Nella precedente edizione della Comunità di Pomarance fu
pubblicata, a cura del Sig. Mazzinghi Geom. Edmondo, la Storia di Pomarance
dalle origini ai primi anni del 1900.
L’Associazione Turistica in questa nuova edizione
ha deciso di continuare a scrivere la Storia di Pomarance allargando lo
sguardo a tutto il territorio circostante, e per fare ciò saranno pubblicati
documenti inediti che si trovano per lo più presso /’Archivio Storico Comunale.
In considerazione della difficoltà di lettura, e
pensando specialmente ai ragazzi delle scuole che potranno così ricercarci
date e notizie utili all’apprendimento della Storia del territorio, i documenti
pubblicati saranno corredati da ampie note e spiegazioni:
Il primo documento che viene pubblicato sono gli “STATUTI DI MICCIANO’’ del 1473.
CENNI STORICI SU MICCIANO
Micciano.
□ La leggenda fa risalire l’origine di Micciano
ad un certo MITIUS, legionario romano e veterano di molte guerre, che a
seguito della Legge Julia, voluta da Giulio Cesare nel 59 A.C., ebbe in
assegnazione il territorio dove oggi sorge l’abitato con i confinanti terreni
in parte incolti ed in parte coperti di boschi.
Il documento più vecchio in cui si parla di Micciano si trova nell’Archivio Vescovile di Volterra e risale al 947, allorché il Vescovo Bosone concesse l’investitura di Piovano al Prete Giovanni di Giovanni ed al Diacono Pietro di Rutilio.
Ritroviamo
il nome di Micciano nel 1014 in un privilegio imperiale con il quale l’imperatore
Arrigo l°, fra le altre chiese e possessi, concede ai Monaci di S. Pietro a
Monteverdi anche Micciano con la sua corte e con tutti i beni in essa
esistenti.
Nel 1176
il Papa Alessandro III0 con una sua bolla conferma la donazione a
favore della Badia di S. Pietro in Monteverdi.
Nel 1186
Micciano e la sua corte viene in possesso del Vescovo di Volterra Ildebrando
dei Pannocchieschi grazie ad un diploma, datato 28 Agosto, ed inviatogli da S.
Miniato dall’imperatore tedesco Enrico IV°.
Il 17
febbraio 1203 gli uomini di Micciano giurano obbedienza al Comune di Volterra
nelle mani del Potestà Ranieri di Montespertoli.
Il 27
agosto 1208 ha luogo la formale cessione di Micciano ai Consoli di Volterra da
parte dell’Abate del monastero di Monteverdi. Durante la lotta tra il Vescovo
di Volterra, Galgano Pannocchieschi, ed il Comune, Micciano risulta essere
fortificato.
Nel 1288
troviamo che il Castello di Micciano era tassato dal Comune di Volterra per £.
3.400 l’anno.
Nel 1356
la Chiesa di Micciano è designata Matrice di cinque cure succursali oltre a
due spedali.
nel 1411
negli Statuti di Volterra si trova il Castello di Micciano fra quelli nei quali
rendeva giustizia un giudice civile eletto dal Magistrato civico di Volterra.
Nel 1472 a seguito della guerra delle miniere tra Volterra e Firenze, Micciano passa sotto la giurisdizione civile e criminale di Pomarance divenuto Capoluogo del Vicariato della Val di Cecina che oltre a Micciano comprendeva Libbiano, Montecerboli, Montegemoli, Sasso, La Leccia, Querceto, Gello, Mazzolla e Montecastelli.
STATUTI DI MICCIANO anno 1473
Documento originale.
PROHEMIO
Adlaude et gloria et honore dello innipotente et clemente Iddio e della sua gloriosa madre vergine maria et del beato messer (1) San Giovanni babtista et di Messere San Michelagnolo, et generalmente di tutta la celestal corte del paradiso, et ad honore et gloria et magnificentia del magnifico et potente popolo fiorentino et ad perpetua pace di tutti li homini del comune di Miccano.
Questi sono gli statuti et ordinamenti
del comune di Miccano di valdicecina coaderenti e distretto di Firenze, facti
et ordinati per li prudenti et discreti Huomini, Lorenzo di baiardo et hic (2)
di Giannone amendue del comune predetto aventi piena auctorita e balia (3) di
poter ordinare, statuire e riformare il detto commune come pare epiace loro sotto gliannj del
nostro signor Jesus MCCCCLXXIIJ in dictione settima e quali statuti sono questi
cioè.
NOTE
Messer, Messere : Anticamente Mio Sire,
Mio Signore, o francesamente Monsignore. Titolo dato ai grandi ed ai prelati
sino al Secolo XVI °.
Hic : Questo, cioè Lorenzo di Baiardo e
Lorenzo di Giannone.
Balia : Dal latino potestas che significa
autorità, potere, signoria, potestà assoluta.
PROEMIO
EZ Ai giorni di oggi l’introduzione è normalmente una breve presentazione fatta dall’Autore o da altra persona per presentare un libro. Negli anni in cui furono scritti questi Statuti, cioè la legge fondamentale con la quale si regge e governa uno Stato, il Proemio era prima di tutto una parte integrante dell’opera, poi era una esplicita manifestazione di riverenza ai Santi patroni del luogo e della città di Firenze e di obbedienza al popolo fiorentino.
L’invocazione ai santi inizia
sempre con Dio quale supremo reggitore dell’universo, e la “sua gloriosa madre
Vergine Maria” a significare quanto grande fosse il culto per la Madonna fra il
popolo, anche se bisognerà arrivare all’anno 1854 perchè la Chiesa proclami il
dogma della Immacolata Concezione.
In secondo luogo, e non a
caso, ma sempre come segno di riverenza e sottomissione, prima viene invocato
San Giovanni Battista patrono di Firenze la cui festa si celebra il 24
Giugno, poi San Michelagnolo (San Michele Arcangelo) patrono di Micciano che
viene festeggiato il 29 Settembre.
Il segno di riverenza ed
obbedienza al popolo fiorentino è dato dalia frase “ad honore et gloria et
magnificentia del magnifico e potente popolo fiorentino” che vuol dire che ciò
che stavano per fare era prima di tutto per onore e gloria ecc. ecc. del popolo
fiorentino ed in secondo del popolo di Micciano.
A questo punto è doveroso
notare che ci riferiamo ancora al “Popolo Fiorentino” in quanto nel 1473,
nonostante l’avvento di Lorenzo dei Medici (1469) sembrava ancora che il
possessore del potere fosse il popolo.
Nel secondo capoverso del
Proemio è doveroso far notare come ancora viene specificata la sudditanza di
Micciano a Firenze con la parola “Coaderenti” (persone che diano la ioro
adesione alle stesse correnti di pensiero e di azione) e “distretto” di Firenze
(territorio compreso nella giurisdizione militare e civile di Firenze).
Un altro punto degno di nota
è la frase “in dictione settima”perchè denota che anche se nella prima parte si
fa riferimento al popolo fiorentino nel conteggio di quando furono scritti
gli Statuti ci si riferisce al momento in cui (1469) Lorenzo dei Medici
diviene capo della sua famiglia, segno questo che oramai il potere di Lorenzo
si era già affermato.
“In
dictione settima” vuol dire più precisamente: «durante il periodo in cui avevano
diritto di parlare gli eletti per la settima volta dal giorno in cui Lorenzo
dei Medici divenne capo della sua famiglia e quindi di Firenze (1469)». Dal
momento che le nomine venivano normalmente fatte nei mesi di Giugno e
Dicembre, si avrebbe: fino al Dicembre 1469 quelli che erano già in carica
all’avvento di Lorenzo dei Medici; due elezioni nel 1470; due elezioni nel
1471; due elezioni nel 1472;
ed infine una, la
settima, nel 1473.
PROHEMIO
DELLA ELECTIONE DI TUTTI GLUFFICI Imprima acciocché al Comune e homini di Miccano sieno bene et utilmente governati e che sulle faccende del Comune habbino ad operare essi detti statutari^ ordinorono, providono, statuirono et deliberemo che per lo advenire ogni sei mesi il consolo o vero vicario del detto comune sia tenuto e debbi almeno per otto dì innanzi la fine del suo ufficio alla pena di soldi venti da essere condennato di facto, ragunar nella casa del detto comune di Miccano uno homo per ciascuna casa o vero famiglia di detto Comune et a quelli così raunati proporre di doversi eleggere un nuovo consolo o vero vicario et uno consiglieri et uno Camarlingo equali così electu habbino assuccedere allufficio passato et così electi si debbino mettere a partito ciascuno di per se et quelli che rimarranno, cioè che sivincera per partito, quelli sintendino essere veramente et iuridicamente electi, e quelli così electi habbino auctorita, potestà et balia, cioè electi consolo consiglieree Camarlingho di poter fare et exercitare tutte le faccende e cose appartenenti al detto Commune e mandare ambasciatori porre datij preste, et ogni altra gravezza per poter pagare il vicario di Ripamarranci, et il cero di santo Giovanni, o, Signori Fiorentini, et tutto quello che intorno alle predette cose sarà fatto per li sopradetti Consolo, consiglieri e Camarlingho o due diloro dacordo vagli e tengha si come fossi facto per tutto il detto Commune, et il loro ufficio duri mesi sei et non più et habbino in detto tempo per loro salario dello havere et pecunia del detto Commune soldi XX per uno et habbino divieto ciacsuno di loro almeno un anno dal dì che haranno diposto lufficio et non possi scambiare el padre el figliolo et exverso helino fratello l’altro ne el zio el nipote et exverso, intendendosi detti parentadi per linea maschulina, et sieno tenuti et debbino fare scrivere tuute lopere et meriti et altre spese di Commune che si facessino alloro tempo et nel fine delloro ufficio farele stanziare in Commune, se il Camarlingho pagera alcuna spesa prima stanziai sintendi pagherà di suo proprio.
PROEMIO
DELLA ELEZIONE DELLE CARICHE
PUBBLICHE
In questo
capitolo vengono stabilite dettagliatamente tutte le regole che devono essere
applicate per la elezione delle cariche comunali affinchè non vi sia alcuna
possibilità di errore.
La prima
regola è che il Console in carica, almeno 8 giorni prima della fine del suo
mandato di 6 mesi, riunisca nella Casa del Comune un uomo per ogni famiglia o
casa esistenti nel Comune per proporre loro la nuova elezione di un Console o
Vicario, di un Consigliere e di un Camarlingho (Cassiere).
La dimostrazione
dello stato di incertezza che regnava nel 1473 è dimostrata ancora una volta
dalle parole “Console o Vicario” poiché Console è il magistrato degli antichi
comuni italiani, mentre Vicario è colui che esercita la autorità nel nome
dell’imperatore.
Le cariche
venivano fatte dal popolo rappresentato in questo caso dai capi famiglia.
La mancata
convocazione di quella che potremmo chiamare Assemblea Popolare comportava per
il Console o Vicario in carica la multa di 20 soldi, praticamente tutto il suo
stipendio. Una volta effettuata la nomina, gli eletti avevano il massimo
potere e le loro decisioni prese con la maggioranza dei due terzi erano
vincolanti per tutti. Essi potevano imporre dazi, prestiti ed ogni altro tipo
di imposte per ricavare le cifre occorrenti per le spese comunali, il Vicario
di Ripamarranci ed il Cero che ogni Comune doveva portare a Firenze per la
festa di S.Giovanni.
Gli eletti
erano ricompensati con 20 soldi, e non potevano essere rieletti subito ma
bensì solo dopo un anno. Non potevano passare la carica al figlio o ad altro
parente maschio. Dovevano trascrivere tutto ciò che veniva fatto affinchè il
loro operato potesse essere facilmente controllato.
Ultima annotazione di questo capitolo, ma non certamente la minore, è il fatto che chi ricopriva cariche pubbliche pagava in proprio gli errori o le mancanze commesse, vedasi il caso del Camarlingho a cui veniva addebitata ogni spesa effettuata se prima la somma non era stata stanziata.
ATra le frazioni del nostro Comune, Lib- biano, una delle più piccole, si distingue per una serie di aspetti che ne fanno una realtà unica, di notevole interesse sia sul piano naturalistico e paesaggistico sia sul piano storico – culturale, di cui le case e le strade costituiscono tuttora vivente e, per molti versi, intatta testimonianza. Libbiano (castrum Liviani) sorse in epoca romana, precisamente ai tempi della legge lulia (59 a.C.), con cui Giulio Cesare assegnò ai suoi veterani, tra i quali, appunto, questo Livius, parte dei territori conquistati (la medesima origine hanno i centri vicini di Micciano, Serrazzano, Lustignano).
