Nell’alimentazione contadina il pane era il cibo assoluto, il nutrimento per eccellenza. Tutti gli altri cibi si riassumevano in una sola parola “companatico” a ribadire il loro carattere secondario, in quanto non indispensabili e non sempre disponibili.
Questa situazione si è saldamente radicata attraverso i
secoli tanto che, in un mondo ormai regno del “companatico”, il pane rimane per
molti un punto di riferimento dell’alimentazione quotidiana, certo più per
abitudine che per reale bisogno nutritivo.
Di norma nella tradizione contadina il pane si preparava
una volta alla settimana o per meglio dire “ogni otto giorni”.Per una decina di
persone occorreva cuocere circa venti pani alla volta, per lo più rotondi e
del peso di due chili ciascuno. Il giorno precedente si preparava la legna
necessaria per scaldare il forno e alla sera si metteva il lievito a rinvenire
nell’acqua poiché gli otto giorni trascorsi sotto al “monticino” della farina
in un angolo della madia, lo avevano indurito. La mattina seguente di buon’ora
si scaldava l’acqua necessaria nel paiolo di rame, quindi si prelevava dal cassone
la farina occorrente che si stacciava nella madia facendo scorrere lo staccio
su di un piedistallo di legno chiamato “reggistaccio”.
L’acqua calda si stemperava in una pentola
con altra fredda sgorgata dal brocco e la si versava un po’ per volta sulla
farina distesa nella madia cominciando ad impastare attorno al lievito.
Lavorando con le mani si continuava ad amalgamare l’impasto fino a che, ottenuta la necessaria consistenza, si procedeva a staccare da esso le forme dosate a vista che venivano ulteriormente lavorate una ad una sulla “spianatoia” e poi deposte su una tavola di legno ricoperta da un telo spolverizzato di farina. Tra una forma e l’altra si faceva una piega ondulata al telo quindi si posava l’orlo di un bicchiere su ogni pane lasciando un’impronta che si riteneva favorisse la lievitazione. A questo punto si copriva il tutto con un lembo del telo lasciato ciondoloni; se faceva freddo si usava anche una coperta di lana e si provvedeva a riscaldare l’ambiente con un braciere posto sotto la tavola. Quando le forme cominciavano a lievitare si procedeva a scaldare il forno. Si bruciavano più o meno rapidamente alcune fascine di legna fine finché le lastre laterali accennavano a un colore biancastro, a questo punto si mandava la brace tutta da un lato usando una pertica e si spazzava il forno con lo “spazzolo”, infine si faceva “cascare la bronza” cioè si verificava la temperatura del forno introducendovi alcuni rametti di frasca: quando le foglie non annerivano voleva dire che era il momento giusto per infornare il pane.
Sollevando il telo si rovesciavano le
forme una ad una su di una mestola e da questa sulla pala poggiata vicino alla
bocca del forno, quindi si deponevano all’interno del forno disponendole di
rigiro a cominciare dal punto più lontano dalla brace; in questo modo si
bilanciava il calore per la cottura.
Quando in casa c’era una donna che aveva da
partorire si faceva un panino per prevedere il sesso del nascituro: se si
spaccava, si diceva sarebbe stata una femmina, se rimaneva intero si prevedeva
la nascita di un maschio.
Dopo circa mezz’ora si apriva il forno e
si rovesciavano velocemente tutti i pani per farli cuocere da entrambi i lati;
un’ora era di solito sufficiente per completare la cottura.
A questo punto si estraevano i pani dal
forno con la stessa pala usata per infornarli e con lo spazzolino di saggina
si toglievano la cenere, la farina ed i pezzetti di carbone rimasti
eventualmente attaccati alla crosta, quindi si disponevano ritti sulla tavola
appoggiati gli uni agli altri e, una volta raffreddati, si riponevano nella
madia.
Quasi sempre si sfruttava il calore del
forno per altre necessità: cuocere la schiaccia, le mele, fare le bruciate,
seccare i fichi, ecc.
Fra i riti
collegati col pane c’era l’idea di non rovesciarlo sul tavolino “sennò” si diceva
“un fa mai buio” intendendo il buio come momento di riposo dopo una lunga
giornata di lavoro, le parole di questo canto toscano ci paiono, a questo proposito,
particolarmente significative:
Tramonta sole per l’amor di Dio ché se un sei stracco te so’ stracco io Tramonta sole per l’amor dé Santi, chè se un sei stracco te n’hai stracchi tanti!
“Levate le lenzuola, oggi si fa il bucato.” Con queste parole la massaia dava il via ad una operazione che, solitamente, impegnava le donne di casa per più giorni. Per prima cosa si provvedeva a bagnare i panni sporchi, quindi si sistemava, in un angolo della cucina, un “troppolo” di legno e su di esso si collocava la conca di terracotta; questa aveva, presso il fondo, un foro nel quale si inseriva il bucciolo o cannello, un pezzo di canna appositamente svuotato che, fasciato di stoppa, era infilato a forza nel foro e chiuso all’esterno con un tappo di sughero. Sul fondo della conca, inclinato a proteggere il foro di uscita, si poneva un testo “poco buono”, magari senza manico, poi si disponeva la biancheria, tenendo presente il principio di porre via via, dal basso verso l’alto, i panni sempre più sporchi. Così, cominciando dal fondo, l’ordine era, in genere, il seguente: prima le lenzuola, poi le federe, quindi le mutande, le camicie da donna e ancora asciugamani, asciughini e tovaglie e, infine, altri eventuali panni bianchi.
Su di essi veniva sistemato il “cenerone”, un telo di balla, sopra al quale si versavano tre o quattro secchi di cenere del focarile; molte volte, per aumentare la capienza della conca e per sostenere il “cenerone” si inserivano, fra la biancheria e le pareti interne, una serie di “schiappe” di legno che sporgevano, anche notevolmente, dal bordo superiore della conca. Intanto si scaldava l’acqua, in un paiolo grande, e la si versava sulla cenere: dapprima tiepida, poi sempre più calda ma non a bollore; quando cominciava ad uscire dal cannello essa veniva raccolta,
riscaldata sempre di più e versata nuovamente
nella conca.
Questa operazione veniva ripetuta più
volte, finché l’acqua estratta dal fondo era ormai calda ed aveva assunto una
colorazione tra il giallo ed il marrone chiaro: ciò significava che il ranno
era pronto; allora lo si faceva bollire e, dopo aver inserito il tappo di
sughero nel cannello, si versava nuovamente nella conca. Ora non restava che
coprire la cenere, ripiegando su di essa le estremità del telo, e lasciar
riposare il bucato fino all’indomani. La mattina seguente si recuperava tutto
il ranno dalla conca e lo si raccoglieva in secchi per riutilizzarlo; con una
paletta si provvedeva a raccogliere la cenere quindi, dopo aver tolto il
cenerono, si prendevano i panni, si ponevano nella “paniere” di vimini o nei
graticci e si andavano a lavare ai lavatoi, dove venivano spazzolati,
sciacquati e strizzati accuratamente. Con cura venivano stesi ad un filo teso
fra piante o pali in un posto soleggiato e ventilato oppure sopra ai cespugli
e, in estate, direttamente sull’erba; se tirava vento, i capi tesi sopra ai
cespugli venivano fermati legandone alcuni lembi ai rametti.
Il ranno
raccolto era usato per lavare i panni colorati, gli indumenti di lana ed era
efficace, dato l’alto contenuto di carbonato di potassio, magnesio, calcio e
silice, anche come detersivo per rigovernare e togliere l’unto dai tegami; molte
donne, inoltre, lo usavano per lavarsi i capelli.
Come ormai risaputo, nel Medioevo, non
vi era in Italia città, castello o villaggio ove non fossero fondati sodalizi
che, sia per culto sia per pietà o misericordia, univano persone (fratelli)
che, volontariamente e per impulso di carità, portavano soccorso agli
ammalati, ai morenti, agli appestati. La loro opera, a seconda dei casi di
malattia consisteva sia nelle cure che alla meno peggio potevano essere
prodigate, sia nel trasporto in ospedale o al lazzaretto per mezzo della “ZANA”
(specie di portantina a forma di gerla, ricoperta in tela, da portarsi a
tracolla e atta allo scopo). In altri casi, quelli irrimediabili, “I FRATELLI”
si prodigavano per il funerale ed il seppellimento.
Trasporto dell’ infermo con “ZANA”.
Le origini delle Misericordie Toscane risalgono
intorno al XIII e XIV secolo, quando le varie associazioni di arti e mestieri,
dietro esempio del Comune di Firenze,
1615 dette inizio, a sue proprie spese, ai lavori per una Cappella nei pressi
del baluardo sulla destra di Via della Costarella, all ’interno della cinta
muraria del castello.
La nuova istituzione fu detta “VENERABILE
CONFRATERNITA DEL SS. SACRAMENTO E DELLA CARITÀ”; iniziò il suo operato e si
distinse ben presto in varie occasioni.
Purtroppo in base al Decreto del 21 marzo
1785 il Granduca Pietro Leopoldo di Lorena, tutte queste benevole organizzazioni
furono soppresse con indignazione e sgomento della popolazione.
Soppresso il Decreto, dopo l’Editto Leopoldino, ripresero le attività di volontariato con varie opere di beneficenza. Anche Pomarance vide nuovamente riformarsi “l’opera assistenziale” soprattutto per volontà del Dr. NICOLA VALCHIEROTTI, avevano affermata la loro vita di azione. Così ovunque si intensificavano queste Compagnie, e Associazioni con un proprio regolamento ed un singolo Statuto appositamente studiato per le caratteristiche del luogo in cui nascevano.
Anche Pomarance si organizzò
per questo Istituto Benevolo, e così, per volere del Sacerdote CESARE GIOVANNI
SANTUCCI, (nipote dell’illustre nostro concittadino Antonio il Cosmografo)
nell’anno
Chiesa della Misericordia.
medico condotto, uomo di singolare pietà, il quale aveva adottata come sua seconda patria la nostra terra. La sua iniziativa si concretizzò rapidamente in una efficiente organizzazione condotta dal medesimo e da altri volenterosi. Durante il triennio della sua carica a Governatore, egli si prodigò per la ricostituzione della Confraternita e per l’ampliamento dell’Oratorio. Per merito suo la vecchia Cappella, di proprietà della sig.ra Anna Fantacci ved. Marchionneschi, in data 24 aprile 1844, con atto di donazione , passò alla Confraternita e fu così possibile dar inizio aH’ampliamento con le oblazioni dei più benefattori.
Con meraviglioso slancio i cittadini di ogni classe si
iscrissero a questa nuova fratellanza prestando la propria opera materiale e
morale. Compilati i relativi capitoli, approvati con Regia Sanzione del 3
gennaio 1845, la Misericordia cominciò subito il suo regolare funzionamento.
Nonostante l’encomiabile impegno dei benefattori non si
riusciva a far fronte a tutte le richieste che si moltiplicavano, così che tre
anni passarono in ritmo crescente di lavoro e di soccorsi. Il mandato di
questo benemerito fondatore era terminato, il suo operato aveva superato ogni
aspettativa e la promessa fatta all’atto della costituzione lo aveva impegnato
al massimo. L’avvio a questa opera era stato eccellente, ma alla scadenza del
primo triennio, il Valchierotti non si presentò alle elezioni volendo
lasciare ad altri volenterosi la libertà di continuare. Regola
ri elezioni videro suo successore il Cav. ADRIANO DE LARDEREL, uomo temprato
nell’esercizio della vita, che aveva dato segno del suo impegno e del suo affetto
per la nostra terra sia con intelletto industriale che religioso (vedi
costruzione caldaie Addane ed interessamento per la istituzione della
Processione Bella a Pomarance). Per dieci anni questo signore attese con
lodevole cura alla benemerita opera che si affermò sempre più. Il maggiore
contributo di umanità si rivelò durante l’epidemia colerica che nell’anno 1855
infestò il pomarancino, e fu ancora più evidente la efficienza dell’organizzazione
e la serietà con cui essa veniva gestita.
Il cav. Adriano de Larderei cessò di vivere alla giovane
età di 35 anni, lasciando rimpianto e cordoglio in tutti quanti lo conobbero.
Con lo stesso zelo e la medesima tenacia seppe ben
imitarlo il di lui fratello conte FEDERIGO DE LARDEREL, il quale si curò
dell’ampliamento di questa Confraternita della SS. Carità facendo in modo di
porla sempre più in vista.
Venne creato anche un abito a mo’ di divisa, a sembianza
di quello già usato dalla istituzione fiorentina: una lunga tunica nera con la
cintola a forma di rosario, un medaglione a giustacuore con l’emblema delle
misericordie e, per mantenere l’anonimato a chi lo indossava, un cappuccio
nero (detto “BUFFO” ) con solo due fori corrispondenti agli occhi. Chi vestiva
questo lugubre indumento non doveva far
sapere all’assistito chi era stato il benefattore, dimodoché non si sentisse
verso di lui debitore nell’eventuale guarigione. A completamento di questa
vestizione era previsto un cappello in feltro a larga tesa che serviva a
proteggere il portantino in caso di pioggia. Se la stagione era mite veniva
tenuto sulla spalla tramite il cordone del sottogola.
Sempre per interessamento del conte Federigo,
si trasformò di nuovo la Chiesetta che venne abbellita con marmi ed ebbe una
nuova pavimentazione. Questa chiesa era già stata consacrata a San Carlo
Borromeo, che ne è patrono, e che conseguentemente dette nome anche alla
piazzetta antistante l’ingresso.
Anche una portantina per il soccorso
agli ammalati fu acquistata, sostituendo la barella a stanghe. Era una
“LETTIGA” su ruote e per alleviare le scosse delle impervie strade aveva le
balestre in modo da ammortizzare gli urti.
Sempre nuove
migliorie per ogni tipo di bisogno venivano usate. Ed anche per i trasporti
funebri venne costruito un carro chiuso con predisposto il posto per il
cocchiere, in modo da poter trasportare il cofano funebre sino all’ultima
dimora. L’ultimo cocchiere, che per anni si impegnò a questa triste cura fu
Dante Spinelli più conosciuto come Dante dell’ortolano che, ad ogni tocco della
campana, era
Campanile della Misericordia.
pronto ad avviarsi con il suo
cavallo ad attaccare il mezzo tenuto presso la sede, e da lì dirigersi presso
l’abitazione dell’estinto. I meno giovani ricorderanno quest’uomo, che sino
all’avvento del mezzo motorizzato, ha scollettato tutti a S. Bastiano.
Per il richiamo dei portantini, in occasione dei funerali,
era usata la campana della Misericordia, posta sul campanile della Chiesa
Parrocchiale (vedi articolo sul n. 3/88 di questa Rivista) che con dei tocchi
particolari avvertiva: se il defunto era uomo, se era donna, se abitava in campagna,
se abitava in paese, se era iscritto alla Misericordia oppure no.
Nel corso degli anni vi è stato un susseguirsi di nomi, di
volenterosi, che con fede e spontanea carità si sono prodigati in questo
misericordioso lavoro.
Trasporto di infermo con “Portantina a stanghe”.
È doveroso ricordare anche i
Governatori, che con lo stesso spirito hanno continuato a dirigere l’istituto
cercando di ampliarlo, ammodernandone le attrezzature per aggiornarsi con
l’evolversi dei tempi. Dopo i due De Larderei, seguì il N. H. Giovanni Biondi
Bartolini che lasciò l’impegno al Cav. Michele Bicocchi e che, conseguentemente,
fu sostituito dal Dr. Giovanni Biondi Bartolini sino ad arrivare ai nostri
tempi con il Sig. Dell’Omo Augusto. A conferma delle notizie più lontane abbiamo
presso la Chiesa della Misericordia delle lapidi che ricordano questi uomini
fino al fondatore iniziale, il Sacerdote SANTUCCI, che con una scritta latina
è così ricordato:
Questo Sacro Edificio
dedicato a Dio alia Divina Madre e aS. Carlo Borromeo Cardinale di Milano, lo innalzò dalle
fondamenta, a proprie spese, prete Cesare di Giovan Matteo di Antonio Santucci,
l’anno di nostra salute 1644.
Nella sacrestia vi è una Acquasantiera a
muro, in marmo, con inciso lo stemma dei Santucci. Inoltre possiamo vedere la
lapide che onora il “secondo fondatore” il dottor Valchierotti, e poi quelle
dei due De Larderei. Le cinque lapidi in marmo scandiscono il tempo come un
libro e oltre ad arricchire la chiesa sono memori degli avvenimenti e
dell’opera di queste degne persone.
La chiesa della misericordia non ha molte
opere di valore, se non un’immagine della Madonna di Montenero dipinta su
specchio, sul retro, nella tavola di sostegno vi è una scritta a penna ed
inchiostro “Il Cavalier Adriano de
Larderei, fratello Governatore, donò alla Compagnia della R.R. Misericordia il
5 settembre 1852”. Sopra il tabernacolo dell’altare vi è un quadro rirpoducente
la Madonna Addolorata alla cui base possiamo leggere “MATER AMABILIS”. Alla pietà ed al merito di Girolamo Bettoni e
di donna Flaminia Covoni nata dei principi Chigi. (Giò Batta Cecchi incisore
dona e consacra, Firenze 1810). Sembra che questo quadro sia stato donato alla
Confraternita dal conte Federigo de Larderei.
L’insieme della chiesa, più volte rimaneggiata,
si presenta assai bene ai fedeli che numerosi vi affluiscono nel mese di novembre
per la Messa Vespertina officiata a nome dei defunti iscritti alla Misericordia
e deceduti nell’annata in corso. Ad avvertire di questa funzione religiosa è
compito delle due campanine poste sulla cella campanaria del piccolo campanile.
Il suono scandito da queste è datato dalla fusione di queste; una porta la data
solamente in numeri romani MLXXX (1530), e l’altra, A.D. MDCCCXV (Anno del
Signore 1815).
Documenti custoditi presso l’archivio
della Confraternita accertano molte di queste notizie e tra le principali vi
è quella del
la Affiliazione alla Confederazione delle Misericordie d’Italia avvenuta
nell’anno 1874.
Il nome odierno è: CONFRATERNITA DELLA MISERICORDIA DI
POMARANCE, con sede sempre in Piazza S. Carlo al numero civico 5, adiacente
alla Chiesa ed al suo patrimonio immobiliare. Oggi questa benemerita è servita
da un parco macchine composto da tre ambulanze che servono per gli
spostamenti, sia di ricovero in ospedale come per bisogni di soccorso stradale
od altro incidente. Inoltre due vetture funzionano per gli Handicappati ed i
dializzati. Unito a queste vetture vi è un carro funebre che completa il
nucleo motorizzato.
Nell’ammodernamento
delle attrezzature sono state acquistate, a
corredo di soccorso, delle sedie snodate atte al prelievo di ammalati
residenti in abitazioni dove vi sono scalinate.
Ad oggi è in allestimento una nuova ambulanza montata su
vettura Volkswagen e che nel giro di breve tempo andrà a sostituire quella più
vecchia e non più idonea e sicura. Il sodalizio che tutt’oggi è assai congruo
è costituito da 358 donne e 294 uomini. A questi valenti Governatori ed a
tutti gli attivi collaboratori che negli anni hanno saputo dare valore e vanto
ad una istituzione basata per la maggior parte sul volontariato, non rimane
che fare le dovute congratulazioni. A quelli presenti ed a quelli futuri, un
augurio per
Interno Chiesa della Misericordia.
Giorgio
saper continuare con lo stesso
spirito sia a governare che ad abbisognarsi in ogni occasione. Inoltre un
augurio a chi potrà ritrovarsi ai festeggiamenti che ovviamente saranno
effettuati nell’anno 2015 in occasione del quattrocentesimo anno di vita.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
Archivio Misericordia
di Pomarance.
LE CONFRATERNITE DI
MISERICORDIA IN TOSCANA – Ed. Arti Grafiche San Bernardino SIENA 1926 a cura
del Comm. Dr. U. Patella.
Analisi storica a cura di: Dott.sse ROBERTA COSTAGLI e GIANNA BUONAMICI
INTRODUZIONE
Molti teatri, costruiti a cavallo fra la fine del settecento e la prima metà dell’ottocento, conservano ancora la memoria e la bellezza del vecchio teatro “all’italiana”. Infatti, se la parabola storica del loro declinio e dell’abbandono totale si compie nel dopoguerra, non si è esaurita ancora la memoria culturale che essi rappresentavano nel tessuto storico ed urbano: sono il segno dello spettacolo del passato, ma anche il segno concreto del luogo proprio di quella particolare rappresentazione che era la collettività che si riuniva.
Per questo non possono apparire solo come contenitori vuoti ed inagibili, la cui ulteriore ed inevitabile fatiscenza non è che la premessa per la definitiva demolizione, poiché anche in tempi come i nostri (in cui non esiste più un luogo assoluto e privilegiato della rappresentazione) se opportunamente predisposti, possono diventare contenitori specifici per lo spettacolo e la cultura di oggi.
Prospetto Teatro dei Coraggiosi (Foto S. DONATI)
Il problema dei teatri inagibili o comunque da recuperare
è un tema per molti versi complesso e stimolante: da un lato, il valore
storico – artistico delle strutture e il loro ripristino nell’ambito della politica
della rivalutazione dei centri storici, dall’altro la funzione socio –
culturale dell’edificio teatrale, inteso come luogo di produzione, di cultura
e di crescita civile per la società.
Alla luce di queste considerazioni, peraltro ampiamente discusse in anni precedenti e delle quali è dimostrata la validità con i numerosi restauri già conclusi, abbiamo ritenuto interessante affrontare, come lavoro conclusivo degli studi universitari, il tema del restauro e riuso di un teatro quale è quello dell’ex Accademia dei Coraggiosi. Il teatro in questione è collocato nell’ambito del centro abitato di Pomarance ed ivi sorto a suo tempo, per il manifestarsi di particolari istanze di rinnovamento socio – culturali, con lo scopo, per lo più, di portare spettacoli musicali e di prosa là dove ogni altra forma di svago sarebbe venuta altrimenti a mancare; istanze valide ancora oggi, che un totale ripristino della struttura potrebbe soddisfare.
ACCADEMIA
DEI CORAGGIOSI ORGANIZZAZIONE ED ATTIVITÀ
Nel secolo XVIII non vi è cittadina o paese in Italia che non abbia la propria Accademia; a Pomarance esisteva l’Accademia dei Coraggiosi fondata il 31 luglio 1790, che al pari delle altre contemplava nel proprio programma la produzione teatrale. I fondatori dell’Accademia furono: Pietro Biondi, Giuseppe Martini, Giuseppe Marchionneschi, Luigi Gardini, Paolo Cercignani, Gherardo Bardini Mafferi, Pietro Gardini, Niccola Tabarrini, Giulio Cercignani, Michele Bardini, Camillo Fantacci, Isidoro Biondi, Maria Borroni, Bartolino Bartolini, Giovan Battista Biondi, Carlo Incontri, Tommaso Gardini, Filippo Biondi, Marcello Inghirami, Pier Giuseppe Biondi, Ottaviano Falconcini e Giovan
Battista Gardini.
