa risalire l’origine di Micciano ad un certo MITIUS, legiona­rio romano e veterano di molte guerre, che a seguito della Legge Julia, voluta da Giulio Cesare nel 59 A.C., ebbe in assegnazione il territorio dove oggi sor­ge l’abitato con i confinanti terreni in parte incolti ed in parte coperti di bo­schi.

Il documento più vecchio in cui si par­la di Micciano si trova nell’Archivio Ve­scovile di Volterra e risale al 947, allor­ché il Vescovo Bosone concesse l’in­vestitura di Piovano al Prete Giovanni di Giovanni ed al Diacono Pietro di Rutilio.

Ritroviamo il nome di Micciano nel 1014 in un privilegio imperiale con il quale l’imperatore Arrigo l°, fra le al­tre chiese e possessi, concede ai Mo­naci di S. Pietro a Monteverdi anche Micciano con la sua corte e con tutti i beni in essa esistenti.

Nel 1176 il Papa Alessandro III0 con una sua bolla conferma la donazione a favore della Badia di S. Pietro in Mon­teverdi.

Nel 1186 Micciano e la sua corte vie­ne in possesso del Vescovo di Volter­ra Ildebrando dei Pannocchieschi gra­zie ad un diploma, datato 28 Agosto, ed inviatogli da S. Miniato dall’imperatore tedesco Enrico IV°.

Il 17 febbraio 1203 gli uomini di Mic­ciano giurano obbedienza al Comune di Volterra nelle mani del Potestà Ra­nieri di Montespertoli.

Il 27 agosto 1208 ha luogo la forma­le cessione di Micciano ai Consoli di Volterra da parte dell’Abate del mona­stero di Monteverdi. Durante la lotta tra il Vescovo di Volterra, Galgano Pan­nocchieschi, ed il Comune, Micciano ri­sulta essere fortificato.

Nel 1288 troviamo che il Castello di Micciano era tassato dal Comune di Volterra per £. 3.400 l’anno.

Nel 1356 la Chiesa di Micciano è de­signata Matrice di cinque cure succur­sali oltre a due spedali.

nel 1411 negli Statuti di Volterra si trova il Castello di Micciano fra quelli nei quali rendeva giustizia un giudice civile eletto dal Magistrato civico di Vol­terra.

Nel 1472 a seguito della guerra del­le miniere tra Volterra e Firenze, Mic­ciano passa sotto la giurisdizione civi­le e criminale di Pomarance divenuto Capoluogo del Vicariato della Val di Ce­cina che oltre a Micciano comprende­va Libbiano, Montecerboli, Montegemoli, Sasso, La Leccia, Querceto, Gello, Mazzolla e Montecastelli.

STATUTI DI MICCIANO anno 1473

Documento originale.

PROHEMIO

Adlaude et gloria et honore dello innipoten­te et clemente Iddio e della sua gloriosa ma­dre vergine maria et del beato messer (1) San Giovanni babtista et di Messere San Michelagnolo, et generalmente di tutta la celestal corte del paradiso, et ad honore et glo­ria et magnificentia del magnifico et poten­te popolo fiorentino et ad perpetua pace di tutti li homini del comune di Miccano.

Questi sono gli statuti et ordinamenti del co­mune di Miccano di valdicecina coaderenti e distretto di Firenze, facti et ordinati per li prudenti et discreti Huomini, Lorenzo di baiardo et hic (2) di Giannone amendue del comune predetto aventi piena auctorita e balia (3) di poter ordinare, statuire e rifor­mare il detto commune come pare epiace loro sotto gliannj del nostro signor Jesus MCCCCLXXIIJ in dictione settima e quali statuti sono questi cioè.

NOTE

  1. Messer, Messere : Anticamente Mio Si­re, Mio Signore, o francesamente Mon­signore. Titolo dato ai grandi ed ai prela­ti sino al Secolo XVI °.
  2. Hic : Questo, cioè Lorenzo di Baiardo e Lorenzo di Giannone.
  3. Balia : Dal latino potestas che significa autorità, potere, signoria, potestà asso­luta.

PROEMIO

EZ Ai giorni di oggi l’introduzione è normal­mente una breve presentazione fatta dall’Autore o da altra persona per presentare un libro. Negli anni in cui furono scritti que­sti Statuti, cioè la legge fondamentale con la quale si regge e governa uno Stato, il Proemio era prima di tutto una parte inte­grante dell’opera, poi era una esplicita ma­nifestazione di riverenza ai Santi patroni del luogo e della città di Firenze e di obbedien­za al popolo fiorentino.

L’invocazione ai santi inizia sempre con Dio quale supremo reggitore dell’universo, e la “sua gloriosa madre Vergine Maria” a significare quanto grande fosse il culto per la Madonna fra il popolo, anche se bisogne­rà arrivare all’anno 1854 perchè la Chiesa proclami il dogma della Immacolata Conce­zione.

In secondo luogo, e non a caso, ma sem­pre come segno di riverenza e sottomissio­ne, prima viene invocato San Giovanni Bat­tista patrono di Firenze la cui festa si cele­bra il 24 Giugno, poi San Michelagnolo (San Michele Arcangelo) patrono di Micciano che viene festeggiato il 29 Settembre.

Il segno di riverenza ed obbedienza al po­polo fiorentino è dato dalia frase “ad hono­re et gloria et magnificentia del magnifico e potente popolo fiorentino” che vuol dire che ciò che stavano per fare era prima di tutto per onore e gloria ecc. ecc. del popo­lo fiorentino ed in secondo del popolo di Mic­ciano.

A questo punto è doveroso notare che ci riferiamo ancora al “Popolo Fiorentino” in quanto nel 1473, nonostante l’avvento di Lo­renzo dei Medici (1469) sembrava ancora che il possessore del potere fosse il popolo.

Nel secondo capoverso del Proemio è do­veroso far notare come ancora viene spe­cificata la sudditanza di Micciano a Firenze con la parola “Coaderenti” (persone che diano la ioro adesione alle stesse correnti di pensiero e di azione) e “distretto” di Fi­renze (territorio compreso nella giurisdizio­ne militare e civile di Firenze).

Un altro punto degno di nota è la frase “in dictione settima”perchè denota che anche se nella prima parte si fa riferimento al po­polo fiorentino nel conteggio di quando fu­rono scritti gli Statuti ci si riferisce al momen­to in cui (1469) Lorenzo dei Medici diviene capo della sua famiglia, segno questo che oramai il potere di Lorenzo si era già affer­mato.

“In dictione settima” vuol dire più preci­samente: «durante il periodo in cui aveva­no diritto di parlare gli eletti per la settima volta dal giorno in cui Lorenzo dei Medici divenne capo della sua famiglia e quindi di Firenze (1469)». Dal momento che le nomi­ne venivano normalmente fatte nei mesi di Giugno e Dicembre, si avrebbe: fino al Dicembre 1469 quelli che erano già in carica all’avvento di Lorenzo dei Medici; due elezioni nel 1470; due elezioni nel 1471; due elezioni nel 1472;

ed infine una, la settima, nel 1473.

PROHEMIO

DELLA ELECTIONE DI TUTTI GLUFFICI Imprima acciocché al Comune e homini di Miccano sieno bene et utilmente gover­nati e che sulle faccende del Comune habbino ad operare essi detti statutari^ ordinorono, providono, statuirono et de­liberemo che per lo advenire ogni sei me­si il consolo o vero vicario del detto co­mune sia tenuto e debbi almeno per otto dì innanzi la fine del suo ufficio alla pena di soldi venti da essere condennato di fac­to, ragunar nella casa del detto comune di Miccano uno homo per ciascuna casa o vero famiglia di detto Comune et a quelli così raunati proporre di doversi eleggere un nuovo consolo o vero vicario et uno consiglieri et uno Camarlingo equali così electu habbino assuccedere allufficio pas­sato et così electi si debbino mettere a partito ciascuno di per se et quelli che ri­marranno, cioè che sivincera per partito, quelli sintendino essere veramente et iuridicamente electi, e quelli così electi hab­bino auctorita, potestà et balia, cioè electi consolo consiglieree Camarlingho di po­ter fare et exercitare tutte le faccende e cose appartenenti al detto Commune e mandare ambasciatori porre datij preste, et ogni altra gravezza per poter pagare il vicario di Ripamarranci, et il cero di san­to Giovanni, o, Signori Fiorentini, et tutto quello che intorno alle predette cose sa­rà fatto per li sopradetti Consolo, consi­glieri e Camarlingho o due diloro dacordo vagli e tengha si come fossi facto per tutto il detto Commune, et il loro ufficio duri mesi sei et non più et habbino in detto tempo per loro salario dello havere et pecunia del detto Commune soldi XX per uno et habbino divieto ciacsuno di loro al­meno un anno dal dì che haranno dipo­sto lufficio et non possi scambiare el pa­dre el figliolo et exverso helino fratello l’altro ne el zio el nipote et exverso, inten­dendosi detti parentadi per linea maschulina, et sieno tenuti et debbino fare scri­vere tuute lopere et meriti et altre spese di Commune che si facessino alloro tem­po et nel fine delloro ufficio farele stan­ziare in Commune, se il Camarlingho pagera alcuna spesa prima stanziai sinten­di pagherà di suo proprio.

PROEMIO

DELLA ELEZIONE DELLE CARICHE PUB­BLICHE

In questo capitolo vengono stabilite det­tagliatamente tutte le regole che devono es­sere applicate per la elezione delle cariche comunali affinchè non vi sia alcuna possi­bilità di errore.

La prima regola è che il Console in cari­ca, almeno 8 giorni prima della fine del suo mandato di 6 mesi, riunisca nella Casa del Comune un uomo per ogni famiglia o casa esistenti nel Comune per proporre loro la nuova elezione di un Console o Vicario, di un Consigliere e di un Camarlingho (Cas­siere).

La dimostrazione dello stato di incertez­za che regnava nel 1473 è dimostrata an­cora una volta dalle parole “Console o Vi­cario” poiché Console è il magistrato degli antichi comuni italiani, mentre Vicario è co­lui che esercita la autorità nel nome dell’im­peratore.

Le cariche venivano fatte dal popolo rap­presentato in questo caso dai capi famiglia.

La mancata convocazione di quella che potremmo chiamare Assemblea Popolare comportava per il Console o Vicario in cari­ca la multa di 20 soldi, praticamente tutto il suo stipendio. Una volta effettuata la no­mina, gli eletti avevano il massimo potere e le loro decisioni prese con la maggioran­za dei due terzi erano vincolanti per tutti. Es­si potevano imporre dazi, prestiti ed ogni al­tro tipo di imposte per ricavare le cifre oc­correnti per le spese comunali, il Vicario di Ripamarranci ed il Cero che ogni Comune doveva portare a Firenze per la festa di S.Giovanni.

Gli eletti erano ricompensati con 20 sol­di, e non potevano essere rieletti subito ma bensì solo dopo un anno. Non potevano pas­sare la carica al figlio o ad altro parente ma­schio. Dovevano trascrivere tutto ciò che ve­niva fatto affinchè il loro operato potesse es­sere facilmente controllato.

Ultima annotazione di questo capitolo, ma non certamente la minore, è il fatto che chi ricopriva cariche pubbliche pagava in pro­prio gli errori o le mancanze commesse, ve­dasi il caso del Camarlingho a cui veniva ad­debitata ogni spesa effettuata se prima la somma non era stata stanziata.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

UNO SGUARDO SU LIBBIANO

TRA STORIA E PRESENTE

ATra le frazioni del nostro Comune, Lib- biano, una delle più piccole, si distingue per una serie di aspetti che ne fanno una realtà unica, di notevole interesse sia sul piano naturalistico e paesaggistico sia sul piano storico – culturale, di cui le case e le strade costituiscono tuttora vivente e, per molti versi, intatta testimonianza. Libbiano (castrum Liviani) sorse in epo­ca romana, precisamente ai tempi della legge lulia (59 a.C.), con cui Giulio Cesa­re assegnò ai suoi veterani, tra i quali, ap­punto, questo Livius, parte dei territori conquistati (la medesima origine hanno i centri vicini di Micciano, Serrazzano, Lustignano).

LIBBIANO: La Torre

Successivamente divenne un castello che, per la sua posizione strategica e di confine e per le ricchezze minerarie del suo territorio, fu a lungo conteso tra i mo­naci dell’Abbazia di S. Pietro in PalazzoIo (Monteverdi) ed il Vescovo di Volterra. Prevalse alla fine quest’ultimo, ma l’effet­tivo godimento dei diritti feudali da parte dei Vescovi fu ostacolato per molto tem­po dalla potente famiglia dei nobili Caval­canti (talora avversari, talora alleati degli stessi Vescovi).

Sottomesso in modo definitivo a Volterra agli inizi del 1400, Libbiano ne seguì la sorte quando la città di S. Lino fu conqui­stata dai Fiorentini, avidi di quelle ricchez­ze minerarie (allume, zolfo, vetriolo) del­le quali lo stesso territorio libbianese era particolarmente ricco.