LIBBIANO: La Torre
Successivamente divenne un castello che, per la sua posizione strategica e di confine e per le ricchezze minerarie del suo territorio, fu a lungo conteso tra i monaci dell’Abbazia di S. Pietro in PalazzoIo (Monteverdi) ed il Vescovo di Volterra. Prevalse alla fine quest’ultimo, ma l’effettivo godimento dei diritti feudali da parte dei Vescovi fu ostacolato per molto tempo dalla potente famiglia dei nobili Cavalcanti (talora avversari, talora alleati degli stessi Vescovi).
Sottomesso in modo definitivo a Volterra
agli inizi del 1400, Libbiano ne seguì la sorte quando la città di S. Lino fu
conquistata dai Fiorentini, avidi di quelle ricchezze minerarie (allume,
zolfo, vetriolo) delle quali lo stesso territorio libbianese era
particolarmente ricco.
Neanche sotto il dominio fiorentino venne
meno l’influenza dei Cavalcanti che risiedettero a Libbiano praticamente fino
al 1776, allorché il paese venne a far parte a tutti gli effetti della comunità
di Pomarance.
La popolazione di Libbiano ammontava nel 1845 a 279
abitanti (più o meno quelli del 1551:202), mentre nel 1861 era salita a 453,
cioè era quasi raddoppiata. Come si spiega questo aumento? Con tutta
probabilità esso è dovuto allo sviluppo delle attività minerarie (zolfo e
vetriolo, rame e calcedonio) che, in tale periodo, interessò un po’ tutto il
Pomaranci no. Questa attività si protrasse fino a tempi relativamente vicini
(durante la 1° Guerra Mondiale funzionava, vicino a Villetta, una miniera di carbon fossile, i cui dipendenti erano esentati dal servizio
militare ed il cui prodotto era inviato a Casino di Terra con una ferrovia a
carrelli) e consentì di mantenere relativamente stabile la popolazione.
La situazione cominciò decisamente a mutare col venir meno
dell’attività mineraria (a parte quella di carbon fossile la chiusura delle miniere risale a fine ’800); a
questo punto la popolazione si trovò, infatti, davanti a due alternative: o
lavorare a mezzadria dai Conti Guidi di Serra e fare i boscaioli ed i
carbonai, oppure cercare lavoro più lontano, ad esempio a Larderello, dove lo
sviluppo della primitiva industria chimica in direzione della produzione di
energia elettrica offriva nuove opportunità. Gradualmente il numero di coloro
che lavoravano nell’industria boracifera (e che andavano e tornavano da
Libbiano a Larderello prima a piedi e poi in bicicletta) aumentò e comportò una
prima significativa ondata migratoria verso Larderello ed i paesi vicini.
Quando la Larderello S.p.A. concesse finalmente un
automezzo per trasportare i lavoratori, sembrò che il fenomeno potesse essere
arginato. Si trattò di una breve illusione: alla fine degli anni ’50, quando
fu costruito il villaggio residenziale di Larderello, molti furono i Libbianesi
che lasciarono il loro paese, cui pure erano attaccati, per andare ad abitare
in un centro che offriva loro troppe più comodità. Cominciò così un esodo
sempre più accentuato, continuato negli anni recenti, anche se, ultimamente,
il centro di attrazione (non solo per Libbiano) non era più Larderello, ma
Pomarance.
I dati qui di seguito riportati illustrano bene l’entità e
l’andamento del fenomeno: anno 1961 abitanti 232 anno 1971 abitanti 137 anno
1981 abitanti 101 31/12/1988 abitanti 80
Attualmente gli abitanti di Libbiano hanno un’età media che supera i 60 anni. I bambini sono solo poche unità e scarso è il numero degli adulti che non hanno raggiunto l’età pensionabile: mancano infatti intere generazioni, quelle dell’età di mezzo. Questo può far supporre un paese quasi addormentato ed immobile, ma la realtà non è tale: è anzi sorprendente vedere come i Libbianesi, anche quelli che hanno superato gli ottanta, riescano a condurre una vita sufficientemente attiva ed autonoma, a non stare con le mani in mano e a non aspettare l’aiuto altrui, sicché chi non conosce certi personaggi prova incredulità quando viene a sapere che sono nati agli albori del secolo XX. Del resto Libbiano non è quel paesino sonnolento che ci si potrebbe aspettare anche per altri motivi.
La sua dislocazione decentrata, il suo
essere fuori dal mondo (cioè lontano dai centri e dalle principali vie di
comunicazione), se per un verso è stato il motivo della sua decadenza,
dall’altro lato ne fa un angolo, come dicevo all’inizio, unico, dove l’orologio
della storia sembra essersi fermato a tempi più su misura umana e dove il
rapporto armonico tra uomo e natura non è un’utopia ma una realtà vissuta e
quotidiana.
Il discorso vale, in primo luogo, per
quello che riguarda le case che, ad eccezione del Circolo A.R.C.A.L.
(inaugurato nel 1969), sono tutte vecchie di secoli, anche se poi gli interni,
grazie alla solerzia degli abitanti, sia di quelli a tempo pieno che di quelli
che a Libbiano tornano ogni tanto, sono stati ristrutturati con criteri moderni.
Certo, proprio per questo, qualcosa è andato perduto: dai pavimenti in cotto ai soffitti con travi e travicelli, ai grandi focarili, teatro di lunghe veglie invernali al canto del fuoco. All’esterno, però, tutto è rimasto come una volta: le mura delle case, senza intonaco, fatte di mattoni o delle caratteristiche pietre bianche, i numerosi archi ciechi, le due stradine lastricate che portano alla torre, i muretti intorno al paese, affacciandosi ai quali si può spaziare da un lato sull’ampio panorama della valle del Trossa e, più oltre, di Volterra e delle sue colline, dall’altro su un succedersi di alture coperte di boschi foltissimi e degradanti verso la foresta di Monterufoli.
Sono queste
qualità, unitamente alla naturale simpatia umana degli abitanti, a far sì che
Libbiano, sia in estate, quando la campagna assume un aspetto quasi magico,
sia nelle altre stagioni, specie in tempo di caccia o di funghi, continui ad
essere meta di non poca gente. Gente
che ci abitava e che, quasi mai, lascia
passare troppo tempo senza tornarci a far una visita o, magari, gente di fuori,
gente di città lontane, che a Libbiano ci capita una volta per caso e ci si
innamora, lasciandosi prendere dall’incanto del silenzio, dell’antico,
imparando ad amare le cicale che friniscono e l’ombra degli alberi sulla
piccola piazza.
Laura Longinotti
NOTE BIBLIOGRAFICHE:
Giovanni Targioni
Tozzetti – Relazione d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana –
FORNI Editori Bologna
Don Mario Bocci –
L’Araldo di Volterra – Settimanale della diocesi di Volterra – 9/4/1972
A CURA DEGLI ARCHITETTI M.C. BIANCHI, M. SALVI, M. TALOCCHINI
Il monumento che abbiamo preso in esame,
si trova a Montecerboli una frazione del Comune di Pomarance, situata
nell’estremità meridionale della provincia di Pisa, in una zona
prevalentemente collinare, tagliata fuori dalle grandi vie di comunicazione.
Dal punto di vista geologico siamo in
presenza di argille spesso lignitifere e lacustri, serpentina e gabbro; il
nucleo storico, all’interno del quale si trova il monumento da noi rilevato, è
interamente fondato su gabbro e si trova a 375 m. sul livello del mare.
Interessante dal punto di vista
geologico è la vicinanza con Larderello e i conosciutissimi fenomeni endogeni,
dai quali pare derivare il nome di Montecerboli.
Interno della Chiesa di San Cerbone (1925 ca.) – Coll. Rossi U.
Si dice infatti che il nome fosse in origine Montecerbero a causa delle abbondanti emissioni sulfuree accompagnate da fummacchi, che facevano pensare alle porte dell’inferno, o al mitico guardiano delle medesime. Esiste comunque, anche un’altra teoria che fa risalire il nome a Monte Cervuli, per l’abbondanza dei cervi in questa zona; tesi questa avvalorata dal fatto che lo stemma della comunità, raffigura appunto un cervo sullo sfondo delle colline. «Non vi sono notizie antecedenti al 1000 riguardanti il castello di Montecerboli; la notizia più antica ce la fornisce il dott. E. Fiumi in una publicazione del 1934, egli parla di un atto stipulato nel 1003, che trovasi nell’archivio Vescovile di Volterra. In tale atto, Montecerboli, è chiamato “Monte Cerbero’’ ed il torrente che scorre alla base del monte è detto “Possula”, oggi Possera» (1).
Allo stato attuale Montecerboli è un
paese che conta circa 1500 abitanti, che vive essenzialmente del lavoro che i
soffioni boraciferi assicurano alla produzione dell’energia elettrica. A
questa industria è stato legato anche lo sviluppo demografico e quindi
edilizio; quest’ultimo ha avuto un notevole incremento dopo secoli di stasi,
proprio all’inizio di questo secolo, quando l’industria boracifera
“Larderello” (oggi Enel -Eni) ampliò gli stabilimenti ed assunse molta
nuova manodopera.
Lo stato di conservazione del nucleo
storico, che è rimasto piuttosto decentrato rispetto allo sviluppo edilizio
attuale è al momento, soddisfacente, pur con gli inevitabili restauri scorretti
eseguiti negli anni passati.
Il castello di Montecerboli trovandosi nell’area gravitazionale della città di Volterra, vede tutta la sua storia, legata appunto alla storia di Volterra di cui è stato per lungo tempo tributario; si trova notizia difatti, che nella primà metà del 1400, il Vescovo di Volterra, Roberto Ardinari, conferiva il titolo di conte di Montecerboli, ad Antonio di Pasquino Broccardi; i Broccami nel XV secolo erano una facoltosa famiglia di Montecerboli dove possedevano molte terre, ed avevano investito molti capitali nel commercio volterrano per lo zolfo ed allume che allora si estraevano dal territorio dei soffioni. La Comunità e cura amministrativa di Montecerboli, in antico comprendeva “ville e villaggi” oggi in gran parte perduti, ma sappiamo che al 1200 erano: S. Maria, S. Ippolito, Bagni a Morba, Libbiano e Spartacciano. Questo dimostra, che seppure di modeste dimensioni, il castello godeva di una certa autonomia, ed anche di uno statuto e di misure proprie e questo lo troviamo ampiamente testimoniato dal dizionario Geografico Fisico e Storico della Toscana di E. Repetti, di cui riportiamo un ampio stralcio: “Montecerboli in Val di Cecina.
Castelletto con chiesa plebana di San cerbone già filiale
della pieve di S. Maria a Morba, cui fu riunita nella comunità giuridica; è
circa 4 miglia a scirocco delle Pomarance, diocesi di Volterra, compartimento
di Pisa.
Risiede sopra un piccolo poggetto di gabbro fra la strada
provinciale massetana, che gli passa a ponente e il torrente Possera, confluente
a sinistra della Cecina. Senza perdersi in congetture sull’origine
del nome di Montecerboli, io non trovo
notizie d’esso, ne dei loro signori, che sieno più antiche di quelle pubblicate
daH’Ammirato Juniore, nelle aggiunte alle vite fatte de Vescovi di Volterra del
vecchio Ammirato.
Fra le quali un contratto del 14 gennaio 1160, rogato in Volterra nel Chiostro della cattedrale, vertente sopra una permuta fatta tra il Vescovo Galgano di Volterra e un certo conte Guglielmino, figlio del conte Rainuccio, e fratello di una altro conte Lottario, quando Guglielmino cede al Vescovo prenominato tutto ciò, che tanto egli che donna bella di lui moglie, possedevano nei castelli e distretti di Monte Cuccari, di Camporena, di Laiatico, di Ghizzano, e di Cedri in Val d’Era. In cambio di tali beni, il vescovo Galgano, rinunziò, ai due coniugi, la terza parte del castello, borgo e corte di Montecerboli’’.
La quale ultima espressione ci dà chiaramente a conoscere
che la Comunità di Montecerboli, fino a quell’età aveva misure sue proprie.
Con altro strumento della stessa provenineza, scritto il 20 dicembre 1173 nel
palazzo Vescovile di Volterra, Ranieri degli Libertini, Vescovo di detta
città fece fine a quietanza per L. 300 pagategli dal comune di Volterra di
tutto ciò che poteva pretendere rispetto ai dazi, condanne penali etc.; che il comune predetto aveva nei tempi addietro imposto e
fatto pagare agli abitanti delle Pomarance, di Montecerboli, di Leccia, di
Sasso, di Serrazzano, paesi sui quali i vescovi volterrani avevano allora doppia
giurisdizione. Infatti nel mese successivo, governava in Montecerboli, un
rettore vescovo di Volterra, del quale ne da prova il seguente documento tra
le carte della Comunità di Volterra relative a prestazioni di giuramento d’ubbidienza,
a quel comune. Esiste un atto rogato in Montecerboli per Ranieri degli
Libertini, in cui con i consiglieri elegge e costituisce un sindaco per recarsi
a Volterra a giurare obbedienza a quel podestà e colà difendere le liti
relative alla comunità di Montecerboli.