Dietro il nome antico ed illustre di “Accademia”
si nascondevano istituzioni non sempre permanenti o con propri regolamenti
interni che erano però di sovente l’anima culturale dei centri abitati grandi e
piccoli. L’istanza di rinnovamento artistico e sociale è spesso il motore di
questi sodalizi che, nel caso dei centri minori rappresentavano la sola
opportunità di svago, con la partecipazione ad attività teatrali o
l’organizzazione di feste da ballo.
Astrusi, Georgofili, Accalorati,
Intronati, Rozzi sono alcuni nomi di accademie esistenti in Toscana;
appellativi bislacchi ed ironici, forse per segno di vera o falsa modestia,
che sono il frutto del gusto di quei tempi. Le Accademie avevano anche l’usanza
di fregiarsi di uno stemma che spesso riportava un motto ispirato dal nome:
nello stemma dei Coraggiosi è rappresentato un leone rampante con la scritta
“Germoglian frutti ai coraggiosi in seno”.
L’assemblea dell’Accademia dei Coraggiosi,
aveva il diritto di veto sull’ammissione di nuovi componenti, pertanto il
passaggio da una “panca” da un accademico ad altra persona da lui proposta era
sottoposto a votazione. Una volta accettata la proposta, il nuovo accademico
era obbligato al pagamento di una quota corrispondente al valore frazionale del
teatro e della tassa annua di scudi due. Il numero degli accademici arrivò a
venticinque con la costruzione del nuovo teatro, mentre dai rendiconti
annuali sappiamo che fino al 1805 erano ventidue e negli anni successivi fino
al 1810, ventitré. L’invito alle adunanze avveniva tramite l’invio di un
biglietto redatto dal segretario che aveva anche la funzione di redigere
l’ordine del giorno. Nell’Accademia erano previste anche le cariche di Presidente,
Camarlingo e di cinque consiglieri, tutti eletti per votazione dall’assemblea.
Ogni accademico aveva il diritto di esprimersi con un solo voto anche se possedeva
più di un “carato”.
I soci si riunivano per decidere sui
vari lavori di restauro occorrenti al loro teatro, sull’assunzione del
personale di servizio, l’apertura del teatro e per esprimere un giudizio sulle
istanze pervenute da compagnie comiche o di musicanti.
Gli accademici, a turno, dovevano fregiarsi della carica di “Deputato d’ispezione al buon ordine” in occasione di rappresentazioni comiche ed ogni sera il nome della persona incaricata veniva scritto su un apposito cartello posto all’ingresso del teatro. Inoltre, tra le altre mansioni spettanti agli accademici c’era quella di fornire olio per i lumi in occasione di feste o rappresentazioni gratuite: all’ingresso dovevano lasciare una “mazzetta d’olio’’ in mano al custode con apposita firma e in caso di maggior consumo supplire con un’altra.
L’Accademia, nel 1829, stabilì alcune regole a cui doveva
sottostare la compagnia comica in occasione della stagione teatrale che si
svolgeva sempre in autunno: “…un regalo di zecchini dieci a condizione che
in essa sala dia venti recite… di
ricevere la sala del teatrino e quindi di riconsegnarla a suo rischio, nel
medesimo stato detta sala offrirsi, mobili, scenari… far rispettare le panche
esistenti a solo comodo dei signori accademici e loro famiglie… che sia a
carico della comica compagnia la spesa serale (illuminazione e paga al
personale di servizio)… che il regalo di dieci zecchini possa solo ottenersi
dalla comica compagnia metà alla metà delle recite e l’altra metà alla fine’’.
Nel 1840 in occasione dell’istanza promossa dalla
compagnia comica di Ottaviano Novellucci, fu stabilito, inoltre che ogni
compagnia comica ”… presentasse l’elenco all’accademico Nobile Giovanni
Novellucci… quale se l’approverà, la concessione si intenda definitivamente
fatta, in contrario si riterrà non fatta” e l’anno seguente il prezzo
d’ingresso non oltrepassasse Quattro Grazie.
Ogni accademico aveva la facoltà di organizzare feste da
ballo purché si investisse della carica di “Deputato di Ispezione” per
l’intera serata pubblicando poi il proprio nome sul solito cartello, ma aveva
il diritto di nominare un “Maestro di Sala” e di farsi sostituire da un’altro
accademico.
Nel 1834 fa il suo ingresso nell’Accademia, al posto del cedente Ferdinando Cercignani, il conte Ferdinando De Larderei “…il quale lo accettava e richiedeva essere surrugato al cedente in detto posto accademico per godere tutti i favori e sopportare tutti gli oneri ricevuti dal posto medesimo”.
L’aspetto economico rappresentava la nota dolente di questa
associazione, spesso alcuni accademici sono in ritardo nel pagamento della
tassa annuale di due scudi.
Nel 1853, l’Accademia decise di darsi un regolare statuto, a questo proposito fu incaricato l’accademico Venerando Valchierotti di redigere una proposta nel termine di tre mesi, ma di questo statuto, nella documentazione successiva, non viene più fatta menzione.
Con la decisione di costruire il nuovo teatro viene
compiuta un’accurata stima di tutti i beni mobili e immobili della società,
stabilendo che ”… i soci accademici che non vogliono concorrere alla costruzione
del nuovo teatro saranno liquidati i loro diritti sociali e cesseranno cosi di
far parte dell’Accademia.
Gli anni che seguirono videro l’Accademia sempre più impegnata e strettamente connessa al teatro e alle manifestazioni che vi si svolgevano. Tra i vari regolamenti pubblicati, c’è quello riguardante le “Stanze Accademiche” grazie al quale è possibile dedurre quanto questa associazione andasse sempre più assomigliando ad un circolo ricreativo per signori benestanti e poco rimanesse dell’attivismo letterario e filosofico che contraddistinse le accademie nei decenni trascorsi. Il regolamento prevedeva due occasioni di incontro: i “trattenimenti ordinari” rappresentati da adunanze o giochi e le “feste da ballo”: A queste stanze erano ammessi anche non accademici stante la previa approvazione dell’assemblea ed era stabilito che fossero aperte “…a trattenimento del giuoco, nel carnevale tre giorni di ciascuna settimana, cioè martedì, giovedì e domenica, nell’autunno, e inverno fino al giovedì della Settimana Santa e la domenica di ciascuna settimana e più le feste di intero precetto”. Mentre chi desiserava giocare doveva pagare “una tenue tassa a forma della tariffa nelle mani del custode…” il quale dava poi il denaro al Camarlingo. Grazie anche a questi incassi serali, la società faceva fronte alle numerose spese necessarie per mantenere in piena efficenza un siffatto edificio.
Nella generale revisione degli statuti che viene promossa
alla fine dell’ottocento, c’è la proposta di abrogare due articoli che
garantivano l’uguaglianza tra i vari accademici. Questo causò l’indignazione di
un vecchio accademico, “unico superstite dei compilatori dello statuto” che
fortemente si oppose a questo provvedimento così antidemocratico.
citati articoli (10 e 15) assegnavano un voto per ogni accademico senza distinzione del numero di palchi posseduto; la proposta riformatrice, al contrario, prevedeva un voto per ogni palco di proprietà, negando così “…l’uguaglianza sociale, dell’amministrazione e del valore del voto deliberativo… cioè il predominio della minoranza…”. La volontà dei proponenti era quella di risolvere il ricorrente problema del mancato numero legale nelle adunanze: un assenteismo che dimostra una già viva disaffezione nei confronti dell’Accademia.
Siamo ormai agli inizi del
Novecento ed è tempo di mutamenti sociali, la pressione che viene dagli strati
sociali più poveri della popolazione verso l’Accademia si fa sempre più forte,
come testimonia una lettera datata 15 settembre 1900 i cui firmatari in
rappresentanza della “popolazione meno abbiente, nata e cresciuta a
Pomarance”, chiedevano che il teatro fosse aperto a chiunque desideri partecipare…”:
Questa possibilità, in futuro, non potè più essere negata infrangendo in parte
quell’alone di distinzione culturale e sociale di cui erano investiti gli accademici.
IL VECCHIO TEATRO DEI
CORAGGIOSI
“Dizionario
Geografico, fisico, storico della Toscana” del Repetti riferisce dell’esistenza
di “…un piccolo teatro di proprietà di Un’Accademia dei Terrazzani che
rimonta verso il XIII”. Con molta probabilità si tratta dello stesso teatro
divenuto poi nel luglio del 1730, di proprietà dell’Accademia dei Coraggiosi
in quanto la prima delibera in ordine cronologico, ancora oggi esistente, del
31 Ottobre 1791, rivela la necessità di alcuni lavori “per ben ridurre la
stanza della loro Accademia”. Un ulteriore conferma che la “Stanza” ha svolto
in passato funzione di spazio teatrale si ha con la successiva deliberazione
del 9 Novembre dello stesso anno, dove in un passo recita: “lo infrascritto,
essendo stato onorato dai illustrissimi Soci della Stanza che serviva ad uso
di teatro posto nella terra di Pomarance, a voler unirmi con Essi in società,
ridurla nuovamente ad uso di teatro e di sala da ballo…”.
La “sala delle comiche” si trovava a fianco del palazzo Pretorio, con ingresso dalla piazzetta del Tribunale, nel centro antico, all’interno delle mura castellane: Posta al primo piano sopra un portico dove si apriva l’ingresso aveva il soffitto a volta affrescato, il palcoscenico, un “salotto” ed una stanza di deposito detta delle “panche”.
Nel 1794 furono realizzate opere di rifacimento e dipinti
nuovi scenari da un certo Antonio Niccolini in cambio di una gratifica di
venti lire, vennero anche acquistate diciasette panche in funzione di un riutilizzo
dell’ambiente come sala da ballo. Inoltre è di questi anni l’apertura di una
porta che metteva in comunicazione diretta il teatro col Palazzo Pretorio.
Il trascorrere degli anni, in questo caso tre, tra la fase
propositiva e l’attuazione dei lavori di restauro è un tema ricorrente nella
vita di questo teatro conseguentemente alla mancanza di risorse finanziarie
dell’Accademia.
Per un lungo periodo vi saranno interventi diretti
esclusivamente all’interno del teatro, o meglio alla sala, poiché le attenzioni
di miglioramento formale ignorano, come dettava la consuetudine interventi all’esterno.
Per “trarre un profitto” fu istituito nel 1798 “… il diritto d’esercitar Bottega d’acqua- cedratosa nel salotto annesso alla sala, in occorrenza di spettacoli teatrali e di feste da ballo…” offrendo l’incarico di tenere questo esercizio al migliore offerente. Inizia così il processo di articolazione del luogo teatro: alla vecchia sala comica si è aggiunto un primitivo bar che ancora mantiene la funzione di foyerguardaroba.
Nel 1803 viene decisa la costruzione sopra il salotto, di
una stanza ad uso dei comici che comporterà l’alzamento del tetto, affidando
i lavori agli impresari Razzagli e Bellucci. Le due finistre in facciata
(sopra e sotto) fu stabilito essere uguali a quelle adiacenti in costruzione.
Si deduce, pertanto, che tali lavori sono contemporanei ad altri che si vanno
facendo nel blocco di case a fianco del teatro.
Tre anni dopo, l’Accademia inaugurerà i nuovi lavori con una
rappresentazione comica della compagnia Gatteschi di Volterra.
Col 1834 inizia una lunga stagione di tentativi falliti da parte degli accademici di avere un teatro più grande in stile con i tempi nuovi. Il presidente propose di far visitare lo stabile e sala del teatrino a Loreto Magri, aiuto ingegnere della Comunità di Pomarance, dandogli commissione di redigere un progetto d’ampliamento riguardante la sala e il palcoscenico. Se ciò non fosse stato possibile, il suddetto ingegnere doveva progettare un nuovo teatro con ventiquattro palchetti e con il doppio di grandezza della sala attuale per uso di platea. Ma è del 14 Ottobre 1836 una nota di spesa redatta da Giuseppe Bianciardi per un generale restauro del teatro di cui annotiamo ‘‘…riquadratura della nuova sala, del salotto caffè e rifatto il boccascena nuovo…”. Nonostante i lavori di restauro intrapresi l’anno precedente, è sempre forte l’esigenza di costruire un nuovo teatro, come in questi tempi già se ne andavano costruendo nelle città e nei centri minori, come la vicina Volterra, Piombino, Pontedera, e Buti. Del resto la fine del settecento ha segnato la definitiva rottura col passato, una nuova sensibilità architettonica alimenta il dibattito sulla progettazione dei teatri e i venti innovatori che spirano dalle grandi città irretiscono le menti più sensibili anche di terre lontane.
Questo clima aleggiava anche negli ambienti culturali di
Pomarance e traspare dai toni enfatici di entusiastica adunanza del 1 ottobre
1837 “…Dietro la vostra ragione e io, tutti rendiamo fatto il teatro, pensare
dunque che l’incertezza nega, e la risolutezza afferma che ben ci convenne il
nome di Coraggiosi, come ci converrà quello di ben affetti al vostro
paese…”. Accantonata l’idea di un nuovo teatro, nel 1842 viene dato incarico
all’ingegnier Ricci di preparare un progetto di restauro per l’attuale teatro,
ma tale progetto verrà respinto.
Sempre quell’anno viene stabilito di inoltrare una
supplica al Regio Trono per la sua approvazione alla costruzione di un nuovo
teatro, facendosi promotore dell’iniziativa il conte Francesco De Larderei.
Negli anni successivi il vecchio teatro fu ripetutamente sottoposto a restauri
e modifiche, ma il Municipio di Pomarance, nell’occasione di dover trattare
della riforma delle scuole Comunali, si propose di fare acquisto del teatro di
Pomarance e sue stanze annesse, era il 31 dicembre 1860.
Questa iniziativa decretò la fine del vecchio teatro dei
Coraggiosi e, finalmente, l’avvio del nuovo, in quanto con la cospicua somma
realizzata dalla vendita fu attuato un concreto piano finanziario.
La stima di parte, del teatro, fu affidata all’architetto Magagnini di Livorno, mentre il municipio incaricò l’ingegner Gaetano Niccoli. La relazione del Niccoli documenta lo stato e consistenza del vecchio teatro dei Coraggiosi che dopo secoli di vita, il 25 febbraio 1861 era così composto: ingresso sulla piazzetta del tribunale, scala in pietra che portava alla, “Sala”, a destra del pianerottolo di sbarco la “Stanza delle Panche” trasformata col tempo in salotto guardaroba, la “stanza del caffè” ed infine il palcoscenico con annessa una stanza irregolare dalla quale si accedeva in una soffitta ad uso degli attori per mezzo di una scala. Le stanze accademiche furono acquistate dal Municipio per lire tremilaseicentoquarantacinque e sessanta centesimi.
DELIBERA
RIGUARDANTE LA COSTRUZIONE DEL NUOVO TEATRO
La lettera del 31 dicembre 1860 inviata dal municipio di Pomarance all’Accademia dei Coraggiosi fu letta nell’adunanza del 14 gennaio 1861 e in quel giorno venne finalmente deliberata, non solo la costruzione di un nuovo teatro, ma anche le modalità di attuazione del medesimo: due accademici stilarono la bozza di un programma in undici punti comprendente tra gli altri la spesa economica prevista, il denaro che ogni accademico doveva versare, l’assegnazione dei palchetti e la formazione di una commissione incaricata di seguire i lavori di costruzione. Il teatro doveva essere costruito fuori della porta Volterrana davanti alla casa del sig. Fantacci su disegno dell’architetto Ferdinando Magagnini.
ESCURSUS STOIRICO DELLE VICENDE
COSTRUTTIVE
La costruzione del nuovo
teatro prese l’avvio il primo marzo 1861 su terreno di proprietà in parte
dell’accademico Giuseppe Bicocchi e in parte dell’accademico Carlo Tabarrini;
i quali poi vendettero all’Accademia: il primo braccia quadre
millecentosettantasette ossiano ari quattro e deciari ottantaquattro, il
secondo braccia quadre ottocentodieci, ossiano ari
due, centiari settantacinque e deciari novanta.
Il permesso del Comune per la costruzione di detto teatro
è datato 26 settembre 1861, mentre la richiesta del medesimo risale solo al 9
giugno 1861: appare evidente che si trattava di pura formalità, non solo
perché i lavori erano già iniziati da diversi mesi, ma anche per gli accordi
già stipulati tra il Comune e l’Accademia in seguito alla vendita del suo
vecchio teatro.
Il finanziamento dei lavori di costruzione avvenne anche
tramite alcuni prestiti contratti con persone benestanti della zona, in quanto
il ricavato della suddetta vendita era insufficiente e fu liquidato in più
anni.
Il “Giornale dei lavori” in particolare ed altra
documentazione ancora oggi disponibile, costituiscono l’ossatura portante di
questa analisi sulle vicende costruttive inerenti l’edificazione del nuovo
teatro dei Coraggiosi.
Il giornale prende avvio col Marzo 1861 documentando le
fasi iniziali fatte di piccone, mine, calcina, carrette con materiale di risulta
e di tante giornate di lavoro per preparare le fondamenta.
Il teatro poggia su un banco di roccia tufacea che fu
spianata sia facendo brillare mine che utilizzando dei “ferri per battere il
masso”.
Fino agli inizi di Luglio si continuò a lavorare sul “masso” per preparare gli sbancamenti necessari su cui poggiare i muri portanti. Dopodiché si iniziarono a tirare su i muri e come nella logica dei tempi, i materiali da costruzione vennero reperiti sul mercato locale, in luoghi nelle vicinanze di Pomarance. I mattoni, mattoncini e quadricci provenivano dalla vicina fornace del Gabbro, mentre a Poggiamonti era situata la cava da cui provenivano le bozze grandi per le “cantonate” e le piccole per la muratura mista delle pareti esterne.
Al 14 Luglio risale il primo pagamento per la fornitura di
scalini di pietra, in questo caso dodici, da parte di una persona del luogo, un
certo Garfagnini Luigi e con cadenza di circa venti giorni verrà effettuato
il saldo di altre forniture: la prima ancora di dodici e le altre di
ventiquattro. Considerando che per la buona gestione di un cantiere il
materiale viene fatto arrivare in un periodo di poco precedente al suo
utilizzo, il saldo degli scalini di pietra fa supporre il tempo occorso per la
realizzazione delle strutture verticali e dei solai dei tre ordini.
I solai hanno struttura portante in legno, composta di
travi e travicelli reperiti sul mercato di diverse località: Lajatico, Gabbro,
Castelnuovo e Livorno. Due fatture della ditta di legname “Aghib e Rocah” di
Livorno documentano che ne inviarono un grosso quantitativo a Pomarance,
ordinato da Ferdinando Magagnini e pagato dal conte Federigo De Larderei, il
quale fu successivamente rimborsato dal Camarlingo Carlo Tabarrini. In quel tempo
per la fornitura di legname eccedente i cinque metri, era uso ricorrere al mercato
esterno e la scelta di Livorno è da attribuire al progettista, appunto livornese
e forse anche, per la comodità nei pagamenti, alla presenza in detta città di
un accademico illustre come il De Larderei. Sempre in questo periodo e
precisamente l’undici agosto, iniziarono i lavori di costruzione della
facciata ripulendo lo scasso fatto nel “masso” e ponendo poi nelle fondamenta
“una memoria scritta in carta pecora, con custodia in piombo ed una moneta
d’oro Romana”.
Con la costruzione delle strutture verticali, dei solai e
delle volte prese l’avvio l’opera di copertura della fabbrica che fu probabilmente
ultimata verso la fine di novembre, poiché è registrato il pagamento di una
merenda con la quale si festeggia, “come è di costruirne” questa occasione.
Conclusa questa fase ne iniziò una altrettanto lunga,
quella di completamento e rifinitura. Il 16 marzo 1862 venne stilata una
perizia sui lavori ancora mancanti e di conseguenza una stima del denaro necessario
per portare a compimento l’opera.
La costruzione del plafone (che copre la platea) fu affidata, a nota, a maestranze già operanti come il falegname Ferdinando Funaioli e il capo muratore Giovanni Mazzinghi. La progettazione del meccanismo degli scenari venne chiesto inizialmente al macchinista del teatro La Pergola di Firenze,ingegnere Cenovitti che però fu scartato, in quanto ritenuto troppo costoso. Così anche questo incarico venne affidato al falegname Funaioli, il quale aveva “in altro teatro attentamente esaminato tali meccanismi”. Nel mese di agosto 1862 sono annotati diversi pagamenti per l’acquisto di doccioni, ma anche l’ultima fornitura di pianelle, mezzane e tegole per completare il pavimento e la copertura della soffitta, stavolta provenienti dalla fornace Larderei di Lucoli; dopodiché sono i piccoli lavori di rifinitura e d’arredo a comparire sempre più frequentemente, del resto il giorno dell’inaugurazione era ormai prossimo.
Con il 12 ottobre 1862, giorno dell’inaugurazione, non si
concluse il ciclo dei lavori ed acquisti per il nuovo teatro; il “giornale”
tra gli altri, riporterà ancora: l’acquisto di alcune porte, di gran parte dell’arredo,
la posa in opera dell’infissi in legno, la scala in legno che porta alla graticciata,
la lucidatura dello stucco della sala, la riquadratura dei palchetti ed altri
piccoli lavori di rifinitura.
La pittura dell’interno dei palchetti fu stabilito di
realizzarla con “colore andante” e semplice riquadratura realizzata da entrambi
i pittori pisani chiamati ad operare in questo teatro, Riccardo Torricini e
Giuseppe Martini; il trattamento a stucco lucido fu realizzato dal solo
Martini, che era appunto “maestro di stucco lucido”, in cinque giornate di lavoro.
Il pittore Torricini ebbe un ruolo più importante, di mano sua sono le
pitture del foyer, dell’atrio d’ingresso, delle stanze accademiche e il
riattamento degli scenari del vecchio teatro; in quanto alla pittura della
volta della sala non è sicura l’attribuzione al Torricini, in quanto l’uso di
determinati colori farebbe supporre una sua più tarda realizzazione.
Il penultimo pagamento, il 31 gennaio 1868, riguarda il “casotto del Bigliettinaio” costruito da Ferdinando Funaioli già incaricato di tutti i lavori di falegnameria del nuovo teatro.
Il giorno 18 ottobre 1868 il “giornale dei lavori” chiude i
valori totali di alcuni materiali e denaro impiegati nella costruzione del
Teatro dei Coraggiosi. La chiusura del giornale, non significò ovviamente, la
fine dei lavori all’edificio teatrale, sia per la complessità del medesimo che
impone continue riparazioni, sia per gli adattamenti e le trasformazioni
conseguenti il pratico utilizzo o l’evoluzione tecnologica che si impone col
trascorrere degli anni.
Se i lavori di costruzione si possono considerare
conclusi, così non è stato per gli arredi e gli abbellimenti che sono proseguiti
ancora per lunghi anni. Nelle nicchie poste nell’atrio d’ingresso solo con
l’inizio del 1884 vi trovarono collocazione i primi busti di marmo e questo
anche grazie all’iniziativa di un giovane studente dell’Accademia di Belle
Arti di Firenze, Ezio Ceccarelli di Campiglia Marittima che si prestò più per
gloria che per denaro.