Neanche sotto il dominio fiorentino ven­ne meno l’influenza dei Cavalcanti che ri­siedettero a Libbiano praticamente fino al 1776, allorché il paese venne a far parte a tutti gli effetti della comunità di Poma­rance.

La popolazione di Libbiano ammontava nel 1845 a 279 abitanti (più o meno quel­li del 1551:202), mentre nel 1861 era sa­lita a 453, cioè era quasi raddoppiata. Co­me si spiega questo aumento? Con tutta probabilità esso è dovuto allo sviluppo delle attività minerarie (zolfo e vetriolo, ra­me e calcedonio) che, in tale periodo, in­teressò un po’ tutto il Pomaranci no. Que­sta attività si protrasse fino a tempi rela­tivamente vicini (durante la 1° Guerra Mondiale funzionava, vicino a Villetta, una miniera di carbon fossile, i cui dipenden­ti erano esentati dal servizio militare ed il cui prodotto era inviato a Casino di Terra con una ferrovia a carrelli) e consentì di mantenere relativamente stabile la popo­lazione.

La situazione cominciò decisamente a mutare col venir meno dell’attività mine­raria (a parte quella di carbon fossile la chiusura delle miniere risale a fine ’800); a questo punto la popolazione si trovò, in­fatti, davanti a due alternative: o lavora­re a mezzadria dai Conti Guidi di Serra e fare i boscaioli ed i carbonai, oppure cercare lavoro più lontano, ad esempio a Larderello, dove lo sviluppo della primiti­va industria chimica in direzione della pro­duzione di energia elettrica offriva nuove opportunità. Gradualmente il numero di coloro che lavoravano nell’industria bo­racifera (e che andavano e tornavano da Libbiano a Larderello prima a piedi e poi in bicicletta) aumentò e comportò una pri­ma significativa ondata migratoria verso Larderello ed i paesi vicini.

Quando la Larderello S.p.A. concesse fi­nalmente un automezzo per trasportare i lavoratori, sembrò che il fenomeno po­tesse essere arginato. Si trattò di una bre­ve illusione: alla fine degli anni ’50, quan­do fu costruito il villaggio residenziale di Larderello, molti furono i Libbianesi che lasciarono il loro paese, cui pure erano attaccati, per andare ad abitare in un cen­tro che offriva loro troppe più comodità. Cominciò così un esodo sempre più ac­centuato, continuato negli anni recenti, anche se, ultimamente, il centro di attra­zione (non solo per Libbiano) non era più Larderello, ma Pomarance.

I dati qui di seguito riportati illustrano be­ne l’entità e l’andamento del fenomeno: anno 1961 abitanti 232 anno 1971 abitanti 137 anno 1981 abitanti 101 31/12/1988 abitanti 80

Attualmente gli abitanti di Libbiano han­no un’età media che supera i 60 anni. I bambini sono solo poche unità e scarso è il numero degli adulti che non hanno raggiunto l’età pensionabile: mancano in­fatti intere generazioni, quelle dell’età di mezzo. Questo può far supporre un pae­se quasi addormentato ed immobile, ma la realtà non è tale: è anzi sorprendente vedere come i Libbianesi, anche quelli che hanno superato gli ottanta, riescano a condurre una vita sufficientemente at­tiva ed autonoma, a non stare con le ma­ni in mano e a non aspettare l’aiuto altrui, sicché chi non conosce certi personaggi prova incredulità quando viene a sapere che sono nati agli albori del secolo XX. Del resto Libbiano non è quel paesino sonnolento che ci si potrebbe aspettare anche per altri motivi.

La sua dislocazione decentrata, il suo es­sere fuori dal mondo (cioè lontano dai centri e dalle principali vie di comunica­zione), se per un verso è stato il motivo della sua decadenza, dall’altro lato ne fa un angolo, come dicevo all’inizio, unico, dove l’orologio della storia sembra essersi fermato a tempi più su misura umana e dove il rapporto armonico tra uomo e na­tura non è un’utopia ma una realtà vis­suta e quotidiana.

Il discorso vale, in primo luogo, per quel­lo che riguarda le case che, ad eccezio­ne del Circolo A.R.C.A.L. (inaugurato nel 1969), sono tutte vecchie di secoli, anche se poi gli interni, grazie alla solerzia de­gli abitanti, sia di quelli a tempo pieno che di quelli che a Libbiano tornano ogni tan­to, sono stati ristrutturati con criteri mo­derni.

Certo, proprio per questo, qualcosa è an­dato perduto: dai pavimenti in cotto ai sof­fitti con travi e travicelli, ai grandi focarili, teatro di lunghe veglie invernali al canto del fuoco. All’esterno, però, tutto è rima­sto come una volta: le mura delle case, senza intonaco, fatte di mattoni o delle ca­ratteristiche pietre bianche, i numerosi ar­chi ciechi, le due stradine lastricate che portano alla torre, i muretti intorno al pae­se, affacciandosi ai quali si può spaziare da un lato sull’ampio panorama della valle del Trossa e, più oltre, di Volterra e delle sue colline, dall’altro su un succedersi di alture coperte di boschi foltissimi e degra­danti verso la foresta di Monterufoli.

Sono queste qualità, unitamente alla na­turale simpatia umana degli abitanti, a far sì che Libbiano, sia in estate, quando la campagna assume un aspetto quasi ma­gico, sia nelle altre stagioni, specie in tempo di caccia o di funghi, continui ad essere meta di non poca gente. Gente

che ci abitava e che, quasi mai, lascia passare troppo tempo senza tornarci a far una visita o, magari, gente di fuori, gen­te di città lontane, che a Libbiano ci capi­ta una volta per caso e ci si innamora, la­sciandosi prendere dall’incanto del silen­zio, dell’antico, imparando ad amare le ci­cale che friniscono e l’ombra degli alberi sulla piccola piazza.

Laura Longinotti

NOTE BIBLIOGRAFICHE:

  1. Giovanni Targioni Tozzetti – Relazione d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana – FORNI Editori Bologna
  2. Don Mario Bocci – L’Araldo di Volterra – Settima­nale della diocesi di Volterra – 9/4/1972
  3. La Comunità di Pomarance
  4. Repetti – Dizionario geografico, fisico storico della Toscana – 1835 – 1845

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

LA CHIESA DI SAN CERBONE A MONTECERBOLI (I PARTE)

A CURA DEGLI ARCHITETTI M.C. BIANCHI, M. SALVI, M. TALOCCHINI

Il monumento che abbiamo preso in esa­me, si trova a Montecerboli una frazione del Comune di Pomarance, situata nell’estremità meridionale della provincia di Pisa, in una zo­na prevalentemente collinare, tagliata fuori dal­le grandi vie di comunicazione.

Dal punto di vista geologico siamo in presen­za di argille spesso lignitifere e lacustri, ser­pentina e gabbro; il nucleo storico, all’interno del quale si trova il monumento da noi rileva­to, è interamente fondato su gabbro e si trova a 375 m. sul livello del mare.

Interessante dal punto di vista geologico è la vicinanza con Larderello e i conosciutissimi fe­nomeni endogeni, dai quali pare derivare il no­me di Montecerboli.

Interno della Chiesa di San Cerbone (1925 ca.) – Coll. Rossi U.

Si dice infatti che il nome fosse in origine Montecerbero a causa delle abbondanti emissioni sulfuree accompagnate da fummacchi, che fa­cevano pensare alle porte dell’inferno, o al mi­tico guardiano delle medesime. Esiste comun­que, anche un’altra teoria che fa risalire il no­me a Monte Cervuli, per l’abbondanza dei cervi in questa zona; tesi questa avvalorata dal fat­to che lo stemma della comunità, raffigura ap­punto un cervo sullo sfondo delle colline. «Non vi sono notizie antecedenti al 1000 riguar­danti il castello di Montecerboli; la notizia più antica ce la fornisce il dott. E. Fiumi in una publicazione del 1934, egli parla di un atto stipu­lato nel 1003, che trovasi nell’archivio Vesco­vile di Volterra. In tale atto, Montecerboli, è chiamato “Monte Cerbero’’ ed il torrente che scorre alla base del monte è detto “Possula”, oggi Possera» (1).

Allo stato attuale Montecerboli è un paese che conta circa 1500 abitanti, che vive essenzial­mente del lavoro che i soffioni boraciferi assi­curano alla produzione dell’energia elettrica. A questa industria è stato legato anche lo svi­luppo demografico e quindi edilizio; quest’ul­timo ha avuto un notevole incremento dopo se­coli di stasi, proprio all’inizio di questo seco­lo, quando l’industria boracifera “Larderello” (oggi Enel -Eni) ampliò gli stabilimenti ed as­sunse molta nuova manodopera.

Lo stato di conservazione del nucleo storico, che è rimasto piuttosto decentrato rispetto al­lo sviluppo edilizio attuale è al momento, sod­disfacente, pur con gli inevitabili restauri scor­retti eseguiti negli anni passati.

Il castello di Montecerboli trovandosi nell’area gravitazionale della città di Volterra, vede tut­ta la sua storia, legata appunto alla storia di Volterra di cui è stato per lungo tempo tribu­tario; si trova notizia difatti, che nella primà me­tà del 1400, il Vescovo di Volterra, Roberto Ardinari, conferiva il titolo di conte di Montecer­boli, ad Antonio di Pasquino Broccardi; i Broc­cami nel XV secolo erano una facoltosa fami­glia di Montecerboli dove possedevano molte terre, ed avevano investito molti capitali nel commercio volterrano per lo zolfo ed allume che allora si estraevano dal territorio dei sof­fioni. La Comunità e cura amministrativa di Montecerboli, in antico comprendeva “ville e villaggi” oggi in gran parte perduti, ma sap­piamo che al 1200 erano: S. Maria, S. Ippolito, Bagni a Morba, Libbiano e Spartacciano. Questo dimostra, che seppure di modeste di­mensioni, il castello godeva di una certa au­tonomia, ed anche di uno statuto e di misure proprie e questo lo troviamo ampiamente te­stimoniato dal dizionario Geografico Fisico e Storico della Toscana di E. Repetti, di cui ri­portiamo un ampio stralcio: “Montecerboli in Val di Cecina.

Castelletto con chiesa plebana di San cerbo­ne già filiale della pieve di S. Maria a Morba, cui fu riunita nella comunità giuridica; è circa 4 miglia a scirocco delle Pomarance, diocesi di Volterra, compartimento di Pisa.

Risiede sopra un piccolo poggetto di gabbro fra la strada provinciale massetana, che gli passa a ponente e il torrente Possera, con­fluente a sinistra della Cecina. Senza perder­si in congetture sull’origine del nome di Mon­tecerboli, io non trovo notizie d’esso, ne dei loro signori, che sieno più antiche di quelle pub­blicate daH’Ammirato Juniore, nelle aggiunte alle vite fatte de Vescovi di Volterra del vec­chio Ammirato.

Fra le quali un contratto del 14 gennaio 1160, rogato in Volterra nel Chiostro della cattedra­le, vertente sopra una permuta fatta tra il Ve­scovo Galgano di Volterra e un certo conte Gu­glielmino, figlio del conte Rainuccio, e fratello di una altro conte Lottario, quando Guglielmi­no cede al Vescovo prenominato tutto ciò, che tanto egli che donna bella di lui moglie, pos­sedevano nei castelli e distretti di Monte Cuccari, di Camporena, di Laiatico, di Ghizzano, e di Cedri in Val d’Era. In cambio di tali beni, il vescovo Galgano, rinunziò, ai due coniugi, la terza parte del castello, borgo e corte di Mon­tecerboli’’.

La quale ultima espressione ci dà chiaramen­te a conoscere che la Comunità di Montecer­boli, fino a quell’età aveva misure sue proprie. Con altro strumento della stessa provenineza, scritto il 20 dicembre 1173 nel palazzo Vesco­vile di Volterra, Ranieri degli Libertini, Vesco­vo di detta città fece fine a quietanza per L. 300 pagategli dal comune di Volterra di tutto ciò che poteva pretendere rispetto ai dazi, con­danne penali etc.; che il comune predetto ave­va nei tempi addietro imposto e fatto pagare agli abitanti delle Pomarance, di Montecerbo­li, di Leccia, di Sasso, di Serrazzano, paesi sui quali i vescovi volterrani avevano allora dop­pia giurisdizione. Infatti nel mese successivo, governava in Montecerboli, un rettore vesco­vo di Volterra, del quale ne da prova il seguente documento tra le carte della Comunità di Vol­terra relative a prestazioni di giuramento d’ub­bidienza, a quel comune. Esiste un atto roga­to in Montecerboli per Ranieri degli Libertini, in cui con i consiglieri elegge e costituisce un sindaco per recarsi a Volterra a giurare obbe­dienza a quel podestà e colà difendere le liti relative alla comunità di Montecerboli.