Quindi troviamo nei secoli XIII e XIV, che a seconda delle
disserzioni e pacificazioni fra i vescovi e i rappresentanti il comune di
Volterra, gli uomini di Montecerboli prestavano obbedienza di sudditanza alla
città piuttosto che al loro prelato. Solamente per concordia fatta ne! 1253, fu
stabilita la restituzione al vescovo Ranieri del castello sopra nominato, a
condizione che alla morte di lui tornassero in potere della citta. Frattanto,
per interesse comune delle parti, a seconda di una nuova convenzione fatta nel
1226 fra il vescovo Alberto Scalari e il Comune di Volterra: “si esigevano
le collette, le condanne e ogni altro diritto”.
Intorno a questa stessa età Montecerboli, a tenore dello
Statuto volterrano del 1228, pagava di tassa annua lire 7286.
Mediante alcune trattative concluse nel 1319 state
rinnovate quattro anni dopo fra i rappresentanti della città e Rainuccio,
restò convenuto che i rettori di Montecerboli e degli altri 4 castelli, si
dovessero estrarre da una borsa di 200 probi cittadini volterrani, a patto di
ricevere la investitura del Vescovo. Ma con il tempo si mancò ai patti per
cui il 29/12/1394 furo
no stabiliti tra il vescovo e il comune di Volterra, nuove convenzioni con le
quali fu determinato che il giurisdicente di Montecerboli, non si poteva
nominare eccetto che fra i cittadini volterrani.
Finalmente dallo statuto di Volterra del 1411, rilevasi che allora nel castello di Montecerboli, faceva ragione un ufficiale inviatovi dal comune di Volterra. Uno degli ultimi atti tendenti a provare un resto di dominio che in Montecerboli avevano i Vescovi, fu scoperto dallo stesso Ammirato Juniore nell’archivio delle Riformagioni di Firenze; è una provvisione della Signoria fatta nel 1429, dalla quale risulta che il comune di Volterra, stante la ribellione accaduta nel 1427, aveva perduto il diritto di eleggere i suoi podestà e i suoi giurisdicenti del contado Volterrano, ma siccome i rettori della repubblica fiorentina avevano molta stima del Vescovo Stefano da Prato, Vescovo di Volterra, vollero conservare in favore suo gli antichi diritti, fra i quali, quello di eleggere e di poter inviare ogni sei mesi i rettori a governare nel civile gli abitanti dei castelli delle Ripomarance, Laccia, Sasso e Serrazzano rilasciandogli per detto tempo anche la regalia delle condannazioni. (Ammirato dei vescovi di Volterra). Non sembra però che ai successori del vescovo Stefano Aliotti fosse continuato un tal privilegio dalla repubblica fiorentina a nome della quale d’ora in poi Montecerboli si governava con tutto il restante contado.
La Chiesa Parrocchiale di San Cerbone, fu eretta in battesimale dopo che l’antica sua chiesa matrice di S. Maria a Morba, cadde in rovina. La qual trasalazione avvenne verso il 1400 giacché la Pieve a Morba esisteva nel 1335 cosi come attesta il sinodo volterrano dello stesso anno. Sul declinare del secolo medesimo venne rammentata ancora da “Ugolino da Montecerboli” nella sua opera “De Balneis”.
Delineato sommariamente il quadro
storico e ambientale in cui ci troviamo, cercheremo ora di scendere nei
particolari e cioè nell’esame tipologico di questo monumento.
Ci troviamo di fronte ad una chiesa a
pianta rettangolare ad una sola navata con annesse due altre costruzioni di
incerta datazione ed un campanile piuttosto recente(1902).
La struttura in elevazione della chiesa è realizzata con muratura a sacco in laterizio, che all’esterno è lasciato a facciavista, mentre all’interno è allo stato attuale intonacato così come lo era già nel ’600.
Ingresso della Chiesa
La copertura alla “lombarda” èsorretta
da tre capriate ed è stata più volte manomessa, come troviamo ampiamente
documentato, per cui è impossibile stabilire come fosse in origine; dalle
lesioni che si riscontrano sulla facciata, si può però ipotizzare che non fosse
una copertura a spinta eliminata. Sul lato posteriore sinistro esisteva un
campanile a vela con due campane, che franò agli inizi di questo secolo e non
fu più ricostruito; si preferì, malauguratamente, costruirne uno nuovo, che
come si può vedere, fa brutta mostra di sé sul lato destro della chiesa.
Abbiamo trovato scarne notizie di questa
chiesa nelle pubblicazioni consultate; comunque dall’opera di Moretti Stopani
(Chiese Romaniche in Val di Cecina), abbiamo potuto trarre alcune valide
indicazioni, nonché la convinzione che l’oggetto del nostro studio si inquadra
perfettamente nella tipologia delle sopra citate chiese, sebbene sia stato
costruito probabilmente in economia e materiali poveri.
È comunque da notare l’archivolta con ghiera di cotto stampata a zigzag, che si ritrova anche in altre chiese dei dintorni (Beiforte e Monteguidi) e il basamento di pietre a vista arenaria indicatore di un’influenza pisano lucchese filtrate daH’ambiente volterrano; anche qui il materiale impiegato è meno pregiato. Anche i materiali da costruzione sono tipici di questa zona: arenarie, travertino, laterìzio e gabbro verde. Sicuramente interessante è il bordo in laterizio stampato in varie fogge che si trova sui paramenti esterni poco sotto la copertura. Non è da escudere che questi siano gli “idoletti” di cui parla Targioni Tozzetti in una relazione di viaggio in questi luoghi.
La chiesa plebana di San Cerbone,
dipendeva in origine dalla Pieve a Morba di cui in seguito prese i titoli e
il fonte battesimale, come si trova testimoniato in una lettera di Don Mario
Bocci archivista dell’archivio Vescovile di Volterra:
“Della Pievania di San Giovanni a Morba,
rimane oggi solamente l’abside incorporato ad una casa colonica.
La pieve apparteneva come diocesi al nucleo primitivo della chiesa volterrana come fanno fede i due privilegi di papa Alessandro III al Vescovo S. Ugo (1117 e 1179). La pieve era collegiata cioè possedeva un piccolo capitolo dei canonici: all’atto della costituzione dei Sesti Vicariali viene riconosciuta al Capo Sesto della Maremma o di Montagna ed ha sette rettorie che da essa dipendono come filiali cioè S. Cerbone e Montecerboli, San Michele e Spartacciano, S.S. Salvatore e Castelnuovo ecc”.
Di certo è che già nel 1400 la pieve minacciva rovina. Il 24 Novembre 1460, il vescovo G. Neroni, ad una istanza del Vicario Consiglieri, e popolo della Comunità di Montecerboli, risponde che, “attesa la penuria del clero (sappiamo infatti che nel periodo che va dal 1310 al 1315, essendo vacante il posto di pievano, tenne per qualche tempo la pieve, il prete Cinzio, rettore di S. Cerbone a Montecerboli) e tenuità delle rendite della chiesa di san Cerbone: “Propter guerras, pestilentias nancnon alias calamitates etgravedines’’ aggrega, unisce e incorpora ad essa la pieve “… quae sub venerando vocabulo Sancti Joannis de Morba est sita infra metas vestrae Curtis et sine cura animarum, cum omnibus suis pertinetisis juribus actionibus ecclesiis et oratoriisi’’. Cosi il nome, la gloria e la supremazia di Morba, cessarono e i titoli con il fonte battesimale passarono alla chiesa di Montecerboli. Della struttura della Pieve a Morba, come si è già detto, non rimane che parte dell’abside; sappiamo solo che era a forma basilicale con tre navate di tre campate l’una su pilastri di pietra, con tre altari al presbiterio.
Dietro l’altare Maggiore era l’abside e sopra due finestrelle laterali oblunghe, sulla facciata vi erano degli archetti pensili e sulla porta maggiore un occhio con rosone. Grazie all’interessamento personale di Don Mario Bocci, Archivista della Mensa Vescovile di Volterra, siamo riusciti ad avere le copie di alcune visite pastorali da cui abbiamo tratto utili indicazioni sul succedersi dei numerosi rifacimenti subiti dalla chiesa. Ci è stata utile anche la consultazione dei manoscritti contabili della comunità di Montecerboli di cui abbiamo preso visione nell’Archivio comunale di Pomarance. Tutto quanto sopra scritto verrà riportato in seguito in stralci tradotti o in testo integrale.
Montecerboli (PI). Il castello
Sono queste le uniche notizie attendibili peraltro scarse
a cui abbiamo potuto attingere.
Dalla Visita pastorale di Mons.L. Alamanni
Registro I carta 26 tergo e
segg :
“27aprile 1599’’…“Pieve di S. Gio.Battista di Morba’’
…Proseguendo la visita
arrivò alla chiesa pl e ban a non più occupata di S. Giovanni a Morba, che si dice sia
annessa alla chiesa di San Cerbone del castello di Montecerboli. È in pessimo
stato per quel che riguarda il tetto le pareti e il pavimento. Le porte sono
vecchie e malandate, e chiuderle serve a poco perchè vi entra ogni genere di
animali. C’e un altro altare di pietra consacrata e sopra l’altare c’è una
croce soltanto con due candelabri, c’è un’icona piccola ed antica con al
centro l’immagine della Beata Vergine, a destra un’immagine di Giovanni Apostolo
e a sinistra un’immagine di San Giovanni Battista ma tuttavia quella immagine
della B.M. Vergime fu oggetto di grandissima devozione presso le popolazioni
locali e limitrofe. La chiesa minaccia rovina in ogni sua parte ed ha bisogno
di una grossa opera di restauro…
“Pieve di San Cerbone del Castello di Montecerboli;
…e proseguendo il viaggio il reverendissimo Padre arrivò al castello di Montecerboli dove fu ricevuto con grandi onoreficenze dal pievano a dalla popolazione. Arrivò nella chiesa di San Cerbone, una volta espletate le funzioni di rito dopo aver cantato la preghiera benedisse il popolo diede l’assoluzione ai morti con la mitra, il pluviale e il bastone. Visitò il S.S.Eucarestia che è conservato sopra l’altare di detta chiesa in un armadietto di legno a forma di tabernacolo… poi visitò il fonte battesimale che è a destra dell’ingresso della chiesa. L’acqua per lavare gli infanti viene conservata in un vaso di terracotta ed è un coperchio dello stesso materiale, ed è incluso in un luogo a forma di altare in decenti condizioni e chiuso a chiave, e nelle restanti cose è in buono stato. L’olio santo viene conservato in un luogo ed in condizioni decenti. C’è soltanto un ’altare di pietra con la pietra consacrata, decente.
Sopra l’altare c’è una croce di legno dipinta e dorata con
quattro candelabri di legno e due di ferro…
La chiesa è lunga venti braccia e larga circa nove
braccia, il tetto, le pareti e il pavimento sono in buone condizioni.
Ci sono due piccole campane dalla parte dell’epistola, che sono trattenute in quel luogo con pericolo che cadano.Nella chiesa c’è una tribuna lignea (pulpito) abbastanza decente,non c’è confessionale. Sopra la porta c’è soltanto un “Oculus“ che è schermato con un drappo di lino. A sinistra dell’ingresso della chiesa c’è il cimitero chiuso da ogni parte e “cum cruce decenter retentum”.
Le porte della chiesa sono di legno e sono
vecchie,tuttavia la sera vengono chiuse a chiave.
All’ingresso della chiesa c’è un vaso per l’acqua benedetta
in decenti condizioni. La chiesa è appena sufficiente per la popolazione,
tuttavia è situata in un luogo così alpestre che non vale la pena di allargarla…
Le famiglie sotto la cura
di questa chiesa sono circa 53, te anime circa 250 di cui 180 hanno ricevuto la
Sacra Eucarestia…’’
Questa è una delle piu interessanti Visite pastorali, di
seguito daremo il resoconto di altre visite pastorali posteriori a questa e
riporteremo un interessante frammento che abbiamo avuto in questo periodo.
Le visite pastorali
precedenti al 1599 si possono riassumere in questa formula: “la chiesa per
quanto riguarda l’edificio è in buone condizioni, conserva il sacramento
dell’eucarestia in buone condizioni e così l’olio santo e le crismate; ha il
fonte battesimale in buone condizioni”. C’è poi un frammento del 1477 allegato
alla visita del 1463 di Mons. Giugni: “…La chiesa è stata restaurata ed è
bella in ogni sua parte… e similmente il cimitero è in buone condizioni ed è
recintato con un muro si che non possono entrarvi bestie e fiere…”
Visita Ighirami 30 Ottobre 1618 carta 694: “…vide poi il
fonte battesimale a destra di chi entra che è di pietra e contiene solo un
vaso nel quale c’e un cratere di stagno per battezzare gli infanti, questo
fonte è chiuso con coperchio di legno e a chiave. Vide poi vasi dell’olio
santo, che sono di stagno e sono conservati in un armadietto nella parete a
destra dell’altare con la loro borsa di seta. Sopra l’altare maggiore c’è
un’immagine indecentissima.; all’interno della chiesa, nella parete anteriore
è infissa una grande croce di legno dipinta ed antica; a metà della chiesa, a
destra di chi entra, sopra il fonte battesimale c’è un pulpito ligneo abbastanza
decente. C’è a Sinistra di chi entra il feretro con suo panno nero. Nella
chiesa non ci sono sepolture e per quanto riguarda il pavimento, il tetto e le
pareti è in buone condizioni sebbene le pereti siano quà e la scrostate.