Il 23 settembre del 1886 un professionista di Volterra
Luigi Guarnieri, stilò una “relazione sullo stato del teatro di Pomarance”
dichiarando, dopo una breve descrizione dell’edificio riguardante in particolare
le strutture portanti ed il “sistema antincendio”, che “l’insieme del teatro è
in perfetta regola e nulla vi è da temere in rapporto alla statica” e proseguendo
poi con alcuni suggerimenti per “l’ordine e la sicurezza pubblica”. Se dal
punto di vista statico il teatro non presentava irregolarità, diversamente era
per gli
infissi e per le superfici esterne dei vari ambienti che presentavano altresì
un degrado già avanzato. Pertanto, l’anno dopo, fu deciso un grande restauro
di cui rimane a testimonianza il “rendiconto delle spese e delle entrate” per
restauri occorsi al teatro di Pomarance l’anno 1888. In occasione di tali
lavori l’accademico Florestano De Larderei, il 4 ottobre, chiese ed ottenne
dal corpo accademico “di far rimuovere con tutte le cautele opportune, la
parete di divisione” tra i due palchi di sua proprietà (il n° 11 e 12 del primo
ordine).
Negli anni che seguirono si registrarono solo lavori di
manutenzione ordinaria fino ad arrivare al 1914, anno in cui furono
realizzate alcune opere per improvvisare un cinema. I lavori per l’impianto
del cinematografo riguardarono soprattutto il palco reale che fu adattato a
cabina di proiezione, smontando l’apparato decorativo e foderando la porta di
banda stagnata.
L’anno seguente fu installata l’illuminazione elettrica in
sostituzione di quella a petrolio, limitatamente agli spazi ad uso pubblico,
con un’unica eccezione del “salotto accademico”.
Gli interventi successivi saranno incentrati per la
trasformazione del teatro in cinema, soprattutto dettati da ragioni di “Botteghino”
visti i buoni incassi di quegli ultimi anni. Così il 4 aprile 1959, per aumentare
il numero dei posti a sedere, fu deciso l’arretramento dello schermo e l’abbattimento
del palcoscenico con i suoi camerini sottostanti ormai inutilizzati da lungo
tempo.
Il mese successivo iniziarono i lavori di ampliamento della platea affidati alla ditta Moretti di Pomarance, su progetto dell’ing. arch. Beliucci di Ponsacco.
DESCRIZIONE DEL NUOVO TEATRO
Il teatro sorge fuori della porta Volterrana, sulla via
provinciale, lungo la direttrice di crescita del paese.
All’esterno l’edificio è abbellito da una facciata in
pietra tufacea, articolata in due parti: la parte inferiore “a bugnato” con le
tre porte d’accesso sormontate da un doppio cornicione, mentre quella superiore,
coronata da un cornicione più “importante”, ha un ordine di tre finestroni e
si distingue per un diverso trattamento dell’apparato murario.
Il teatro, al suo interno, è strutturato in quarantaquattro
palchi divisi in tre ordini, distribuiti lungo una pianta a ferro di cavallo.
Dalla porta centrale di facciata si accede ad un atrio di ingresso, ampiamente decorato. In questo spazio, dal lato sinistro si può accedere al caffè, che è a contatto diretto con la strada, infatti per molti anni svolse la sua funzione anche nei giorni di chiusura del teatro. La biglietteria è posta alla destra dell’atrio d’ingresso, anch’essa ha l’accesso diretto dalla strada. Dall’atrio si passa successivamente al foyer e da questo superati pochi scalini, si entra nella platea.
Due vani scala, simmetricamente disposti alle due estremità del foyer, distribuiscono il pubblico ai tre ordini dei palchi. Al secondo ordine sono collocate le stanze accademiche, sono stanze ampie e molto luminose grazie ai grandi finestroni che si aprono sulla facciata principale del teatro.
Sostanzialmente
il teatro riflette l’immagine di allora e risulta facile immaginare i giorni
luminosi dei primi anni di attività, l’eleganza del pubblico e il rumoroso
chiacchericcio che precede sempre una rappresentazione teatrale, magari con un
tono più alto per il clima di entusiastica scoperta di un pubblico non ancora
avvezzo a simili occasioni di ritrovo, lo stesso che forse ancora oggi si
respira in occasione delle grandi prime.
SPETTACOLI E
MANIFESTAZIONI AL TEATRO DEI CORAGGIOSI
L’attività del Teatro dei Coraggiosi è
suddivisa in due periodi: il primo prende avvio con la stagione inaugurale di
prosa dell’autunno 1862 per concludersi con i bombardamenti tedeschi del 1944,
che segnano anche l’inizio del secondo periodo caratterizzato dal lento
declinio delle attività del teatro.
La prima stagione teatrale aprì con rappresentazioni
della “Compagnia comica Gagliardi e Antinori”, e per la sera d’inaugurazione
del teatro portarono in scena la commedia “Suor Teresa”.
Il contratto
con le varie Compagnie avveniva per mezzo di istanze presentate dalle stesse
all’Accademia, oppure attraverso l’agente teatrale o su sollecitudine di qualche
amico di accademici che aveva assistito alle rappresentazioni di una certa
compagnia. Comunque la scelta ricadeva sempre su compagnie conosciute o per le
quali qualche personalità stimata garantiva per loro.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
REPETTI, Dizionario Geografico, fisico, storico
della Toscana, Firenze, 1841, vol.
IV.
E. MAZZINGHI, Rievocazioni Storiche di Pomarance,
in «Rivista Comunità di Pomarance».
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nella Toscana dell’ottocento, Firenze, Uniedit, 1978, pp. 48-49.
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Larderei e l’opera di Ferdinando Magagnici, dal «Bollettino degli
Ingegneri», n° 10/1982, I parte.
GIUSEPPE CRUCIANI-FABOZZI, cit., n°
5/1983, Il parte.
AA.VV., Teatri, Luoghi di spettacolo e Accademiche
a Montepulciano e in Valdichiana, Montepulciano, Editori Del Frigo, 1984.
M. BUSCARNO, P. PIERAZZANI, Il teatro abbandonato,
Firenze, La Casa HSHER, 1985. «Professione: Architetto», nn.
10-11-12/1987, Firenze, Alinea, pp. 2-49.
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AA.VV., La fabbrica del Goldoni. Architettura
e cultura teatrale a Livorno (1658-1847), Venezia, Cataloghi Marsilio,
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AA.VV., Teatri storici in Emilia Romagna,
Bologna, 1st. Beni Culturali, Regione Emilia Romagna. 1989.
AA.VV., L’Architettura teatrale nella
provincia di Siena, Roma, Giunta Regionale Toscana, 1990.
È stato acquistato dal Comune di Pomarance lo storico Teatro dei Coraggiosi. Così, con questa operazione, i due teatri presenti nel centro urbano (Teatro De Larderei – Teatro dei Coraggiosi) appartengono al patrimonio pubblico. In verità esistevano nel territorio comunale tre organismi teatrali, di cui uno purtroppo non più esistente. Sorti dopo la metà del XIX0 secolo nel Comune di Pomarance, risulta organicamente connessa, come gran parte del rinnovo urbano del capoluogo e dello sviluppo insediativo ed infrastrutturale del territorio, all’affermarsi dello sfruttamento industriale dei “lagoni” e dei “soffioni” del comprensorio boracifero e, con esso, alle fortune imprenditoriali della famiglia De Larderei.
Via Gramsci: Facciata Teatro Accademia dei Coraggiosi (1950)
Il primo, in ordine di tempo, di tali teatri, inaugurato
1’8 settembre 1856 con una festa solenne e con un banchetto imbandito a
duecento conviviali, venne realizzato nella corte del palazzo padronale di
Larderello come vera e propria attrezzatura ricreativa aziendale,
prevalentemente destinata alle rappresentazioni sceniche ed alle esecuzioni
musicali dei dipendenti dello stabilimento. L’allestimento di questo spazio
teatrale, come la progettazione di quasi tutti gli interventi edilizi
commissionati da Francesco de Larderei fra il 1845 e la data di morte (1858),
va ascritta all’ebanista ed architetto livornese Ferdinando Magagnini. La
frequente presenza del versatile operatore al servizio dei De Larderei nel
territorio di Pomarance doveva di lì a poco invogliare i membri dell’Accademia
dei Coraggiosi ad affidargli l’incarico di redigere il progetto di un nuovo
edificio teatrale in sostituzione della sala già esistente nell’abitato. Il
nuovo Teatro dei Coraggiosi, verrà inaugurato il 12 ottobre 1862: sotto la
lunetta dell’atrio, di fronte a chi entra, figura ancora una epigrafe
gratulatoria nei riguardi dell’architetto fatta apporre per la circostanza
dagli accademici.
Il fabbricato, che presenta sul fronte stradale una sobria
facciatina in pietra tufacea a tre assi di aperture, rileva al suo interno,
nella contratta sequenza dei vani che precedono la sala assicurando il necessario
sviluppo distributivo per accedere ai diversi ordini di posti, un gustoso
contrappunto di effeti spaziali, sottolineato dalla decorazione geometrica
delle superaci, che accompagnano il fruitore fino alla soglia dell’invaso
teatrale, dall’impianto lievemente a campana, a tre ordini di palchi,
sovrastato dalla appena accennata concavità del soffitto dipinto la cui
complessa armatura lignea emerge come il dorso di una testuggine nel locale
sottotetto. La trasformazione postbellica del teatro in cinematografo ha comportato,
assieme al tamponamento del palco di mezzo per adibirlo a cabina di proiezione,
il deturpamento del proscenio in conseguenza dell’installazione dello schermo.
Con
l’emanazione delle nuove normative in materia di sicurezza, il Teatro dei Coraggiosi
venne definitivamente chiuso ed abbandonato perdendo così l’originaria funzione
culturale e sociale. Inizia così lo storico declino e l’abbandono totale che
avrebbe certamente portato alla definitiva demolizione quale percorso oggetivo
che caratterizza la maggioranza dei teatri italiani costruiti tra la fine del
settecento e la prima metà dell’ottocento.
Nasce da questa amara constatazione il processo necessario di recupero di queste vecchie strutture e la necessità di progettare una destinazione d’uso coerente con la loro storia e con le esigenze culturali della realtà contemporanea. È proprio attraverso queste sollecitazioni determinate dalle Amministrazioni Locali che nasce il progetto F.I.O., progetto integrato per la tutela monumentale, la ristrutturazione e l’uso infrastrutturale dell’edilizia teatrale in Toscana. Con l’approvazione da parte dello Stato del progetto presentato dalla Regione Toscana per una spesa complessiva di 41 miliardi che consente l’intervento e la ristrutturazione di trenta strutture di proprietà pubblica tra le quali figura il Comune di Pomarance con le due strutture teatrali del Teatro De Larderei e Teatro dei Coraggiosi. Senza l’inserimento nel progetto F.I.O. con l’accesso ai finanziamenti previsti dal piano, sarebbe stato impensabile per il Comune pensare ad una operazione del genere. Ora inizieranno i lavori di progettazione e di recupero nell’ambito della politica della rivalutazione dei centri storici e della loro “vivibilità” secondo un nuovo concetto dell’arredo urbano e come momento di aggregazione sociale onde contrastare i segnali di decadimento culturale in atto in tutti i centri urbani e nelle aree matropolitane. Si tratta insomma di far usufruire ai cittadini che vivono lontani dai centri momenti di vita culturali che sono indispensabili per la tenuta complessiva di un territorio in particolar modo per le zone montane.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
Giuseppe
Cruciani Fabozzi – I TEATRI ABBANDONATI – Tip. Casa USHER.
Marco Mayer – I TEATRI ABBANDONATI – Tip. Casa USHER
Paolo Pierazzini – I TEATRI ABBANDONATI – Tip. Casa USHER
Il XIX° secolo è stato per Pomarance un importante periodo
storico caratterizzato da notevoli trasformazioni urbanistiche nel centro
storico che cambiarono radicalmente l’aspetto medioevale o rinascimentale dei
palazzi appartenuti alle antiche casate nobiliari o borghesi del luogo. Queste
costruzioni ottocentesche procurarono la distruzione di antiche testimonianze
architettoniche creando la nuova immagine di Pomarance che è possibile
osservare percorrendo le vie del centro storico ed in particolar modo via
Roncalli o dei “Signori”.
Palazzo De Larderel
Sui vari palazzi certamente si impone il grandioso edificio di “Palazzo De Larderei”. Attualmente di proprietà comunale ed adibito a sede per l’Ufficio Tecnico e della Comunità Montana della Val di Cecina, fu un tempo la residenza autunnale della nobile famiglia dei De Larderei che lo iniziarono ad opera del “sagace” commerciante Francesco De Larderei su progetto dell’architetto ebanista Magagnini di Livorno. Francesco De Larderei, di origine francese, trapiantatosi a Livorno fin dai primi dell’ottocento, si stabilì nelle nostre zone attorno al 1818 quando fu fondata una società (ved. Chemin – Prat – Lamotte – Larderei) dedita alla estrazione e produzione dell’acido borico contenuto nei “lagoni” di Montecerboli. Lagoni ottenuti a livello dal Comune di Pomarance ed in seguito in concessione perpetua dal Granduca di Toscana. Il “borace”, prodotto richiesto ed esportato in tutto il mondo, permise al conte Francesco, con l’aumento di capitali, di entrare ben presto a far parte della borsa dei Priori del Comune di Pomarance (1833) e di acquistare nel territorio comunale una serie di “unità immobiliari” che, ampliate e ristrutturate, sarebbero andate a formare il grandioso Palazzo – Fattoria De Larderei che ricalca, se pure con un lessico architettonico semplificato, il Palazzo Larderei di Livorno. (1)
L’area in cui doveva essere edificato il
fabbricato era stata individuata dal “Conte di Montecerboli”, fin dai primi
dell’ottocento, all’inizio del paese, nell’antica contrada di borgo tra la
porta Massetana e la Cancelleria comunitativa.
Consultando una mappa catastale del periodo leopoldino (1823) è possibile comprendere quali furono i fabbricati che Francesco De Larderei iniziò a comperare per la realizzazione del grandioso progetto. (fig. 1)
Il primo edificio acquistato fu quello
di proprietà del Cav. Giovanni Falconcini, per arroto del 6 aprile 1832,
(particella catastale 279 – 281 – 282 – 283) a cui si aggiunse due anni più
tardi, per arroto del 18 aprile 1835, l’acquisto della casa di Metani Donato
addossata all’antico baluardo di Porta Massetana (part.
cat. 284). Sempre nello stesso anno venne
acquistata, con arroto del 20 maggio 1835, la casa del Cav. Giuseppe Bardini (part.
cat. 282 – 282 bis – 283 bis).
Sei anni dopo fu acquisita anche l’abitazione di Francesco Funaioli per arroto del 25 maggio 1841, (part. cat. 277 – 278 – 280) insieme ad una cantina dai fratelli Michele e Giuseppe Bicocchi (part. cat. 277 – 278) ed un terreno “sodo lavorativo” dal sig. Beliucci Ermogasto, che era quella porzione di suolo al di fuori delle vecchie mura castellane denominate il “Tribbietto” (2) (part. cat. 279 bis).
Negli stessi anni vennero acquistati dal De Larderei anche
una serie di poderi che andarono a formare una tenuta di “beni rurali” nel
Comune di Pomarance e che permise al Conte Francesco, in base ad un regolamento
catastale del 1829, di fare istanza nel 1843 alle Magistrature di Comune per
essere sgravato dalle stime imponibili sui fabbricati ad uso rurale: (3)
“… con /a volontà del nobil conte Cav. Priore Francesco De Larderei
di Livorno, a possedere come appunto possiede, una tenuta di beni rurali nella
Comunità di Pomarance, ebbe desiderio insieme di corredarla di necessari
comodi per l’agenzia, e di un comodo per abitare nell’autunnali
villeggiature. In pertanto che procede all’aggiusto di vari antichi fabbricati
quali parte al di fuori, parte al di dentro della porta così detta Massetana
della terra di Pomarance, formarano un collegato di muri, capaci insieme, a
soddisfare il di sopra espresso suo desiderio.
E dappoiché tali speciali acquisti furono fatti dopo la stima del nuovo catasto, questi sopra dei catastali registri furono in conto, e faccia del prefato sig. Conte DeLarderei …per un ammontare totale della rendita imponibile di lire 543,97”. (4) Nell’istanza il conte De Larderei dichiarava che tutti quei fabbricati erano stati utilizzati ad uso di fattoria e “… ridotti in fienili, stalle, rimesse, granai, coppai, tinai, magazzini”, in parte come abitazione dell’agente ed inservienti; in parte ad abitazione propria, ‘‘per tempo della villeggiatura”, con un piccolo giardino annesso, dichiarando inoltre che nessuno dei fabbricati riservò per appigionarli o trarne frutto di locazione alcuno …”. Non ci è dato a sapere se “l’aggiusto” dei fabbricati corrisponda all’inizio dei lavori per la realizzazione di Palazzo De Larderei; certo è che la situazione urbanistica di questa area cambiò radicalmente nel giro di una decina di anni (1852 ca.) (fig. 2)
Variazione Catastate 1852 c.a. (FIG. 2).
Venne demolito infatti il baluardo di Porta Massetana e la
casa del Melani; occupata la piccola piazzetta detta “Padella”; abbattuti i
resti delle mura castellane; ampliato il fabbricato centrale (part.
cat. 282) e costruito un giardino al quale si
accedeva anche attraverso un vicolo dalla “via di Borgo” (tra part. 277 e 280).(5)
Il lotto centrale del Palazzo che secondo gli ambiziosi
progetti del De Larderei avrebbe dovuto ricreare lo stesso imponente prospetto
del palazzo di Livorno, già terminato in quegli anni, indusse lo stesso conte
Francesco a proporre alle Magistrature nel 1852 la permuta della Cancelleria in
cambio della ristrutturazione a sue spese del Palazzo Pretorio creando
ambienti idonei per l’Ufficio del Gonfaloniere e del Cancelliere.
Proposta non molto gradita dai Priori del Comune che
avrebbero invece voluto un fabbricato nuovo come risulta da una lettera del
1853 (6):
A di 25 maggio 1853
Pregiatissimo sig. Gonfaloniere sono onorato della
pregiatissima sua in data 20 corrente con la quale V.S. illustrissima si
compiace di parteciparmi la decisione sulla mia proposizione relativa alla Cancelleria
Comunitativa. L’opinione dell’ingegnere nulla mi sorprende, Egli si era già
pronunciato da più di un anno e prima di avere esaminato le mie piante, lo
compatisco per non dire altro.
Al Gent.mo sig. Gonfaloniere dovrà sempre convenire, che
la mia proposizione era vantaggiosissima alla Comune, e che la cattivissima
casa della Cancelleria (veniva distrutta fino ai fondamenti) mi sarebbe
costato tre volte tanto il suo valore reale.
V.S. si compiace ancora propormi di fare costruire una
nuova Cancelleria e di darmi la vecchia per la nuova e mi invita a sottoporre
il mio progetto.
Mi rincresce doverli dire che non posso accettare simile
proposizione, più particolarmente perchè il progetto qualunque fosse, avrebbe
certamente la disgrazia di stare diversi anni nelle mani dell’ingegnere, come
ha fatto il primo, sarà adunque assai meglio che io rinunzi al mio progetto per
non essere ballottato ingiustamente o capricciosamente, quando tutte le mie
mire erano per il vantaggio della Comunità, l’imbellimento del paese, e far
lavorare dei disgraziati senza lavori.
Ho l’onore di dichiararmi rispettosamente…
Dev.mo servitore F. De Larderei
Trascorsi due anni dalla prima richiesta di permuta il
conte De Larderei faceva nuovamente istanza (1855) al Gonfaloniere di Comune
per la cessione della fabbrica di Cancelleria proponendo di pagarla in
contanti con l’aumento del 15% sopra le stime, oppure costruendo una nuova
Cancelleria uguale a quella vecchia dettando però una condizione che, se fosse
stata accettata la seconda proposta egli avrebbe iniziato i lavori nella imminente
primavera e, ”… non solito aggiornare i suoi divisimenti…” pregava le magistrature
a deliberare e risolvere entro il mese di marzo la sua richiesta “… passato
il quale, non sarebbe stato più il caso di mantenerla …”.
La seconda proposta fu ben presto accordata ed i lavori
del palazzo proseguirono di pari passo con quelli della nuova Cancelleria
costruita tra la via Provinciale Massetana e via dei Boschetti. (7) Purtroppo,
la morte del conte Francesco De Larderei non permise di poter vedere ultimato
il suo grande desiderio che fu ben proseguito dal figlio Federigo, con
l’ampliamento dell’ala del palazzo verso Porta Massetana e nella quale venne
creato il bellissimo teatrino privato inaugurato nel 1872.
In quello stesso periodo
vennero acquistati dal figlio Federigo anche la casa con orto già di Cammillo
Fantacci (Part. cat. 273 – 274 – 275) che furono
utilizzate in parte per nuove scuderie (attuale Auditorium). Oggi, percorrendo
via Garibaldi, è possibile vedere la facciata principale di Palazzo De Larderei
nel suo antico splendore dopo il riuscito restauro effettuato nel 1984 ad
opera del Comune di Pomarance e nel quale è evidenziato ancora di più il
grande stemma in cotto della famiglia De Larderei collocato all’interno del timpano
centrale in cui si legge: “Raffaello Agresti fece all’lmpruneta nel 1871”.
Jader Spinelli
NOTE BIBLIOGRAFICHE
Il Teatro abbandonato; “Pomarance: teatri storici” di G. Cruciani Fabozzi 1985; Ed. La Casa USHER
Cfr. “La Porta Orciolina o Massetana” – La Comunità di Pomarance n° 2 e Supplemento al n° 2 1988
Patrimonio rurale nel marzo 1843 di Francesco De Larderei: Podere S. Enrico, pod. S. Federigo, pod. Santa Paolina, pod. S. Filiberto, pod. Pogio Montino, Pod. Poggiamomi, pod. Luogonuovo, “Una costruzione non ultimata in aggiunta alla casa colonica dell’antico podere detto Palagetto..”.
Archivio Storico Comunale Pomarance F. 609.
Il giardino era delimitato da una sontuosa cancellata in ghisa proveniente dalle fonderie di Follonica. Questa fu demolita negli anni quaranta come offerta alla Patria per uso bellico.
Archivio Storico Comunale Pomarance F. 159.
La Cancelleria era costruita dove attualmente sono i “Giardinetti” e l’edicola dei giornali; permutata dalla famiglia Bicocchi, per la cessione dell’attuale palazzo comunale, fu utilizzata come Ospedale fino al 1935 circa. L’edificio fu minato durante la ritirata delle truppe tedeschenel 1945. (vedi Rievocazioni Storiche di Edmondo Mazzinghi – La Comunità di Pomarance 1974).
Il palazzo “Biondi Bartolini’’
situato sulla Piazza De Larderei al numero civico 3, è uno dei più antichi
edifici esistenti nel paese di Pomarance.