Quindi troviamo nei secoli XIII e XIV, che a se­conda delle disserzioni e pacificazioni fra i ve­scovi e i rappresentanti il comune di Volterra, gli uomini di Montecerboli prestavano obbe­dienza di sudditanza alla città piuttosto che al loro prelato. Solamente per concordia fatta ne! 1253, fu stabilita la restituzione al vescovo Ra­nieri del castello sopra nominato, a condizio­ne che alla morte di lui tornassero in potere della citta. Frattanto, per interesse comune del­le parti, a seconda di una nuova convenzione fatta nel 1226 fra il vescovo Alberto Scalari e il Comune di Volterra: “si esigevano le collet­te, le condanne e ogni altro diritto”.

Intorno a questa stessa età Montecerboli, a te­nore dello Statuto volterrano del 1228, paga­va di tassa annua lire 7286.

Mediante alcune trattative concluse nel 1319 state rinnovate quattro anni dopo fra i rappre­sentanti della città e Rainuccio, restò conve­nuto che i rettori di Montecerboli e degli altri 4 castelli, si dovessero estrarre da una borsa di 200 probi cittadini volterrani, a patto di rice­vere la investitura del Vescovo. Ma con il tem­po si mancò ai patti per cui il 29/12/1394 furo­
no stabiliti tra il vescovo e il comune di Volter­ra, nuove convenzioni con le quali fu determi­nato che il giurisdicente di Montecerboli, non si poteva nominare eccetto che fra i cittadini volterrani.

Finalmente dallo statuto di Volterra del 1411, rilevasi che allora nel castello di Montecerbo­li, faceva ragione un ufficiale inviatovi dal co­mune di Volterra. Uno degli ultimi atti tenden­ti a provare un resto di dominio che in Monte­cerboli avevano i Vescovi, fu scoperto dallo stesso Ammirato Juniore nell’archivio delle Riformagioni di Firenze; è una provvisione della Signoria fatta nel 1429, dalla quale risulta che il comune di Volterra, stante la ribellione ac­caduta nel 1427, aveva perduto il diritto di eleg­gere i suoi podestà e i suoi giurisdicenti del contado Volterrano, ma siccome i rettori della repubblica fiorentina avevano molta stima del Vescovo Stefano da Prato, Vescovo di Volter­ra, vollero conservare in favore suo gli antichi diritti, fra i quali, quello di eleggere e di poter inviare ogni sei mesi i rettori a governare nel civile gli abitanti dei castelli delle Ripomarance, Laccia, Sasso e Serrazzano rilasciandogli per detto tempo anche la regalia delle condan­nazioni. (Ammirato dei vescovi di Volterra). Non sembra però che ai successori del vesco­vo Stefano Aliotti fosse continuato un tal privi­legio dalla repubblica fiorentina a nome della quale d’ora in poi Montecerboli si governava con tutto il restante contado.

La Chiesa Parrocchiale di San Cerbone, fu eretta in battesimale dopo che l’antica sua chiesa matrice di S. Maria a Morba, cadde in rovina. La qual trasalazione avvenne verso il 1400 giacché la Pieve a Morba esisteva nel 1335 cosi come attesta il sinodo volterrano del­lo stesso anno. Sul declinare del secolo me­desimo venne rammentata ancora da “Ugoli­no da Montecerboli” nella sua opera “De Balneis”.

Delineato sommariamente il quadro storico e ambientale in cui ci troviamo, cercheremo ora di scendere nei particolari e cioè nell’esame tipologico di questo monumento.

Ci troviamo di fronte ad una chiesa a pianta rettangolare ad una sola navata con annesse due altre costruzioni di incerta datazione ed un campanile piuttosto recente(1902).

La struttura in elevazione della chiesa è realizzata con muratura a sacco in laterizio, che all’esterno è lasciato a facciavista, mentre al­l’interno è allo stato attuale intonacato così co­me lo era già nel ’600.

Ingresso della Chiesa

La copertura alla “lombarda” èsorretta da tre capriate ed è stata più volte manomessa, co­me troviamo ampiamente documentato, per cui è impossibile stabilire come fosse in origine; dalle lesioni che si riscontrano sulla facciata, si può però ipotizzare che non fosse una co­pertura a spinta eliminata. Sul lato posteriore sinistro esisteva un campanile a vela con due campane, che franò agli inizi di questo secolo e non fu più ricostruito; si preferì, malaugura­tamente, costruirne uno nuovo, che come si può vedere, fa brutta mostra di sé sul lato de­stro della chiesa.

Abbiamo trovato scarne notizie di questa chie­sa nelle pubblicazioni consultate; comunque dall’opera di Moretti Stopani (Chiese Romani­che in Val di Cecina), abbiamo potuto trarre alcune valide indicazioni, nonché la convinzio­ne che l’oggetto del nostro studio si inquadra perfettamente nella tipologia delle sopra cita­te chiese, sebbene sia stato costruito proba­bilmente in economia e materiali poveri.

È comunque da notare l’archivolta con ghiera di cotto stampata a zigzag, che si ritrova an­che in altre chiese dei dintorni (Beiforte e Mon­teguidi) e il basamento di pietre a vista arena­ria indicatore di un’influenza pisano lucchese filtrate daH’ambiente volterrano; anche qui il materiale impiegato è meno pregiato. Anche i materiali da costruzione sono tipici di questa zona: arenarie, travertino, laterìzio e gabbro verde. Sicuramente interessante è il bordo in laterizio stampato in varie fogge che si trova sui paramenti esterni poco sotto la copertura. Non è da escudere che questi siano gli “idoletti” di cui parla Targioni Tozzetti in una rela­zione di viaggio in questi luoghi.

La chiesa plebana di San Cerbone, dipende­va in origine dalla Pieve a Morba di cui in se­guito prese i titoli e il fonte battesimale, come si trova testimoniato in una lettera di Don Ma­rio Bocci archivista dell’archivio Vescovile di Volterra:

“Della Pievania di San Giovanni a Morba, ri­mane oggi solamente l’abside incorporato ad una casa colonica.

La pieve apparteneva come diocesi al nucleo primitivo della chiesa volterrana come fanno
fede i due privilegi di papa Alessandro III al Ve­scovo S. Ugo (1117 e 1179). La pieve era col­legiata cioè possedeva un piccolo capitolo dei canonici: all’atto della costituzione dei Sesti Vi­cariali viene riconosciuta al Capo Sesto della Maremma o di Montagna ed ha sette rettorie che da essa dipendono come filiali cioè S. Cer­bone e Montecerboli, San Michele e Spartacciano, S.S. Salvatore e Castelnuovo ecc”.

Di certo è che già nel 1400 la pieve minacciva rovina. Il 24 Novembre 1460, il vescovo G. Neroni, ad una istanza del Vicario Consiglieri, e popolo della Comunità di Montecerboli, rispon­de che, “attesa la penuria del clero (sappia­mo infatti che nel periodo che va dal 1310 al 1315, essendo vacante il posto di pievano, ten­ne per qualche tempo la pieve, il prete Cinzio, rettore di S. Cerbone a Montecerboli) e tenui­tà delle rendite della chiesa di san Cerbone: “Propter guerras, pestilentias nancnon alias calamitates etgravedines’’ aggrega, unisce e incorpora ad essa la pieve “… quae sub ve­nerando vocabulo Sancti Joannis de Morba est sita infra metas vestrae Curtis et sine cura animarum, cum omnibus suis pertinetisis juribus actionibus ecclesiis et oratoriisi’’. Cosi il no­me, la gloria e la supremazia di Morba, ces­sarono e i titoli con il fonte battesimale passa­rono alla chiesa di Montecerboli. Della strut­tura della Pieve a Morba, come si è già detto, non rimane che parte dell’abside; sappiamo solo che era a forma basilicale con tre navate di tre campate l’una su pilastri di pietra, con tre altari al presbiterio.

Dietro l’altare Maggiore era l’abside e sopra due finestrelle laterali oblunghe, sulla faccia­ta vi erano degli archetti pensili e sulla porta maggiore un occhio con rosone. Grazie all’in­teressamento personale di Don Mario Bocci, Archivista della Mensa Vescovile di Volterra, siamo riusciti ad avere le copie di alcune visi­te pastorali da cui abbiamo tratto utili indica­zioni sul succedersi dei numerosi rifacimenti subiti dalla chiesa. Ci è stata utile anche la con­sultazione dei manoscritti contabili della comu­nità di Montecerboli di cui abbiamo preso vi­sione nell’Archivio comunale di Pomarance. Tutto quanto sopra scritto verrà riportato in se­guito in stralci tradotti o in testo integrale.

Montecerboli (PI). Il castello

Sono queste le uniche notizie attendi­bili peraltro scarse a cui abbiamo potuto attingere.

Dalla Visita pastorale di Mons.L. Ala­manni

Registro I carta 26 tergo e segg :

“27aprile 1599’’…“Pieve di S. Gio.Bat­tista di Morba’’

…Proseguendo la visita arrivò alla chie­sa pl e ban a non più occupata di S. Gio­vanni a Morba, che si dice sia annessa alla chiesa di San Cerbone del castello di Montecerboli. È in pessimo stato per quel che riguarda il tetto le pareti e il pa­vimento. Le porte sono vecchie e malan­date, e chiuderle serve a poco perchè vi entra ogni genere di animali. C’e un al­tro altare di pietra consacrata e sopra l’al­tare c’è una croce soltanto con due can­delabri, c’è un’icona piccola ed antica con al centro l’immagine della Beata Vergine, a destra un’immagine di Giovanni Aposto­lo e a sinistra un’immagine di San Gio­vanni Battista ma tuttavia quella immagi­ne della B.M. Vergime fu oggetto di gran­dissima devozione presso le popolazioni locali e limitrofe. La chiesa minaccia ro­vina in ogni sua parte ed ha bisogno di una grossa opera di restauro…

“Pieve di San Cerbone del Castello di Montecerboli;

…e proseguendo il viaggio il reverendis­simo Padre arrivò al castello di Montecer­boli dove fu ricevuto con grandi onoreficenze dal pievano a dalla popolazione. Arrivò nella chiesa di San Cerbone, una volta espletate le funzioni di rito dopo aver cantato la preghiera benedisse il popolo diede l’assoluzione ai morti con la mitra, il pluviale e il bastone. Visitò il S.S.Euca­restia che è conservato sopra l’altare di detta chiesa in un armadietto di legno a forma di tabernacolo… poi visitò il fonte battesimale che è a destra dell’ingresso della chiesa. L’acqua per lavare gli infanti viene conservata in un vaso di terracotta ed è un coperchio dello stesso materia­le, ed è incluso in un luogo a forma di al­tare in decenti condizioni e chiuso a chia­ve, e nelle restanti cose è in buono stato. L’olio santo viene conservato in un luo­go ed in condizioni decenti. C’è soltanto un ’altare di pietra con la pietra consacra­ta, decente.

Sopra l’altare c’è una croce di legno di­pinta e dorata con quattro candelabri di legno e due di ferro…

La chiesa è lunga venti braccia e larga cir­ca nove braccia, il tetto, le pareti e il pa­vimento sono in buone condizioni.

Ci sono due piccole campane dalla par­te dell’epistola, che sono trattenute in quel luogo con pericolo che cadano.Nel­la chiesa c’è una tribuna lignea (pulpito) abbastanza decente,non c’è confessiona­le. Sopra la porta c’è soltanto un “Oculus“ che è schermato con un drappo di lino. A sinistra dell’ingresso della chiesa c’è il cimitero chiuso da ogni parte e “cum cruce decenter retentum”.

Le porte della chiesa sono di legno e so­no vecchie,tuttavia la sera vengono chiu­se a chiave.

All’ingresso della chiesa c’è un vaso per l’acqua benedetta in decenti condizioni. La chiesa è appena sufficiente per la po­polazione, tuttavia è situata in un luogo così alpestre che non vale la pena di al­largarla…

Le famiglie sotto la cura di questa chiesa sono circa 53, te anime circa 250 di cui 180 hanno ricevuto la Sacra Eucare­stia…’’

Questa è una delle piu interessanti Visite pastorali, di seguito daremo il resoconto di altre visite pastorali posteriori a questa e riporteremo un interessante frammento che abbiamo avuto in questo periodo.

Le visite pastorali precedenti al 1599 si possono riassumere in questa formula: “la chiesa per quanto riguarda l’edificio è in buone condizioni, conserva il sacra­mento dell’eucarestia in buone condizio­ni e così l’olio santo e le crismate; ha il fonte battesimale in buone condizioni”. C’è poi un frammento del 1477 allegato alla visita del 1463 di Mons. Giugni: “…La chiesa è stata restaurata ed è bella in ogni sua parte… e similmente il cimitero è in buone condizioni ed è recintato con un muro si che non possono entrarvi bestie e fiere…”

Visita Ighirami 30 Ottobre 1618 carta 694: “…vide poi il fonte battesimale a destra di chi entra che è di pietra e contiene so­lo un vaso nel quale c’e un cratere di sta­gno per battezzare gli infanti, questo fonte è chiuso con coperchio di legno e a chia­ve. Vide poi vasi dell’olio santo, che so­no di stagno e sono conservati in un ar­madietto nella parete a destra dell’altare con la loro borsa di seta. Sopra l’altare maggiore c’è un’immagine indecentissi­ma.; all’interno della chiesa, nella pa­rete anteriore è infissa una grande croce di legno dipinta ed antica; a metà della chiesa, a destra di chi entra, sopra il fon­te battesimale c’è un pulpito ligneo abba­stanza decente. C’è a Sinistra di chi en­tra il feretro con suo panno nero. Nella chiesa non ci sono sepolture e per quan­to riguarda il pavimento, il tetto e le pare­ti è in buone condizioni sebbene le pere­ti siano quà e la scrostate. Vicino all’al­tare dal lato del Vangelo c’è un confes­sionale in decenti condizioni.