Vicino all’altare dal lato del Vangelo c’è un confessionale in decenti
condizioni.
L’occhio della chiesa non
è chiuso ne con tela ne con vetro; le porte della chiesa sono in buone condizioni.
Vide poi la sacrestia che è dietro l’altare maggiore nella quale fu trovato un
calice con la coppa d’argento e il piede e la patena dorati’’.
Nel 1686 il vescovo Dal Rosso annota che la chiesa di Montecerboli è stata nuovamente riparata dal pievano Antonio Mazzocchi di Castiglion d’Orcia: “Felicitur olim fuit ecclesia ut ex murorum dirutorum cementis aperte dignoscitur; fertur enim, bellicis oricalcisundequeque circumsonantibus ecclesia fuisse diruta et plura passa belli detrimenta…” (Don Mario Bocci)
Una delle porte sul cimitero
Dalla cosultazione dei partiti e deliberazioni del Comune
di Montecerboli si sono ricavati dati abbastanza precisi sull’entità delle
opere di restauro di cui la chiesa ha avuto bisogno, ma non sulla qualità di
questi interventi come si può prevedere da diversi documenti.
Accanto all’indagine storica abbiamo portato avanti
un’altro tipo di indagine basata sull’osservazione del monumento in esame sia
dal punto di vista statico che da quello dell’uso dei materiali,nonché dal
deterioramento di questi ultimi.
Il corpo di fabbrica della chiesa è realizzato in massima parte con una muratura a sacco in laterizio, fatta eccezione per la base che è costituita da grosse pietre squadrate in arenarea, provenienti probabilmente dalla Pieve a Morba.
La canonica
Sull’aspetto frontale c’è da notare il diverso
comportamento all’usura dei singoli mattoni:difatti mentre alcuni sono gravemente
deteriorati, altri sono in buonissime condizioni; questo fenomeno che in un
primo momento ci ha fatto pensare ad una diversa datazione dei materiali ha invece
con tutta probabilità avuto origine dalla diversa cottura ed alla diversa esposizione
alle intemperie dei singoli elementi.
La finestra sopra la porta, che nelle vite pastorali è
descritta come oculus, è stata probabilmente ricostruita in epoca recente,per
cui è molto difficile stabilire la forma della finestra originale. La struttura
presenta delle lesioni che si possono far risalire al primo dopoguerra.Sulla natura
di queste lesioni si possono fare più ipotesi: spinta della copertura, cedimento
delle fondazioni, degrado dei materiali. Esclusa l’ipotesi di un cedimento fondarla
chiesa è interamente fondata su gabbro) restano le altre due, che sono
probabilmente concomitanti: di fatti se da un lato la copertura esercita
sicuramente una spinta sia perpendicolare,che si suppone uguale lungo tutto il
lato su cui appoggiano i correnti, avrebbe dovuto provocare i medesimi danni
lungo tutto il lato suddetto; se questo non è avvenuto invece che in luoghi ben
definiti è perchè alla spinta della copertura, in questi luoghi si è aggiunto
il degrado dei materiali dovuto all’infiltrazione prolungata di acqua piovana.
Come si trova ampiamente documentato nella ricerca storica la copertura ha
avuto spesso bisogno di essere riparata e questo fa legittimamente supporre
che ci siano stati periodi abbastanza lunghi durante i quali l’acqua piovana
è filtrata liberamente all’interno del sacco, provocando la disgregazione del
legante interno al sacco e quello della stessa malta che lega i mattoni. Il
lato destro nel suo insieme è poco leggibile a causa del recente campanile e
dell’ attuale sacrestia che ne occupano una parte notevole. Da notare la
finestra monofora, murata dall’interno, e la fila di elementi in laterizio
decorata a rilievo di pregevole fattura inseriti nel bordo poco sotto la
copertura.
Del campanile c’è poco da dire, costruito tra il 1902 e il
1909 (Progetto di Carlo Bonucci di Pomarance detto il Falugi), risulta in
buone condizioni, fatta eccezione dei solai intermedi in legno che risultano
particolarmente deteriorati.
La sacrestia che si raccorda al campanile con una
ammorsatura in laterizio, è per il resto costruita con pietrame frammisto a
laterizio. Non abbiamo notizie sufficenti per datare con precisione questa
costruzione, che comunque non esisteva ancora alla metà del XVII secolo. Sul
lato posteriore della chiesa è per cosi dire appiccicata una costruzione a
pianta triangolare che secondo le testimonianze raccolte dalle visite
pastorali è la originaria sacrestia.
L’altro fianco laterale della chiesa (di fronte alla chiesa della Misericordia) è molto più leggibile ed apre una serie di problemi a cui non è facile dare una risposta. La prima cosa che vien fatto notare sono senz’altro le due porte chiuse, che si trovano circa tre metri sopra il piano stradale. Queste porte, che dovevano aprirsi su un terrapieno dove era situato il cimitero sono state chiuse con materiali diversi, il che fa pensare ad epoche diverse; la loro soglia si trova a 40 cm. più in alto rispetto al piano del pavimento della chiesa. Lo sbancamento del cimitero ci ha permesso di di vedere la struttura di fondazione che poggia direttamente sulla roccia viva, eccezion fatta per l’estremità posteriore che ha dovuto essere sostenuta con uno sperone in pietra,costruito probabilmente proprio quando fu spostato il cimitero. Anche su questo lato è presente la fila di elementi in laterizio decorati simile a quella che si trova sul lato opposto; osservando bene l’estremità posteriore in alto si può notare lo strappo causato dalla caduta del campanile(inizi del 900) che non fu più ricostruito. All’interno della chiesa,molto è stato cambiato rispetto a ciò che risulta scritto nelle visite pastorali. Ci sono adesso altari in stucco, uno maggiore e due laterali, sopra il maggiore c’era un’immagine raffigurante la vergine tra i santi(oggi restaurata e conservata nella nuova Chiesa parrocchiale di Montecerboli). Sull’altare di destra c’era un crocifisso in legno di scuola senese, che anch’esso è stato portato nella nuova chiesa; sull ’altare di sinistra vi è una statua della vergine con il bambino.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
Archivio storico Comunale di Pomarance Filza 378 e seg.ino
alla 803
Rassegna “Larderello“ 1955-1956
Repetti
“Dizionario Geografico e fisico della toscana V.3 Fi. 1839
Targioni Tozzetti: Relazione di alcuni viaggi fatti in
diverse parti della Toscana Fi.1770
C. Ceccarelli: “Val di Cecina” Monografia geografica.
Faenza 1913.
S. Pieri: “Toponamastica della toscana meridionale e
dell’arcipelago Toscano.
M.Salmi: “Architettura Panoramica in toscana” 1929
Chiese Romaniche nella campagna toscana 1959
Scheneider: “Regester Volterranorum” Roma 1907
Volpe: “Maremma” Gr.1924-1930 Zuccagni Orlandini A. Atlante geografico fisico storico della toscana. 1832.
Moretti-Stopani “Chiese romaniche in Val di Cecina”
1970
Visite pastorali dall ’Archivio della Curia Vescovile di
Volterra.
S. Mastrodicasa: “Dissesti statici delle strutture
edilizie Hoepli Milano 1977”.
P. Sampaolesi: “Discorso sulla metodologia generale del restauro dei monumenti”. Firenze 1977. Ringrazio vivamente gli Archietti Talocchini, Bianchi e Salvi per aver concesso la pubblicazione di questo interessante studio universitario che ci permette di conoscere ancora di più il nostro patrimonio storico artistico spesso sottovalutato e lasciato nel piu completo degrado.
Il 24 agosto, giorno di S.Bartolomeo
apostolo, è avvenuta la riapertura al pubblico della parrocchiale di Montegemoli,
e vi si è celebrato la consueta festa titolare e patronale.
I restauri, portati a termine col concorso di tutta la popolazione, mettono in evidenza la struttura molto antica della chiesa, di chiara impostazione romanica, almeno duecentesca, se non più antica. Ma il fatto stesso di questo recupero architettonico mette in evidenza anche la sensibilità del sacerdote ufficiatore Don Luciano che precedentemente restaurò la chiesa romanica di Castelquerceto e recentemente ha abbellito quella di Saline dove risiede.
Lo stesso Don Luciano ha commissionato
una ricerca storica su Montegemoli dalla quale risulta che un “Regesto”, o
registro, di documenti volterrani, stampato all’inizio di questo secolo,
contiene, tra molte altre, queste notizie.
Il vescovo di Volterra, Bertelli alla cerimonia di apertura (agosto 1993)
Nel 1133 avevano possessi in Montegemoli
gli abati di Morrona, monastero beneficato dai conti Cadolingi di Fucecchio.
Nel 1176, con una sua bolla solennissima,
papa Alessandro III garantì protezione alla Badia di Monteverdi pei diritti da
essa posseduti sopra castello corte e chiesa di Montegemoli.
Tale giurisdizione monteverdina, nel
1208, l’abate Ranieri la concesse ai consoli del Comune di Volterra.
Non si conosce a pieno l’estensione di
tutti questi diritti degli abati; ma il giorno 8 luglio 1226 i conti palatini
Guglielmo e Bonifazio del fu conte lldebrandino degli Aldobrandeschi di Soana
Pitigliano e Grosseto, stando presso il castello di Montegemoli nella chiesa di
S.Bartolomeo, presente Seracino prete della parrocchia, e Affricante rettore
della corte e castellano pei volterrani, fecero registrare tutti i loro
diritti e ragioni feudali.
Nel 1257 i conti palatini lldebrandino e
Umberto del fu conte Guglielmo, in lite coi volterrani pei castelli di
Montegemoli e Silano, fecero compromesso di queste differenze nel capitano
anziani e consiglio di Firenze.
Le liti però continuavano ancora nel
1285 quando Guido di Montfort marito di
Margherita Aldobrandeschi, insieme a Gherardo di Fosini procuratore dei
volterrani, fecero arbitri della contesa circa il castello e le acque salse,
il consiglio del Comune di Siena.
Guido di Montfort, scomunicato dal papa, fece perdere molti dei diritti degli Aldobrandeschi, ma il 2 agosto 1297, nella divisione avvenuta in Santa Fiora tra i conti, per sorteggio toccarono a lldebrandino Novello, oltre Silano e Montegemoli, i diritti su Roccastrada, Suvereto, Pietra Batignano, Massa, Scarlino, Giuncarico ecc.
Sono tempi persone e luoghi “danteschi”, e fatti ben conosciuti dagli abitanti di Valdicecina. Tra questi c’è lo scrittore poeta e pittore Bindino da Travale, forse dei Pannocchieschi, ma che non disdegna chiamarsi “il porcaro” di Valdicecina. E’ lui che, irridendo le megalomanie dell’Alighieri, nel 1415 nella reggia di Napoli mette in bocca al re Giacomo d’Angiò, di fronte agli ambasciatori di Siena e Firenze, un discorso carico di traslati contro la superbia di Dante, tra cui l’allusione a Montegemoli e Montecoloreto, per cui fa sospettare che la madre e la matrigna del poeta non avessero ascendenze nobiliari.
Argomentando su queste memorie, al
PaliodelleContradedi Pomarance 1987, Dante fu incoronato con “l’Alloro di Montegemoli”,
e la sceneggiatura sui racconti di Bindino fece vincere il primo premio alla
Contrada Marzocco.
Oggi, nell’occasione della riapertura di questa chiesa, esasperando certamente l’implicazione su Montegemoli registrata da Bindino, non si potrebbe pensare che il poeta fosse stato battezzato in questa chiesa? Dante, nato nel 1265, perse la madre a cinque anni e il padre in seconde nozze sposò Lapa di Montecoloreto.
In quel tempo, certamente, il “bel San Giovanni” di Montegemoli si sarebbe dovuto trovare nella grandissima pieve vecchia di Micciano, che non sappiamo precisamente quando crollò o fu distrutta; Montegemoli però (piccolo mondo di nobili potenti) ebbe prestissimo un fonte battesimale dove battezzare anche l’Alighieri.
Una
Madonna di grande devozione
Con la riapertura della chiesa parrocchiale viene messa in evidenza e collocata più vicina ai fedeli la devotissima immagine della Madonna col Bambino, tela su tavola che i cultori dell’arte collocano almeno nell’ambito del Millequattrocento.