Ristrutturato nel modo attuale agli
inizi dell’ottocento appartenne, fin dai primi anni del XVIII secolo, alla
famiglia Biondi che ebbe tra i suoi discendenti Notai, Dottori, Priori e
Gonfalonieri nelle Magistrature del Comune delle Pomarance.
Attualmente conosciuto come il palazzo
“Biondi Bartolini”, fu denominato come tale solo attorno al 1830, quando
un discendente, certo Giuseppe Biondi, sposando Donna Violante Bartolini,
aggiunse al proprio cognome quello della moglie.
L’edificio, collocato al vigente catasto di Pisa con la particella catastale n° 417, può certamente essere considerato di notevole interesse storico per le sue pregevoli opere pittoriche dipinte sulle pareti e nei soffitti delle sale del “piano nobiliare”. Fin dai primi anni dell’ottocento il palazzo, ancora detto dei “Biondi”, era indicato negli antichi chirografi del tempo “lungo la via di Petriccio” che cominciava all’incirca dalla “Porta alla Pieve” (o Portone di Petriccio) e terminava alla “Porta Volterrana”.
Facciata del Palazzo Biondi Bartolini nel 1890
Uno dei più antichi documenti che ci consente
l’individuazione del palazzo è una planimetria del “Catasto Generale della
Toscana” o “Catasto Leopoldino” relativo a Pomarance. La piantina catastale,
conservata nell’Archivio di Stato di Pisa e datata 1823, consente di verificare
l’area occupata dall’immobile ed a questa faremo riferimento nella nostra
trattazione.(1)
Indicato a quel tempo con la particella catastale n° 316 risultava di proprietà del Sig. Giovan Battista Biondi. Proprietà che fu tramandata, di generazione in generazione, fin dall’acquisto (XVIII secolo) di alcuni beni immobili appartenuti a Cristofano Roncalli, discendente della famiglia Roncalli di Pomarance e pronipote del celebre pittore Crostofano Roncalli detto il “Pomarancio” (1552-1626).
Dall’estimo del Comune di Ripomarance
del 1571 risulta che l’immobile, pervenuto in eredità al Dottor Cristofano
Roncalli, apparteneva al suo bisnonno, Giovan Antonio di Francesco Roncalli da
Bergamo, padre del pittore Cristofano Roncalli. La casa, addossata alle
antiche mura castellane del XIII secolo prospicenti la strada di Petriccio,
confinava, come ancora oggi, con la Canonica della Chiesa di San Giovanni
Battista, l’orto della Chiesa e la porta “alla Pieve”; confinazioni importanti
che hanno permesso l’individuazione del fabbricato negli estimi del comune di
“Ripomarance” fin dal XV secolo.
Uno dei documenti attestanti l’appartenenza dell’edificio ai Roncalli risale al primo decennio del ’600. Trattasi di un estratto di contratto di vendita immobiliare pubblicato nel 1969 dal Dott. Giovan Battista Biondi su “La Comunità di Pomarance” e conservato nell’Archivio di Stato di Firenze al protocollo n° 19887, carta 45 v., atto 93, nel quale il notaio del tempo, Ser Guasparri del fu Francesco Maffii, certificava, in data 16 maggio 1616, che “… il Cavaliere Cristofano Roncalli delle Pomarance fu Giovan Antonio fece prendere possesso dei suoi beni in Pomarance, relitti morendo, il di lui fratello Donato”. Tra le varie proprietà compariva anche la casa, oggetto della nostra ricerca, posta nel castello di Ripomarance in luogo detto Petriccio confinante: “… a 1° Via, 2° Beni dell’eredi di Bernardino Roncalli mediante il Portone, 3° Casa della Pieve di San Gio:Battista, 4° Orto della Pieve, a 5° la casa di Bartolomeo Cercignani e se altri confini vi fossero, con le stanze e le botteghe sotto detta casa…”. L’edificio, attaccato come ancora oggi al Portone della Pieve e ricostruito ex novo nel 1884, presentava anticamente due stanze sovrapposte che pervennero ai Roncalli probabilmente da un livello enfiteutico dato dal Comune di Ripomarance.
Le stanze erano di necessaria comunicazione
con l’altra casa di Giovan Antonio Roncalli posta al di là della Porta alla Pieve
in luogo detto “Piazzetta alla Chiesa” (attuale Largo Don Morosini).
La “Lira” o “Estimo” del
Comune di Ripomarance del 1630, con arroti fino al 1708, conferma l’esistenza
di questa unità immobiliare ereditata dai discendenti Roncalli. (2)
La proprietà in quell’anno risulta
infatti alla “posta” di Jacopo, Francesco e Guglielmo figli di Cosimo
Roncalli.
Cosimo infatti era fratello del pittore Cristofano e figlio anche esso di Giovan Antonio Roncalli. La proprietà è così indicata: “… Una casa in detto castello con più botteghe confinata a 10 Via, 2° Pieve, 3° Orto della Pieve, 4° Mura, 5° Bartolomeo Cercignani, 6° Via … stimata lire milleduecentoquarantacinque…”.
Stemma Famiglia Biondi
Alcuni anni più tardi l’appartenenza dell’edificio passò al dottor Guglielmo Roncalli ed al fratello prete Francesco Roncalli. Alla morte di prete Francesco, con testamento del maggio 1683, rogato dal Notaio Gio: Antonio Armaleoni, la proprietà dell’immobile fu ereditata, in data 10 maggio 1696, dal Dottor Cristofano Roncalli, “soldato” (Tenente) Giuseppe Roncalli e prete Lorenzo Roncalli del fu Guglielmo suoi eredi e legittimi nipoti.(3) Nei primi anni del XVIII secolo risulta proprietario deH’immobile confinante con la casa della pieve soltanto il dottor Cristofano Roncalli; suo fratello, il tenente Giuseppe Roncalli, era infatti padrone della casa al di là della “Porta alla Pieve” (eredi attuali della Sig.na Federiga Volpi) così descritta nell’estimo del 1716 (4): “… una casa in Petriccio al portone con pozzo a metà con Teodora Ceccherini, confinata a 1° Via, 2° Via, 3° e 4° detta Teodora Ceccherini, 5° Via, 6° Dottor Cristofano Roncalli sopra il Portone stimata scudi 200…”.
Stemma dei Bartolini
La casa del Dottor Cristofano Roncalli
fu oggetto di compravendita in data 13 gennaio 1728 (ab Incarnazione 1729). Lo
scritto è riportato nell’articolo del Dottor Biondi Giovan Battista già citato.
Il Contratto conservato all’Archivio di
Stato di Firenze (Protocollo n° 23922 pag. 169) certifica che il suddetto
Dottor Cristofano Roncalli aveva lasciato dopo la sua morte molti debiti e che
i suoi creditori erano riusciti a mandare all’asta pubblica tutti i suoi
beni.
Il 10 giugno 1727 (1728) i detti beni
furono acquistati all’incanto dall’unico offerente, Michele di Cerbone di
Michelangelo Vadorini. Dal rogito si apprende che Pietro o Pier Francesco
Biondi (1691-1730), figlio di Giovan Antonio Biondi e Costanza di Domenico di
Sebastiano del Capitano Pietro Paolo Santucci, diretto antenato dei Biondi (e
quindi degli attuali Biondi Bartolini) acquistò dallo stesso Vadorini la casa
oggetto della nostra ricerca e cioè: “… Una casa dai fondamenti a tetto,
luogo detto Petriccio confinata a 1 ° Via, 2° Sig. Luogotenente Giuseppe
Roncalli, 3° la Chiesa arcipretale di San Gio:Battista di detta terra, 4° eredi
del quondam Bartolomeo Cercignani et altri….”.
La parte dispositiva del contratto si chiudeva con la seguente clausola: “… il medesimo sig. Pietro Francesco Biondi ha promesso e si è obbligato di lasciar godere e possedere al sig. Luogotenente Giuseppe Roncalli le due stanze di detta casa che sono poste sopra le camere contigue al Portone (di Petriccio), sua vita durante…”.(5)
Nell’estimo del 1716, con arroti fino al 1805 e conservato
nell’Archivio della Biblioteca Guarnacci di Volterra, la suddetta proprietà è
così indicata: “… Una casa in Petriccio a 1 ° Via, 2° Tenente Giuseppe
Roncalli, 3° Casa ed orto della Chiesa, 4° Pasquino Borghetti, 5° Via …
stimata scudi 150…”.(6)
In calce è riportata la seguente annotazione: “…a di. 22
giugno 1729; viene detta casa dalla posta di Michele di Cerbone Vadorini, in
questo a carta 346, per compra fattane dal sig. Biondi Pietro Francesco per
medesimo prezzo di scudi 100; per rogito di Giovan Pietro Biondi (notaio) del
di 13 giugno 1728; visto e reso accomodato dal sig. Cancelliere Torquato
Mannaioni…”.
Planimetria catastale del 1823. (Catasto Leopoldino). Palazzo “Biondi” indicato alla particella catastale n° 316
La casa aveva un nuovo confinante,
Pasquino Borghetti, che altro non era che il marito di Maria Cammilla
Cercignani figlia del “quondam” Bartolomeo. Questi infatti possedeva una casa
con più stanze con cantina e telaio sotto, in Petriccio confinata a 1° Via, 2°
dott. Cristofano Roncalli, 3° orto della Chiesa, 4° mura castellane, 5° e 6° Simone Cercignani
del valore di 50 scudi…”.(7)
Dal 22 giugno 1729 i Biondi furono gli unici proprietari
di questo immobile. La suddetta famiglia, che è annotata nell’estimo del
Comune di Pomarance fin dal XVII secolo, risultava proprietaria di diversi
beni nella corte di Ripomarance. Secondo lo storico Don Socrate Isolani pare
che essa provenisse dal “Castello della Pietra” nei pressi di San Gimignano
e che alcuni suoi membri si fossero stabiliti
attorno al XVI secolo nel piccolo castello di San Dalmazio. Giovanni di Giovan
Pietro Biondi (1604-1697), annotato nell’estimo del Comune di Pomarance
risulta proveniente infatti da San Dalmazio.(8)
Questi aveva comprato, in data 6 ottobre 1675, a Pomarance
tutti i beni appartenuti ad Agnolo Sorbi ed a suo fratello Bastiano tra cui
una casa posta in Petriccio confinante con lo “Spedale” di San Giovanni. Le
proprietà risultano successivamente essere poste a carico di suo figlio
Giovanni Antonio (1670-1730).
Il di lui figlio, Pietro Francesco Biondi (1671-1730) fu
l’autore dell’acquisto dell’antico palazzo appartenuto ai Roncalli che, come
già descritto, fu comprato all’asta dai Vadorini e poi successivamente
rivenduto al Biondi nel 1728 (1729).
Il dottor Pietro Francesco Biondi sposandosi con … dette la nascita a tre figli: Pompeo, Francesco (Michelangelo) e Giuseppe (Maria). Rimasti orfani in tenera età, per la precoce morte del padre, ereditarono tutti i beni del nonno Giovan Antonio per atto di testamento datato 22 agosto 1734; alla presenza del sig. Tenente Pier Giuseppe Biondi, uno dei tutori e provveditori. Tra i vari possedimenti risulta anche la casa confinante con la Chiesa, oggetto della nostra indagine. In data 13 agosto 1743 venne cancellato dalla “posta” dei beni dei fratelli Biondi il sig. Pompeo “… stante la divisione e cessione fatta a detti fratelli, come appare per contratto rogato dal Notaio Antonio Nicola Tabarrini…”.(9)
I due fratelli, Francesco e Giuseppe, rimasti
unici proprietari della casa posta lungo la via di Petriccio accanto alla porta
“alla Pieve”, nel 1760 ricomprarono una piccola stanza “posta nello stasso
palazzo di loro dimora”, che era stata venduta molti anni prima a certo Giovan
Maria Funaioli per scudi 10.
La riacquisizione della suddetta stanza ad opera di Giuseppe e Francesco Biondi è confermata oltre che nell’estimo del XVIII secolo, anche da un contratto conservato nell’archivio privato della famiglia Biondi Bartolini.(IO) Dal rogito si apprende quanto segue: “…adì 30 maggio 1760 … Qualmente dal già Sig. Pietro Francesco Biondi delle Pomarance fu venduta una stanza a terreno a Francesco e Andrea, fratelli e figli del già Giovan Maria Funaioli di detto luogo … qual stanza è contigua alla casa di proprietà di abitazione di detto signor venditore; luogo detto Petriccio, confinante a 1° Via, 2° Signori Biondi, 3° Portone detto di Petriccio … come per contratto rogato dal Dott. Bernardino Cercignani … ed avendo adesso convenuto e stabilito che il detto padrone di detta stanza, rilasci e conceda la suddetta stanza alli Signori Francesco e Giuseppe Biondi del prefato Sig. Pietro Francesco Biondi…”.
In un documento successivo del 1779,
tratto daH’Archivio Storico di Pomarance, la suddetta casa viene citata come
appartenente allo stesso Giuseppe Biondi, gonfaloniere in quegli anni nel
Comune delle Pomarance. In una descrizione di “Strade e Fabbriche della
Comunità di Pomarance” dello stesso anno infatti, si annotava che dalla via di
Petriccio si staccava una piccola via denominata “Dietro il canto”, la quale
iniziava: “dalla cantonata del Sig. Giuseppe Biondi a mano dritta, et a
sinistra dalla casa del Sig. Cancelliere Incontri, con direzione levante…”.(11)
Nello stesso anno i due fratelli Biondi facevano istanza al Comune delle Pomarance per poter sbassare una torre delle vecchie mura castellane che impediva luce necessaria alla loro abitazione: “… di poi letta un’istanza dei Sig.ri Dottori Giuseppe e fratello (Francesco) Biondi colla quale domandano di poter sbassare alcune parti di braccia della torre esistente lungo le mura castellane, luogo detto il Tavone, per acquistare l’aria della casa di loro abitazione… Deliberarono perciò di quanto spetta, ed è facoltà del Magistrato loro, accordarsi il mandato stesso… ‘>(12)
Una sala del piano nobiliare con decorazioni e pitture murali
È ipotizzabile che la suddetta torre posta in località
Tavone, altro non fosse che la torre circolare (attualmente conosciuta come
“dei Biondi Bartolini”) ubicata nel giardino degli stessi Biondi Bartolini dietro
Via dei Fossi.
Un’altra notizia storica del palazzo risale al 1783, quando
il sig. Giuseppe Biondi faceva domanda al comune delle Pomarance che: “… gli
fosse accordata licenza di fare tre paloni per l’ingresso ad una bottega da
esso fatta ai pié della casa di sua abitazione, quale rimane troppo alta dal
piano della strada…”.(13)
Attorno al 1785 il fratello Francesco Biondi lasciava la
casa paterna per formarne una propria. Il 15 settembre infatti faceva domanda
alle Magistrature del Comune di Pomarance “… di assere ammesso al
godimento dei Priori della Comunità così come ha goduto e gode la sua casa
paterna del Gonfalonierato, e Operaio per formare distinta famiglia dagli altri
suoi fratelli (Giuseppe e Pompeo)”.(14) Francesco Biondi si stabilì con la
propria famiglia nel palazzo posto sulla via di “Borgo” (oggi Roncalli) nel
palazzo attualmente conosciuto come “dei Ricci”. Nella divisione patrimoniale
dei tre fratelli anche il “prete” Pompeo fu liquidato con una retta annuale sul
capitale di famiglia; rimase unico possessore dell’immobile il Dottor Giuseppe
che morì nell’anno 1799. Con voltura n° 11 e n° 30 dello stesso anno ed una
voltura (n° 9) del 1803 la proprietà della casa posta “in Petriccio” e
confinante con la casa ed orto della chiesa, fu ereditata dai suoi tre figli;
Dottor Giovan Battista (1756-1826), Tommaso ed Isidoro.(15)
La tutela del patrimonio fu affidata al fratello maggiore
Giovan Battista Biondi che fu anche il promotore della ristrutturazione del
palazzo “Biondi”, così come ci è pervenuto oggi.
La notizia è del 24 maggio 1800; trattasi di una istanza presentata al Comune delle Pomarance dal Dottor Capitano Giovan Battista Biondi ”… colla quale domanda accordarseli la facoltà di poter porre l’antenne (paloni per impalcature) o quanto altro occorra nella necessità in cui si trova di dover rifondare le muraglie di sua abitazione posta in Petriccio e domanda di poter occupare lungo le muraglie di essa casa un terzo di suolo di strada e piazzetta di Petriccio col pagare alla comunità l’occorrente…”.(16)
La conferma di questa ristrutturazione
agli albori dell’ottocento è data anche da un documento conservato
nell’archivio Biondi Bartolini che tratta di una ricevuta di pagamento ad una
“maestranza” originaria di Firenze e lavorante in Pomarance: “… Adì 9
settembre 1802… lo Pasquale Bitossi ho ricevuto dal Sig. Capitano Giovan
Battista Biondi la somma di lire 80 tanti sono per opere fatte in sua casa, e
mi chiamo contento e soddisfatto in tutto per lire ottanta…”.
La riedificazione comportò anche l’ampliamento dell’edificio al di là delle vecchie mura castellane, sul versante dell’orto della chiesa di Pomarance. “Suolo canonicale” concesso a livello enfiteutico alla famiglia Biondi, dal parroco Saverio Pandolfini che consentì l’allineamento dell’edificio stesso verso la proprietà dell’orto della famiglia Biondi. Questa notizia è certificata da un atto di divisione patrimoniale del 1804 tra i fratelli Biondi e conservato nell’archivio di famiglia: “… essendo che fino dall’anno 1804 l’illustrissimo Vicario, Dottor Tommaso Biondi del già sig. Giuseppe (Antonio) Biondi di Pomarance, entrasse in determinazione di provvedere alla divisione del patrimonio sostante e i beni che riteneva in comune gli III.mi signori, Capitano Giovan Battista e Isidoro di detto già Sig. Giuseppe Antonio Biondi di detto luogo, di lui fratelli, ad essi pervenuti in eredità paterna e materna, quanto per eredità del defunto Sig. Dottor Francesco Biondi comune zio…”.
Nella descrizione dei beni in divisione è annotata anche: “… la casa di abitazione di loro stessi dividendi, posta in detta terra di Pomarance nella contrada di Petriccio, assieme colla nuova aggiunta eretta sul suolo ortale della chiesa di detto luogo con tutte le sue adiacenze e pertinenze…”.(17)
Anche se non sono stati ritrovati documenti concernenti il contratto di livello enfiteutico per l’occupazione del suolo ortale della chiesa, la stessa concessione enfiteutica è testimoniata in una relazione della metà del XIX secolo sulle proprietà dei Biondi Bartolini nel quale l’edificio è descritto: ”… composto di tre piani da terra a tetto il tutto per la più gran parte di libera proprietà, ma per piccola parte “livello” della Propositura di Pomarance
In quegli anni vennero dipinte e decorate le stanze ed i
soffitti del “piano nobiliare” in cui furono raffigurati, in stile Imperiale,
vedute paesaggistiche di notevoli dimensioni tra le quali è di notevole interesse
un paesaggio del castello di Pomarance (fine XVIII secolo) visto dalla zona di
Piuvico o Cappella di San Carlino.(18) Giovan Battista ed Isidoro, rimasti
unici proprietari del patrimonio di famiglia, in data 30 novembre 1813
addivennero ad una nuova divisione dei loro beni tra cui figuravano alcuni
possedimenti ereditati dallo zio paterno, Francesco Biondi.
Nell’atto notarile conservato tra i documenti di famiglia Biondi Bartolini è indicata anche “… la metà della casa di abitazione degli antedetti condividendi posta nella terra di Pomarance, contrada di Petriccio, confinata a 10 strada pubblica, 2° Bartolomeo Fedeli, 3° casa canonicale, 4° orto annesso a detta casa canonicale, 5° stanze dell’Opera, 6° Annibaie Vadorini con orto e casa e torna a detta via, dentro qual confini restano compresi il terrazzo ed orto uniti a detta casa dei condividendi che vien formata dalle fabbriche urbane descritte in faccia dei medesimi condividendi a carta 198 e 296 di detto estimo di Pomarance, stimata scudi 1000; qui per metà scudi 500…”.
Successivamente la casa
pervenne al Capitano Giovan Battista Biondi che morì nel 1826. Questi lasciò
eredi dei propri possedimenti i suoi tre figli: Giuseppe, Pietro e Jacopo che
risultano proprietari, al Catasto Generale della Toscana (1830), deH’immobile
posto in Petriccio e descritto alla particella catastale n° 316 e 315 (cioè
abitazione e orto).
In una successiva divisione patrimoniale
tra gli stessi fratelli Biondi, figli di Giovan Battista, le proprietà
pervennero (30 aprile 1837) al fratello maggiore Giuseppe; gli altri, Jacopo e
Pietro furono liquidati con una cospicua somma di danaro (8000 scudi ciascuno)
ed una rendita annuale sui fruttati di interesse sul capitale di famiglia.
Jacopo si trasferì a Montalcino dedicandosi alla sua tenuta vinicola e producendo
il famoso “Brunello di Montalcino”.
L’avvocato Pietro sposando Domira Vadolini dette luogo al ramo dei Biondi da cui discendono il dottor P.G. Biondi ed i suoi figli, Notaio Giovan Battista e Andrea Biondi della Sdriscia.
Il dottor Giuseppe Biondi sposando nel
1830 Donna Violante Bartolini, del Gonfaloniere Bartolino Bartolini e
Guglielma Tabarrini, con decreto del 26 febbraio 1830, aggiunse al proprio
cognome quello della moglie dal quale è derivata l’attuale famiglia “Biondi
Bartolini”, proprietari ancora oggi dell’ornonimo palazzo
situato in Piazza de Larderei.
Alla morte del dottor Giuseppe Biondi Bartolini, avvenuta nel 1863, gli succedettero nella tenuta del patrimonio immobiliare i suoi figli Bartolino e Giovanni.
Particolare del Castello di Pomarance agli inizi del XIX see. dipinto sulla parete della sala al piano nobiliare.