L’occhio della chiesa non è chiuso ne con tela ne con vetro; le porte della chiesa so­no in buone condizioni. Vide poi la sacre­stia che è dietro l’altare maggiore nella quale fu trovato un calice con la coppa d’argento e il piede e la patena dorati’’.

Nel 1686 il vescovo Dal Rosso annota che la chiesa di Montecerboli è stata nuova­mente riparata dal pievano Antonio Maz­zocchi di Castiglion d’Orcia: “Felicitur olim fuit ecclesia ut ex murorum dirutorum cementis aperte dignoscitur; fertur enim, bellicis oricalcisundequeque circumsonantibus ecclesia fuisse diruta et plura passa belli detrimenta…” (Don Ma­rio Bocci)

Una delle porte sul cimitero

Dalla cosultazione dei partiti e delibera­zioni del Comune di Montecerboli si so­no ricavati dati abbastanza precisi sull’en­tità delle opere di restauro di cui la chie­sa ha avuto bisogno, ma non sulla quali­tà di questi interventi come si può preve­dere da diversi documenti.

Accanto all’indagine storica abbiamo por­tato avanti un’altro tipo di indagine basa­ta sull’osservazione del monumento in esame sia dal punto di vista statico che da quello dell’uso dei materiali,nonché dal deterioramento di questi ultimi.

Il corpo di fabbrica della chiesa è realiz­zato in massima parte con una muratura a sacco in laterizio, fatta eccezione per la base che è costituita da grosse pietre squadrate in arenarea, provenienti probabilmente dalla Pieve a Morba.

La canonica

Sull’aspetto frontale c’è da notare il diver­so comportamento all’usura dei singoli mattoni:difatti mentre alcuni sono grave­mente deteriorati, altri sono in buonissi­me condizioni; questo fenomeno che in un primo momento ci ha fatto pensare ad una diversa datazione dei materiali ha in­vece con tutta probabilità avuto origine dalla diversa cottura ed alla diversa espo­sizione alle intemperie dei singoli ele­menti.

La finestra sopra la porta, che nelle vite pastorali è descritta come oculus, è sta­ta probabilmente ricostruita in epoca re­cente,per cui è molto difficile stabilire la forma della finestra originale. La struttu­ra presenta delle lesioni che si possono far risalire al primo dopoguerra.Sulla na­tura di queste lesioni si possono fare più ipotesi: spinta della copertura, cedimen­to delle fondazioni, degrado dei materia­li. Esclusa l’ipotesi di un cedimento fon­darla chiesa è interamente fondata su gabbro) restano le altre due, che sono probabilmente concomitanti: di fatti se da un lato la copertura esercita sicuramen­te una spinta sia perpendicolare,che si suppone uguale lungo tutto il lato su cui appoggiano i correnti, avrebbe dovuto provocare i medesimi danni lungo tutto il lato suddetto; se questo non è avvenuto invece che in luoghi ben definiti è perchè alla spinta della copertura, in questi luo­ghi si è aggiunto il degrado dei materiali dovuto all’infiltrazione prolungata di ac­qua piovana. Come si trova ampiamente documentato nella ricerca storica la co­pertura ha avuto spesso bisogno di esse­re riparata e questo fa legittimamente supporre che ci siano stati periodi abba­stanza lunghi durante i quali l’acqua pio­vana è filtrata liberamente all’interno del sacco, provocando la disgregazione del legante interno al sacco e quello della stessa malta che lega i mattoni. Il lato de­stro nel suo insieme è poco leggibile a causa del recente campanile e dell’ attua­le sacrestia che ne occupano una parte notevole. Da notare la finestra monofora, murata dall’interno, e la fila di elementi in laterizio decorata a rilievo di pregevo­le fattura inseriti nel bordo poco sotto la copertura.

Del campanile c’è poco da dire, costrui­to tra il 1902 e il 1909 (Progetto di Carlo Bonucci di Pomarance detto il Falugi), ri­sulta in buone condizioni, fatta eccezio­ne dei solai intermedi in legno che risul­tano particolarmente deteriorati.

La sacrestia che si raccorda al campani­le con una ammorsatura in laterizio, è per il resto costruita con pietrame frammisto a laterizio. Non abbiamo notizie sufficenti per datare con precisione questa costru­zione, che comunque non esisteva anco­ra alla metà del XVII secolo. Sul lato po­steriore della chiesa è per cosi dire ap­piccicata una costruzione a pianta trian­golare che secondo le testimonianze rac­colte dalle visite pastorali è la originaria sacrestia.

L’altro fianco laterale della chiesa (di fron­te alla chiesa della Misericordia) è molto più leggibile ed apre una serie di proble­mi a cui non è facile dare una risposta. La prima cosa che vien fatto notare sono senz’altro le due porte chiuse, che si tro­vano circa tre metri sopra il piano strada­le. Queste porte, che dovevano aprirsi su un terrapieno dove era situato il cimitero sono state chiuse con materiali diversi, il che fa pensare ad epoche diverse; la lo­ro soglia si trova a 40 cm. più in alto ri­spetto al piano del pavimento della chie­sa. Lo sbancamento del cimitero ci ha permesso di di vedere la struttura di fon­dazione che poggia direttamente sulla roccia viva, eccezion fatta per l’estremi­tà posteriore che ha dovuto essere soste­nuta con uno sperone in pietra,costruito probabilmente proprio quando fu spostato il cimitero. Anche su questo lato è presen­te la fila di elementi in laterizio decorati simile a quella che si trova sul lato oppo­sto; osservando bene l’estremità poste­riore in alto si può notare lo strappo cau­sato dalla caduta del campanile(inizi del 900) che non fu più ricostruito. All’inter­no della chiesa,molto è stato cambiato ri­spetto a ciò che risulta scritto nelle visite pastorali. Ci sono adesso altari in stucco, uno maggiore e due laterali, sopra il mag­giore c’era un’immagine raffigurante la vergine tra i santi(oggi restaurata e con­servata nella nuova Chiesa parrocchiale di Montecerboli). Sull’altare di destra c’e­ra un crocifisso in legno di scuola sene­se, che anch’esso è stato portato nella nuova chiesa; sull ’altare di sinistra vi è una statua della vergine con il bambino.

NOTE BIBLIOGRAFICHE

Archivio storico Comunale di Pomarance Fil­za 378 e seg.ino alla 803

Rassegna “Larderello“ 1955-1956

  • Repetti “Dizionario Geografico e fisico del­la toscana V.3 Fi. 1839

Targioni Tozzetti: Relazione di alcuni viaggi fat­ti in diverse parti della Toscana Fi.1770

C. Ceccarelli: “Val di Cecina” Monografia geo­grafica. Faenza 1913.

S. Pieri: “Toponamastica della toscana meri­dionale e dell’arcipelago Toscano.

M.Salmi: “Architettura Panoramica in tosca­na” 1929

Chiese Romaniche nella campagna toscana 1959

  1. Scheneider: “Regester Volterranorum” Ro­ma 1907
  2. Volpe: “Maremma” Gr.1924-1930 Zuccagni Orlandini A. Atlante geografico fisi­co storico della toscana. 1832.

Moretti-Stopani “Chiese romaniche in Val di Cecina” 1970

Visite pastorali dall ’Archivio della Curia Vesco­vile di Volterra.

S. Mastrodicasa: “Dissesti statici delle strut­ture edilizie Hoepli Milano 1977”.

P. Sampaolesi: “Discorso sulla metodologia generale del restauro dei monumenti”. Firen­ze 1977. Ringrazio vivamente gli Archietti Talocchini, Bianchi e Salvi per aver concesso la pubbli­cazione di questo interessante studio univer­sitario che ci permette di conoscere ancora di più il nostro patrimonio storico artistico spes­so sottovalutato e lasciato nel piu completo de­grado.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

LA CHIESA DI MONTEGEMOLI

È LA CHIESA DI DANTE ALIGHIERI?

di Don Mario Bocci

Il 24 agosto, giorno di S.Bartolomeo apostolo, è avvenuta la riapertura al pubblico della parrocchiale di Montege­moli, e vi si è celebrato la consueta festa titolare e patronale.

I restauri, portati a termine col concorso di tutta la popolazione, mettono in evi­denza la struttura molto antica della chie­sa, di chiara impostazione romanica, almeno duecentesca, se non più antica. Ma il fatto stesso di questo recupero architettonico mette in evidenza anche la sensibilità del sacerdote ufficiatore Don Luciano che precedentemente re­staurò la chiesa romanica di Castelquerceto e recentemente ha abbellito quella di Saline dove risiede.

Lo stesso Don Luciano ha commissio­nato una ricerca storica su Montegemoli dalla quale risulta che un “Regesto”, o registro, di documenti volterrani, stam­pato all’inizio di questo secolo, contiene, tra molte altre, queste notizie.

Il vescovo di Volterra, Bertelli alla cerimonia di apertura (agosto 1993)

Nel 1133 avevano possessi in Montege­moli gli abati di Morrona, monastero beneficato dai conti Cadolingi di Fucec­chio.

Nel 1176, con una sua bolla solennissi­ma, papa Alessandro III garantì prote­zione alla Badia di Monteverdi pei diritti da essa posseduti sopra castello corte e chiesa di Montegemoli.

Tale giurisdizione monteverdina, nel 1208, l’abate Ranieri la concesse ai con­soli del Comune di Volterra.

Non si conosce a pieno l’estensione di tutti questi diritti degli abati; ma il giorno 8 luglio 1226 i conti palatini Guglielmo e Bonifazio del fu conte lldebrandino degli Aldobrandeschi di Soana Pitigliano e Grosseto, stando presso il castello di Montegemoli nella chiesa di S.Bartolomeo, presente Seracino prete della parrocchia, e Affricante rettore del­la corte e castellano pei volterrani, fece­ro registrare tutti i loro diritti e ragioni feudali.

Nel 1257 i conti palatini lldebrandino e Umberto del fu conte Guglielmo, in lite coi volterrani pei castelli di Montegemoli e Silano, fecero compromesso di queste differenze nel capitano anziani e consi­glio di Firenze.

Le liti però continuavano ancora nel 1285 quando Guido di Montfort marito di Mar­gherita Aldobrandeschi, insieme a Ghe­rardo di Fosini procuratore dei volterra­ni, fecero arbitri della contesa circa il castello e le acque salse, il consiglio del Comune di Siena.

Guido di Montfort, scomunicato dal papa, fece perdere molti dei diritti degli Aldobrandeschi, ma il 2 agosto 1297, nella divisione avvenuta in Santa Fiora tra i conti, per sorteggio toccarono a llde­brandino Novello, oltre Silano e Monte­gemoli, i diritti su Roccastrada, Suvereto, Pietra Batignano, Massa, Scarlino, Giuncarico ecc.

Sono tempi persone e luoghi “dante­schi”, e fatti ben conosciuti dagli abitanti di Valdicecina. Tra questi c’è lo scrittore poeta e pittore Bindino da Travale, forse dei Pannocchieschi, ma che non disde­gna chiamarsi “il porcaro” di Valdiceci­na. E’ lui che, irridendo le megalomanie dell’Alighieri, nel 1415 nella reggia di Napoli mette in bocca al re Giacomo d’Angiò, di fronte agli ambasciatori di Siena e Firenze, un discorso carico di traslati contro la superbia di Dante, tra cui l’allusione a Montegemoli e Montecoloreto, per cui fa sospettare che la madre e la matrigna del poeta non aves­sero ascendenze nobiliari.

Argomentando su queste memorie, al PaliodelleContradedi Pomarance 1987, Dante fu incoronato con “l’Alloro di Mon­tegemoli”, e la sceneggiatura sui rac­conti di Bindino fece vincere il primo premio alla Contrada Marzocco.

Oggi, nell’occasione della riapertura di questa chiesa, esasperando certamen­te l’implicazione su Montegemoli regi­strata da Bindino, non si potrebbe pen­sare che il poeta fosse stato battezzato in questa chiesa? Dante, nato nel 1265, perse la madre a cinque anni e il padre in seconde nozze sposò Lapa di Montecoloreto.

In quel tempo, certamente, il “bel San Giovanni” di Montegemoli si sarebbe dovuto trovare nella grandissima pieve vecchia di Micciano, che non sappiamo precisamente quando crollò o fu distrut­ta; Montegemoli però (piccolo mondo di nobili potenti) ebbe prestissimo un fonte battesimale dove battezzare anche l’Alighieri.

Una Madonna di grande devozione

Con la riapertura della chiesa parroc­chiale viene messa in evidenza e collo­cata più vicina ai fedeli la devotissima immagine della Madonna col Bambino, tela su tavola che i cultori dell’arte collo­cano almeno nell’ambito del Millequattrocento.