E’ difficile documentare se il quadretto
è la rimanenza di un polittico antico, nato e voluto intero per la chiesa,
oppure, come in altre chiese, il polittico fu messo a circondare un’immagine
più antica e già venerata.
Don Luciano, nella ricerca da lui eseguita,
lascia in sospeso le due possibilità. Infatti un inventario del secolo XVII
così descrive in chiesa la “mostra” dell’altare: “Un quadro d’altezza di
braccia quattro e larga tre fatta di nuovo da me prete Antonio Telleschi l’anno
1642 tutta a mie spese e di mio proprio con l’infrascritti santi, donata con
sua cornice di noce e sua coperta di tela turchina, cioè LA MADONNA ANTICA
ch’io ci ho trovato. Nel Quadro “nuovo” da capo il Padre
Eterno, a mano destra S.Bartolomeo titolo della chiesa, S.Antonio abate e
S.Francesco, a mano sinistra S. Verdiana S.Lucia e S.Cecilia. Quale mi gosta in
tutto Scudi Cinquanta.”
Madonna antica e quadro “nuovo” con
santi. E il quadro vecchio?
Un documento del secolo XV riporta una
lettera al Vescovo da parte dell’Opera Parrocchiale che sollecita una decisione
per un polittico (così sembra) essendo disponibili tra 1437 e 39 almeno Lire
165 (tra erbe di Pasco e bestiami venduti) per compiere questa pittura.
“Ricordo a Voi Monsigniore Messer lo Vescovo de’ fatti della Chiesa di Montegiemoli e Ch’Ella vi sia raccomandata, perché l’opera di decta Chiesa fecie fare una tavola di legniame per l’Autare di decta Chiesa, la quale si fecie per farla dipigniere e ponerla a decta Altare, considerato che e denari che bisognano per decta dipintura ci sono.”
Era una tavola di contorno per questa
Madonnina, che anche allora, poteva chiamarsi “antica”?
Un ricercatore, americano di Boston, Rolf Bagemihl, che ha lasciato sue scritture presso i signori
Cantini e Cucini, famiglie che iniziarono i lavori di restauro alla facciata
della chiesa, è di questo parere.
Il campanile della Chiesa
Egli parla, come pittore, di Francesco
di Neri Giuntarini da Volterra, e quale committente, o testatore, di Coluccio
Frescolini da Montegemoli, il quale espresse le sue ultime volontà nel giugno
1348. Come nessuno può giurare su Dante e Montegemoli, anche se la seduzione di
Bindino da Travale è grande, così nessuno può sposare senza matura riflessione
le suggestioni dell’americano: il pittore volterrano Francesco di Neri era a
suo tempo conosciuto come Francesco di “maestro Giotto”.
Comunque trovare a Montegemoli richiami
danteschi, uniti a luminosità giottesche, è quanto basta per definire “solare”
la devozione di questi popolani alla loro Madonna, e concludere con le parole
del divino poeta
“Vergine madre
figlia del tuo figlio umile ed alta più che creatura (sei tu nel cielo)
La Torre del Castello di Montegemoli.
meridiana face di caritate e giuso
intra i mortali
se’ di speranza fontana verace”
Una speranza che dona “nobiltà”
alla madre dell’Alighieri, alle nostre madri e a ciascuno di noi.
Numerosi altri santi e devozioni
Antonio di Pietro Telleschi da Castelfiorentino, diocesi di Firenze, risulta “canonico” nel suo paese, quando dal Comune di Montegemoli, tramite il nobile volterrano Gaspero Bardini, il 4 ottobre 1614 fu presentato al vescovo Luca Alamanni perché lo nominasse a succedere a prete Niccolò Maffii di Pomarance, che un mese prima aveva rinunciato la cura d’anime per vivere del proprio patrimonio familiare.
La cura d’anime, paese e campagna,
consisteva in 45 famiglie e quasi 400 persone (la peste del 1630 le ridurrà
assai); le rendite vengono segnalate in quaranta sacca di grano, computateci 48
staia per decime prediali.
Il vescovo, prima di nominare questo
prete, che poi risulterà bravissimo, tramite il vicario Carlo Mazzinghi e
Jacopo Petrini del comune fece affiggere editti alla chiesa del paese, e poi lo
fece esaminare rigorosamente dall’arcidiacono Baldassarre Bardini, dal teologo
Guglielmo Bava agostiniano e dal giurista Antonio Panzerini dei conventuali
di Volterra. Nella visita pastorale , che l’Alamanni aveva fatto il 7 aprile
1606 coi canonici Pierpaolo Minucci e Ottaviano Cecchi, viene descritto
l’altare maggiore sopra cui c’è un’icona “antica” con la Beata Vergine
Maria S.Bartolomeo apostolo e molti altri santi.
Non si dice quali, ma forse non c’è Santa Verdiana che è valdesana di Castelfiorentino. A mezza chiesa, a destra en trando, c’è l’altare di S.Sebastiano “eretto come si asserisce per voto di peste dalla famiglia Pieri” ma a devozione di tutto il popolo; l’icona contiene le immagini di S.Sebastiano S.Antonio e S.Rocco. Di fronte, a sinistra, c’è l’altare della Compagnia del Corpus Domini, composta di uomini e donne che vanno in processione, ed hanno commissionato un’icona nuovissima.
Dentro il castello c’è un Oratorio
dedicato a San Michele arcangelo, di cui è patrona la famiglia Barzottelli. Il
cappellano, canonico Angelo Guidi, vi deve celebrare sabato domenica e lunedì;
fare la festa l’otto maggio, apparizione di S.Michele, e quella di S.Macario
con uffizio il giorno seguente.
Nell’icona ci sono le immagini della Beata
vergine di S.Michele S.Giovanni e S.Macario.
Fuori castello c’è l’Oratorio di San
Sebastiano. A un miglio lachiesadi S.Niccolò a Celli, già parrocchiale oggi
unita a S.Bartolomeo; vi si fa la festa titolare il 6 dicembre e la
commemorazione di S.Macario.
I Guidi, affittuari dei beni, per
contratto vi devono piantare una vigna; ma per loro devozione hanno eretto un
Oratorio di S.Caterina alla loro villa di Serra.
Antonio Telleschi era sempre vivo nel 1652, e il vescovo Giovanni Gerini nella visita del 7 aprile (domenica in Albis) testimoniò che tutti i giorni festivi insegna la dottrina cristiana e i rudimenti della fede cattolica, proclama le feste e le vigilie, spiega il vangelo e i documenti della morale. Per Pasqua tutti si sono comunicati, e in parrocchia non c’è nessun pubblico peccatore.
Conoscendo per caso la famiglia Cantini
di Montegemoli ed avendo saputo del loro impegno nel restauro della chiesa di
San Bartolomeo di Montegemoli, non mi sarei mai aspettato che questa piccola
chiesa celasse sotto il fatiscente intonaco un’interessante paramento murario
di epoca medievale in cui sono stati riscoperti alcune feritoie ed una monofora
posta dietro l’altare, che rendono l’ambiente notevolmente affascinante.
L’impegno del parroco Don Luciano, che
ha promosso insieme ad alcuni volontari il restauro, è stato notevole ed ha
contribuito a riportare questa piccola chiesa agli antichi splendori
valorizzando quelle poche ma significative opere d’arte che vi si conservano.
Tra le cose più interessanti che vi si
trovano, come la bellissima icona trecentesca raffigurante una Madonna con
Bambino, è da considerare un oggetto che probabilmente sfugge al visitatore .
Trattasi di una acquasantiera, realizzata in alabastro locale e murata sulla
parete destra entrando, molto vicina alla porta di accesso, che reca scolpito
in bassorilievo lo stemma di un’antica famiglia di origine pomarancina, quella
degli INCONTRI.
Di questa casata me ne ero già occupato
in passato studiando la loro attività di mercatura con la produzione e lo smercio
delle maioliche pomarancine od anche per la loro parentela con il pittore
Cristofano Roncalli che dipinse nei primi anni del ‘600 a Pomarance una grande
tela per l’altare di Sant’Andrea, eretto dagli Incontri, nella chiesa di
Pomarance .
Una importante famiglia che possedeva
molti beni immobili nel comune di Pomarance e che aveva in patronato anche il
bel crocifisso ligneo,proveniente dal castello di Acquaviva, presso il Bulera,ed
oggi collocato sopra l’altare Maggiore della chiesa di Pomarance.
Lo stemma degli Incontri, effigiato nell’acquasantiera
di Montegemoli, è probabilmente risalente al XVI-XVII secolo e doveva essere
stato donato da qualche discendente che aveva voluto lasciare un suo ricordo
alla popalazione di Montegemoli. Alcuni di questi infatti furono Vescovi
Volterrani od anche pubblici Notai fiorentini come Ser Piero di Andrea
Incontri da Ripomaranci che fu, nel 1565, Cancelliere della Comunità’ di Montegemoli
.
Molti di questi stemmi che raffigurano
due leoni sovrapposti, intramezzati da una barra e con il rastrello sopra,
erano posti anticamente sulle case e possedimenti degli Incontri nel castello
e contado di Ripomarance.
Ne è una
riprova un documento del 1670, conservato nell’archivio Storico di Pomarance,
che riportiamo integralmente e che ci consente di capire l’origine della
famiglia ed i luoghi dove gli stessi blasoni erano collocati. Purtoppo la mano
dell’uomo ha contribuito a cancellare queste testimonianze del passato che
possiamo solo documentare attraverso gli antichi manoscritti.
“A dì
Dicembre 1670
Coadunati il Gonfaloniere et Priori della Comunità delle Ripomaranci nella solita residenza in numero sufficente serv. servantis ordinarono a me cancelliere farsi fede autentica come la verità fùet, che /’Alfiere Alamanno di Gio.di Marco Antonio Incontri che abita la terra delle Ripomaranci è dell’istessa e medesima famiglia dell’Incontri che di presente habitano e risiedono a Volterra e così è sempre da loro tutti stato tenuto e ripetuto per esser li loro antichi della medesima consorteria e discendere da un medesimo Autore; che così hanno ancora sempre sentito dire da loro antenati senza esserci memoria in conto e sempre fra di loro si sono trattati sempre tali e come dalla medesima consorteria ;si come ancora hanno fatto e fanno la medesima arme che sono due leoni d’oro volti sul lato diritto tramezzati da una sbarra pure d’oro in campo azzurro con un rastrello sopra rosso e tre gigli d’oro che a quello fanno di presente.
Ma nell’antiche di centinara d’anni
manca il rastrello et gigli, la quale arme si vede esposta nella terra delle
Ripomaranci, in molti luoghi pubblici et privati e particolarmente nella
chiesa Arcipresbiterale di S. Gio. Battista in due cappelle fatte dai suoi
antenati che una è l’altare del S.S. Crocifisso, et l’altro è l’altare di S.
Andrea Apostolo; et un ‘altra più antica simile fatta pure dai suoi antenati si
vede in una colonna e dove sta il Gonfaloniere di detta Comunità; si come
ancora un ‘altra antichissima di centinara d’anni se ne vede nella lapide
della sepoltura antichissima.
Della sua famiglia ha sempre quello
con il rastrello a gigli, si come da tutti pubblicamente si vede; si come anco
nel medesimo modo si vede esposta la detta arme sopra la porta della casa loro
antica in detta terra, luogo detto “In Piano” dinanzi la chiesa
principale e dentro le lor case, in molti luoghi, et in molti de lor poderi et
altrove;
Si come
attestano che detto Alfiere Incontri e suoi antenati si sono sempre trattati
civilmente et onoratamente, et con decoro conforme la sua nascita, et tenuto
sempre serve, servitori et cavalli, si come sempre si sono imparentati civilmente
et nobilmente; et particolarmente in Volterra con le prime famiglie, si come
altrove et no hanno mai fatto professione alcuna che possa denigrare la
civiltà ma esercitare sempre in caccia, arme, et lettere et simili, essendo o
ancora stati et sono comodi di facultà si come per il pubblico e notorio a
tutta la Terra delle Ripomaranci ma a chiunque li ha conosciuti et
conoscere….”.
Jader Spinelli
NOTE
Sulla
famiglia Incontri vedi:
J.Spinelli – “Il
Redentor Crocifisso d’Acquaviva”; La Comunità di Pomarance N. 3 -1987.
J. Spinelli – “Gli stovigliai
a Pomarance”; La Comunità di Pomarance N.1- 1990.
J.Spinelli – “Un
dipinto del Roncalli a Pomarance”: La Comunità di Pomarance N. 2-1992.