In quell’anno infatti, e precisamente il 22 maggio, fu stilata una relazione dettagliata del “patrimonio” Biondi Bartolini, dell’Ing. Lorenzo Chiostri che è ben conservata nell’archivio di famiglia. Nel manoscritto di stima dei beni Biondi Bartolini è descritto con minuzia il “palazzo nobiliare” dai fondi al tetto, il valore degli arredi che adornavano le varie stanze: “… Patrimonio lasciato dal Nobil Uomo dott. Giuseppe Biondi Bartolini al 22 maggio 1863… Un palazzo con orto annesso situato in comunità di Pomarance eprecisamente nel paese di tal nome in corrispondenza della nuova Piazza de Larderei, e della via maestra che ne fa, seguito procedendo verso il centro del paese, composto di tre piani da terra a tetto, il tutto per la più gran parte di libera proprietà, ma per piccola parte livello della propositura di Pomarance; di superficie tutto compreso orto e palazzo, braccia 1457 equivalente a mq. 496 e così confinato: a 1 ° Piazza de Lardarel, 2° Via, un tempo detta di Petriccio, 3° Via Mascagni, 4°, 5°, 6°, 7°, 8°, Propositura di Pomarance con fabbricato ed orto, 9°, 10°, 11°, 12°, 13°, Sig. Vadorini Giuseppe con orto e casa. Annesso a detto palazzo sta una terrazza a livello del terzo piano, costruita sopra un’antica porta del paese, il cui arco da un lato appoggia al palazzo Biondi Bartolini e dall’altro alla casa dei fratelli Bongi… Il piano terreno del suddetto palazzo è composto, come appresso: una piccola bottega con unico ingresso dall’esterno, un corridoio corrispondente alla porta principale di ingresso… Il descritto palazzo offre stabilità nelle sue mura, comodità nelle sue stanze ed eleganza specialmente in quelle del primo piano… Fra queste meritano speciale considerazione la sala ed il salotto da ricevere per le belle pittura che adornano le pareti; ma il pavimento a smalto lustrato e figurato a disegno con pietra di vari colori che presenta la sala, accrescono alla sala stessa un pregio, che la parifica alle sale dei palazzi signorili delle città… Le finestre del piano terreno sono guarnite di inferriate esternamente e di serramento a due imposte di cristalli e scurini internamente. Quelle del piano superiore sono provvedute d’imposte a cristalli e scurini e di persiane; quelle del primo piano a tetto hanno semplicemente le imposte a cristalli e scurini… Al piantario del nuovo estimo della Comunità di Pomarance il suddetto palazzo con orto è figurato dalle particelle n° 315 e 316 della sezione C accese a conto di Biondi Bartolini Bartolino e Giovanni del dottor Giuseppe…”.
Stato attuale del Palazzo Biondi Bartolini indicato alla particella n° 417
Nella relazione dettagliata è annotato
che manca il documento del livello corrisposto alla Canonica per l’occupazione
del suolo destinato alTampliamento dell’edificio avvenuto agli inizi
dell’ottocento e che comportava una spesa annua di lire 45,20.
Nel periodo tra il 1863 ed il 1868
Bartolino e Giovanni ampliarono i possedimenti immobiliari nelle immediate
adiacenze della loro abitazione. Infatti in una relazione sul “patrimonio attivo
e passivo” dei fratelli Bartolini e Giovanni del 22 maggio 1863, confrontato
con quello del 10 novembre 1868 risulta, nella voce “acquisti di immobili” un
pagamento a Giuseppe Vadorini per “vitalizio di lui casa”, di lire 552. Egli
infatti cedette i propri possedimenti (particelle 315 e 314 del Catasto
Leopoldino) in cambio di una rendita vitalizia. Nell’acquisto come si può osservare
dalla planimetria catastale (1823-1898) era compresa anche la torre cilindrica
o “baluardo” detta del “Tavo- ne” ed un appezzamento di terreno lungo la via
“dei Fossi”.(19)
Dopo la
morte del cavalier Bartolino
Biondi Bartolini avvenuta il 28 giugno 1900 le proprietà rurali nonché la casa
paterna pervennero, con testamento registrato a Volterra il 20 dicembre 1900,
al fratello Giovanni Biondi Bartolini (1838-1904). Da questi, per discendenza
diretta fu ereditata dal di lui figlio Giulio (1877-1918) dal quale sono
pervenute all’attuale Giovanni Biondi Bartolini.
Jader Spinelli
NOTE:
Archivio di Stato di Pisa; Planimetria catastale della Toscana (Catasto Leopoldino); Ufficio fiumi e fossi: Comunità di Pomarance Sez. C n° 2; Scala 1: 1250; 6 maggio 1823.
Archivio Storico Comunale di Pomarance F. 430 (estimo 1630) c. 115 r.
Archivio Storico Comunale di Pomarance F. 430 (estimo 1630) c. 289 v.
Archivio Storico Comunale di Pomarance F. 432 (estimo 1716) c. 2 r.
Dott. Giovan Battista
Biondi: “La famiglia Roncalli a Pomarance” in La Comunità di Pomarance 1969.
Biblioteca Guarnacci
Volterra, estimo 1716 c. 198 r.
Biblioteca Guarnacci
Volterra, estimo 1716 c. 206 r.
Archivio Storico
Comunale Pomarance F. 378.
Biblioteca Guarnacci
Volterra; estimo 1716 c. 195 r., v.
Archivio Biondi
Bartolini (non catalogato)
Archivio Storico
Comunale di Pomarance F. 378. Il vicolo “Dietro il Canto”, come è possibile
osservare dalla piantina catastale del 1823, lambiva il palazzo Biondi (attuale
Biondi Bartolini) indicato alla particella catastale 316 e il palazzo del Can.re Incontri (part. 448);
poi del Panicacci, che era quel grande edificio posto nel centro dell’attuale
Piazza de Lardarel. Edificio distrutto a carico e spese del Conte de Larderei
nel 1860 al quale fu dedicata l’omonima piazza.
Archivio Storico
Comunale di Pomarance F. 126 c. 123 v.
Archivio Storico
Comunale di Pomarance F.127 c. 30 v.
Archivio Storico
Comunale di Pomarance F.127 c. 97 r.
Biblioteca Guarnacci
Volterra, estimo 1716 c. 195 r.
Archivio Storico
Comunale di Pomarance F. 130 c. 13 (1800).
Archivio Biondi
Bartolini. Da alcune notizie orali del Sovrintendente ai monumenti P.G.
Biondi, riportatimi dallo storico Don Mario Bocci, pare che durante i lavori
di ristrutturazione dell’edificio, fossero state rinvenute diverse tombe
etrusche anche del periodo arcaico. Ne è testimonianza nelle vicinanze una
tomba a quattro celle sotto la Canonica databile attorno al IV secolo A.C.
Gli affreschi che si
trovano dipinti sui soffitti delle stanze nobiliari e soprattutto le grandi
pitture murali delle sale da ricevimento sono molto simili, per tecnica e
soggetto, a quelle dell’ex Palazzo Ricci, già dei Biondi nel 1800. La parentela
che esisteva tra i proprietari dei due palazzi favorì certamente una commissione
agli stessi decoratori e pittori per gli abbellimenti interni. Il Palazzo ex Ricci,
attualmente di proprietà comunale, fu di proprietà di Francesco Biondi,
fratello di Giuseppe che vi andò ad abitare dopo il 1785 quando formò un
proprio nucleo familiare. Attorno al 1826 questo immobile era assegnato ai
fratelli Giovan Carlo e Luigi Biondi del fu Francesco Biondi. In una delle sale
affrescate di questo palazzo, utilizzata impropriamente come ambulatorio
U.S.L., è impressa una data molto importante per datare l’esecuzione di questi
affreschi e quelli conservati in palazzo Biondi Bartolini. Questa è scritta in
numeri romani sopra un caminetto incassato nel muro e riporta l’anno 1810.
Con la costruzione
della nuova Piazza de Larderei nel 1860, l’immobile dei Biondi Bartolini
accatastato con la particella 316 aveva l’entrata principale indicata al numero
civico 44; secondo il “Registro dei possessori di fabbricati” del 1878 e del
1889 il suo valore era di lire 168, 75.
Il ponte
sul fiume Cecina, o “Ponte di Ferro” come viene chiamato dalle popolazioni
della Val di Cecina, è un nodo stradale molto importante sulla S. S. n° 439 per
i collegamenti tra l’Alta e la Bassa Val di Cecina.
Da quanto abbiamo potuto trovare nell’Archivio Storico Comunale di Pomarance,
la prima notizia sulla esigenza della costruzione di un ponte nel luogo
compreso tra il Piano delle Macie e la collina di Montebono risale al 24 agosto
1786. E’ infatti in questa data che, nel Libro delle Deliberazioni e dei
Partiti, risulta adottato quanto segue:
“Adunati i signori Gonfaloniere e Priori residenti nel Magistrato Comunitativo di Pomarance, Vicariato di Val di Cecina, in legittimo e sufficiente numero di cinque per trattare … OMISSIS…
Di poi fu fatta ostentabile
al Magistrato loro la lettera dell’III. mo Signor Filippo Giobert, colla quale
accompagna diversi quesiti relazionando al memoriale stato fatto sulla
costruzione del Ponte a Cecina … Deliberati deliberandis dissero commettersi
conforme commessero al Sig. Dott. Giuseppe Maria Biondi il replicare a detti
quesiti in quella forma, che crederà convenire, avendo ora per allora già
approvate le repliche e quelle spedirsi al nominato Sig. Filippo e tutto con
loro legittimo partito di voti favorevoli cinque nessuno contrario.
Sig.
Francesco Biondi Gonfa loniere”.
I motivi che inducono alcuni Particolari a perorare la causa della costruzione di un ponte sul fiume Cecina non ci è dato di conoscerli. In quegli anni infatti il traffico non era molto intenso e le persone che viaggiavano con una certa frequenza sulla Via Maremmana detta anche del Cerro Bucato (antico nome della S. S. n° 439) erano i Canovieri del sale delle Comunità dell’Alta Val di Cecina che si recavano al R. Magazzino di Volterra a fare il prelievo, il Procaccia che portava la posta da e per Firenze e Volterra, gli addetti al prelievo della polvere da “botta e da archibuso” presso i magazzini del Bastione di Volterra, i predicatori, gli addetti al trasporto dei malati di una certa gravità all’Ospedale di Volterra e saltuariamente gli uomini di Comune che dovevano sbrigare delle pratiche o a Firenze o a Volterra. Queste persone, a causa del carattere torrentizio del Cecina, specialmente nelle stagioni piovose trovavano un ostacolo pressoché insormontabile nel fiume ingrossato dalla pioggia per cui o attendevano che le acque calassero o ritornavano sui loro passi.
Un’ipotesi
probabile potrebbe essere quella di un suggerimento dato agli uomini del
Comune da una personalità
che
conosceva bene Pomarance ed i rischi di guadare il fiume quando questo era
ingrossato dalla pioggia.
In quegli
anni infatti una alta personalità di origine pomarancina veniva a trascorrere
un periodo di riposo nella casa paterna durante il mese di settembre. Era
questi il Sen. Carlo Alberto Biondi, cugino e fratello dei Biondi che
ricoprivano importanti cariche nel Comune di Pomarance.
Essendo il Biondi Consigliere Intimo Attuale dell’imperatore d’Austria nonché Presidente del Supremo Consiglio di Giustizia della Lombardia, gli uomini del Comune pensarono di poter sfruttare la sua influenza sul Granduca di Toscana che, fra l’altro, era fratello dell’imperatore d’Austria. La cosa però non sortì alcun risultato e del ponte sul Cecina non abbiamo trovato più notizie sino al 18 novembre 1795, data in cui torna a farsi sentire la necessità della costruzione di tale opera. Infatti, come risulta dalla seguente delibera, vennero delegati dal Gonfaloniere Anton Lorenzo Sorbi i signori Biondi e Contugi affinché si recassero a Firenze per fare opera di persuasione presso S. A.R. il Granduca.
Ponte Sospeso a catene sul Fiume Cecina (1902)
“A di 18 novembre 1795
Adunati i signori Gonfaloniere e Priori residenti nel Magistrato Comunitativo di Pomarance in legittimo e sufficiente numero di cinque per trattare servati servandis. Assente il sig. Dott. Giovanni Lenzi sebbene intimato … OMISSIS …
Di poi fu proposta la
necessità della costruzione di un ponte al passo del fiume Cecina divisorio tra
la Comunità di Volterra e quella di Pomarance con riprendere in esame tale
affare a loro volta proposto presso S. A. R. e perciò eseguire
Deliberati deliberandis dissero eleggersi e deputarsi, conforme eleggono e deputano i signori Dott. Giuseppe Maria Biondi e Michele Contugi anco di concerto e con intelligenza alla Comunità di Volterra facciano quelle relazioni e proposizioni che crederanno più convenienti e proficue al pubblico ed alle Comunità comprese nel Dipartimento di Pomarance e di quelle di Volterra e insieme all’interesse medesimo delle Saline addette alla Comunità di Volterra con rilevare il notabile vantaggio ancora che ne ridonderebbe per il pubblico Commercio. E tutto da approvarsi tali proposizioni e relazioni che verranno fatte da ambe le Comunità. E tutto con il legit timo partito di voti favorevoli cinque nessuno contrario.
Anton Lorenzo Sorbi Gonfaloniere.
Nonostante la loro buona volontà i due
delegati non ottennero alcun risultato e del ponte non se ne parlò più per
altri 40 anni circa.
In questo periodo il traffico andava
sempre più aumentando. Erano infatti state attivate le fabbriche di acido
borico in varie località dell’Alta Val di Cecina e quindi il prodotto doveva
essere trasportato in diverse parti d’Italia e all’estero tramite il porto di
Livorno. In Pomarance, proprio a causa deH’aumento di traffico, si resero
necessarie alcune opere come ad esempio l’abbattimento della Porta Maremmana e
l’allargamento del relativo tratto stradale che era divenuto pericoloso sia
per le persone che per gli animali.
Nel
dicembre dell’anno 1832 i componenti il Magistrato della Comunità di Pomarance
presero la seguente decisione:
“Adunati Servati Servandis gli Illustrissimi Signori
Gonfaloniere e Priori componenti il Magistrato della Comunità di Pomarance in
pieno numero di sei per trattare … OMISSIS…
Fatto presente dal loro Sig. Gonfaloniere ed altri Priori
del Magistrato di questa Comune che ricevono continuamente delle lagnanze
dalla popolazione di Pomarance non solo quanto ancora da quelle dei Castelli
e Comunità limitrofe perchè la strada che da Pomarance conduce a Volterra
unica che dia comunicazione alla Capitale, ed alle altre città principali del
Granducato, nel corpo dell’inverno si rende impraticabile ed inutile per essere
mancante di un ponte che cavalchi il fiume Cecina che taglia la strada medesima,
e che ordinariamente in tale stagione abonda talmente di acque che impedisce
assolutamente di essere guadato fino a tanto che almeno non siano quasi del
tutto scolate le di lui acque, le quali rodendo le sponde del proprio letto
guastano continuamente il passo che avanti ad una piena era guadabile ed
obbliga i passeggeri a fare con i loro legni dei lunghi ed incomodi giri sulla
rena e sul letto del fiume per trovare un passo che conduca alla strada
attraversando sopra i terreni dei possidenti adiacenti che reclamano una
servitù si variabile ma che necessariamente vien loro imposta
Considerando Essi III.mi Adunati che effettivamente senza
la costruzione di un ponte sulla Cecina nella stagione d’inverno resta
spessissimo interrotta la comunicazione di questa Comunità ed altre limitrofe e
che tale inconveniente pregiudica moltissimo al Commercio dei Comunisti non
solo quanto al trasporto del Sai Borace, e del Fame che in tanta abbondanza si
estrae dalle miniere esistenti ed aperte in questo territorio
Considerato che la rilevantissima spesa occorrente per la
costruzione di un tal ponte è assolutamente superiore alle forze della loro
Comunità che è aggravatissima per spese di tal natura
Fatte altre considerazioni, e rilievi, e dopo lungo, e
maturo colloquio
Modellino del Ponte Sospeso a catene che si trova nel Museo della Geotermia di Larderello
Deliberati deliberandis commessero
ed incaricarono il loro Signore Gonfaloniere di supplicare l’innata Bontà e
Clemenza deH’Augustissimo Nostro Sovrano a volersi degnare di assicurare una
permanente comunicazione delle città terre e castelli esistenti al di qua della
Cecina col rimanente del Granducato facendo costruire un Ponte al passo così
detto di Pomarance incaricandolo di fare una tal supplica di concerto con i
Signori Gonfalonieri di tutte le altre Comunità interessate, facendo tutti
quei rilievi che crederà opportuni non senza omettere però di avvertire che
questa Comune tanto più è impossibilitata a supplire e concorrere alla spesa del
Ponte da costruirsi in quanto che dopo tal costruzione è indispensabile che la
Comune faccia formare circa tre miglia di nuova strada che dal richiesto ponte
vada ad unirsi con quella oggi esistente; e ciò autenticarono per partito di
voti favorevoli cinque contrario nessuno non rendente il Sig. Gonfaloniere
come sopra indicato
Camillo Tabarrini
Gonfaloniere.
Dovettero ancora trascorrere quasi due anni prima che le popolazioni dell’Alta Val di Cecina vedessero deliberata la costruzione del ponte sul fiume Cecina da parte del Granduca Leopoldo II di Toscana. Infatti, solo agli inizi del 1834, il Granduca ne deliberò la costruzione ed affidò l’incarico e la direzione dei lavori a Francesco Larderel che sin dal 1818 aveva iniziato e sviluppato l’impresa boracifera dei Lagoni di Montecerboli e di altre località per la produzione di Acido Borico e Borace raffinato. Il Larderei chiamò in suo aiuto due ingegneri francesi, Francesco Tarpin e Tanislao Bigot i quali, molto probabilmente realizzarono il progetto del ponte e fecero venire dalla Francia quattro specialisti (due fabbri e due falegnami). Le rimanenti maestranze (contabili, interpreti, maestri muratori, manovali, terrazzieri, barrocciai, ecc.) furono reperite nelle Comunità della Val di Cecina.
I lavori furono iniziati il 18 marzo 1834 e terminarono il 18
giugno 1835.
Al ponte, lungo 75 metri comprese le spallette terminali ed
ubicato nello stesso luogo di quello odierno, fu realizzato in una sola
campata di circa 50 metri sorretta da due sistemi multipli di catene ed
ancorata a otto grandi pilastri in muratura. Le catene a loro volta furono
fissate al piano stradale, costruito con travi di legno ricoperte di terra e
largo 3 metri, mediante due serie di tiranti in ferro che davano al ponte una
ottima compattezza e solidità. Su uno dei pilastri fu installata una lapide,
consevata oggi nel Museo di Larderello insieme ad un modellino in scala del
Ponte sospeso.
Il costo
complessivo dell’opera fu di 285.000 lire fiorentine che, tenuto conto del
rapporto di 1 a 1.000 circa tra il valore d’acquisto della lira fiorentina del
1835 e quello della lira attuale, corrispondono a circa 2 miliardi e 850
milioni attuali.
Il ponte sospeso svolge il proprio servizio con perfezione fino alla notte tra il 6 e 7 settembre 1847 quando, a causa di una piena del fiume, crolla sotto la forza delle acque. Questo crollo mette a disagio tutte le popolazioni dell’Alta Val di Cecina che si rivolgono al Magistrato affinchè venga subito chiesta al Governo Reale la ricostruzione. Il 25 ottobre in una riunione dei componenti il Magistrato della Comunità di Pomarance “… Richiedono che la presente loro deliberazione sia inviata al Regio Trono per l’organo dell’III.mo Sig. Provveditore, affinchè voglia degnarsi di dare le opportune disposizioni aU’effetto che non venga più a lungo ritardata la ricostruzione del piano stradale e porzione della Pila del diroccato Ponte Sospeso per varcare liberamente e con tutta sicurezza il fiume Cecina sulla linea della Strada Provinciale Massetana ed i vettori specialmente dell’Acido Borico possano liberamente trasportarlo alla Piazza di Livorno e procurarsi con tale mezzo il proprio sostentamento e quello delle loro famiglie. Con partito di voti favorevoli 6 e nessuno contrario”.
I
lavori furono iniziati il 18 marzo 1834 e terminarono
il 18 giugno 1835.
Al ponte, lungo 75 metri comprese le spallette terminali ed
ubicato nello stesso luogo di quello odierno, fu realizzato in una sola
campata di circa 50 metri sorretta da due sistemi multipli di catene ed
ancorata a otto grandi pilastri in muratura. Le catene a loro volta furono
fissate al piano stradale, costruito con travi di legno ricoperte di terra e
largo 3 metri, mediante due serie di tiranti in ferro che davano al ponte una
ottima compattezza e solidità. Su uno dei pilastri fu installata una lapide,
consevata oggi nel Museo di Larderello insieme ad un modellino in scala del
Ponte sospeso.
Il costo
complessivo dell’opera fu di 285.000 lire fiorentine che, tenuto conto del
rapporto di 1 a 1.000 circa tra il valore d’acquisto della lira fiorentina del
1835 e quello della lira attuale, corrispondono a circa 2 miliardi e 850
milioni attuali.
Il ponte
sospeso svolge il proprio servizio con perfezione fino alla notte tra il 6 e 7
settembre 1847 quando, a causa di una piena del fiume, crolla sotto la forza
delle acque. Questo crollo mette a disagio tutte le popolazioni dell’Alta Val
di Cecina che si rivolgono al Magistrato affinchè venga subito chiesta al
Governo Reale la ricostruzione.
Il 25 ottobre in una riunione dei
componenti il Magistrato della Comunità di Pomarance “… Richiedono che la presente loro deliberazione sia inviata
al Regio Trono per l’organo dell’III.mo Sig. Provveditore, affinchè voglia
degnarsi di dare le opportune disposizioni aU’effetto che non venga più a lungo
ritardata la ricostruzione del piano stradale e porzione della Pila del
diroccato Ponte Sospeso per varcare liberamente e con tutta sicurezza il fiume
Cecina sulla linea della Strada Provinciale Massetana ed i vettori specialmente
dell’Acido Borico possano liberamente trasportarlo alla Piazza di Livorno e
procurarsi con tale mezzo il proprio sostentamento e quello delle loro
famiglie. Con partito di voti favorevoli 6 e nessuno contrario”.
Pomarance
continua ad espandersi fuori dalle mura e sorgono nuove costruzioni nella zona
del Treppiede e fuori Porta Volterrana.
Il Ponte
sul fiume Cecina viene riconosciuto come opera di basilare importanza per lo
sviluppo economico dell’Alta Val
di Cecina e
quindi il Magistrato Comunitativo viene invitato a pronunciarsi circa il nuovo
modo in cui dovrà essere ricostruito.
Il 3 marzo
1848 giunge al Comune una “ Officiale” della Regia Camera di Pisa riguardante
la ricostruzione del ponte.
Il 16 marzo
successivo si riunisce il Magistrato Comunitativo di Pomarance e visto che
nella “Officiale” viene ordinato di ricostruire il ponte a carico delle
Comunità interessate; che anche le Comunità di Massa Marittima e Grosseto
traggono vantaggio dal transito sulla Strada Provinciale Massetana che
attraversa le Terre di Pomarance poiché, ora che il ponte è interrotto,
devono percorrere la via più lunga dell’Emilia; e che la precedente costruzione
era stata eseguita secondo le prescrizioni della “Sovrana Resoluzione” del 19
giugno 1835; deliberano di “essere pronti a
contribuire la quota che per la richiesta loro occorrente alla ricostruzione
del Ponte sul Fiume Cecina gli può spettare pagabili secondo le proprie forze
amministrative; e domandano che a questa spesa siano chiamate non solo tutte
quelle Comunità che sono comprese nel circondario castellabile del tratto di
strada ove ricorre il Ponte da ricostruirsi, ma tutte le altre ancora che
risentono in generale un interesse nel sicuro transito del Fiume Cecina
E frattanto rendono le più sentite grazie a S. A. S. Reale /Amatissimo Sovrano Leopoldo II per la fatta dichiarazione di far contribuire a questa spesa la Reale Azienda del Sale con un discreto contributo
Lapide posta sul pilone del Ponte di Ferro (Museo Larderello)
E tutto quanto sopra con Partito di voti Favorevoli 7 e nessuno contrario Donato Metani Gonfaloniere”.