E’ difficile documentare se il quadretto è la rimanenza di un polittico antico, nato e voluto intero per la chiesa, oppure, come in altre chiese, il polittico fu messo a circondare un’immagine più antica e già venerata.

Don Luciano, nella ricerca da lui esegui­ta, lascia in sospeso le due possibilità. Infatti un inventario del secolo XVII così descrive in chiesa la “mostra” dell’altare: “Un quadro d’altezza di braccia quattro e larga tre fatta di nuovo da me prete Antonio Telleschi l’anno 1642 tutta a mie spese e di mio proprio con l’infrascritti santi, donata con sua cornice di noce e sua coperta di tela turchina, cioè LA MADONNA ANTICA ch’io ci ho trovato. Nel Quadro “nuovo” da capo il Padre
Eterno, a mano destra S.Bartolomeo titolo della chiesa, S.Antonio abate e S.Francesco, a mano sinistra S. Verdiana S.Lucia e S.Cecilia. Quale mi gosta in tutto Scudi Cinquanta.”

Madonna antica e quadro “nuovo” con santi. E il quadro vecchio?

Un documento del secolo XV riporta una lettera al Vescovo da parte dell’Opera Parrocchiale che sollecita una decisione per un polittico (così sembra) essendo disponibili tra 1437 e 39 almeno Lire 165 (tra erbe di Pasco e bestiami venduti) per compiere questa pittura.

“Ricordo a Voi Monsigniore Messer lo Vescovo de’ fatti della Chiesa di Montegiemoli e Ch’Ella vi sia raccomandata, perché l’opera di decta Chiesa fecie fare una tavola di legniame per l’Autare di decta Chiesa, la quale si fecie per farla dipigniere e ponerla a decta Altare, con­siderato che e denari che bisognano per decta dipintura ci sono.”

Era una tavola di contorno per questa Madonnina, che anche allora, poteva chiamarsi “antica”?

Un ricercatore, americano di Boston, Rolf Bagemihl, che ha lasciato sue scrit­ture presso i signori Cantini e Cucini, famiglie che iniziarono i lavori di restau­ro alla facciata della chiesa, è di questo parere.

Il campanile della Chiesa

Egli parla, come pittore, di Francesco di Neri Giuntarini da Volterra, e quale com­mittente, o testatore, di Coluccio Fre­scolini da Montegemoli, il quale espres­se le sue ultime volontà nel giugno 1348. Come nessuno può giurare su Dante e Montegemoli, anche se la seduzione di Bindino da Travale è grande, così nes­suno può sposare senza matura rifles­sione le suggestioni dell’americano: il pittore volterrano Francesco di Neri era a suo tempo conosciuto come Fran­cesco di “maestro Giotto”.

Comunque trovare a Montegemoli ri­chiami danteschi, uniti a luminosità giot­tesche, è quanto basta per definire “so­lare” la devozione di questi popolani alla loro Madonna, e concludere con le paro­le del divino poeta

“Vergine madre figlia del tuo figlio umile ed alta più che creatura (sei tu nel cielo)

La Torre del Castello di Montegemoli.

meridiana face di caritate e giuso intra i mortali se’ di speranza fontana verace”

Una speranza che dona “nobiltà” alla madre dell’Alighieri, alle nostre madri e a ciascuno di noi.

Numerosi altri santi e devozioni

Antonio di Pietro Telleschi da Castelfiorentino, diocesi di Firenze, risulta “cano­nico” nel suo paese, quando dal Comu­ne di Montegemoli, tramite il nobile vol­terrano Gaspero Bardini, il 4 ottobre 1614 fu presentato al vescovo Luca Alamanni perché lo nominasse a succedere a pre­te Niccolò Maffii di Pomarance, che un mese prima aveva rinunciato la cura d’anime per vivere del proprio patrimo­nio familiare.

La cura d’anime, paese e campagna, consisteva in 45 famiglie e quasi 400 persone (la peste del 1630 le ridurrà assai); le rendite vengono segnalate in quaranta sacca di grano, computateci 48 staia per decime prediali.

Il vescovo, prima di nominare questo prete, che poi risulterà bravissimo, tra­mite il vicario Carlo Mazzinghi e Jacopo Petrini del comune fece affiggere editti alla chiesa del paese, e poi lo fece esa­minare rigorosamente dall’arcidiacono Baldassarre Bardini, dal teologo Gugliel­mo Bava agostiniano e dal giurista Anto­nio Panzerini dei conventuali di Volterra. Nella visita pastorale , che l’Alamanni aveva fatto il 7 aprile 1606 coi canonici Pierpaolo Minucci e Ottaviano Cecchi, viene descritto l’altare maggiore sopra cui c’è un’icona “antica” con la Beata Vergine Maria S.Bartolomeo apostolo e molti altri santi.

Non si dice quali, ma forse non c’è Santa Verdiana che è valdesana di Castelfiorentino. A mezza chiesa, a destra en­
trando, c’è l’altare di S.Sebastiano “eret­to come si asserisce per voto di peste dalla famiglia Pieri” ma a devozione di tutto il popolo; l’icona contiene le imma­gini di S.Sebastiano S.Antonio e S.Rocco. Di fronte, a sinistra, c’è l’altare della Compagnia del Corpus Domini, composta di uomini e donne che vanno in processione, ed hanno commissiona­to un’icona nuovissima.

Dentro il castello c’è un Oratorio dedica­to a San Michele arcangelo, di cui è patrona la famiglia Barzottelli. Il cappel­lano, canonico Angelo Guidi, vi deve celebrare sabato domenica e lunedì; fare la festa l’otto maggio, apparizione di S.Michele, e quella di S.Macario con uffizio il giorno seguente.

Nell’icona ci sono le immagini della Be­ata vergine di S.Michele S.Giovanni e S.Macario.

Fuori castello c’è l’Oratorio di San Seba­stiano. A un miglio lachiesadi S.Niccolò a Celli, già parrocchiale oggi unita a S.Bartolomeo; vi si fa la festa titolare il 6 dicembre e la commemorazione di S.Macario.

I Guidi, affittuari dei beni, per contratto vi devono piantare una vigna; ma per loro devozione hanno eretto un Oratorio di S.Caterina alla loro villa di Serra.

Antonio Telleschi era sempre vivo nel 1652, e il vescovo Giovanni Gerini nella visita del 7 aprile (domenica in Albis) testimoniò che tutti i giorni festivi inse­gna la dottrina cristiana e i rudimenti della fede cattolica, proclama le feste e le vigilie, spiega il vangelo e i documenti della morale. Per Pasqua tutti si sono comunicati, e in parrocchia non c’è nes­sun pubblico peccatore.

Don Mario Bocci

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

LO STEMMA DEGLI INCONTRI A MONTEGEMOLI

Conoscendo per caso la famiglia Can­tini di Montegemoli ed avendo saputo del loro impegno nel restauro della chie­sa di San Bartolomeo di Montegemoli, non mi sarei mai aspettato che questa piccola chiesa celasse sotto il fatiscente intonaco un’interessante paramento murario di epoca medievale in cui sono stati riscoperti alcune feritoie ed una monofora posta dietro l’altare, che ren­dono l’ambiente notevolmente affasci­nante.

L’impegno del parroco Don Luciano, che ha promosso insieme ad alcuni volontari il restauro, è stato notevole ed ha contri­buito a riportare questa piccola chiesa agli antichi splendori valorizzando quel­le poche ma significative opere d’arte che vi si conservano.

Tra le cose più interessanti che vi si trovano, come la bellissima icona tre­centesca raffigurante una Madonna con Bambino, è da considerare un oggetto che probabilmente sfugge al visitatore . Trattasi di una acquasantiera, realizza­ta in alabastro locale e murata sulla parete destra entrando, molto vicina alla porta di accesso, che reca scolpito in bassorilievo lo stemma di un’antica fa­miglia di origine pomarancina, quella degli INCONTRI.

Di questa casata me ne ero già occupa­to in passato studiando la loro attività di mercatura con la produzione e lo smer­cio delle maioliche pomarancine od an­che per la loro parentela con il pittore Cristofano Roncalli che dipinse nei primi anni del ‘600 a Pomarance una grande tela per l’altare di Sant’Andrea, eretto dagli Incontri, nella chiesa di Pomaran­ce .

Una importante famiglia che possedeva molti beni immobili nel comune di Poma­rance e che aveva in patronato anche il bel crocifisso ligneo,proveniente dal ca­stello di Acquaviva, presso il Bulera,ed oggi collocato sopra l’altare Maggiore della chiesa di Pomarance.

Lo stemma degli Incontri, effigiato nel­l’acquasantiera di Montegemoli, è pro­babilmente risalente al XVI-XVII secolo e doveva essere stato donato da qual­che discendente che aveva voluto la­sciare un suo ricordo alla popalazione di Montegemoli. Alcuni di questi infatti fu­rono Vescovi Volterrani od anche pub­blici Notai fiorentini come Ser Piero di Andrea Incontri da Ripomaranci che fu, nel 1565, Cancelliere della Comunità’ di Montegemoli .

Molti di questi stemmi che raffigurano due leoni sovrapposti, intramezzati da una barra e con il rastrello sopra, erano posti anticamente sulle case e possedi­menti degli Incontri nel castello e conta­do di Ripomarance.

Ne è una riprova un documento del 1670, conservato nell’archivio Storico di Po­marance, che riportiamo integralmen­te e che ci consente di capire l’origine della famiglia ed i luoghi dove gli stessi blasoni erano collocati. Purtoppo la mano dell’uomo ha contribuito a cancellare queste testimonianze del passato che possiamo solo documentare attraverso gli antichi manoscritti.

“A dì Dicembre 1670

Coadunati il Gonfaloniere et Priori della Comunità delle Ripomaranci nella solita residenza in numero sufficente serv. servantis ordinarono a me cancelliere farsi fede autentica come la verità fùet, che /’Alfiere Alamanno di Gio.di Marco Antonio Incontri che abita la terra delle Ripomaranci è dell’istessa e medesima famiglia dell’Incontri che di presente habitano e risiedono a Volterra e così è sempre da loro tutti stato tenuto e ripe­tuto per esser li loro antichi della mede­sima consorteria e discendere da un medesimo Autore; che così hanno anco­ra sempre sentito dire da loro antenati senza esserci memoria in conto e sem­pre fra di loro si sono trattati sempre tali e come dalla medesima consorteria ;si come ancora hanno fatto e fanno la medesima arme che sono due leoni d’oro volti sul lato diritto tramezzati da una sbarra pure d’oro in campo azzurro con un rastrello sopra rosso e tre gigli d’oro che a quello fanno di presente.

Ma nell’antiche di centinara d’anni man­ca il rastrello et gigli, la quale arme si vede esposta nella terra delle Ripoma­ranci, in molti luoghi pubblici et privati e particolarmente nella chiesa Arcipresbi­terale di S. Gio. Battista in due cappelle fatte dai suoi antenati che una è l’altare del S.S. Crocifisso, et l’altro è l’altare di S. Andrea Apostolo; et un ‘altra più antica simile fatta pure dai suoi antenati si vede in una colonna e dove sta il Gonfaloniere di detta Comunità; si come ancora un ‘al­tra antichissima di centinara d’anni se ne vede nella lapide della sepoltura an­tichissima.

Della sua famiglia ha sempre quello con il rastrello a gigli, si come da tutti pubbli­camente si vede; si come anco nel me­desimo modo si vede esposta la detta arme sopra la porta della casa loro anti­ca in detta terra, luogo detto “In Piano” dinanzi la chiesa principale e dentro le lor case, in molti luoghi, et in molti de lor poderi et altrove;

Si come attestano che detto Alfiere In­contri e suoi antenati si sono sempre trattati civilmente et onoratamente, et con decoro conforme la sua nascita, et tenuto sempre serve, servitori et cavalli, si come sempre si sono imparentati ci­vilmente et nobilmente; et particolarmen­te in Volterra con le prime famiglie, si come altrove et no hanno mai fatto pro­fessione alcuna che possa denigrare la civiltà ma esercitare sempre in caccia, arme, et lettere et simili, essendo o an­cora stati et sono comodi di facultà si come per il pubblico e notorio a tutta la Terra delle Ripomaranci ma a chiunque li ha conosciuti et conoscere….”.

Jader Spinelli

NOTE

Sulla famiglia Incontri vedi:

  1. J.Spinelli – “Il Redentor Crocifisso d’Acquaviva”; La Comunità di Pomaran­ce N. 3 -1987.
  2. J. Spinelli – “Gli stovigliai a Pomaran­ce”; La Comunità di Pomarance N.1- 1990.
  3. J.Spinelli – “Un dipinto del Roncalli a Pomarance”: La Comunità di Pomaran­ce N. 2-1992.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

I SIGNORI PADRONI

un racconto di Vittorina Bibbiani Salvestrini

Al mio paese non c’erano contadini proprietari di terre, ma solo mezzadri. La terra suddivisa in tenute, più o meno grandi, apparteneva tutta ai “Signori”, ai padroni. I padroni avevano quasi tutti il palazzo nelle stesse vie, ma abitavano in città e venivano al paese solo a metà estate. Essi erano chiamati padroni, ma in realtà i veri padroni erano i fattori (amministratori) che tartassavano i con­tadini e fregavano il padrone arricchen­dosi piano piano alle sue spalle, spesso diventando più ricchi di lui.