Al mio paese non c’erano contadini proprietari di terre, ma
solo mezzadri. La terra suddivisa in tenute, più o meno grandi, apparteneva
tutta ai “Signori”, ai padroni. I padroni avevano quasi tutti il palazzo nelle
stesse vie, ma abitavano in città e venivano al paese solo a metà estate. Essi
erano chiamati padroni, ma in realtà i veri padroni erano i fattori
(amministratori) che tartassavano i contadini e fregavano il padrone arricchendosi
piano piano alle sue spalle, spesso diventando più ricchi di lui.
“Fammi fattore una anno……. se non ar
ricchisco, mi danno!..”.
Il “Signore” più signore era il conte De Larderei ed
il suo palazzo era il più grande ed il più bello. Si allungava per un quarto
della via Roncalli, dove era l’ingresso ed anche l’abitazione del fattore,
girava l’angolo dove si spalancava il grande ingresso delle scuderie poste
sotto il palazzo e dalla parte opposta si alzava di vari metri sulle “mura”,
col suo bel giardinetto pensile e i suoi tre piani. Su questa facciata spiccava
lo stemma gentilizio. Era la riproduzione, un po’ ridotta, del palazzo De Larderei
di Livorno.
Il conte era un bel vecchio distinto dalla barba bianca.
Egli, con felice intuito, aveva comprato per una miseria la
terra brulla, considerata quasi maledetta dei soffioni, dando origine a quello
che è diventato poi il complesso industriale di Larderello che da lui ha preso
il nome.
Una sua figlia aveva sposato il principe Ginori,
aggiungendo ancora lustro alla casata. Mi par di rivedere la principessina,
quando passava da casa mia a cavallo!
Vestita da amazzone ( con la gonna lunga fino ai piedi)
sedeva in sella con le gambe a sinistra, i lunghi capelli sciolti, raccolti da
una parte, il frustino e le briglie in mano.
Tutto era lindo, luccicante, impeccabile: dall’abito al
cavallo, ai finimenti, al rispettoso scudiero in divisa che le cavalcava un
po’ dietro.
Per noi bimbetti di campagna era il plus – ultra della
signorilità e li guardavamo con ammirazione mista a un po’ d’invidia. Il
fattore del Conte era un signore con la barba, robusto, altero e taciturno che
incuteva a tutti soggezione.
Era lui il vero padrone di tutta la contea. Sua moglie,
lasignoraGiulia, era bellae dolce e non usciva mai. Il fattore, forse geloso,
doveva essere un tiranno anche con lei. Aveva anche un figlio; bello e dolce
come la mamma, che studiava in città. Di fronte alla sua stanza, dall’altra
parte della strada, c’era il giardino pensile del signor Mugnaini. Sua figlia
Maria, dolce e timida, uscita da poco dal collegio, si sedeva a ricamare sotto
il pergolato. Attraverso l’aere cominciarono a partire prima sguardi furtivi,
poi sorrisi, poi saluti….e poi divennero sposi felici.
lo conoscevo abbastanza il palazzo perchè mamma , prima
della venuta dei “Signori”, andava a dare una mano alla “casiera”, e alla” sora
“ Caterina.
E mentre loro facevano le pulizie, io perlustravo lunghi
corridoi e le innumerevoli camere con i letti a baldacchino ed i rispettivi,
eleganti salottini con tante morbide poltrone e graziosi soprammobili. Di
questi quello che più mi incantava era, sotto una campana di vetro, una chioccia
a grandezza naturale che covava una bella nidiata di pulcini dorati e
birichini.
La cucina era immensa; grande acquaio, grande camino,
grandi tavole. Ad una colonna c’era appeso un macinino, anzi un macinone. E
alle pareti tanti rami luccicanti e nelle vetrine cristalliere scintillanti.
Ma il Conte era un uomo semplice, mangiava nel tinello aperto sulla cucina e
dormiva in una cameretta a pian terreno, quasi spoglia. Il suo letto era senza
baldacchino e ai piedi di esso c’era un inginocchiatoio.
Altri palazzi ,come ed esempio quelli dei Fabbricotti,dei
Galli Tassi o dei Bicocchi erano più modesti.
Ricordo che una figlia dei Bicocchi aveva sposato un
avvocato francese ed era andata ad abitare a Nizza.
Nell’estate, anche lei veniva in villeggiatura al paese di
Pomarance con le figlie; e queste, per la passeggiata vespertina, qualche volta
passavano, eleganti, davanti al “Formicaio”, accompagnate dalla istitutrice
francese, conversando in questa lingua.
Un loro zio, la sera delle sue nozze avvenute in città,
portò al paese una giovane sposa, bella , gentile e candida come un giglio. La
mattina presto quando il proposto aprì la chiesa, se la trovò alla porta
piangente, disperata, che chiedeva di confessarsi; riteneva di aver commesso
un gran peccato mortale e voleva ritornare dalla sua mamma.
Non sapeva nulla del matrimonio. Forse credeva davvero che
i bambini li portasse la cicogna.
Fu compito non facile per il proposto consolarla, erudirla
e convincerla a ritornare a palazzo a compiere i suoi doveri di sposa!
Altri tempi!
I nostri padroni erano i Signori Fabbricotti.
Abitavano a Massa Carrara dove si erano arricchiti con le
cave di marmo. Possedevano al paese una vastissima tenuta ed un bel palazzo,
anchesso col giardino pensile.Avevano una grande villa con giardino e scuderie
a Livorno, villa che porta ancora il loro nome.
Erano buoni e munifici, specialmente la signora, morta quasi in odore di santità. Ogni anno ella faceva allestire una grande fiera di beneficenza per offrire, così a tutti doni, senza umiliare.
Il loro arrivo era annunziato dal festoso suono della banda comunale ( proprio come nel “Gattopardo”).
Poi venne la guerra 1915-18 e
peggio ancora il dopoguerra; e i suoni si tramutarono in fischi. E i signori
non vennero più.
Il Principe Ginori e F. De Larderei nello stabilimento di Larderello con i loro dipendenti (1900 circa)
Caro direttore, ho accettato il tuo invito a descrivere la
tragedia dell’ARMIR, tragedia immane, della quale porto i segni indelebili sul
corpo e nella mente, sperando che i giovani e certi politicanti da caffè
imparino che cosa è la “guerra”. Premetto che l’argomento può prestarsi ad
interpretazioni di carattere politico dalle quali rifuggo.
Dirò semplicemente cose orribili che ho vissuto e sofferto.
Lo dirò con senso di riconoscenza verso quella meravigliosa
“Popolazione Russa”, senza l’aiuto della quale nessuno, dico nessuno di noi
si sarebbe salvato.
Noi eravamo gli “invasori” e loro gli “aggrediti”; non
dimentichiamolo!
Ed ecco il racconto, stringato, nudo e crudo, piaccia o
no, ma a prova di qualunque smentita perchè è la semplice durissima realtà.
Partii con gli alpini della “Cuneense” da Borgo San Dalmazzo, poi Cuneo, Torino, Milano, Brescia, Piedicolle, Villaco, Monaco, Dresda, Varsavia, Kiev, Izium. Tremilacinquecento kilometri. Durante i viaggio rimanemmo scioccati nel vedere le donne addette a pulire i binari con la “Stella di DAVID” sul dorso sorvagliate e malmenate dalle sentinelle tedesche. Tremilacinquecento Kilometri!
Non mi rendevo conto come i “sacri” confini d’Italia
fossero così dilatati!
Iniziammo la marcia verso il “Don” con un caldo
asfissiante.
Le più belle “Divisioni Alpine”, atte alla montagna, mandate al “macello” nell’immensità della “Steppa Russa”!
Ero addetto al collegamento continuo fra la “testa” e la
“coda” divisionale.
Avevo una “Sertum 500”.
Quindici giorni di lavoro durissimo nella “Steppa”
Durante la marcia i civili ci osservavano in silenzio dalle
“ISBE” (case).Arrivammo sul Don. La “Cuneense” al centro, alla destra la
“Julia”, a sinistra la “Vicenza”, poi la “Tridentina” Armamenti:
In linea le “Breda 36”, il
“vecchio 91” e le bombette “Balilla”, che, se pestate, potevano al massimo
portarti via il tacco degli scarponcelli.
Cominciammo a scavare trincee e camminamenti.
Poche scaramucce, qualche attacco sporadico, qualche
morto.
Ogni giorno mi recavo a Loscina od Annofca, poi in trincea quando finivo il turno. Nei giorni di calma ci recavamo nelle “Isbe” dei civili.
Diffidenti all’inizio, più cordiali in seguito, ci
narravano delle atrocità commesse dai tedeschi.
Devo dire che mai un soldato italiano si è macchiato di una
violenza verso la popolazione.
E loro se ne sono ricordati!
A metà settembre la temperatura diminuì A metà novembre la
“Steppa” era un “mare di neve”, ci orientavamo con i mulini a vento.
Furono distribuiti pastrani con un pò di pelo di pecora e sempre le stesse scarpe. A Loscina rimediai un completo russo: tenni solo il cappello alpino.
Natale 1942: La posta non arrivava più poiché, in pratica,
eravamo già accerchiati.
Capodanno 1943: Aspettavamo che accadesse qual’cosa.
Giorni tristi, pochi viveri, nessuna notizia da casa,
termometro a 35 gradi sotto.
E venne il 17 Gennaio: nella notte ebbe inizio la più
grande tragedia della storia. Ordine di ritirata!
La notte era illuminta dagli incendi. Ero ben equipaggiato,
con i” ValenKi”, i famosi stivali russi, come russi erano il giubbotto ed i
pantaloni. Nel tascapane avevo due pagnotte gelate e tre ciocciolate.
Bruciammo i pochi camion, caricammo le slitte, ed iniziammo la ritirata.
Da LOSCINA in poi fu un continuo coro di urla dei feriti
perché le “Katiusce” (il cannone a Trentadue Colpi) aprivano vuoti nelle
nostre file.
Urla dei feriti che chiamavano “mamma”, urla di chi,
sfinito, si accasciava per non alzarsi più.
Unici punti di riferimento il bagliore degli incendi.
Ci riposavamo al calore dei pagliai bruciati.
Da LOSCINA in poi un coro continuo, lancinante: MAMMA!
MAMMA!
La fame ci dilaniava e nella steppa fischiava il vento
sollevando aghi di ghiaccio che crivellavano la faccia.
Avevo solo mezza pagnotta gelata.
40 gradi sotto. Ci riposavamo, puntando la pistola, per dormire
nelle poche “Isbe” rimaste in piedi, perchè dormire fuori, significava non
svegliarsi più.
Riempii il tascapane di occhiali da neve tolti ai morti, e
li cambiai con scatolette di carne e pezzi di marmellata.
Chi non aveva occhiali doveva pagare o perdere gli occhi.
Li avrei tolti anche alla mia Mamma!
Ho dormito poche volte nelle “Isbe”, spesso nei pagliai, e
le donne russe ci hanno aiutato sino al limite delle loro possibilità.
Un vecchio stava mangiando latte e cetrioli, mi dette
tutto e mi riempì la gavetta. Ragazzi russi di 14-15 anni con il “Parabellum”
controllavano che fossimo italiani.
Ai Tedeschi facevano subito la “pelle”. Le donne ci davano
latte, miele, e cetrioli acidi.
Quanto latte ho bevuto, quanti telai di miele ho mangiato,
quanti soldati italiani anno salvato!.
Prima di “VALUIKI” vidi un gruppo che aspettava un pezzo di
carne: “CARNE UMANA”, carne di un alpino squartato da un colpo di “Katuiscia”.
L’ho visto con i miei occhi. E se non credete a me chiedetelo a Don Turla il
nostro cappellano che, con il mitra in mano, fece finire lo scempio; li
avrebbbe ammazzati se non si fossero fermati!. Eravamo al limite fra lucidità e
pazzia, valeva solo l’istinto bestiale della conservazione a qualunque costo.
Arrivammo nel vallone di “VALUIKI”, penultimo baluardo da
superare; nel vallone ci rafficavano con le mitragliatrici e una raffica
spezzò una gamba di un alpino che con il fratello correva verso il riparo
urlando disperato.
Un alpino chiamò il fratello, lui si girò vide e continuò a correre, e rispose: “Mamma ne vedrà almeno uno’’.
Soldati italiani sul fronte russo – 1942
Entrai in una “Isbà” dove un vecchio mi
dette una ciotola di latte e cetrioli, sua moglie si tolse i guanti e me li
mise. L’Abbracciai piangendo.
Dopo “Valuiki” continuammo verso l’ultimo
sfondamento:
“NICOLAJEFKA” e fu l’apocalisse.
Ci precipitammo verso la ferrovia, ma
non sentii arrivare la Katiusca; una vampata e caddi urlando. Accanto a me fu
squartato il generale MARTINAT. Urlavo
come un pazzo; fortunatamente passò una slitta di carabinieri che mi portarono
fuori dall’ultima sacca.