Le difficoltà per le vetture e i viandanti
continuano ed il 22 aprile 1848 due passeggeri rischiano di affogare a causa di
una piena. Il 6 maggio successivo, in seguito ad una “Officiale” del Prefetto
del Circondario di Pisa che rende noto agli Amministratori del Comune il
Progetto dell’ispettore delle Acque e delle Strade del Compartimento
Fiorentino per la ricostruzione del Ponte, il Magistrato si riunisce per
deliberare in quale modo e luogo si debba ricostruire il Ponte.
Esaminati i
progetti presentati dall’ispettore delle Acque e delle Strade del
Compartimento Fiorentino, Sig. Maurizio Zannetti, in uno dei quali si prevede
di ricostruire il Ponte Sospeso con catene di ferro nello stesso luogo e nello
stesso modo del precedente con una spesa preventiva di lire 115.750,95 e
nell’altro di ricostruirlo ex novo a tre arcate presso il podere Cerreto di
fronte alle Vecchie Saline di San Lorenzo con una spesa preventiva di lire
196.471,69, viene dato il seguente parere:
“Dichiarano che sono di parere doversi ricostruire il Ponte
sul Fiume Cecina nel sito ove era già quello diruto
E che debba essere della qualità dei Ponti Sospesi con
catene di Ferro
Con partito di voti Favorevoli 6 nessuno contrario.
E tanto più confermano il proposto progetto in quanto che
sono nella Lusinga che il Signor Cavaliere Conte de Larderei
possa nella peggiore ipotesi assumerne la costruzione con
la somma di lire Centomila
E tutto ratificarono e
confermarono con Partito di voti Favorevoli 6 e nessun contrario”
Il 1848 è l’anno in cui tutta l’Italia è
scossa dalle agitazioni democratiche ed anche a Firenze si scatenano lotte
rivoluzionarie. Il Granduca fugge e ritorna alcuni mesi più tardi scortato
dagli Austriaci che lo reinsediano sul Trono.
Fino al 1852 si discute su come
ricostruire il Ponte sul Cecina e, poiché la spesa è notevole, ci si domanda
se sia meglio sfruttare le parti del vecchio Ponte di Ferro o ricostruirlo ex
novo in pietra.
Il 25 agosto 1852 il Consiglio Comunale
delibera quanto segue:
“Informato il Consiglio Comunale da alcuni residenti,
che dalla Direzione d’Acqua e Strade era stata data commissione allo Ingegnere
Distrettuale di fare un progetto per la ricostruzione di un Ponte Sospeso sul
Fiume Cecina al passo della già esistente Strada Provinciale Massetana detta
del Cerro Bucato
Visto Tart. 52 lettera A della L.C. de! 20 novembre 1849 in
ordine al quale i Consigli Comunali possono emettere Deliberazioni sui progetti
di spese da eseguirsi a spese del Comune o col suo concorso
Attesoché alla spesa della ri costruzione del Ponte di che
si tratta fra le altre Comuni deve concorrervi anche quella di Pomarance da
Loro Amministrata
Attesoché la ricostruzione del Ponte sulla Cecina che
interessa la comunicazione di questa Provincia è necessario che offra una
permanente stabilità
Attesoché sebbene a prima
vista sembri conveniente per risparmio di spesa il ricostruire il detto Ponte
di Ferro traendo profitto dal materiale tuttora esistente, pur nonostante
resterebbe da esaminarsi se la minore spesa che potrebbe occorrere per la
ricostruzione del Ponte Sospeso predetto fosse da preferirsi alla maggiore
spesa che occorrerebbe per la nuova costruzione di un ponte di pietra a fronte
della instabilità dell’uno colla stabilità dell’altro, ed a fronte ancora della
continua manutenzione e forte spesa che abbisogna pel primo, e della minore che
occorre per il secondo; per questi motivi e nel solo desiderio di vedere una
volta ricostruito il ponte di che si tratta, e per quanto si può nel più
stabil modo, il Consiglio osa pregare il Sig. Prefetto a volersi compiacere
d’incaricare l’ingegnere di Distretto, o l’ingegnere in capo del Compartimento
a fare gli studi necessari per conoscere la spesa occorrente, onde costruire
nel luogo suindicato un ponte di materiale con la massima economia, valutando e
confrontando tutto considerato, se avvi maggior convenienza stante la
specialità dalle circostanze a rifare un ponte di ferro simile a quello che
rovinò, o a sostituirne uno di materiali vendendo il ferro che tuttora esiste,
con partito di voti favorevoli 16 nessun contrario”.
Veniva quindi richiesto un nuovo progetto
che doveva essere affidato o ailing. Distrettuale o all’lng. Capo del
Compartimento.
Passò quasi un anno ed il 2 luglio 1853
giungeva una “Officiale” dalla Prefettura di Pisa che richiamava il Consiglio
Comunale ad emettere una delibera per approvare il nuovo progetto di
ricostruzione del Ponte diruto.
Il Consiglio Comunale, riunitosi il 18
luglio successivo, deliberava:
“A di 18 luglio 1853
Letta la Officiale della Prefettura di Pisa del dì 2 luglio
andante, colla quale mentre accompagnava la perizia compilata dall’lng. in
Capo Sig. Ridolfo Castinelli relativa alla ricostruzione del diruto ponte a
catene di ferro sul fiume Cecina al passo della Strada Provinciale Massetana,
venivano Essi Signori adunati richiamati ad emettere su tal proposito la opportuna
deliberazione;
Udito che la ricostruzione del Ponte che sopra sull’antico
sistema e precisa ubicazione del primo profittando della vecchia fiancata alla
sponda destra del fiume e dei ferramenti ed altri materiali raccolti dopo la
rovina vi occorreva la spesa di L. 58.000;
Attesoché ricostruendo il ponte a catene di ferro oltre a
ristabilirsi sicuro e permanente il passo della Cecina viene anche a
commettersi una spesa assai minore di quella che sarebbe occorsa per la
costruzione sul fiume medesimo di un ponte di materiale;
Attesoché niun dubbio può a senso loro elevarsi sulla
utilità e vantaggio che a causa di questo ponte tornano a risentire nuovamente
tutte quelle pubbliche Amministrazioni che contribuirono per la primitiva
costruzione del ponte ridetto, cosicché repartendo tra esse nel modo tracciato
dall’art. 2 Venerabile Legge del 21 agosto 1843 la presagita somma di L.
58.000, la quota spettante alla Loro Comunità sarà sempre minore di quella da
essa corrisposta nella sua prima costruzione.
Deliberati deliberandis, approvarono e approvano per
quanto loro può spettare il progetto stato compilato dal predetto Sig. Ing. in
Capo Cav. Ridolfo Castelletti fino dal dì 27 gennaio anno corrente, e
convennero che la Comunità di Pomarance concorra nel modo sopraindicato alla
ricostruzione del ponte surriferito, e frattanto attese le limitate finanze di
essa e per non elevare di troppo l’annua imposta domandano al Governo un
sussidio, o l’anticipazione almeno delle somme occorrenti per la esecuzione del
lavoro da rimborsarsi dalle Comuni interessate a modiche annue rate, lusingandosi
Essi Signori adunati, che saranno secondati i loro desideri in vista della
utilità grande che è per risentire la I. R. Amministrazione delle Saline col trasporto della legna
che in gran parte transiteranno sul ponte in progetto.
E tutto quanto sopra ratificarono, con partito di voti 15
favorevoli contrario nessuno.
Dr. Giuseppe Biondi Bartolini
Gonfaloniere”.
Il 28
gennaio 1854 giunge la tanto sospirata approvazione con cui si autorizza la
ricostruzione del ponte, ed il 3 aprile successivo viene deliberato:
“A dì 3 aprile 1854
Letta la Officiale del Compartimento Pisano del 28 gennaio
anno corrente colla quale rende noto che S.A.I.R. con veneratissimo Rescritto
comunicato dal Ministero
dell’interno con dispaccio del 28 gennaio detto, mentre si era degnata approvare la ricostruzione del Ponte di Ferro sul Fiume Cecina, aveva altresì ordinato che la spesa relativa stata presagita in L. 58.000 pagar dovesse per un terzo a carico del Regio Erario e per gli altri due terzi a carico delle Comunità collettabili della seconda e terza Sezione della Strada Provinciale Massetana, e che le suddette Comunità che sono Volterra, Montecatini, Pomarance e Castelnuovo erano autorizzate a prendere a mutuo la somma necessaria per far fronte al contributo dimissibile in rate annuali in proporzione delle loro risorse, e che la quota di contributo spettante alle Comunità suddette principiasse a decorrere nel futuro anno 1855.
Se ne chiamarono intesi e notificati con Partito di voti
quattro favorevoli.
Dr. Giuseppe Biondi Bartolini
Gonfaloniere “
La ricostruzione del Ponte Sospeso a
catene di ferro pose termine ai disagi delle popolazioni e di coloro i quali,
dovendo trasportare il Borace e l’Acido Borico da Larderello a Livorno e la
legna dai boschi di Berignone a Saline, erano costretti a guadare il fiume con
non pochi rischi da affrontare.
Il Ponte di Ferro Sospeso svolse il
proprio servizio sino al maggio 1922 quando a causa della evoluzione tecnica
dei mezzi di trasporto non venne più ritenuto idoneo. Infatti si era passati
dai barrocci trainati dai cavalli alle automobili ed ai camions. Questi
ultimi erano molto più pesanti e larghi dei barrocci per cui non essendo le
caratteristiche costruttive del ponte idonee a sopportare tali carichi, fu
decisa la sua demolizione e la sua sostituzione con un nuovo ponte in cemento.
La
demolizione avvenne il 25 maggio 1922 a 87 anni dalla costruzione.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
LA COMUNITÀ’ DI POMARANCE – Rievocazioni Storiche di E. Mazzinghi – Anni 19 – 19
ARCHIVIO STORICO COMUNALE – Deliberazioni e Partiti della Comunità di Pomarance – Filze 127, 129, 137, 141, 148, 150.
BIBLIOTECA MUSEO DELLA GEOTERMIA LARDERELLO – Trattati di Domenico Cioni 1785- 1835.
R. NASINI – I soffioni e i lagoni della Toscana e la industria boracifera – Ed. 1930
Fin dalla più remota antichità protostorica il Volterrano
è sempre stato conosciuto come un territorio ricco di risorse naturali e, come
tale, continuamente frequentato e lungamente investigato col preciso scopo di
ricercarne e coltivarne gli svariati giacimenti minerari, di sfruttarne le
diffuse acque minerali e terapeutiche o, più semplicemente, per tentare di comprendere,
studiare e descrivere i suggestivi e inconsueti fenomeni naturali (soffioni,
bulicami, putizze , lagoni ecc.) che in esso si riscontrano.
La storia economica legata allo sfruttamento medievale
delle risorse minerarie del Volterrano – specialmente per quanto riguarda lo
zolfo, l’allume e il vetriolo – è stata, com’è noto, ampiamente ricostruita e
documentata da Fiumi (1) il quale ha così permesso di valutare e di determinare
con maggior precisione il ruolo fondamentale svolto dall’estrazione e dal
commercio di queste materie prime (alle quali bisogna aggiungere il salgemma)
nell’economia della zona durante tutto il Medioevo.
Le numerosissime evidenze naturalistiche e minerarie del Volterrano hanno quindi sempre esercitato indiscutibili e rilevanti motivi d’interesse sia, ovviamente, in vista di un loro potenziale sfruttamento economico (2) , sia, ed è ciò che qui ci interessa, sotto l’aspetto della descrizione e dell’enumerazione fenomenologica delle più svariate manifestazioni e produzioni naturali.
A testimonianza di questo aspetto
documentario-memorialistico sull’area in esame sta tutta la serie di relazioni
redatte .sempre più frequentemente a partire dalla metà del Quattrocento, da
viaggiatori, storici, geografi, ufficiali e naturalisti allo scopo di
evidenziare, illustrare e valorizzare questo non comune patrimonio di risorse
e nel preciso intento sia di incoraggiarne o svilupparne lo sfruttamento sia
di indicare, emblematicamente, le vestigia e le
tracce delle più antiche attività a tale fine intraprese.
A quanto risulta, la prima di queste relazioni (a noi purtroppo non pervenuta) fu compilata dall’artista volterrano Zaccaria Zacchi (1474-1544) che “descrisse tutto quello che gli venne osservato, non tanto dei residui e artefatti della bella Antichità, quanto ancora le produzioni naturali più ragguardevoli, come acque minerali, miniere, pietre ecc. Il P. Leandro Alberti e il P.Giovannelli hanno veduto questa descrizione manoscritta e ne hanno pubblicato un miserabile compendio, dal quale si viene in cognizione che essa doveva esser bellissima e di somma importanza. Ella non è giammai pubblicata colle stampe, anziché non si sa più dov’ella sia’’ (3). Purtroppo, tutte le ricerche svolte a più riprese nel corso del tempo per rintracciare il documento (a Volterra, a Firenze, a Bologna) sono sempre risultate vane (4), facendo così temere seriamente che esso debba ormai considerarsi, salvo imprevisti, irrimediabilmente perduto. E non si tratta certo di una perdita da poco se pensiamo, per contrasto, che gli analoghi scritti successivi di Leandro Alberti (5) e di Mario Giovannelli (6) parvero al Targioni Tozzetti solo “un miserabile compendio” di quel prezioso originale. In realtà la descrizione data da Leandro Alberti del territorio volterrano, benché forzatamente sintetica (in quanto inserita in un’opera di carattere generale sull’Italia) possiede un duplice motivo di interesse poiché oltre al suo intrinseco valore documentario può forse permetterci di immaginare, seppure a grandi linee, quale doveva essere lo schema di base che ordinava lo scritto di Zaccaria Zacchi: inizialmente la Descrittione di tutta Italia (1550) illustra, procedendo in senso orario, gli immediati dintorni di Volterra (Montebradoni, Portone, Ulimeto, Monte Nero, Monte Voltraio) per poi dirigere l’attenzione verso i borghi sparsi nel territorio a Sud della città, il più ricco di risorse minerarie e di produzioni naturali (Saline, Pomarance, Libbiano, Monterufoli, Montecerboli, Castelnuovo, Leccia, i vari Bagni, Monterotondo, Lustignano). Da qui in avanti, però, la decrizione perde un ordine logico preciso, una direzione di marcia chiara e preordinata; si passa infatti da Spicchiaiola a Silano a S.Dalmazio per poi tornare indietro verso Casole d’Elsa, Mazzolla e Roncolla. Di tutti luoghi citati vengono menzionate le peculiarità naturalistiche o minerarie dedicando solo brevissimi accenni alle attività estrattive eventualmente in atto o alle tracce dei lavori antichi. In altre parole siamo di fronte ad una panoramica del territorio realmente “a volo d’uccello“ che però serve, nonostante tutto, a “fotografare11 quali erano lo stato delle conoscenze sulle produzioni naturali del Volterrano e la situazione del loro sfruttamento alla metà del Cinquecento.
Carta mineraria schematica del territorio volterrano alla metà del Seicento
Ad arricchire il quadro di queste descrizioni cinquecentesche contribuisce poi un altro documento, stavolta manoscritto: si tratta di una relazione stilata nel 1580 dal Capitano Giovanni Rondinelli e diretta al Granduca di Toscana Francesco de’ Medici (7). In questo rapporto, dopo un’introduzione di carattere storico-geografico relativa a Volterra, dopo aver trattato brevemente della situazione idrica del capoluogo e del territorio e dopo aver descritto le possenti mura volterrane, l’Autore passa ad illustrare la condizione attuale (numero dei fuochi,situazione economica, caratteri produttivi peculiari) dei vari borghi del circondario. È a questo punto che Rondinelli inizia la vera e propria enumerazione delle varie “doti, virtù e ricchezze” del territorio volterrano applicando a tale scopo uno schema tematico- gerarchico che da questo momento in poi è stato spesso adottato da quanti si sono occupati in seguito della questione e che è strutturato in base al seguente criterio ordinatore: miniere d’oro, miniere d’argento, miniere di rame, calcedoni e diaspri, travertini e marmi (broccatelli), sale, allume, vetriolo, zolfi gialli e neri, bagni e lagoni.
Dopo questi due casi, il Cinquecento fornisce la sua ultima trattazione illustrativa del Volterrano con l’ottavo libro della Storia dell’antichissima città di Volterra del volterrano Lodovico Falconcini (1524-1602). In quest’opera, scritta in latino nel 1589 e stampata (tradotta con testo originale a fronte) solamente nel 1876 (8), l’Autore passa tra l’altro in rassegna tutte le località rilevanti sotto l’aspetto storico e naturalistico riportando osservazioni e notizie di grande interesse e offrendo talora al lettore preziose annotazioni e particolari del tutto inediti, come nel caso, ad esempio, delle miniere di Montecastelli e di Querceto o dei Bagni di S.Michele delle Formiche presso Montecerboli.Per comodità del lettore diamo di seguito l’elenco delle località illustrate dal Falconcini ,avendo cura di evidenziare graficamente in corsivo quelle su cui si soffermò maggiormente l’attenzione dell’Autore: Monte Nero, Cozzano, Pignano, Berignone, Pomarance, S.Michele delle Formiche, Montecerboli, Morba, Castelnuovo, Sasso, Lustignano, Leccia, Serrazzano, Libbiano, Micciano, Monterufoli, Montegemoli, Querceto, Montecastelli, Silano, S.Dalmazio, Radicondoli, Montecatini, Buriano, Miemo.
Per quanto riguarda il secolo successivo preferiamo
sorvolare sulla già citata Cronistoria di Mario Giovannelli, pubblicata
nel 1613, in quanto altro non può essere considerata che una copia piuttosto
fedele della già ricordata descrizione di Leandro Alberti.
Ricerca di vene metallifere nel Medioevo (da G. Agricola – De Re Metallica – Basilea, 1556)
In verità, sebbene la storia mineraria del Volterrano durante il Seicento non sia molto conosciuta, appare chiaro, come vedremo, che le attività estrattive e commerciali legate alle risorse del sottosuolo dovevano stagnare ancora nello stato di crisi e di abbandono in cui erano venute a trovarsi sempre più nel corso del secolo precedente. Dal 1472 agli ultimi decenni del ’500 la società e l’economia del Volterrano subirono infatti una profonda trasformazione dovuta, tra l’altro, sia alla forzata integrazione politicoistituzionale nello stato fiorentino che alla prolungata fase di progressiva specializzazione che dalla fine del Quattrocento sembra caratterizzare l’economia toscana.
Per quanto ci riguarda direttamente, queste nuove
condizioni economico-sociali di necesario riassestamento dei vari settori
produttivi segnarono il marcato declino delle attività connesse allo
sfruttamento delle risorse minerarie del Volterrano: il commercio dei prodotti
minerari del territorio (nella fattispecie il vetriolo e lo zolfo) venne
meno, la scoperta dell’allume si rivelò illusoria, mentre l’unica eccezione di
tutto rilievo in questo caso di generale abbandono fu rappresentata dall’estrazione
del salgemma la cui “industria1‘ conobbe un’interessante continuità
produttiva. A questa generalizzata crisi delle attività minerarie della zona
si accompagnò inoltre una decisa accentuazione del carattere agricolo
dell’economia volterrana e una decisa espansione delle grandi proprietà
terriere. (9)
Nel settore minerario questa generale linea di tendenza
negativa si protrasse anche nel Seicento, periodo durante il quale la forte
contrazione subita dai settori estrattivi (e alla quale certo non fu estranea
la terribile pestilenza del 1630) condusse al conseguente ristagno generalizzato
o, nella maggior parte dei casi, addirittura alla completa cessazione di questi
generi di attività economiche.
Per quanto riguarda ad esempio l’estrazione del rame sappiamo che sia le celeberi miniere di Montecatini Val di Cecina che quelle di Montecastelli dopo il 1630 cessarono la propria attività fino al 1636 quando uno sfortunato tentativo di ripresa dei lavori attuato a Montecatini determinò la chiusura di entrambe le miniere per tutto il secolo. Analogamente, è noto che anche le meno importanti “ramiere” di Montecerboli restarono abbandonate durante tutto il Seicento e che, nella zona, analogo destino toccò pure a tutti i giacimenti fino ad allora più o meno sfruttati di minerali metalliferi. Fortunatamente ad aiutare lo storico e l’economista nello studio e nella ricostruzione di questo aspetto della realtà economica locale seicentesca, esiste presso la Biblioteca Guarnacci di Volterra una relazione manoscritta (10) compilata intorno alla metà del Seicento dal volterrano Raffaello Maffei (1605-1673), Provveditore dei sali e della Fortezza (11). Si tratta di una descrizione abbastanza accurata, e per certi versi originale e dettagliata, relativa alle cose notevoli del Volterrano, alle ricchezze del suo sottosuolo e alle antiche vestigia, ancora visibili, che dallo sfruttamento di quelle notevoli risorse avevano tratto origine.
Dal punto di vista morfologico il mano
scritto si compone di un fascicolo di 13 carte numerate; il testo è incompiuto
e dalle note apposte successivamente sul foglio di guardia che contiene il
fascicolo si rileva che lo scritto era diretto a un religioso. Circa la
datazione essa è sicuramente posteriore al 1625, anno di pubblicazione del De
Mineralibus del volterrano Giovanni Guidi, di cui si trova preciso
riferimento nel testo.
L’argomento della relazione è
chiaramente espresso nel titolo conferitogli in seguito: Discorso sopra i
residui d’antichità di Volterra. Bagni e acque termali. Saline e acque salse.
Minerali, e risulta così ripartito:
antichità volterrane:
cc. 1r – 4r;
bagni e acque termali:
cc. 4v – 8v;
saline e acque salse:
cc. 8v – 10v;
minerali: cc. 10v – 13v (incompiuto).
Per quanto riguarda l’aspetto che qui ci
interessa fermeremo pertanto l’attenzione sull’ultima parte,
intitolata,.appunto, De i Minerali; essa risulta infatti molto interessante
sia perché tra le varie sezioni del Discorso del Maffei è senza dubbio la meno conosciuta e la meno citata sia perché
rispetto alle altre relazioni (precedenti, coeve o anche successive) di
analogo argomento appare in alcuni casi più precisa, più dettagliata e più
informata, quindi per noi più utile.