“Fammi fattore una anno……. se non ar­

ricchisco, mi danno!..”.

Il “Signore” più signore era il conte De Larderei ed il suo palazzo era il più grande ed il più bello. Si allungava per un quarto della via Roncalli, dove era l’ingresso ed anche l’abitazione del fat­tore, girava l’angolo dove si spalancava il grande ingresso delle scuderie poste sotto il palazzo e dalla parte opposta si alzava di vari metri sulle “mura”, col suo bel giardinetto pensile e i suoi tre piani. Su questa facciata spiccava lo stemma gentilizio. Era la riproduzione, un po’ ridotta, del palazzo De Larderei di Livor­no.

Il conte era un bel vecchio distinto dalla barba bianca.

Egli, con felice intuito, aveva comprato per una miseria la terra brulla, conside­rata quasi maledetta dei soffioni, dando origine a quello che è diventato poi il complesso industriale di Larderello che da lui ha preso il nome.

Una sua figlia aveva sposato il principe Ginori, aggiungendo ancora lustro alla casata. Mi par di rivedere la principessi­na, quando passava da casa mia a ca­vallo!

Vestita da amazzone ( con la gonna lunga fino ai piedi) sedeva in sella con le gambe a sinistra, i lunghi capelli sciolti, raccolti da una parte, il frustino e le briglie in mano.

Tutto era lindo, luccicante, impeccabile: dall’abito al cavallo, ai finimenti, al ri­spettoso scudiero in divisa che le caval­cava un po’ dietro.

Per noi bimbetti di campagna era il plus – ultra della signorilità e li guardavamo con ammirazione mista a un po’ d’invi­dia. Il fattore del Conte era un signore con la barba, robusto, altero e taciturno che incuteva a tutti soggezione.

Era lui il vero padrone di tutta la contea. Sua moglie, lasignoraGiulia, era bellae dolce e non usciva mai. Il fattore, forse geloso, doveva essere un tiranno anche con lei. Aveva anche un figlio; bello e dolce come la mamma, che studiava in città. Di fronte alla sua stanza, dall’altra parte della strada, c’era il giardino pen­sile del signor Mugnaini. Sua figlia Ma­ria, dolce e timida, uscita da poco dal collegio, si sedeva a ricamare sotto il pergolato. Attraverso l’aere cominciaro­no a partire prima sguardi furtivi, poi sorrisi, poi saluti….e poi divennero sposi felici.

lo conoscevo abbastanza il palazzo per­chè mamma , prima della venuta dei “Signori”, andava a dare una mano alla “casiera”, e alla” sora “ Caterina.

E mentre loro facevano le pulizie, io perlustravo lunghi corridoi e le innume­revoli camere con i letti a baldacchino ed i rispettivi, eleganti salottini con tante morbide poltrone e graziosi soprammo­bili. Di questi quello che più mi incantava era, sotto una campana di vetro, una chioccia a grandezza naturale che cova­va una bella nidiata di pulcini dorati e birichini.

La cucina era immensa; grande acqua­io, grande camino, grandi tavole. Ad una colonna c’era appeso un macinino, anzi un macinone. E alle pareti tanti rami luccicanti e nelle vetrine cristalliere scin­tillanti. Ma il Conte era un uomo sempli­ce, mangiava nel tinello aperto sulla cu­cina e dormiva in una cameretta a pian terreno, quasi spoglia. Il suo letto era senza baldacchino e ai piedi di esso c’era un inginocchiatoio.

Altri palazzi ,come ed esempio quelli dei Fabbricotti,dei Galli Tassi o dei Bicocchi erano più modesti.

Ricordo che una figlia dei Bicocchi ave­va sposato un avvocato francese ed era andata ad abitare a Nizza.

Nell’estate, anche lei veniva in villeggia­tura al paese di Pomarance con le figlie; e queste, per la passeggiata vespertina, qualche volta passavano, eleganti, da­vanti al “Formicaio”, accompagnate dal­la istitutrice francese, conversando in questa lingua.

Un loro zio, la sera delle sue nozze avvenute in città, portò al paese una giovane sposa, bella , gentile e candida come un giglio. La mattina presto quan­do il proposto aprì la chiesa, se la trovò alla porta piangente, disperata, che chie­deva di confessarsi; riteneva di aver commesso un gran peccato mortale e voleva ritornare dalla sua mamma.

Non sapeva nulla del matrimonio. Forse credeva davvero che i bambini li portas­se la cicogna.

Fu compito non facile per il proposto consolarla, erudirla e convincerla a ritor­nare a palazzo a compiere i suoi doveri di sposa!

Altri tempi!

I nostri padroni erano i Signori Fabbri­cotti.

Abitavano a Massa Carrara dove si era­no arricchiti con le cave di marmo. Pos­sedevano al paese una vastissima tenu­ta ed un bel palazzo, anchesso col giar­dino pensile.Avevano una grande villa con giardino e scuderie a Livorno, villa che porta ancora il loro nome.

Erano buoni e munifici, specialmente la signora, morta quasi in odore di santità. Ogni anno ella faceva allestire una gran­de fiera di beneficenza per offrire, così a tutti doni, senza umiliare.

Il loro arrivo era annunziato dal festoso suono della banda comunale ( proprio come nel “Gattopardo”).

Poi venne la guerra 1915-18 e peggio ancora il dopoguerra; e i suoni si tramu­tarono in fischi. E i signori non vennero più.

Il Principe Ginori e F. De Larderei nello stabilimento di Larderello con i loro dipendenti (1900 circa)

Vittorina Bibbiani Salvestrini

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

LA RITIRATA DELL’A.R.M.I.R. IN RUSSIA

RACCONTO AUTOBIOGRAFICO DI M. SCARCIGLIA

Caro direttore, ho accettato il tuo invi­to a descrivere la tragedia dell’ARMIR, tragedia immane, della quale porto i se­gni indelebili sul corpo e nella mente, spe­rando che i giovani e certi politicanti da caffè imparino che cosa è la “guerra”. Premetto che l’argomento può prestarsi ad interpretazioni di carattere politico dal­le quali rifuggo.

Dirò semplicemente cose orribili che ho vissuto e sofferto.

Lo dirò con senso di riconoscenza verso quella meravigliosa “Popolazione Rus­sa”, senza l’aiuto della quale nessuno, di­co nessuno di noi si sarebbe salvato.

Noi eravamo gli “invasori” e loro gli “ag­grediti”; non dimentichiamolo!

Ed ecco il racconto, stringato, nudo e cru­do, piaccia o no, ma a prova di qualun­que smentita perchè è la semplice duris­sima realtà.

Partii con gli alpini della “Cuneense” da Borgo San Dalmazzo, poi Cuneo, Torino, Milano, Brescia, Piedicolle, Villaco, Mo­naco, Dresda, Varsavia, Kiev, Izium. Tremilacinquecento kilometri. Durante i viag­gio rimanemmo scioccati nel vedere le donne addette a pulire i binari con la “Stella di DAVID” sul dorso sorvagliate e malmenate dalle sentinelle tedesche. Tremilacinquecento Kilometri!

Non mi rendevo conto come i “sacri” confini d’Italia fossero così dilatati!

Iniziammo la marcia verso il “Don” con un caldo asfissiante.

Le più belle “Divisioni Alpine”, atte alla montagna, mandate al “macello” nell’immensità della “Steppa Russa”!

Ero addetto al collegamento continuo fra la “testa” e la “coda” divisionale.

Avevo una “Sertum 500”.

Quindici giorni di lavoro durissimo nella “Steppa”

Durante la marcia i civili ci osservavano in silenzio dalle “ISBE” (case).Arrivam­mo sul Don. La “Cuneense” al centro, al­la destra la “Julia”, a sinistra la “Vicen­za”, poi la “Tridentina” Armamenti:

In linea le “Breda 36”, il “vecchio 91” e le bombette “Balilla”, che, se pestate, po­tevano al massimo portarti via il tacco de­gli scarponcelli.

Cominciammo a scavare trincee e cam­minamenti.

Poche scaramucce, qualche attacco spo­radico, qualche morto.

Ogni giorno mi recavo a Loscina od Annofca, poi in trincea quando finivo il turno. Nei giorni di calma ci recavamo nelle “Isbe” dei civili.

Diffidenti all’inizio, più cordiali in segui­to, ci narravano delle atrocità commesse dai tedeschi.

Devo dire che mai un soldato italiano si è macchiato di una violenza verso la po­polazione.

E loro se ne sono ricordati!

A metà settembre la temperatura diminuì A metà novembre la “Steppa” era un “mare di neve”, ci orientavamo con i mu­lini a vento.

Furono distribuiti pastrani con un pò di pe­lo di pecora e sempre le stesse scarpe. A Loscina rimediai un completo russo: tenni solo il cappello alpino.

Natale 1942: La posta non arrivava più poiché, in pratica, eravamo già accer­chiati.

Capodanno 1943: Aspettavamo che ac­cadesse qual’cosa.

Giorni tristi, pochi viveri, nessuna notizia da casa, termometro a 35 gradi sotto.

E venne il 17 Gennaio: nella notte ebbe inizio la più grande tragedia della storia. Ordine di ritirata!

La notte era illuminta dagli incendi. Ero ben equipaggiato, con i” ValenKi”, i fa­mosi stivali russi, come russi erano il giub­botto ed i pantaloni. Nel tascapane ave­vo due pagnotte gelate e tre ciocciolate. Bruciammo i pochi camion, caricammo le slitte, ed iniziammo la ritirata.

Da LOSCINA in poi fu un continuo coro di urla dei feriti perché le “Katiusce” (il cannone a Trentadue Colpi) aprivano vuo­ti nelle nostre file.

Urla dei feriti che chiamavano “mamma”, urla di chi, sfinito, si accasciava per non alzarsi più.

Unici punti di riferimento il bagliore degli incendi.

Ci riposavamo al calore dei pagliai bru­ciati.

Da LOSCINA in poi un coro continuo, lan­cinante: MAMMA! MAMMA!

La fame ci dilaniava e nella steppa fi­schiava il vento sollevando aghi di ghiac­cio che crivellavano la faccia.

Avevo solo mezza pagnotta gelata.

40 gradi sotto. Ci riposavamo, puntando la pistola, per dormire nelle poche “Isbe” rimaste in piedi, perchè dormire fuori, si­gnificava non svegliarsi più.

Riempii il tascapane di occhiali da neve tolti ai morti, e li cambiai con scatolette di carne e pezzi di marmellata.

Chi non aveva occhiali doveva pagare o perdere gli occhi.

Li avrei tolti anche alla mia Mamma!

Ho dormito poche volte nelle “Isbe”, spesso nei pagliai, e le donne russe ci hanno aiutato sino al limite delle loro pos­sibilità.

Un vecchio stava mangiando latte e ce­trioli, mi dette tutto e mi riempì la gavetta. Ragazzi russi di 14-15 anni con il “Para­bellum” controllavano che fossimo ita­liani.

Ai Tedeschi facevano subito la “pelle”. Le donne ci davano latte, miele, e cetrio­li acidi.

Quanto latte ho bevuto, quanti telai di miele ho mangiato, quanti soldati italiani anno salvato!.

Prima di “VALUIKI” vidi un gruppo che aspettava un pezzo di carne: “CARNE UMANA”, carne di un alpino squartato da un colpo di “Katuiscia”. L’ho visto con i miei occhi. E se non credete a me chie­detelo a Don Turla il nostro cappellano che, con il mitra in mano, fece finire lo scempio; li avrebbbe ammazzati se non si fossero fermati!. Eravamo al limite fra lucidità e pazzia, valeva solo l’istinto be­stiale della conservazione a qualunque costo.

Arrivammo nel vallone di “VALUIKI”, pe­nultimo baluardo da superare; nel vallo­ne ci rafficavano con le mitragliatrici e una raffica spezzò una gamba di un alpino che con il fratello correva verso il riparo urlando disperato.

Un alpino chiamò il fratello, lui si girò vide e continuò a correre, e rispose: “Mamma ne vedrà almeno uno’’.

Soldati italiani sul fronte russo – 1942

Entrai in una “Isbà” dove un vecchio mi dette una ciotola di latte e cetrioli, sua mo­glie si tolse i guanti e me li mise. L’Abbracciai piangendo.

Dopo “Valuiki” continuammo verso l’ul­timo sfondamento:

“NICOLAJEFKA” e fu l’apocalisse.

Ci precipitammo verso la ferrovia, ma non sentii arrivare la Katiusca; una vampata e caddi urlando. Accanto a me fu squar­tato il generale MARTINAT. Urlavo come un pazzo; fortunatamente passò una slitta di carabinieri che mi portarono fuori dal­l’ultima sacca.