Fermi, in attesa di essere caricati su
un merci, assistetti ad un episodio di puro eroismo:
Don Turla, Il nostro cappellano, sfinito
ma illeso, mentre ci caricavano alzò il “Crocifisso’’ e ci benedisse, poi
lentamente, tornò nel vallone per non abbandonare i feriti e i morbondi.
Quell’atto di puro eroismo gli costò quattro anni di “SIBERIA”. È tornato ed
ha costruito una chiesetta nelle sue valli ove ogni anno raduna gli ultimi
supestiti.
Quello era un Prete!
Arrivai a Varsavia in un liceo
trasformato in un ospedale, poi, dopo un sommario medicamento, mi portarono nei
sotterranei.Dopo due giorni di bombardamenti altro treno.
Sostai due giorni a Vienna dove mi cambiarono
le bende e finalmenete col treno N. 20 della Croce di Malta rientrai in Italia
e fui subito operato a Chiavari, nella Colonia Fara e Piaggio, ove rimasi 40
giorni.
Vennero la mia mamma e mia zia che non
mi riconobbero.
Ero trentuno kilogrammi.
Di nuovo operato a Pisa, poi cure, aria
di mare, affetti, hanno rimarginato le ferite, ma in noi sopravvissuti c’e un
nodo di gelo che nessun calore scioglierà mai più. Considerazioni:
Le più belle divisoni del mondo “Cunenese, Julia, Tridentina”, distrutte.
Fummo spediti nell’immensità della steppa
russa noi alpini allenati in montagna, perchè ci fu chi aveva bisognio di cinquantamila
morti da far pesare sul tavolo delle trattative!
Li hanno avuti:
114.240
giovani hanno lasciato i loro 20 anni nel gelo della steppa russa a maledizione
di chiunque voglia la GUERRA.
Bollettino di Guerra del Comando Supremo Russo N. 630
dell’8/3/1943: ” Solo il corpo di armata Alpino deve ritenersi imbattuto sul
suolo russo”.
Firmato Josef Diugasvili STALIN.
Non era dal cuore tenero ma seppe egualmente riconoscere il nostro valore.
Negli ultimi anni di guerra, forse era il 1944, in un
giorno d’inverno abbastanza freddo, io, che abitavo a La Spezia mi recai a
Pomarance, da certi parenti in cerca di pasta e farina, che non si aveva in
casa, malgrado la tessera annonaria.
Mia madre, mi diede un bel cavolo da portare a questi
parenti, poiché a La Spezia il clima abbastanza mite favoriva la crescita delle
verdure. Mentre mio padre mi diede un paio di stivali di gomma.
– Faranno comodo a qualche contadino – Mi disse!
A quei tempi il viaggio in treno era lungo. Prima di Pisa,
a S. Rossore, il treno finiva la sua corsa per riprenderla oltrepassata la
stazione al cosiddetto “collo d’oca” cioè un bel pezzo a piedi in mezzo ai
binari distrutti dai bombardamenti.
Quando era buio alla stazione di Saline, ci fu un posto di
blocco di militari fascisti, che vollero controllare i bagagli di ciascuno dei
viaggiatori giunti col treno.
Alla domanda di cosa avessi nella valigia risposi candidamente:
“Un cavolo e degli stivali!” Il resto della valigia era
vuoto. Ero andato apposta per caricare un pò di mangiare. Questi si offesero
parecchio e credendo ad una battuta messa li, mi dissero di fare meno lo
spiritoso, che aprissi subito, al che quando li accontentai, ci rimasero assai
male, tanto che uno di quelli, mi disse se avevo uno scontrino relativo
all’acquisto degli stivali.
lo veramente non sapevo che da queste parti fosse in vigore la ricevuta fiscale, anticipando di circa quaranta anni i tempi, per cui rimasi alquanto perplesso, dissi che non l’avevo, che a La Spezia le cose si compravano e basta, le uniche ricevute erano quelle dell’affitto e della luce. Ci rimase male e mi disse di andare.
TEATRO DEI CORAGGIOSI ANNO
1930 circa OPERETTA L’ACQUA CHETA fra gli interpreti Giulia Funaioli, Cesare
Falcini, Socrate Righi, Luisa Baldini, Argante Casanovi, Giovannina Mazzinghi,
il farmacista Quadri, Donatello Fontanelli, Miro Bruscoli, Bartolo Bartoli ed
il Maestro Sestini.
Non c’era ancora il cinema nè
tantomeno la televisione, le feste da ballo erano rare. In quel tempo
l’operetta imperava ed il suo fascino arrivò fino da noi. Direi che fu proprio
questo mondo e quello della commedia musicale ad interessare maggiormente i
nostri nonni. Si facevano anni di prove sia per il gusto di stare insieme ma
anche con lo scopo di fare un buono spettacolo che sarebbe stato motivo di
conversazione nelle lunghe veglie invernali sul canto del fuoco o sotto i
freschi nei lunghi pomeriggi d’estate.
L’Acqua Cheta, mi ha
raccontato il Falcini, fu l’unica vera operetta da noi rappresentata, fu quella
che ebbe maggior
successo, fu rappresentata tre volte a Pomarance ed una
volta anche a Saline di Volterra.
Mentre parla gli si
illuminano gli occhi, sta rivivendo sensazioni ed emozioni che appartengono ad
un mondo lontano. Il Principe dice ci mise a disposizione per quattro prove
generali l’orchestra del Teatro di Larderello ed a fine rappresentazione ci
regalò per riconoscenza il pianoforte. Si è proprio quello della Filodrammatica
che si trova nel Teatro dei Coraggiosi.
Come era bravo il Quadri!! Che bella voce aveva Luisa ed
ero anch’io un bravo tenore.
Mi ricordo che Giulia cadde nel ballo delle rificolone. Che
applausi! la gente voleva il bis.
Guarda la fotografia, fa un lungo sospiro.
Sono morti tutti dice.
□ Il servizio una volta al giorno andava da Volterra a Massa Marittima,
successivamente fu messa la “Postale” anche per Pisa e Firenze.
Mi ricordo che per
arrivare a Firenze si partiva la mattina alle 5 e si arrivava alle 10.
Alla sera quando alle 8 arrivavano i due “Postali” vi era
sempre un gruppetto di gente davanti la posta in Piazza De Lardarel ad
aspettarli. Mi ricordo Emogene sempre con la panierina portava il mangiare ad Amleto
che ritornava a casa solo il sabato.
Amleto era il fattorino, ricordo anche
Aldo il Baldini, il Busoni e Cassiano.
Le macchine erano in pochissimi a possederle, si contavano sulle dita, e la gente viaggiava quasi tutta in “Postale” e quel momento dell’arrivo era un attimo importante la gente si baciava, si salutava, aveva il piacere di ritrovarsi. Si scaricavano i bagagli che spesso erano legati sul tetto. Dopodiché si vedevano gruppetti di gente che parlando animatamente si dirigevano alle proprie case grati al Postale che aveva ancora una volta ricondotto a casa un affetto.
1919 – Linea Volterra-Massa M.ma FIAT 18 B2, a gomme piene. Nella fotografia: Biondi Jolanda, Cerboneschi Maggi Lina, Falcini Cesare, Tonelli Piero, Coppini Seraflna, Pineschi Carla, Tani Primo, fattorino della “Postale”, Caporioni Dino, Grandi Edoardo, Bacci Cesare, Landi Ernesta.
Mario Fiossi
C’ERA UNA VOLTA: “I Veglioni”
□ Era da pochi anni finita la guerra. Soldi ne giravano
pochi e di conseguenza pochi erano i divertimenti, la gente faceva a meno di
tutto impegnata com’era nella dura battaglia della vita, ma… “Anche
quest’anno a Carnevale al Teatro dei Coraggiosi faranno tre Veglioni”.
Non tutti potevano permettersi di parteciparvi, era già un
lusso poter andare ad uno. Nelle famiglie più modeste dove c’erano ragazze da
marito si cominciava a fare i conti; con tanti sacrifici si sarebbe potuto
comprare la stoffa e cucire un vestito da sera.
Si forse uno era possibile. Non si poteva certo andare a
tutti e tre perché era usanza cambiarsi di abito ad ogni festa.
Questo forse era il problema più grosso, ma anche prenotare
un palco non era impresa facile. Il primo ed il secondo ordine erano padronali;
il terzo ordine “la Piccionaia” veniva affittato. Bisognava fare una lunga coda
davanti alla “Bottega di Settimo” che al mattino, quando alle otto andava ad
aprire il suo negozio, trovava sempre un folto gruppo di giovanottelli che a
pagamento facevano la fila fin dalla sera prima per prendere in affitto “il
Palco”. Non a tutti toccava ed i meno fortunati dovevano accontentarsi si
andare davanti al teatro a veder entrare la gente e poter ammirare, anche di
sfuggita, i vestiti delle ragazze che ne parlavano già da mesi. Anche per
l’abito da sera esisteva quasi un rito: si andava a comperare la stoffa anche
fuori Pomarance, non si doveva dire il colore, la sarta che lo cuciva non
doveva farne parola con nessuno, le aiutanti erano diffidate a parlarne. Doveva
essere una sorpresa. Ognuna in cuor suo sperava di essere la più elegante e
l’effetto sorpresa doveva contribuire a questo e, perché no, anche a vincere
quel premio che a volte veniva messo in palio per la “Miss” più bella.
Arrivava così la sera del ballo.
ero ancora un ragazzetto ma mi ricordo abbastanza bene i particolari importanti di quelle feste. Noi del loggione si arrivava molto presto, carichi di dolciumi che durante la notte si sarebbero mangiati. Non si voleva perdere niente, per noi non era soltanto una festa da ballo, ma uno spettacolo pieno di luci e di colori, di bei vestiti ed anche di gente importante.
Piano piano i palchi si riempivano, arrivavano più tardi le
persone che più contavano, la sala da ballo tutta addobbata di fiori e di
festoni rimaneva vuota e chiuso il grande portale di accesso smaltato sotto il
“Palchettone”.
Gli occhi di tutti erano concentrati su quel portone; tutto
ad un tratto si apriva e dietro vi erano le coppie che avrebbero aperto il
ballo. L’orchestra che stava sul palcoscenico intonava un “Valzer” e la
prima coppia scioglieva il “nastro di raso bianco” e seguita dalle altre dava
inizio a quel lungo valzer, proibito ai ballerini non valenti.
Mi ricordo che la festa cresceva in un turbinio di musica,
di coriandoli e stelle filanti; ai piani inferiori si facevano battaglie con i
coriandoli, se ne consumavano sacchi, tanto che per due o tre volte si dovevano
interrompere le danze per spazzare il pavimento.
La festa dilagava dappertutto, coinvolgeva tutti. Per le
scale c’era sempre una grande confusione, i giovanotti e le ragazze si
rincorrevano, scherzavano e, perché no, si nascondevano per scambiarsi furtivi
baci.
Le storie d’amore che nascevano in quelle serate, qualcuna
continuava, altre finivano, ma erano comunque oggetto di conversazione per i
mesi che seguivano.
veglione più allegro e più bello era senza dubbio quello “Mascherato”; mi ricordo un anno di avervi partecipato vestito da “Gatto con gli stivali”. Il costume era bellissimo, ricercato e curato in tutti i particolari. Lo aveva realizzato “Giorgio” diventato poi uno dei più importanti costumisti italiani. I costumi da lui realizzati presso la sartoria “Cerratelli” per i film di Zeffirelli hanno vinto anche dei premi “Oscar” e quell’anno vinse con me il suo primo premio per il miglior costume.
Passarono gli anni ’50 e i veglioni per un periodo non
furono più fatti. Altri furono i luoghi d’incontro dei giovani, furono fatte
nuove sale da ballo e il cinema fu uno dei passatempi più frequentati dalla
gente.
Ma il fascino di quelle serate era cosi intenso che non si
tardò a riprendere questa bella abitudine. Ne sono stato anch’io protagonista,
ho addobbato la sala con rose, con mimose, con festoni colorati e lucenti, ho
scorazzato anch’io per le scale su per i palchi con amici e amiche. Ho anch’io
insieme ad una ragazza sciolto il “nastro bianco di raso”, ho ballato
anch’io il lungo valzer ed ho respirato anch’io quell’atmosfera magica che
solo il “Teatro” sapeva dare.
Da diversi anni il “Teatro dei Coraggiosi” è chiuso in
attesa di restauri. Speriamo che il tempo non sia impietoso e che si possa
giungere in tempo a salvare questo patrimonio che non è solo importante per la
sua architettura, ma è soprattutto importante per il significato che ha avuto
per tutta la comunità per tanti anni “Veglioni” a parte.
Pomarance Teatro dei “Coraggiosi” – 1950 (1° veglione) Nella foto: Bianchi Gerardo, Dei Lunetta, Fignani Valeria, Manghetti Stefano detto “Il Chiorre”.
In estate, appena finita la scuola, andavo per lunghi
periodi dai miei nonni.