In particolare i punti di
novità e di originalità che vi si riscontrano si possono così riassumere:
la notizia, citata poi da Fiumi (12), che immediatamente sotto la rupe su cui sorge il castello di Fosini, ovvero lungo il Botro Ripenti o Riponti (un piccolo tributario del Pavone) si ebbero anticamente escavazioni di oro. Anche se quasi certamente si trattò di galena argentifera (o meglio, di tetraedrite) tutto ciò appare confermato dal fatto che all’epoca del Maffei le tracce di quell’attività erano ancora riconoscibili sul terreno e che un pezzetto di quel minerale “purgato dal fuoco” era stato lì rinvenuto pochi anni prima. In questo caso, a differenza di quanto accade quasi inevitabilmente in questo genere di relazioni, il Maffei offre un’informazione topograficamente precisa su un lavoro minerario fino ad allora trascurato dai cronisti;
la testimonianza di antichi lavori intrapresi presso il Monte S.Croce dove analoghe escavazioni di oro e di argento, sebbene citate di sfuggita, appaiono qui finalmente segnalate. La notizia è interessante poiché in precedenza questa località non veniva di solito menzionata nelle trattazioni del genere, sebbene fosse noto che in passato vi erano state svolte ricerche ed attività estrattive (13). Dal Maffei giunge dunque la conferma dell’antichità dei lavori e la testimonianza che ai suoi tempi la “cava” era in attività;
la suggestiva e prolungata descrizione incentrata sulla riscoperta delle miniere di rame presso Prata, in luogo detto allora Piano di Siedi;
la conferma che durante il Seicento le miniere di rame attivate nel secolo precedente presso Montecerboli, in luogo detto le Maltagliate, versavano nel più completo stato di abbandono(14);
la segnalazione di antiche ricerche di rame intraprese sul Poggio di M/emo(15);
la notizia dell’esistenza di una miniera di piombo presso Montecerboli in luogo detto Botro a Tracolle, dove erano ancora visibili i resti dell’edificio ad essa attiguo e dove si riscontravano abbondanti testimonianze che almeno la prima fusione del minerale doveva avvenire sul luogo;
una brevissima ma preziosa illustrazione qualitativa delle cave di vetriolo presso Libbiano (in luoghi detti La Giunca e Tigugnano) e la segnalazione di analoghi lavori condotti a Porciniano (16) e alla Striscia (17).
la generale conferma che alla metà del ’600, tranne le poche eccezioni legate all’estrazione del vetriolo (a Monterotondo M.mo e alla Striscia) e alla produzione del salgemma, l’attività mineraria nel Volterrano versava nel più completo abbandono e che l’estrazione e il commercio dei minerali metallici erano praticamente fermi.
Una miniera del Cinquecento (da G. Agricola – De Re Metallica – Basilea, 1556)
Per tutti questi motivi
riteniamo opportuno proporre all’attenzione e alla conoscenza dei lettori
questo breve documento che aiuta in qualche modo a far luce su un aspetto
molto importante ma non completamente conosciuto della storia economica del
Volterrano durante il XVII secolo e che contribuisce, nel suo piccolo, a far
meglio comprendere l’evoluzione storica e topografica delle attività
estrattive legate ad alcune risorse minerarie del nostro territorio.
Angelo MARRUCCI
R. MAFFEI – Discorso
sopra i residui d’antichità di Volterra.
Bagni e acque termali.
Saline e acque salse. Minerali, metà sec.XVII. Volterra, Biblioteca Guarnacci, Ms.5819 (Lll.5.2)
De
i Minerali
Ma per dar principio a i Minerali stimo
che havendo la P.V. per benignità sua dato piena fede alla mia relazione
dell’acque termali che si trovano in questo contorno e sapendo essa molto bene
che le qualità peregrine delle quali quest’acque son dotate non d’altronde pervengano loro che da luoghi sotteranei
per i quali esse vanno scorrendo prima di venire alla luce, sarà (credo io)
senz’altro persuasa che i medesimi luoghi siano ripieni di quelle cose che son atte a contribuire le virtù che di quell’acque si
raccontano, e perché queste sono ordinariamente minerali e mezze minerali ne
seguirà in necessaria conseguenza che il paese sia abondantemente ripieno di
miniere.
E non solamente la ragione ci persuade quanto io le dico, ma le autorità d’infiniti scrittori ce ne fan certi, le quali tutte tralasciando come a Lei molto ben note, mi basterà addurre come men vulgata l’autorità di Gio. Guidi nel principio della sua Mineralogia Legale in queste parole: nulla Urbs, nullave ditio, ne dum huius Provin- ciae, sed totius etiam Italiae, tot tantisque regalibus naturae, ac Dei Optimi Maximi donis abundet, quemadmodum territorium Urbis Volaterrarum constat. Nam praeter Salinarum numerum, et facunditatem adsunt Auri, Argenti, Lapillorum, adsunt AEris, adsunt Aluminis, Sulphuris, Vitreoli, Ferri, Plumbi, Stamni et aliorum fere omnium Mineralium, ita peremnes venae, ut nullus in hac ditione mons emineat, nullus quamvis humilis coll is appareat, qui non aliquam metallicam Venam in sinu eius contineat, atque abscondat (*)•
Ma è superfluo affaticarsi con le ragioni e con le autorità
di provare quello che si vede chiaro dall’evidenza del fatto poiché di tutte le
sopradette cose l’esperienza ci ammaestra e l’occhio ne è oculato testimonio.
E per dar principio dalle miniere dell’argento e dell’oro dico che se bene non sono state queste ne tempi moderni esercitate, tuttavia e dalle scritture e dalle tradizioni e dalle vestigie di quegli edifizi e dalle cave si viene in cognizione che nel Monte della Nera vicino alla Città tre miglia vi è la vena dell’oro. Similmente in un Monte vicino al Castello di Querceto vicino a qui nove miglia ve n’è un altra vena e si vede esserci stato cavato.Nella Contea di Fosini di questa Diocesi non solo si vede esserci una simil cava in luogo che si chiama Botro Ripenti, ma poch’anni sono un contadino del luogo s’abbatté a trovarne un pezzetto purgato dal fuoco, il che dà chiaro indizio esser già la detta cava stata esercitata. Ma più chiare se ne vedono le vestigie nel territorio di Gerfalco di questo Vescovado, dove in un Monte detto di S.Croce vi sono di presente diverse buche donde si cava la miniera dell’oro e dell’argento, ed io ho veduto alcuni istrumenti antichi di locazioni fatte di beni di questo luogo da i Vescovi di Volterra cum Aurifodinis et Argentifodinis. Né solo delle cave predette trovo riscontri molto chiari, na apparisce in uno istrumento del 13 di settembre 1277 che Messer Tolomeo Tolomei rinunzia a Messer Ranieri Vescovo di Volterra le cave d’Argento di Montieri; anzi che nel 1257 si trova che il Vescovo Galgano II, come dice il Giovannelli, concede a Guido Tolomei licenza di batter moneta nel Comune di Montieri. Apparisce ancora un indulto di Carlo IV Imperatore dato in Pisa (s’io non ho male inetso) sotto il dì 22 maggio 1355 dove esenta Filippo Vescovo di Volterra dal pagamento di 60 marche d’Argento per esser mancate le miniere di Montieri, mediante la peste e la guerra. Queste cave d’Argento in Montieri furono molto famose e furono ritrovate da alcuni de Tolomei Gentil huomini Senesi l’anno 1175 nel tempo apunto che viveva S.Galgano e tuttavia si vedono dette cave et il paese all’intorno pieno di loppe e ceneracci. Ma più cospicue sono le cave del Rame delle quali la più moderna è quella di M.Catini fatta aprire et esercitare fino l’anno 1580 dalla felice memoria del Gran Duca Francesco e poi tralasciata alla sua morte per essersi gl’altri Principi successori più applicati ad altre gloriose imprese. Questa miniera s’estende per lungo tratto sotto le radici d’alti Monti per la schena de quali si vedono molte buche che servivano per l’esalazione de fiati e vi sono diverse caverne più basse per le quali si dava l’esito all’acque. Ma la cava reale ha un ampia bocca in hoggi tutta ripiena d’acqua poiché si può credere che gl’esiti per i quali si smaltisca siano otturati.
Nel territorio di Monte Rotondo di questa Diocesi vi sono pozzi molto spessi e di quivi ancora fu già cavato il Rame vedendovisi gran quantità di loppe e di Marcassite con segni evidenti della miniera.
Ma sopramodo meravigliose sono le cave del rame nel
territorio di Prata anch’egli sottoposto in spirituale a questo Vescovo,
ma in temporale territorio senese, dove nel luogo che si chiama piano di
Sierli sono quelle famose miniere dette Porta di ferro dalle quali
si cavava il Rame con un poco d’Argento e da persona che l’ha riconosciute
d’ordine del Serenissimo principe Mattias mi vie
referto che entrato egli con sei huomini per li Cavi Reali e per gl’altri
minori e camminando per le viscere della terra e talvolta andando carpone e
passando molti pericoli d’animali sotterranei e d’acque freddissime e correnti,
videro esserci quasi un labirinto di strade e stradelle che dura quasi due miglia
senza però potere andare in ogni luogo perché molti viali sono ricoperti dalle
rovine. Trovorono ivi la miniera del rame con i suoi filoni e più di 300 pozzi
i quali vanno a ferire i Cavi ma per lo più guasti e rovinati et i Cavi
medesimi sono grandissimi stanzoni e di vastezza così mostruosa che sarebbe
incredibile il dire la loro vastità. Sono ancora le cave del Rame vicino al
Castello di Monte Cerbero et a i lagoni grandi de i quali ho fatto menzione
et il luogo si dice le Maltagliate. Quivi oltre alla bocca della Cava
si vedono diversi pozzi per l’esito dell’aria, onde si conosce essere state per
lungo tempo esercitate et a i nostri tempi hanno quei paesani trovati sotto
terra grossi pani di Rame lavorato et uno tra gl’altri ne venderono più di
venti scudi.
A Miemo luogo parimente di questo territorio in un
poggio che si dice il poggio di Miemo sono pur anche le Cave del Rame e
tuttavia vi si trovano da quei del luogo dei pezzetti di Rame purgato siche si
vede essere state ancor’queste alcune volte esercitate.
Il Piombo trovo essere stato cavato in due luoghi: l’uno a Monte
Cerbero luogo detto il botro a Tracolle, e trovo essere stata
questa miniera esercitata dalla famiglia de Broccardi circa l’anno 1560, ma in
hoggi l’edifizio è rovinato e solo se ne vedono le vestigie e quivi
all’intorno quantità di ceneracci; l’altro è nel Comune di Monte Rotondo,
ma di questo ne ho poca cognizione.
Delle Cave del ferro non ho notizia se non d’una nel Comune
di Castel Nuovo a canto al fiume Pavone, ma non son ben certificato se quivi fusse la miniera o seppure la
portassero d’altrove a quocere perché quei Paesani non ne mostrano vestigia.
Si vede ben chiaro che quivi era il forno
dove il ferro si purgava vedendovisi all’intorno quantità grande di loppe e di
purgami.
Vengo adesso alle Cave deH’Allume delle quali una ne è
vicina ai sopradetto luogo ove ho detto che si purgava il ferro e
vi si vedono tuttavia quattro fornelli murati per servizio
d’essa fabrica d’Allume et ivi contiguo in un picciolo monticello vi son molte buche profonde donde si cavava la terra alluminosa,
e queste Cave furono esercitate dalla famiglia de Pallini di Castel Nuovo circa
l’anno 1570.
Nel Comune del Sasso
vi sono quelle Cave d’Allume memorabili per haver dato causa alla guerra di Volterra et alla perdita della
sua libertà l’anno 1472. Erano queste fertilissime vedendovisi grandissimi
residui di fornelli e d’habitazioni e molti monacelli di terra colata.
A Monte Rotondo vi è
una bella Cava d’Allume la quale fu dismessa quando Ariadeno Barbarossa famoso
Console Turco prese a infestare i nostri mari perché allora restò interrotto
l’esito della mercanzia, tanto più essendo occorse in quei tempi le guerre di
Siena mediante le quali hebbero queste miniere l’ultimo tracollo. Parimente in
detto territorio vi è un altra bella miniera d’Allume dove il Botro della
Dirutta mette nel fiume Risecco da una parte del Monte Leo
luogo detto la Maionica, e questa cava fu esercitata lungo tempo, ma
poi tralasciata per interesse delle Cave della Tolfa nello stato della Chiesa.
Pagina manoscritto di R. Maffei
Non meno è abondante questo territorio di Vetriolo perché una miniera se ne trova nel Comune del Sasso vicino al Castello un quarto di miglio, ma in hoggi le buche sono ripiene e più non s’esercitano. Nel Comune di Libbiano v’erano due cave di Vetriolo: l’una si dice la Giunca, e vi si vedono ancora i fondamenti dell’edifizio e due profondissime buche dalle quali si cavava la terra; l’altra pure in detto Comune chiamata le Cave di Tigugnano, e di questa ho una memoria nella quale si dice che queste cave fossero molto migliori che quelle dette di sopra della Giunca perché in queste l’acqua non dava impedimento e la terra era migliore facendovisi il Vetriolo senza ferro oltre all’essere il paese più comodo per la terra e per le legna e la terra medesima più feconda di miniera questa che quella.
A Monte Rotondo vi sono due Cave di Vetriolo le quali si sono esercitate a i tempi nostri et anco in parte s’esercitano al presente da i Baldassarrini di quel luogo; l’una per essere assai attaccata all’allume et al solfo fa molta feccia, ma col fuoco si purga e se ne fa buon Vetriolo. L’altra pure in detto Comune luogo detto il Lago partecipa anche essa un poco di solfo; cavasi in terra e non in Marcassita et è stimato questo Vetriolo molto buono per la tinta della seta perché è dolce al pari d’ogn’altro.
A Serrazzano ancora
sono simili Cave ma non s’ha memoria quando sono state esercitate.
A Porcignano villa cinque miglia di qui lontano ve ne sono cave molto buone le quali à tempi nostri sono state esercitate da Gentil huomini di questa Città ma poi tralasciate perché la fertitilità e la bontà di quelle della Sdriscia l’ha superate. Queste dunque della Sdriscia che sono nel Vescovado di Volterra ma nel Contado di Firenze sono le più famose et esercitate e che tuttavia s’esercitano con frutto et utile grande, e se bene da parecchi anni indietro erano in disastro furono.poi mediante l’industria e la diligenza de Sig.ri Attavanti di Firenze rimesase in stato florido nel quale si mantengono ancora con fabricare quantità grande di Vetriolo.
Havendo io
de sali parlato altra volta restami solamente a dire circa la miniera di
zolfo. Di questo se ne trovano di due sorte cioè il nero et il giallo. Il nero
non è punto inferiore al giallo nelle sue qualità et di questo se ne trova
assai nel contado di Libbiano et in particolare in una possessione che
si chiama Fonte Bagni et si trova in miniera pura che per lo più ha
poco bisogno d’esser purgata dal fuoco. Furono queste miniere di zolfo
esercitate già dalla famiglia de Guidi di questa Città i quali ne traevano buon
profitto, ma in hoggi…
NOTE BIBLIOGRAFICHE
E.FIUMI – L’utilizzazione
dei lagoni boraciferi della Toscana nell’industria medievale. Firenze,
Dott. Carlo Cya, 1943.
Cfr. anche A.MENICONI
– Studi antichi e recenti sulle miniere medievali in Toscana: alcune considerazioni,
in: “Ricerche Storiche”, anno XIV, n.1, gennaio-aprile 1984, pp.203-226.
G.TARGIONI TOZZETTI – Relazioni
d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana. 2.ed., Firenze,
Stamperia Granducale, t.lll, 1769, p.104.
Cfr. in proposito
R.S.MAFFEI – Di Zaccaria Zacchi pittore e scultore volterrano (1474-1544).
Volterra, Sborgi, 1905, p.17.
L.ALBERTI – Descrittione
di tutta Italia. In Bologna, per Anseimo Giaccarelli, 1550 (territorio
volterrano: cc. 49r-51v).
M.GIOVANNELLI – Cronistoria
dell’antichità e nobiltà di Volterra. In Pisa, appresso Giouanni Fontani,
1613 (territorio volterrano: pp. 59-67).
Descrizione
dell’antica e nobile città di Volterra fatta da Giovanni Rondinelli Capitano
l’anno 1580. Volterra, Biblioteca
Guarnacci, Ms.8467 (LXII.7.16).
L.FALCONCINI – Storia
dell’antichissima città di Volterra. Scritta latinamente da Lodovico
Falconcini e voltata in italiano dal Sac.Berardo Berardi.
Firenze- Volterra, Sborgi, 1876 (territorio
volterrano: pp.539-597).
cfr. A.K.ISAACS – Volterra nel Cinquecento: alcune prospettive di
ricerca, in: “Bollettino storico pisano”, anno LVIII, 1989, pp.189-205.
R.MAFFEI – Discorso sopra i residui d’antichità di Volterra.
Bagni e acque termali. Saline e acque salse. Minerali, metà sec. XVII.
Volterra. Biblioteca Guarnacci, Ms.5819 (Lll.5.2).
Per la vita e le opere
del Provveditore Raffaello Maffei cfr.
R.S.MAFFEI – Vita di Raffaello Maffei. In: Storia volterrana del Provv. Raffaello Maffei, a cura di Annibaie Cinci. Volterra, Sborgi, 1887, pp.
VII-LX.
E.FIUMI, op. cit.,
p.71.
Cfr. B.LOTTI – Descrizione
geologico-mineraria dei dintorni di Massa Marittima in Toscana. Mem. Descr.
Carta Geol. d’lt.,vol.VIII, Roma, 1893, pp.114-115 e id. – Geologia della Toscana. Mem. Descr. Carta Geol. d’lt.,
vol. XIII, Roma, 1910, pp.334-335.
Cfr. in proposito
A.MARRÙCCI – Le miniere di rame del Podere ‘‘La Corte”, in: “La
Comunità di Pomarance”, anno III, 1989, n.2, pp.10-13.
Si veda anche M.BOCCI
– Curiosità storicominerarie del circondario di Volterra, in:
“Volterra”, anno VI, n.12, dicembre 1967, pp.20-22.
Cfr. in proposito
G.BATISTINI – / vetrioli nelle zone del volterrano, in: “Rassegna
Volterrana”, LXIII-LIV, 1987-1988, pp.3-19.
Sulle cave della
Striscia si veda G. TARGIONI TOZZETTI, op. cit., pp.112-117 e
S.ISOLANI – Storia politica e religiosa dell’antica comunità di Montigno- so
Valdelsa. Volterra, Tip. Carnieri, 1919, pp.120-123. *) I.GUIDI – De
Mineralibus. Venetiis, apud Thomam Ballionum, MDCXXV, p.1
Se vi ha
paese, che offra copia e varietà di minerali, egli è senza dubbio nella nostra
Italia questa prediletta Toscana… È noto che fin dalla più remota antichità
qui da noi si cavavano miniere… e di quest’arte antichissima restano le vestigia nei
pertugi delle montagne…’’.(1)
Non è certo questa la sede per evidenziare
ancora una volta il ruolo svolto dalle risorse minerarie (nella fattispecie
sali e metalli) nella storia economica della Toscana medievale; una
regione in cui il sottosuolo si presentava particolarmente ricco di minerali
utili in giacimenti di rilevante interesse economico e la cui storia mineraria
risulta per noi tanto più interessante se consideriamo che in quest’area “se
ne togli qualche argentiera e ferriera di Lunigiana e Garfagnana, e qualche
altra nell’alta Valle delTArno, su le terre dei Conti Guidi, tennero innanzi
tutto la palma i territori di Volterra e Massa- Populonia…”.(2)
La conoscenza di questo aspetto della
storia economica toscana vanta infatti studi fondamentali e illuminanti come
quelli di VOLPE e di FIUMI,(3) anche se manca tuttavia un’opera di
ricostruzione complessiva delle operazioni intraprese, delle relazioni con la
metallurgia coeva, delle attività economiche indotte. Fortunatamente però
negli ultimi anni questo contesto di studi è andato suscitando sempre più
l’interesse dei ricercatori, arricchendosi così di nuovi lavori tesi ad aggiungere
nuove tessere a questo complesso mosaico.(4)
Per quanto riguarda il territorio di Montecastelli, la sua grande attrattiva economica fin dall’antichità è stata rappresentata dalla notevole presenza di “vene di oro, argento e rame”(5) nella valle del Pavone: la costituzione geologica, le evidenze mineralogiche, la documentazione storico-archivistica e, non ultime, le vestigia esterne e la grande estensione dei lavori intrapresi sul fondo della stretta e profonda gola posta fra Montecastelli e Rocca Sillana, rappresentano una sicura testimonianza dell’importante ruolo avuto da questa zona nella storia mineraria della Val di Cecina. In quest’area le ricerche e le escavazioni effettivamente documentate rimontano infatti, a quanto sembra, alla fine del sec. XII – inizio del sec. XIII, ovvero al periodo in cui il Vescovo di Volterra Ildebrando Pannocchieschi “ebbe libertà e comodità di ricoltivare lungo il fiume Pavone le miniere di rame, piombo argentifero e forse oro ”.(6) Successivamente, sappiamo che uno dei Vescovi di Volterra, proprietari di queste miniere, le dette in affitto agli Incontri di Siena “con patto che d’ogni dieci libbre d’Argento che cavassero, gliene dovessero dare una da mettersi sotto il conio’’.{7) Esse poi appaiono ricordate nei documenti d’archivio dell’inizio del Trecento come “argenterie et a u ri fodin is ”,(8) comparendo cioè genericamente negli atti comunitativi al pari degli altri beni conosciuti e ormai certi sui quali veniva esercitata giurisdizione nel territorio di Montecastelli. Tuttavia, come fatto giustamente osservare da FIUMI, “più che la prova di un’attività escavatrice in atto, potrebbe ritenersi che gli strumenti registrati nelle carte di comunità alludessero a stabilire un diritto in potenza; ma è certo che nel corso dei secoli si ritrovano in quei luoghi segni di sfruttamento precedente e vestigia. Ciò è specialmente evidente per le cave di Montecastelli...”.(9) A conferma infatti dell’attività di queste miniere nel corso del XIV secolo sta ad esempio la notizia che nel 1352 il Vescovo di Volterra Filippo Beiforti affittò a tre montierini “due cave di argento e rame o altro metallo poste nel territorio di Montecastelli sopra il fiume Pavone fra Silano e Montecatelli” a condizione che essi dessero a lui o ai suoi successori “la ventiquattresima parte di ogni metallo scavato’ ’.(10)
Anche Lodovico FALCONCINI, nel corso del Cinquecento,
ricorda queste miniere di argento e rame “feracissime di detti metalli’’,
ubicate precisamente “presso la riva del torrente Pavone, nella quale sono
state trovate anche oggi delle piscine in cui si lavava la gleba d’argento… ”
e riporta di avere appreso che “perdue volte vi è stato cavato argento e rame per molti anni
continui ogni volta, da duecento anni in qua ad istanza del Vescovo di
Volterra allora signore di quelle miniere. Il luogo poi ov’esse si trovano
appellasi Montepelato o Monte dell’Oro”.