Fermi, in attesa di essere caricati su un merci, assistetti ad un episodio di puro eroismo:

Don Turla, Il nostro cappellano, sfinito ma illeso, mentre ci caricavano alzò il “Cro­cifisso’’ e ci benedisse, poi lentamente, tornò nel vallone per non abbandonare i feriti e i morbondi. Quell’atto di puro eroi­smo gli costò quattro anni di “SIBERIA”. È tornato ed ha costruito una chiesetta nelle sue valli ove ogni anno raduna gli ultimi supestiti.

Quello era un Prete!

Arrivai a Varsavia in un liceo trasformato in un ospedale, poi, dopo un sommario medicamento, mi portarono nei sotterra­nei.Dopo due giorni di bombardamenti al­tro treno.

Sostai due giorni a Vienna dove mi cam­biarono le bende e finalmenete col treno N. 20 della Croce di Malta rientrai in Ita­lia e fui subito operato a Chiavari, nella Colonia Fara e Piaggio, ove rimasi 40 giorni.

Vennero la mia mamma e mia zia che non mi riconobbero.

Ero trentuno kilogrammi.

Di nuovo operato a Pisa, poi cure, aria di mare, affetti, hanno rimarginato le ferite, ma in noi sopravvissuti c’e un nodo di ge­lo che nessun calore scioglierà mai più. Considerazioni:

Le più belle divisoni del mondo “Cunenese, Julia, Tridentina”, distrutte.

Fummo spediti nell’immensità della step­pa russa noi alpini allenati in montagna, perchè ci fu chi aveva bisognio di cin­quantamila morti da far pesare sul tavo­lo delle trattative!

Li hanno avuti:

114.240 giovani hanno lasciato i loro 20 anni nel gelo della steppa russa a male­dizione di chiunque voglia la GUERRA.

Bollettino di Guerra del Comando Supre­mo Russo N. 630 dell’8/3/1943: ” Solo il corpo di armata Alpino deve ritenersi im­battuto sul suolo russo”.

Firmato Josef Diugasvili STALIN.

Non era dal cuore tenero ma seppe egualmente riconoscere il nostro valore.

PERCHÈ GLI ITALIANI RICORDINO

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

“UN CAVOLO…”

Negli ultimi anni di guerra, forse era il 1944, in un giorno d’inverno abbastanza freddo, io, che abitavo a La Spezia mi recai a Pomarance, da certi parenti in cer­ca di pasta e farina, che non si aveva in casa, malgra­do la tessera annonaria.

Mia madre, mi diede un bel cavolo da portare a questi parenti, poiché a La Spezia il clima abbastanza mite favoriva la crescita delle verdure. Mentre mio padre mi diede un paio di stivali di gomma.

– Faranno comodo a qualche contadino – Mi disse!

A quei tempi il viaggio in treno era lungo. Prima di Pi­sa, a S. Rossore, il treno finiva la sua corsa per ripren­derla oltrepassata la stazione al cosiddetto “collo d’o­ca” cioè un bel pezzo a piedi in mezzo ai binari distrut­ti dai bombardamenti.

Quando era buio alla stazione di Saline, ci fu un posto di blocco di militari fascisti, che vollero controllare i ba­gagli di ciascuno dei viaggiatori giunti col treno.

Alla domanda di cosa avessi nella valigia risposi can­didamente:

“Un cavolo e degli stivali!” Il resto della valigia era vuoto. Ero andato apposta per caricare un pò di mangiare. Questi si offesero parecchio e credendo ad una battu­ta messa li, mi dissero di fare meno lo spiritoso, che aprissi subito, al che quando li accontentai, ci rimase­ro assai male, tanto che uno di quelli, mi disse se ave­vo uno scontrino relativo all’acquisto degli stivali.

lo veramente non sapevo che da queste parti fosse in vigore la ricevuta fiscale, anticipando di circa quaran­ta anni i tempi, per cui rimasi alquanto perplesso, dissi che non l’avevo, che a La Spezia le cose si comprava­no e basta, le uniche ricevute erano quelle dell’affitto e della luce. Ci rimase male e mi disse di andare.

Pomarance – Via Roncalli, 1920

Geom. GIUSEPPE PINESCHI

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

“COME ERAVAMO”

RICORDI E IMMAGINI D’ALTRI TEMPI

TEATRO DEI CORAGGIOSI ANNO 1930 circa OPERETTA L’ACQUA CHETA fra gli interpreti Giulia Funaioli, Cesare Falcini, Socrate Righi, Luisa Baldini, Argante Casanovi, Giovannina Mazzinghi, il farmacista Quadri, Dona­tello Fontanelli, Miro Bruscoli, Bartolo Bartoli ed il Maestro Sestini.

Non c’era ancora il cinema nè tantomeno la televisione, le feste da ballo erano rare. In quel tempo l’operetta impera­va ed il suo fascino arrivò fino da noi. Direi che fu proprio questo mondo e quello della commedia musicale ad inte­ressare maggiormente i nostri nonni. Si facevano anni di prove sia per il gusto di stare insieme ma anche con lo scopo di fare un buono spettacolo che sarebbe stato motivo di conversazione nelle lunghe veglie invernali sul canto del fuoco o sotto i freschi nei lunghi pomeriggi d’estate.

L’Acqua Cheta, mi ha raccontato il Falcini, fu l’unica vera operetta da noi rappresentata, fu quella che ebbe maggior

successo, fu rappresentata tre volte a Pomarance ed una volta anche a Saline di Volterra.

Mentre parla gli si illuminano gli occhi, sta rivivendo sensazioni ed emozioni che appartengono ad un mondo lontano. Il Principe dice ci mise a disposizione per quattro prove generali l’orchestra del Teatro di Larderello ed a fine rappre­sentazione ci regalò per riconoscenza il pianoforte. Si è proprio quello della Filodrammatica che si trova nel Teatro dei Coraggiosi.

Come era bravo il Quadri!! Che bella voce aveva Luisa ed ero anch’io un bravo tenore.

Mi ricordo che Giulia cadde nel ballo delle rificolone. Che applausi! la gente voleva il bis.

Guarda la fotografia, fa un lungo sospiro.

Sono morti tutti dice.

□ Il servizio una volta al giorno andava da Volterra a Massa Marittima, successivamente fu messa la “Postale” anche per Pisa e Firenze.

Mi ricordo che per arrivare a Firenze si partiva la mattina alle 5 e si arrivava alle 10.

Alla sera quando alle 8 arrivavano i due “Postali” vi era sempre un gruppetto di gente davanti la posta in Piazza De Lardarel ad aspettarli. Mi ricordo Emogene sempre con la panierina portava il mangiare ad Amleto che ritornava a casa solo il sabato.

Amleto era il fattorino, ricordo anche Aldo il Baldini, il Busoni e Cassiano.

Le macchine erano in pochissimi a possederle, si contavano sulle dita, e la gente viaggiava quasi tutta in “Postale” e quel momento dell’arrivo era un attimo importante la gente si baciava, si salutava, aveva il piacere di ritrovarsi. Si scaricavano i bagagli che spesso erano legati sul tetto. Dopodiché si vedevano gruppetti di gente che parlando animatamente si dirigevano alle proprie case grati al Postale che aveva ancora una volta ricondotto a casa un affetto.

1919 – Linea Volterra-Massa M.ma FIAT 18 B2, a gomme piene.
Nella fotografia: Biondi Jolanda, Cerboneschi Maggi Lina, Falcini Cesare, Tonelli Piero, Coppini Seraflna, Pineschi Carla, Tani Primo, fat­torino della “Postale”, Caporioni Dino, Grandi Edoardo, Bacci Cesare, Landi Ernesta.

Mario Fiossi

C’ERA UNA VOLTA: “I Veglioni”

□ Era da pochi anni finita la guerra. Soldi ne giravano pochi e di conseguenza pochi erano i divertimenti, la gente faceva a meno di tutto impe­gnata com’era nella dura battaglia della vita, ma… “Anche quest’anno a Carnevale al Teatro dei Coraggiosi faranno tre Veglioni”.

Non tutti potevano permettersi di parteciparvi, era già un lusso poter andare ad uno. Nelle famiglie più modeste dove c’erano ragazze da marito si cominciava a fare i conti; con tanti sacrifici si sarebbe potuto comprare la stoffa e cucire un vestito da sera.

Si forse uno era possibile. Non si poteva certo andare a tutti e tre perché era usanza cambiarsi di abito ad ogni festa.

Questo forse era il problema più grosso, ma anche prenotare un palco non era impresa facile. Il primo ed il secondo ordine erano padronali; il terzo ordine “la Piccionaia” veniva affittato. Bisognava fare una lunga coda davanti alla “Bottega di Settimo” che al mattino, quando alle otto andava ad aprire il suo negozio, trovava sempre un folto gruppo di giovanottelli che a pagamento facevano la fila fin dalla sera prima per prendere in affitto “il Palco”. Non a tutti toccava ed i meno fortunati dovevano accontentarsi si andare davanti al teatro a veder entrare la gente e poter ammirare, anche di sfuggita, i vestiti delle ragazze che ne parlavano già da mesi. Anche per l’abito da sera esisteva quasi un rito: si andava a comperare la stoffa anche fuori Pomarance, non si doveva dire il colore, la sarta che lo cuciva non doveva farne parola con nessuno, le aiutanti erano diffidate a parlarne. Doveva essere una sorpresa. Ognuna in cuor suo sperava di essere la più elegante e l’effetto sorpresa doveva contribuire a questo e, perché no, anche a vincere quel premio che a volte veniva messo in palio per la “Miss” più bella.

Arrivava così la sera del ballo.

  1. ero ancora un
    ragazzetto ma mi ricordo abbastanza bene i particolari importanti di quelle
    feste. Noi del loggione si arrivava molto presto, carichi di dolciumi che
    durante la notte si sarebbero mangiati. Non si voleva perdere niente, per noi
    non era soltanto una festa da ballo, ma uno spettacolo pieno di luci e di
    colori, di bei vestiti ed anche di gente importante.

Piano piano i palchi si riempivano, arrivavano più tardi le persone che più contavano, la sala da ballo tutta addobbata di fiori e di festoni rimane­va vuota e chiuso il grande portale di accesso smaltato sotto il “Palchettone”.

Gli occhi di tutti erano concentrati su quel portone; tutto ad un tratto si apriva e dietro vi erano le coppie che avrebbero aperto il ballo. L’orchestra che stava sul palcoscenico intonava un “Valzer” e la prima coppia scioglieva il “nastro di raso bianco” e seguita dalle altre dava inizio a quel lungo valzer, proibito ai ballerini non valenti.

Mi ricordo che la festa cresceva in un turbinio di musica, di coriandoli e stelle filanti; ai piani inferiori si facevano battaglie con i coriandoli, se ne consumavano sacchi, tanto che per due o tre volte si dovevano interrompere le danze per spazzare il pavimento.

La festa dilagava dappertutto, coinvolgeva tutti. Per le scale c’era sempre una grande confusione, i giovanotti e le ragazze si rincorrevano, scherzavano e, perché no, si nascondevano per scambiarsi furtivi baci.

Le storie d’amore che nascevano in quelle serate, qualcuna continuava, altre finivano, ma erano comunque oggetto di conversazione per i mesi che seguivano.

  1. veglione più allegro e
    più bello era senza dubbio quello “Mascherato”; mi ricordo un anno di avervi
    partecipato vestito da “Gatto con gli stiva­li”. Il costume era bellissimo,
    ricercato e curato in tutti i particolari. Lo aveva realizzato “Giorgio”
    diventato poi uno dei più importanti costumisti italiani. I costumi da lui
    realizzati presso la sartoria “Cerratelli” per i film di Zeffirelli
    hanno vinto anche dei premi “Oscar” e
    quell’anno vinse con me il suo primo premio per il miglior costume.

Passarono gli anni ’50 e i veglioni per un periodo non furono più fatti. Altri furono i luoghi d’incontro dei giovani, furono fatte nuove sale da ballo e il cinema fu uno dei passatempi più frequentati dalla gente.

Ma il fascino di quelle serate era cosi intenso che non si tardò a riprendere questa bella abitudine. Ne sono stato anch’io protagonista, ho addob­bato la sala con rose, con mimose, con festoni colorati e lucenti, ho scorazzato anch’io per le scale su per i palchi con amici e amiche. Ho anch’io insieme ad una ragazza sciolto il “nastro bianco di raso”, ho ballato anch’io il lungo valzer ed ho respirato anch’io quell’atmosfera magi­ca che solo il “Teatro” sapeva dare. Da diversi anni il “Teatro dei Coraggiosi” è chiuso in attesa di restauri. Speriamo che il tempo non sia impietoso e che si possa giungere in tempo a salvare questo patrimonio che non è solo importante per la sua architettura, ma è soprattutto importante per il significato che ha avuto per tutta la comunità per tanti anni “Veglioni” a parte.

Pomarance Teatro dei “Coraggiosi” – 1950 (1° veglione)
Nella foto: Bianchi Gerardo, Dei Lunetta, Fignani Valeria, Manghetti Stefano detto “Il Chiorre”.