Abitavano a “Poggiamonti”, lo ricordo come il posto più
bello e più felice della mia fanciullezza.
Il giorno scorazzavo sull’aia
e nel bosco in cerca di lucertole con i miei cugini e mio zio di poco più
grande di me e la sera…………
Al sopraggiungere della sera, terminati i lunghi giochi, ci
sedevamo tutti intorno al grande tavolo e tra chiacchere e grande confusione
consumavamo il modesto pasto che mia nonna “la massaia” ci preparava. E poi a
letto. Qui mi assaliva una sorta di malinconia ed una voglia scottante dei miei
genitori, non potevo rimanere a letto con i miei cugini e mia nonna allora
veniva con il lume a petrolio in mano, mi prendeva in braccio e mi portava nel
grande letto, dove mio nonno sorridente mi accoglieva e mi avvolgeva con un
grande abbraccio. Mi addormentavo così tra loro sommerso di affetto e di
profumo di lavanda. Non era ancora giorno che mi svegliavo, sentivo mio nonno
alzarsi, si vestiva.
Dove va?” domandavo.
Zitto, dormi!” rispondeva la nonna “è presto, nonno va a
segare”.
Mia nonna era una bella donna, alta e rassicurante, con una
mano reggeva il paniere in cui era il cibo che si portava nel campo con l’altra
dava mano a me che piccolo piccolo la seguivo, mentre mi raccontava storie di
maghi, di principi, di api e di farfalle. Si arrivava nel campo, faceva un
grande caldo, tutto era sole e oro; il cielo, l’aria, il grano gli armenti e
gli uomini erano immersi in una atmosfera pesante e risplendente che sprizzava
giallo; solo la grande quercia dove ci sedevamo per mangiare conservava ancora
il suo colore reale: verde, un’intenso verde, impenetrabile e fresco.
Si mangiava zuppa con cipolle, pomodori e cetrioli e poco
più. Si beveva acqua dal fiasco ricoperto di vimini mentre i buoi poco più là,
sempre al fresco, ruminavano il fieno che mio nonno non dimenticava mai. Poi ci
si riposava, si dormiva qualche ora, fino a che il sole impietoso non smetteva
di scottare, poi si riprendeva il lavoro: i buoi venivano riattaccati alla
macchina che segava, mio nonno vi prendeva posto e si ricominciava. Il grano
veniva falciato dalla macchina e dietro dietro una moltitudine di persone lo
raccoglieva, ne faceva dei “balzi” che ammonticava poi in grandi “Barche”.
E la fatica ?
La fatica era dura, vera,
sfibrante, si leggeva sui volti dei contadini rugosi e bruciati, si leggeva nel
passo delle donne: sfiancato e lento e si leggeva nella camiciola di lana del
nonno, molle e appiccicosa che bucava di grano quando alla sera tornava e mi
prendeva in collo per baciarmi.
Mario Rossi
IL PROFUMO DELL’ESTATE
Finita la scuola, cominciava il gran caldo, pochi andavano al mare ed i ragazzi meno fortunati rimanevano in paese.
Nei lunghi pomeriggi assolati gli
anziani meriggiavano sotto gli alberi, le donne finite le faccende domestiche
si riversavano nelle strade, sugli scalini, nei punti più freschi, a
sferruzzare o a pulire verdure e frutta per la marmellata. Noi ragazzi si
giocava, sotto gli alberi del parco, sotto i freschi del “giardinello” oppure
tra il verde del boschetto della “Villa”.
L’estate scorreva lenta in questo paese
pieno di luce, di caldo e di sole.
E la sera? La sera, gli uomini dopo il
lavoro uscivano per andare al “Circolo”, noi ragazzi, dopo corse affannate per
prendere lucciole, si giocava a “rimpiattarello” mentre le donne con i più
piccoli se ne andavano per le vie del paese a cercare refrigerio. Ricordo che
tutto profumava di erba e grano falciato, di ginestre sfiorite, di polvere arsa
di tigli e di rose.
La vita scorreva lenta, monotona non
succedeva mai niente.
Poi all’improvviso: Il Palio!
Fu un’invenzione per sentirsi vivi, per
interrompere la monotonia delle vacanze estive, fu l’invenzione che stimolò la
fantasia e la creatività, fu l’invenzione che rievocava l’istinto alla
competizione così fortemente radicato nelle genti di Toscana. Ricordo che
all’inizio era una competizione calcistica tra i rioni del Marzocco e
del Centro. Il rione del Marzocco intese subito fin dal primo anno vestire
la sua mascotte con il suo capitano con vestiti medioevali, che ricordavano il
suo antico passato. Lo ricordo ancora: Paimira e Mario coloratissimi con
calzamaglie e giubbetti e la bandiera del Marzocco che apriva il piccolo
corteo. Si rimase un po’ tutti allibiti, ci piacque e si decise tacitamente che
si sarebbe potuto far meglio.
Nacque un terzo rione, il Paese Novo
e la competizione si allargò: si premiava non solo chi vinceva il torneo di
calcio, ma si cominciò a premiare soprattutto la contrada che riusciva a fare
il migliore corteggio prima, e dopo la migliore sfilata storica. Di quei primi
anni ricordo vagamente alcuni episodi e personaggi:
Meri, giovanissima vestita da Lucia, e
Michele un Don Abbondio simpatico e scanzonato. Marta, superba Minerva e
fierissima Amneris. Ricordo Catuscia con il bellissimo costume della regina
Isabella e Alberto bravissimo nella parte di Nerone.
Un quarto rione si costituì, agguerrito
e pieno di iniziative il Gelso. Bella la sua Batterflai e riuscitissimi
il conte di Cavour e la sua affascinante contessa di Castiglione.
Mentre scrivo si affacciano alla mia
mente volti ed episodi di Cleopatra, Antonietta, Napoleone, Giuseppina,
Semiramide, Ulisse, Robin Hud, la regina di Saba, il Doge di Venezia, Paolo e
Francesca e soprattutto balzano alla mia mente le persone che prestarono i
loro volti a questi personaggi: e vedo Giacomo, Claudia, Mila, Vaschilio,
Vanda, Andrea, Paolo, Gabriella, Renata, Franca e tanti tanti altri. Questo
gioco ci affascinò tutti, fu interrotta la competizione calcistica e si dette
spazio solamente alle sfilate che rievocavano periodi ed episodi storici.
Il gioco nel corso degli anni si affinò,
si ingrandì si crearono scenografie dove le comparse recitavano scene di vita
passata. Diventò teatro popolare.
Finita la scuola comincia il gran caldo, molti vanno al mare… molti lavorano, inventano, creano, si riuniscono, parlano, discutono. Tutto profuma di erba, di grano falciato, di ginestre sfiorite, di polvere arsa, di tigli, di rose e… di colla, di vernice e di legno.
Scenografia “La processione di S. Giovanni del 1598“ – Contrada Paese Novo, 1988.
In via dei Fossi a nord est di Pomarance, dietro la chiesa
parrocchiale di S. Giovanni Battista, vi è un’area di proprietà comunale,
adibita attualmente a parcheggio, che è conosciuta dai pomarancini con il
semplice nome di “GIOCO” . Questo appellativo in verità non è del tutto esatto:
il suo vero nome, risultante da alcune piantine catastali del periodo
leopoldino (1830), era “GIUOCO del PALLONE” indicante che il “calcio” ha
un’antichissima tradizione in Pomarance.
Probabilmente giocato dai pomarancini fin dal 1500, è certo che venne praticato sin dalla prima metà del ’700 all’interno del castello di Pomarance prima di essere trasferito dietro la chiesa parrocchiale (1780) per le continue lamentele degli abitanti della contrada di Petriccio (attuale Piazza de Larderei) a causa dei danni arrecati alle loro abitazioni da tale gioco. Molto simile al “Calcio fiorentino” , disputato su di un terreno rettangolare tra squadre che si contendevano la palla usando mani e piedi, assumeva talvolta particolari aspetti di violenza che determinarono la volontà delle Magistrature del Comune di rimuoversi dalla contrada di Petriccio il giuoco del pallone e della palla..’” come da una lettera del Confaloniere Franco Incontri (20 sett. 1779) in cui si invitava il Magistrato a “…destinare altro luogo, dove poter esercitarsi in tale giuoco senza disturbo degli abitanti circonvicini” (1).
In questo periodo vennero
proposti all’attenzione delle magistrature tre luoghi: “…in primo luogo
il posto dietro i fossi, (attuale via dei Fossi) ove levandosi a spese
comunitative li scarichi che vi sono, e togliendosi le piante dei gelsi che
siano di impedimento, può ridursi luogo atto e capace per il giuoco………. in secondo luo
go il campo del Treppiede
di proprietà del Sig. Can. e
Andrea Falchi in terzo luo
go la Cella di proprietà della Chiesa Arcipretale ” .
Nello stesso periodo venne indicato anche un altro posto
detto “Campo al Zolfo” di proprietà della Compagnia di S. Gio distante
da Pomarance circa un tiro di schioppo. (2)
La scelta ricadde sul luogo dietro i fossi che era
anche stato destinato da S. A.R. per la realizzazione del nuovo cimitero in
seguito costruito presso la cappella di S. Rocco nel 1789 (attuale Parco della
Rimembranza). Questa area fu ben accetta dai giocatori stessi come rilevasi
da una deliberazione del 1779 in cui: “sentito che i giocatori desideravano
il posto dietro i fossi fu proposto, di quello destinarsi, per non aver altro
luogo in proposito…” (3).
L’inizio dei lavori avvenne attorno al 1780 dopo la
redazione di un chirografo da valere come contratto tra il Sig. Franco di
Pietro Guglielmo Biondi ed il Comune per la cessione di alcuni mori (gelsi) da
abbattere per fare lo “spiano” del campo da gioco in cui il Biondi si obbligò
con l’indennizzo di lire 154 a: “…non molestare ulteriormente…detta
comunità…” per qualunque ulteriore spesa che poteva verificarsi in
futuro (4).
Fu costruita così anche la scala presso il vicolo del
Muraccio per agevolare il passaggio dei giocatori dal Castello a questo
luogo.
All’inizio questo sito fu ritenuto, dagli uomini di
comune, adatto e abbastanza tranquillo per lo svolgimento di questo gioco, ma
ben presto anche qui insorsero degli inconvenienti. Infatti nel settembre del
1780 vennero stanziate dal Comune: “…lire trenta ai giocatori del pallone
per riparare la vetrata del Coro della Chiesa
Arcipretale soggeta a rompersi stante il giuoco di detto pallone costruito
dietro il medesimo….” (5).
Anche attorno
al 1801 questi inconvenienti non cessarono; in questo periodo risultarono
altre lagnanze rivolte alle magistrature del comune da parte di cittadini che
avevano le loro abitazioni nei pressi del “Gioco del Pallone” come ad esempio i
figli del Sig. Giovanni Buroni che “…si trovavano minacciati dai
giocatori che non vedendosi rendere i palloni dalla loro madre, spesso
iniziavano la scalata del muro…. ingiuriando la detta madre con parole
offensive….e facendogli dei danni nei beni stabili come forzare la porta
della casa con percosse e legni ”
(6).
Dai primi del ’900 fino al dopoguerra
l’area del “Gioco” fu pure utilizzata dai giovani pomarancini come luogo di
ritrovo per i loro giochi e divertimenti. Secondo il racconto dei più anziani
era lì che si giocava al tamburello, alle bocce, alle biglie di terracotta ed
anche alla “trottola” di cui si ricordano ancora abili giocatori che scalzi ed
in pantaloni corti davano prova di abilità nel far girare più velocemente le
trottole generalmente costruite dai locali falegnami Bonucci (detti Falugi) e
Pini, i quali le tornivano con grande maestria.
Il “Gioco” fu riutilizzato per il calcio nel 1927 quando il figlio dell’avvocato Coutret (detto il Signorino) acquistò a sue spese delle magliette color amaranto e costituì la prima squadra di Pomarance formata da giovani pomarancini come Mario Pini e Vittorio Baldini detto l’Abbaia.
Qui si
disputarono partite amichevoli e non fino al 1935 anno in cui il “Gioco” lasciò
il suo posto di campo ufficiale al sottostante “Piazone delle Fiere” ; ed è lì
che la squadra del Pomarance ha giocato fino agli ultimi anni del 1960 per passare
poi in una delle più belle strutture sportive della Val di Cecina: lo Stadio Comunale.
Spinelli Jader
NOTE BIBLIOGRAFICHE
Archivio Storico Comunale Pomarance, F. 210, c. 158 r. e v.
A. S. C. P„ F. 126, c. 12 r.
Ibidem, c. 23 r.
A. S. C. P„ F. 35
Comunità di Pomarance anno IV n° 1, 1971, Rievocazioni Storiche E. Mazzinghi. A. S. C. P„ F. 715, c. 1227 r.
Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.
La Storia Continua
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