Nel 1580, inoltre il Capitano Giovanni RONDINELLI accenna telegraficamente all’esistenza di queste miniere senza specificare se esse si trovassero allora in attività.(1 2) In realtà nel corso del Quattrocento e, soprattutto, del Cinquecento le operazioni minerarie in questa zona dovettero inarrestabilmente declinare svolgendosi prima in modo saltuario e occasionale per poi cessare del tutto fino al 1584, quando Bernardo Giorgi, ministro economo delle miniere del Granducato, in una lettera diretta al Granduca di Toscana descrisse le consistenti potenzialità minerarie della zona, perorando con entusiasmo la pronta riattivazione dei lavori: “… sotto braccia 11 si trova della miniera assai e di miglior qualità che la prima che si manda di saggio… e la miniera va per filoni e non a noccioli come quella di Montecatini ed io ci ho grande speranza’ ’.(13)
Ho ritenuto opportuno proporre questa lunga introduzione
proprio per mostrare come tutte le fonti storiche note in materia facciano
riferimento unicamente alle miniere poste nella valle del Pavone, indiscutibilmente
le più ricche e fertili di questa terra, e trascurino invece, se si eccettuano
le generiche attestazioni di diritti “in potenza’’, tutte le altre
analoghe (ma forse allora sconosciute) evidenze minerarie della zona.
Tuttavia alcuni documenti conservati nella Biblioteca
Guarnacci di Volterra e finora inediti(14) consentono oggi di ampliare, anche
se pur di poco, le conoscenze relative alla storia mineraria della terra di
Montecastelli, allargando il campo d’indagine a un’area finora mai citata in
letteratura, ovvero quella delle pendici orientali del paese digradanti verso
la valle del Cecina.
La filza 57 dell’Archivio Maffei contiene infatti tre documenti del 1605 e una mappa
presumibilmente coeva relativi alla scoperta di una nuova “cava” di rame
in località Casa delle Pàstine.
A un’esame sommario i tre documenti sembrano testimonianze
rese fra il 19 e il 20 febbraio 1605 a un processo istituito per dirimere la
controversa causa sull’effettiva paternità della scoperta, e, come detto,
assumono particolare rilievo perché per la prima volta l’area d’interesse
minerario si situa fuori della valle del Pavone; essi permettono pertanto di arricchire
la topografia storica delle escavazioni minerarie e dei tentativi operati
nella zona di Montecastelli.
Esaminiamo dapprima i tre
documenti:
Addi 19 di febraio 1605
tassi fede per me Bastiano di Sisto Ghilli da Monte Castelli come la verità è che sotto il dì 8 del presente mese volevamo andare a Firenze Marco di Giovan Paulo
Pieralli e io venne Domenico di Matteo Bernardi di detto loco et disse che voleva che noi portassi dua o vi ero tre pezuol
di miniera di rame alla galleria la quale dette al sopra detto Marcho che la portase et andando detto Marcho et lo Bastiano sopra detto.
Insieme permisino a
Pogibonsi et lo Bastiano andai innanzi et arrivando detto Marcho il di dieci
stante mi disse avere portato detta miniera alla galleria di S.A.S. et che non
aveva trovato il provveditore ma che si bene vi voleva tornare per la risposta
et per fede del vero lo Bastiano soprascritto o schritto di mia propria mano.
Adì 20 di febraio 1605
Fede per me Piero di
Giusto d’Agusti no dal Bagnano Contado di Firenze come la verità è che! giorno
di Carnovale prossimo passato fui chiamato da Domenico di Matteo Bernardi da
Monte Castelli, a lavorare alla Cava del Fame del luogo detto alle Pastine
insieme et in compagnia di Mario di Luca lavorante in detto luogho, et in
mentre che lavoravamo detto Domenico disse a me Piero mentre che cavava
l’acqua per poter lavorare, disse Piero domanda Mario chi trovò detto filone,
et detto Mario disse Domenico et di più mi disse zappa qui, et in poche zappate
trovammo il segno, et allora detto Piero disse harete cento scudetti, et
lavorammo insino a notte, et cavammo della miniera, et la presi addosso, et
la pesammo in casa di Messer Domenico
et fu libbre trenta et di tanto dico essere la verità, et per fede dico a
preghato me Antonio Cial… Prete di Monte Castelli, che a nome suo facci da
fede, perché le disse non sapere scrivere et tutto o fatto alla prese ntia del
li infrascritti testimoni lo Bastiano di Sisto Ghilli fui presente quando detto
Piero fece detta fede al sopra detto Domenico et disse essere la verità di
quanto di sopra si contiene et in fede di mia propria mano o scritto lo
Giovani Diacomo di Baco fui presente quato di sopra se rito in fede scrisi.
Adì 20 di febraio 1605Comparse avanti me Cosimo fu Provveditore di Volterra Michelangelo di Santi da Cerbaiola del Vicariato di Monti Castelli e disse che la miniera che si è scoperta nei beni di detto Santi suo Padre luogo detto le Pastine, la prima che si è scoperta fumo dua oprai che vi messino a far della legna, cioè Santi di Carlotto e Baldassarre che ne trovonno circa libbre 30, che l’hebbe Domenico fabro, e Mario di Luca lavoratori a Cerbaiola scoperse la vena della Cava in detto luogo, e me ne ha scoperto in un altro luogo acanto alla Casa dell’Aia e fra tutti dua questi luoghi ne ha cavata all’Aia 60 libbre e più il detto Mario ne ha cavata fra tutti i luoghi circa 200 libbre e tutta la hauta Domenico fabro, che la pagata parsi soldi 4 la libbra et disse che detto Domenico li ha volsuti dare uno scudo acciò dica che l’habbi trovata detto Domenico.
Se vi ha
paese, che offra copia e varietà di minerali, egli è senza dubbio nella nostra
Italia questa prediletta Toscana… È noto che fin dalla più remota antichità
qui da noi si cavavano miniere… e di quest’arte antichissima restano le vestigia nei
pertugi delle montagne…’’.(1)
Non è certo questa la sede per evidenziare ancora una volta il ruolo svolto dalle risorse minerarie (nella fattispecie sali e metalli) nella storia economica della Toscana medievale; una regione in cui il sottosuolo si presentava particolarmente ricco di minerali utili in giacimenti di rilevante interesse economico e la cui storia mineraria risulta per noi tanto più interessante se consideriamo che in quest’area “se ne togli qualche argentiera e ferriera di Lunigiana e Garfagnana, e qualche altra nell’alta Valle delTArno, su le terre dei Conti Guidi, tennero innanzi tutto la palma i territori di Volterra e Massa Populonia…”.(2)
La conoscenza di questo aspetto della
storia economica toscana vanta infatti studi fondamentali e illuminanti come
quelli di VOLPE e di FIUMI,(3) anche se manca tuttavia un’opera di
ricostruzione complessiva delle operazioni intraprese, delle relazioni con la
metallurgia coeva, delle attività economiche indotte. Fortunatamente però
negli ultimi anni questo contesto di studi è andato suscitando sempre più
l’interesse dei ricercatori, arricchendosi così di nuovi lavori tesi ad aggiungere
nuove tessere a questo complesso mosaico.(4)
Per quanto riguarda il territorio di Montecastelli, la sua grande attrattiva economica fin dall’antichità è stata rappresentata dalla notevole presenza di “vene di oro, argento e rame”(5) nella valle del Pavone: la costituzione geologica, le evidenze mineralogiche, la documentazione storico-archivistica e, non ultime, le vestigia esterne e la grande estensione dei lavori intrapresi sul fondo della stretta e profonda gola posta fra Montecastelli e Rocca Sillana, rappresentano una sicura testimonianza dell’importante ruolo avuto da questa zona nella storia mineraria della Val di Cecina. In quest’area le ricerche e le escavazioni effettivamente documentate rimontano infatti, a quanto sembra, alla fine del sec. XII – inizio del sec. XIII, ovvero al periodo in cui il Vescovo di Volterra Ildebrando Pannocchieschi “ebbe libertà e comodità di ricoltivare lungo il fiume Pavone le miniere di rame, piombo argentifero e forse oro ”.(6) Successivamente, sappiamo che uno dei Vescovi di Volterra, proprietari di queste miniere, le dette in affitto agli Incontri di Siena “con patto che d’ogni dieci libbre d’Argento che cavassero, gliene dovessero dare una da mettersi sotto il conio’’.{7) Esse poi appaiono ricordate nei documenti d’archivio dell’inizio del Trecento come “argenterie et a u ri fodin is ”,(8) comparendo cioè genericamente negli atti comunitativi al pari degli altri beni conosciuti e ormai certi sui quali veniva esercitata giurisdizione nel territorio di Montecastelli. Tuttavia, come fatto giustamente osservare da FIUMI, “più che la prova di un’attività escavatrice in atto, potrebbe ritenersi che gli strumenti registrati nelle carte di comunità alludessero a stabilire un diritto in potenza; ma è certo che nel corso dei secoli si ritrovano in quei luoghi segni di sfruttamento precedente e vestigia. Ciò è specialmente evidente per le cave di Montecastelli...”.(9) A conferma infatti dell’attività di queste miniere nel corso del XIV secolo sta ad esempio la notizia che nel 1352 il Vescovo di Volterra Filippo Beiforti affittò a tre montierini “due cave di argento e rame o altro metallo poste nel territorio di Montecastelli sopra il fiume Pavone fra Silano e Montecatelli” a condizione che essi dessero a lui o ai suoi successori “la ventiquattresima parte di ogni metallo scavato’ ’.(10)
Anche Lodovico FALCONCINI, nel corso del Cinquecento,
ricorda queste miniere di argento e rame “feracissime di detti metalli’’,
ubicate precisamente “presso la riva del torrente Pavone, nella quale sono
state trovate anche oggi delle piscine in cui si lavava la gleba d’argento… ”
e riporta di avere appreso che “perdue volte vi è stato cavato argento e rame per molti anni
continui ogni volta, da duecento anni in qua ad istanza del Vescovo di
Volterra allora signore di quelle miniere. Il luogo poi ov’esse si trovano
appellasi Montepelato o Monte dell’Oro”.
Nel 1580, inoltre il Capitano Giovanni RONDINELLI accenna telegraficamente all’esistenza di queste miniere senza specificare se esse si trovassero allora in attività.(1 2) In realtà nel corso del Quattrocento e, soprattutto, del Cinquecento le operazioni minerarie in questa zona dovettero inarrestabilmente declinare svolgendosi prima in modo saltuario e occasionale per poi cessare del tutto fino al 1584, quando Bernardo Giorgi, ministro economo delle miniere del Granducato, in una lettera diretta al Granduca di Toscana descrisse le consistenti potenzialità minerarie della zona, perorando con entusiasmo la pronta riattivazione dei lavori: “… sotto braccia 11 si trova della miniera assai e di miglior qualità che la prima che si manda di saggio… e la miniera va per filoni e non a noccioli come quella di Montecatini ed io ci ho grande speranza’ ’.(13)
Ho ritenuto opportuno proporre questa lunga introduzione
proprio per mostrare come tutte le fonti storiche note in materia facciano
riferimento unicamente alle miniere poste nella valle del Pavone, indiscutibilmente
le più ricche e fertili di questa terra, e trascurino invece, se si eccettuano
le generiche attestazioni di diritti “in potenza’’, tutte le altre
analoghe (ma forse allora sconosciute) evidenze minerarie della zona.
Tuttavia alcuni documenti conservati nella Biblioteca
Guarnacci di Volterra e finora inediti(14) consentono oggi di ampliare, anche
se pur di poco, le conoscenze relative alla storia mineraria della terra di
Montecastelli, allargando il campo d’indagine a un’area finora mai citata in
letteratura, ovvero quella delle pendici orientali del paese digradanti verso
la valle del Cecina.
La filza 57 dell’Archivio Maffei contiene infatti tre documenti del 1605 e una mappa
presumibilmente coeva relativi alla scoperta di una nuova “cava” di rame
in località Casa delle Pàstine.
A un’esame sommario i tre documenti sembrano testimonianze
rese fra il 19 e il 20 febbraio 1605 a un processo istituito per dirimere la
controversa causa sull’effettiva paternità della scoperta, e, come detto,
assumono particolare rilievo perché per la prima volta l’area d’interesse
minerario si situa fuori della valle del Pavone; essi permettono pertanto di arricchire
la topografia storica delle escavazioni minerarie e dei tentativi operati
nella zona di Montecastelli.
Esaminiamo dapprima i tre
documenti:
Addi 19 di febraio 1605
tassi fede per me Bastiano di Sisto Ghilli da Monte Castelli come la verità è che sotto il dì 8 del presente mese volevamo andare a Firenze Marco di Giovan Pauol
Pieralli e io venne Domenico di Matteo Bernardi di detto loco et disse che voleva che noi portassi dua o vi ero tre pezuo
di miniera di rame alla galleria la quale dette al sopra detto Marcho che la portase et andando detto Marcho et lo Bastiano sopra detto.
Insieme permisino a
Pogibonsi et lo Bastiano andai innanzi et arrivando detto Marcho il di dieci
stante mi disse avere portato detta miniera alla galleria di S.A.S. et che non
aveva trovato il provveditore ma che si bene vi voleva tornare per la risposta
et per fede del vero lo Bastiano soprascritto o schritto di mia propria mano.
Adì 20 di febraio 1605
Fede per me Piero di
Giusto d’Agusti no dal Bagnano Contado di Firenze come la verità è che! giorno
di Carnovale prossimo passato fui chiamato da Domenico di Matteo Bernardi da
Monte Castelli, a lavorare alla Cava del Fame del luogo detto alle Pastine
insieme et in compagnia di Mario di Luca lavorante in detto luogho, et in
mentre che lavoravamo detto Domenico disse a me Piero mentre che cavava
l’acqua per poter lavorare, disse Piero domanda Mario chi trovò detto filone,
et detto Mario disse Domenico et di più mi disse zappa qui, et in poche zappate
trovammo il segno, et allora detto Piero disse harete cento scudetti, et
lavorammo insino a notte, et cavammo della miniera, et la presi addosso, et
la pesammo in casa di Messer Domenico
et fu libbre trenta et di tanto dico essere la verità, et per fede dico a
preghato me Antonio Cial… Prete di Monte Castelli, che a nome suo facci da
fede, perché le disse non sapere scrivere et tutto o fatto alla prese ntia del
li infrascritti testimoni lo Bastiano di Sisto Ghilli fui presente quando detto
Piero fece detta fede al sopra detto Domenico et disse essere la verità di
quanto di sopra si contiene et in fede di mia propria mano o scritto lo
Giovani Diacomo di Baco fui presente quato di sopra se rito in fede scrisi.
Adì 20 di febraio 1605Comparse avanti me Cosimo fu Provveditore di Volterra Michelangelo di Santi da Cerbaiola del Vicariato di Monti Castelli e disse che la miniera che si è scoperta nei beni di detto Santi suo Padre luogo detto le Pastine, la prima che si è scoperta fumo dua oprai che vi messino a far della legna, cioè Santi di Carlotto e Baldassarre che ne trovonno circa libbre 30, che l’hebbe Domenico fabro, e Mario di Luca lavoratori a Cerbaiola scoperse la vena della Cava in detto luogo, e me ne ha scoperto in un altro luogo acanto alla Casa dell’Aia e fra tutti dua questi luoghi ne ha cavata all’Aia 60 libbre e più il detto Mario ne ha cavata fra tutti i luoghi circa 200 libbre e tutta la hauta Domenico fabro, che la pagata parsi soldi 4 la libbra et disse che detto Domenico li ha volsuti dare uno scudo acciò dica che l’habbi trovata detto Domenico.
Mappa del Borgo di Montecastelli del Seicento
Come si può notare, anche se la vicenda appare intricata,
assai chiara risulta invece la ben ferma e determinata posizione di Domenico
di Matteo Bernardi di Montecastelli, intenzionato ad aggiudicarsi con ogni
mezzo la scoperta del nuovo giacimento che doveva fargli presagire chissà
quali speranze di ricchezza.
Dell’esito di questa vicenda non abbiamo notizie, ma
certamente l’escavazione della nuova vena di minerale non ebbe alcun seguito
di rilievo visto che le sue tracce documentarie si perdono e che anche le
estese e attente ricerche intraprese in tutta l’area nel corso dell’ottocento e
nella prima metà di questo secolo non ne hanno dato alcun riscontro.
Particolarmente importante per ricostruire topograficamente la zona agli inizi del Seicento risulta però la mappa allegata ai documenti: in essa appare chiaramente descritto il borgo di Montecastelli con la sua possente torre a base quadrata e le due porte contrapposte a Bucignano e a Gabbro, elementi questi che permettono di orientare la carta e di posizionare nelle sue linee generali il nuovo giacimento. Dai pressi della porta a Gabbro si dipartiva la strada per Volterra che potrebbe forse corrispondere oggi alla strada che, diretta da Montecastelli a Cerbaiola, finisce poi in Bocca di Pavone: da qui essa andava probabilmente a congiungersi con l’antica Via Maremmana nel suo tratto di fondovalle fra Volterra e Pomarance. Per quanto riguarda l’esatta identificazione topografica della Casa delle Pàstine essa è resa difficile dal fatto che questo toponimo risulta oggi pressoché sconosciuto agli abitanti di Montecastelli. Occorre pertanto procedere all’interpretazione diretta della pianta avendo cura di tenere ben presenti sia le caratteristiche strutturali dell’area in questione sia le condizioni geominerarie (presenza di masse o lembi di ofioliti, esistenza di faglie o contatti ecc.) compatibili con la presenza di mineralizzazioni di rame.(15) Ebbene, in base a tali criteri e coerentemente aH’orientamento degli elementi pianimetrici raffigurati nel disegno, la zona descritta dovrebbe coincidere con quella oggi compresa fra i Poderi Casina e Catro e C. Suveretine (o Sugheretino), ovvero un’area in cui compaiono affioramenti di ofioliti (serpentina e gabbro) e contatti (anche per faglia) sia tra le stesse “pietre verdi’’ che tra queste e le altre formazioni geologiche.
In realtà il terzo documento parla anche
di un altro luogo in cui fu rinvenuta “la vena della cava”, e cioè “acanto
Casa dell’Aia’’, ma anche questo toponimo risulta oggi di difficile
identificazione in quanto, oltretutto, non figura neppure sulla mappa.
Per l’interpretazione delle distanze
riportate nel disegno basti sapere che un braccio corrispondeva a circa 60
centimetri. Per meglio collocare storicamente questa vicenda diremo che in quel
periodo i lavori alla “cava vecchia’’ del Pavone, nonostante le grandi
speranze lasciate intravedere da Bernardo Giorgi, dovevano languire o essere
del tutto fermi visto che, tranne un infelice tentativo attuato nel 1636, gli
sforzi dei Medici per riattivare le due importanti miniere di Montecatini Val
di Cecina e di Montecastelli risultarono nulli e “sino al 1751 ni uno pensò
né a MonteCastelli né a Montecatini’’.(16) Appare pertanto più che
comprensibile, in questo periodo di contrazione, di ristagno o addirittura di
abbandono delle attività minerarie nella zona, l’invio di alcuni campioni di
minerale del nuovo giacimento alla “galleria di Sua Altezza Serenissima’’
con lo scopo e la speranza di poter vedere confermati il valore e l’importanza
della scoperta e di poter quindi suscitare una nuova ripresa delle ricerche e
un fruttuoso interessamento economico alla coltivazione del filone. Si
trattava in pratica di veder sancita e dischiusa tutta una serie di preziose
possibilità economiche.
Come si può
comprendere, anche per quanto riguarda il caso appena illustrato si tratta di
una piccola testimonianza che riemerge dal passato, una piccola tessera da
aggiungere al mosaico: pochi dati che però possono contribuire ad accrescere
le conoscenze sulla microstoria economica e sociale di Montecastelli, una terra
che appariva ricca di ambiti metalli e il cui sottosuolo, assieme alle diffuse
mineralizzazioni, sembrava fornire alterne ma convincenti prospettive alle
attività minerarie, accendendo così a più riprese, nel corso dei secoli, le
più rosee speranze di ricchezza.(17)
Angelo MARRUCC1
NOTE BIBLIOGRAFICHE
G. D’ACHIARDI – Mineralogia
della Toscana. Pisa, 1872-73. p.1.
G. VOLPE – Montieri:
costituzione politica, struttura sociale, attività economica d’una terra
mineraria toscana nel secolo XIII. In: Maremma, anno I (1924),
fase. 1, p. 29.
E. FIUMI – L’utilizzazione
dei lagoni boraciferi della Toscana nell’industria medievale.
Firenze, Dott. Carlo Cya, 1943.
Cfr. ad es. A.
MENICONI – Studi antichi e recenti sulle miniere medievali in Toscana: alcune
considerazioni. In: Ricerche Storiche, anno XIV, n.1 gennaio-aprile
1984. pp. 49-56.
G. VOLPE – op. cit.,
p. 31.
M. BOCCI – Montecastelli
Valdicecina. In: TAraldo, anno XLII, n. 25, 25 giugno 1972, p. 4.
G. TARGIONI-TOZZETTI –
Relazioni d’al- cuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana. Firenze,
Stamperia Granducale, 1769-74, t. VII, p. 392.
A.S.C.V. – Filza S
nera 1 c.127r: Il documento reca la data 19 settembre 1301: esso va quindi
postdatato rispetto al 1285, come riportato da Fiumi (cfr. nota 3, p. 71).
E. FIUMI – op. cit. p.
71.
M. CAVALLINI – Notizie
e spogli d’archivio. In: Rassegna Volterrana, anno I (1924), fase.
Il, p. 84.
L. FALCONCINI – Storia
dell’antichissima città di Volterra. Volterra, Sborgi, 1876, pp. 583-585.
Il toponimo Monte dell’Oro è tuttora presente nella denominazione locale
del profondo e scosceso canalone che sovrasta l’antica miniera di
Montecastelli detto, appunto, Vallone (o Borro) di Pietralloro.
B.G.V. – Ms. 8467 (LXII.7.16) – Descrizione dell’antica e nobile
città di Volterra fatta da Giovanni Rondinelli Capitano nel 1580, c.5r.
C. RIDOLFI – D’alcune
miniere della Maremma. Cenni storico-economici per servire all’eccitamento
dell’industria che si occupa di trarne profitto. In: Giornale Agrario
Toscano, n. 24 (1832), tomo VI, p. 495.
B.G.V. – Archivio Maffei, filza 57: si tratta di un opuscolo costituito dalla mappa
ripiegata e dalle tre lettere; la mappa reca sul dorso: scritture della
Cava di Rame.
Cfr. la Carta
archeologica dell’alta Val di Cecina alla scala 1:25.000 in: A. LAZZAROT-
TO, R. MAZZANTI – Geologia dell’alta Val di Cecina. Boll. Soc. Geol. It., 95(6),
1976, pp. 1365-1487.
C. RIDOLFI – Op. cit.
p. 495.
Evidenti limiti di spazio e di opportunità m’impediscono di occuparmi in questa sede della storia della più celebre e antica miniera di Montecastelli, se non per brevi cenni relativi al periodo tardo-medievale. In realtà la coltivazione di questa miniera assunse il maggiore sviluppo nel corso dell’ottocento dando luogo a vestigia e lavori sotterranei di grande interesse per l’archeologia industriale del nostro territorio. Su tutta questa storia intendo tuttavia tornare più a lungo in altra occasione col necessario e prezioso apporto di planimetrie e dati tecnici e col contributo di un’adeguata trattazione.
Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.
La Storia Continua
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