In estate, appena finita la scuola, andavo per lunghi periodi dai miei nonni.

Abitavano a “Poggiamonti”, lo ricordo come il posto più bello e più felice della mia fanciullezza.

Il giorno scorazzavo sull’aia e nel bosco in cerca di lucertole con i miei cugini e mio zio di poco più grande di me e la sera…………

Al sopraggiungere della sera, terminati i lunghi giochi, ci sedevamo tutti intorno al grande tavolo e tra chiacchere e grande con­fusione consumavamo il modesto pasto che mia nonna “la massaia” ci preparava. E poi a letto. Qui mi assaliva una sorta di malinconia ed una voglia scottante dei miei genitori, non potevo rimanere a letto con i miei cugini e mia nonna allora veniva con il lume a petrolio in mano, mi prendeva in braccio e mi portava nel grande letto, dove mio nonno sorridente mi accoglieva e mi avvolgeva con un grande abbraccio. Mi addormentavo così tra loro sommerso di affetto e di profumo di lavanda. Non era ancora giorno che mi svegliavo, sentivo mio nonno alzarsi, si vestiva.

Dove va?” domandavo.

Zitto, dormi!” rispondeva la nonna “è presto, nonno va a segare”.

Mia nonna era una bella donna, alta e rassicurante, con una mano reggeva il paniere in cui era il cibo che si portava nel campo con l’altra dava mano a me che piccolo piccolo la seguivo, mentre mi raccontava storie di maghi, di principi, di api e di farfalle. Si arrivava nel campo, faceva un grande caldo, tutto era sole e oro; il cielo, l’aria, il grano gli armenti e gli uomini erano immersi in una atmosfera pesante e risplendente che sprizzava giallo; solo la grande quercia dove ci sedevamo per mangiare conserva­va ancora il suo colore reale: verde, un’intenso verde, impenetrabile e fresco.

Si mangiava zuppa con cipolle, pomodori e cetrioli e poco più. Si beveva acqua dal fiasco ricoperto di vimini mentre i buoi poco più là, sempre al fresco, ruminavano il fieno che mio nonno non dimenticava mai. Poi ci si riposava, si dormiva qualche ora, fino a che il sole impietoso non smetteva di scottare, poi si riprendeva il lavoro: i buoi venivano riattaccati alla macchina che segava, mio nonno vi prendeva posto e si ricominciava. Il grano veniva falciato dalla macchina e dietro dietro una moltitudine di persone lo raccoglieva, ne faceva dei “balzi” che ammonticava poi in grandi “Barche”.

E la fatica ?

La fatica era dura, vera, sfibrante, si leggeva sui volti dei contadini rugosi e bruciati, si leggeva nel passo delle donne: sfiancato e lento e si leggeva nella camiciola di lana del nonno, molle e appiccicosa che bucava di grano quando alla sera tornava e mi prendeva in collo per baciarmi.

Mario Rossi

IL PROFUMO DELL’ESTATE

Finita la scuola, cominciava il gran caldo, pochi andavano al mare ed i ragazzi meno fortunati rimanevano in paese.

Nei lunghi pomeriggi assolati gli anziani meriggiavano sotto gli alberi, le donne finite le faccende domestiche si riversavano nelle strade, sugli scalini, nei punti più freschi, a sferruzzare o a pulire verdure e frutta per la marmellata. Noi ragazzi si giocava, sotto gli alberi del parco, sotto i freschi del “giardinello” oppure tra il verde del boschetto della “Villa”.

L’estate scorreva lenta in questo paese pieno di luce, di caldo e di sole.

E la sera? La sera, gli uomini dopo il lavoro uscivano per andare al “Circolo”, noi ragazzi, dopo corse affannate per prendere lucciole, si giocava a “rimpiattarello” mentre le donne con i più piccoli se ne andavano per le vie del paese a cercare refrigerio. Ricordo che tutto profumava di erba e grano falciato, di ginestre sfiorite, di polvere arsa di tigli e di rose.

La vita scorreva lenta, monotona non succedeva mai niente.

Poi all’improvviso: Il Palio!

Fu un’invenzione per sentirsi vivi, per interrompere la monotonia delle vacanze estive, fu l’invenzione che stimolò la fantasia e la creatività, fu l’invenzione che rievocava l’istinto alla competizione così fortemente radicato nelle genti di Toscana. Ricordo che all’inizio era una competizione calcistica tra i rioni del Marzocco e del Centro. Il rione del Marzocco intese subito fin dal primo anno vestire la sua mascotte con il suo capitano con vestiti medioevali, che ricordavano il suo antico passato. Lo ricordo ancora: Paimira e Mario coloratissimi con calzamaglie e giubbetti e la bandiera del Marzocco che apriva il piccolo corteo. Si rimase un po’ tutti allibiti, ci piacque e si decise tacitamente che si sarebbe potuto far meglio.

Nacque un terzo rione, il Paese Novo e la competizione si allargò: si premiava non solo chi vinceva il torneo di calcio, ma si cominciò a premiare soprattutto la contrada che riusciva a fare il migliore corteggio prima, e dopo la migliore sfilata storica. Di quei primi anni ricordo vagamente alcuni episodi e personaggi:

Meri, giovanissima vestita da Lucia, e Michele un Don Abbondio simpatico e scanzonato. Marta, superba Minerva e fierissima Amneris. Ricordo Catuscia con il bellissimo costume della regina Isabella e Alberto bravissimo nella parte di Nerone.

Un quarto rione si costituì, agguerrito e pieno di iniziative il Gelso. Bella la sua Batterflai e riuscitissimi il conte di Cavour e la sua affascinante contessa di Castiglione.

Mentre scrivo si affacciano alla mia mente volti ed episodi di Cleopatra, Antonietta, Napoleone, Giuseppina, Semiramide, Ulisse, Robin Hud, la regina di Saba, il Doge di Venezia, Paolo e Francesca e soprattutto balzano alla mia mente le persone che presta­rono i loro volti a questi personaggi: e vedo Giacomo, Claudia, Mila, Vaschilio, Vanda, Andrea, Paolo, Gabriella, Renata, Franca e tanti tanti altri. Questo gioco ci affascinò tutti, fu interrotta la competizione calcistica e si dette spazio solamente alle sfilate che rievocavano periodi ed episodi storici.

Il gioco nel corso degli anni si affinò, si ingrandì si crearono scenografie dove le comparse recitavano scene di vita passata. Diventò teatro popolare.

Finita la scuola comincia il gran caldo, molti vanno al mare… molti lavorano, inventano, creano, si riuniscono, parlano, discutono. Tutto profuma di erba, di grano falciato, di ginestre sfiorite, di polvere arsa, di tigli, di rose e… di colla, di vernice e di legno.

Scenografia “La processione di S. Giovanni del 1598“ – Contrada Paese Novo, 1988.

Mario Rossi

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

IL GIOCO

UN LUOGO CARO Al POMARANCINI

In via dei Fossi a nord est di Pomaran­ce, dietro la chiesa parrocchiale di S. Gio­vanni Battista, vi è un’area di proprietà co­munale, adibita attualmente a parcheg­gio, che è conosciuta dai pomarancini con il semplice nome di “GIOCO” . Questo appellativo in verità non è del tutto esat­to: il suo vero nome, risultante da alcune piantine catastali del periodo leopoldino (1830), era “GIUOCO del PALLONE” in­dicante che il “calcio” ha un’antichissi­ma tradizione in Pomarance.

Probabilmente giocato dai pomarancini fin dal 1500, è certo che venne praticato sin dalla prima metà del ’700 all’interno del castello di Pomarance prima di esse­re trasferito dietro la chiesa parrocchiale (1780) per le continue lamentele degli abi­tanti della contrada di Petriccio (attuale Piazza de Larderei) a causa dei danni ar­recati alle loro abitazioni da tale gioco. Molto simile al “Calcio fiorentino” , dispu­tato su di un terreno rettangolare tra squa­dre che si contendevano la palla usando mani e piedi, assumeva talvolta partico­lari aspetti di violenza che determinaro­no la volontà delle Magistrature del Co­mune di rimuoversi dalla contrada di Petriccio il giuoco del pallone e della pal­la..’” come da una lettera del Confaloniere Franco Incontri (20 sett. 1779) in cui si invitava il Magistrato a “…destinare al­tro luogo, dove poter esercitarsi in tale giuoco senza disturbo degli abitanti cir­convicini” (1).

In questo periodo vennero proposti all’at­tenzione delle magistrature tre luoghi: “…in primo luogo il posto dietro i fossi, (attuale via dei Fossi) ove levandosi a spe­se comunitative li scarichi che vi sono, e togliendosi le piante dei gelsi che siano di impedimento, può ridursi luogo atto e capace per il giuoco………. in secondo luo­

go il campo del Treppiede di proprietà del Sig. Can. e Andrea Falchi             in terzo luo­

go la Cella di proprietà della Chiesa Arcipretale              ” .

Nello stesso periodo venne indicato an­che un altro posto detto “Campo al Zol­fo” di proprietà della Compagnia di S. Gio distante da Pomarance circa un tiro di schioppo. (2)

La scelta ricadde sul luogo dietro i fossi che era anche stato destinato da S. A.R. per la realizzazione del nuovo cimitero in seguito costruito presso la cappella di S. Rocco nel 1789 (attuale Parco della Ri­membranza). Questa area fu ben accet­ta dai giocatori stessi come rilevasi da una deliberazione del 1779 in cui: “sen­tito che i giocatori desideravano il posto dietro i fossi fu proposto, di quello desti­narsi, per non aver altro luogo in propo­sito…” (3).

L’inizio dei lavori avvenne attorno al 1780 dopo la redazione di un chirografo da va­lere come contratto tra il Sig. Franco di Pietro Guglielmo Biondi ed il Comune per la cessione di alcuni mori (gelsi) da ab­battere per fare lo “spiano” del campo da gioco in cui il Biondi si obbligò con l’in­dennizzo di lire 154 a: “…non molestare ulteriormente…detta comunità…” per qualunque ulteriore spesa che poteva ve­rificarsi in futuro (4).

Fu costruita così anche la scala presso il vicolo del Muraccio per agevolare il pas­saggio dei giocatori dal Castello a que­sto luogo.

All’inizio questo sito fu ritenuto, dagli uo­mini di comune, adatto e abbastanza tran­quillo per lo svolgimento di questo gioco, ma ben presto anche qui insorsero degli inconvenienti. Infatti nel settembre del 1780 vennero stanziate dal Comune: “…lire trenta ai giocatori del pallone per riparare la vetrata del Coro della Chiesa
Arcipretale soggeta a rompersi stante il giuoco di detto pallone costruito dietro il medesimo….”
(5).

Anche attorno al 1801 questi inconvenien­ti non cessarono; in questo periodo risul­tarono altre lagnanze rivolte alle magistra­ture del comune da parte di cittadini che avevano le loro abitazioni nei pressi del “Gioco del Pallone” come ad esempio i figli del Sig. Giovanni Buroni che “…si tro­vavano minacciati dai giocatori che non vedendosi rendere i palloni dalla loro ma­dre, spesso iniziavano la scalata del mu­ro…. ingiuriando la detta madre con pa­role offensive….e facendogli dei danni nei beni stabili come forzare la porta della ca­sa con percosse e legni     ” (6).

Dai primi del ’900 fino al dopoguerra l’a­rea del “Gioco” fu pure utilizzata dai gio­vani pomarancini come luogo di ritrovo per i loro giochi e divertimenti. Secondo il racconto dei più anziani era lì che si gio­cava al tamburello, alle bocce, alle biglie di terracotta ed anche alla “trottola” di cui si ricordano ancora abili giocatori che scalzi ed in pantaloni corti davano prova di abilità nel far girare più velocemente le trottole generalmente costruite dai lo­cali falegnami Bonucci (detti Falugi) e Pi­ni, i quali le tornivano con grande mae­stria.

Il “Gioco” fu riutilizzato per il calcio nel 1927 quando il figlio dell’avvocato Coutret (detto il Signorino) acquistò a sue spe­se delle magliette color amaranto e costi­tuì la prima squadra di Pomarance forma­ta da giovani pomarancini come Mario Pi­ni e Vittorio Baldini detto l’Abbaia.

Qui si disputarono partite amichevoli e non fino al 1935 anno in cui il “Gioco” lasciò il suo posto di campo ufficiale al sottostante “Piazone delle Fiere” ; ed è lì che la squadra del Pomarance ha gio­cato fino agli ultimi anni del 1960 per pas­sare poi in una delle più belle strutture sportive della Val di Cecina: lo Stadio Co­munale.

Spinelli Jader

NOTE BIBLIOGRAFICHE

  1. Archivio Storico Comunale Pomaran­ce, F. 210, c. 158 r. e v.
  2. A. S. C. P„ F. 126, c. 12 r.
  3. Ibidem, c. 23 r.
  4. A. S. C. P„ F. 35
  5. Comunità di Pomarance anno IV n° 1, 1971, Rievocazioni Storiche E. Mazzinghi. A. S. C. P„ F. 715, c. 1227 r.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.