IL PANE

LA PREPARAZIONE NELLA TRADIZIONE CONTADINA

Nell’alimentazione contadina il pane era il cibo assoluto, il nutrimento per ec­cellenza. Tutti gli altri cibi si riassumeva­no in una sola parola “companatico” a ribadire il loro carattere secondario, in quanto non indispensabili e non sempre disponibili.

Questa situazione si è saldamente radi­cata attraverso i secoli tanto che, in un mondo ormai regno del “companatico”, il pane rimane per molti un punto di rife­rimento dell’alimentazione quotidiana, certo più per abitudine che per reale bi­sogno nutritivo.

Di norma nella tradizione contadina il pa­ne si preparava una volta alla settimana o per meglio dire “ogni otto giorni”.Per una decina di persone occorreva cuoce­re circa venti pani alla volta, per lo più ro­tondi e del peso di due chili ciascuno. Il giorno precedente si preparava la legna necessaria per scaldare il forno e alla sera si metteva il lievito a rinvenire nell’acqua poiché gli otto giorni trascorsi sotto al “monticino” della farina in un angolo del­la madia, lo avevano indurito. La mattina seguente di buon’ora si scaldava l’acqua necessaria nel paiolo di rame, quindi si prelevava dal cassone la farina occorren­te che si stacciava nella madia facendo scorrere lo staccio su di un piedistallo di legno chiamato “reggistaccio”.

L’acqua calda si stemperava in una pen­tola con altra fredda sgorgata dal brocco e la si versava un po’ per volta sulla fari­na distesa nella madia cominciando ad impastare attorno al lievito.

Lavorando con le mani si continuava ad amalgamare l’impasto fino a che, ottenu­ta la necessaria consistenza, si procede­va a staccare da esso le forme dosate a vista che venivano ulteriormente lavora­te una ad una sulla “spianatoia” e poi de­poste su una tavola di legno ricoperta da un telo spolverizzato di farina. Tra una for­ma e l’altra si faceva una piega ondulata al telo quindi si posava l’orlo di un bicchie­re su ogni pane lasciando un’impronta che si riteneva favorisse la lievitazione. A questo punto si copriva il tutto con un lembo del telo lasciato ciondoloni; se fa­ceva freddo si usava anche una coperta di lana e si provvedeva a riscaldare l’am­biente con un braciere posto sotto la ta­vola. Quando le forme cominciavano a lie­vitare si procedeva a scaldare il forno. Si bruciavano più o meno rapidamente al­cune fascine di legna fine finché le lastre laterali accennavano a un colore bianca­stro, a questo punto si mandava la brace tutta da un lato usando una pertica e si spazzava il forno con lo “spazzolo”, infi­ne si faceva “cascare la bronza” cioè si verificava la temperatura del forno intro­ducendovi alcuni rametti di frasca: quan­do le foglie non annerivano voleva dire che era il momento giusto per infornare il pane.

Sollevando il telo si rovesciavano le for­me una ad una su di una mestola e da questa sulla pala poggiata vicino alla boc­ca del forno, quindi si deponevano all’in­terno del forno disponendole di rigiro a co­minciare dal punto più lontano dalla bra­ce; in questo modo si bilanciava il calore per la cottura.

Quando in casa c’era una donna che ave­va da partorire si faceva un panino per prevedere il sesso del nascituro: se si spaccava, si diceva sarebbe stata una femmina, se rimaneva intero si prevede­va la nascita di un maschio.

Dopo circa mezz’ora si apriva il forno e si rovesciavano velocemente tutti i pani per farli cuocere da entrambi i lati; un’o­ra era di solito sufficiente per completa­re la cottura.

A questo punto si estraevano i pani dal forno con la stessa pala usata per infor­narli e con lo spazzolino di saggina si to­glievano la cenere, la farina ed i pezzetti di carbone rimasti eventualmente attac­cati alla crosta, quindi si disponevano ritti sulla tavola appoggiati gli uni agli altri e, una volta raffreddati, si riponevano nella madia.

Quasi sempre si sfruttava il calore del for­no per altre necessità: cuocere la schiac­cia, le mele, fare le bruciate, seccare i fi­chi, ecc.

Fra i riti collegati col pane c’era l’idea di non rovesciarlo sul tavolino “sennò” si di­ceva “un fa mai buio” intendendo il buio come momento di riposo dopo una lun­ga giornata di lavoro, le parole di questo canto toscano ci paiono, a questo propo­sito, particolarmente significative:

Tramonta sole per l’amor di Dio
ché se un sei stracco te so’ stracco io
Tramonta sole per l’amor dé Santi,
chè se un sei stracco te n’hai stracchi
tanti!

Laura

IL BUCATO

“Levate le lenzuola, oggi si fa il buca­to.” Con queste parole la massaia dava il via ad una operazione che, solitamen­te, impegnava le donne di casa per più giorni. Per prima cosa si provvedeva a ba­gnare i panni sporchi, quindi si sistema­va, in un angolo della cucina, un “troppolo” di legno e su di esso si collocava la conca di terracotta; questa aveva, pres­so il fondo, un foro nel quale si inseriva il bucciolo o cannello, un pezzo di canna appositamente svuotato che, fasciato di stoppa, era infilato a forza nel foro e chiu­so all’esterno con un tappo di sughero. Sul fondo della conca, inclinato a proteg­gere il foro di uscita, si poneva un testo “poco buono”, magari senza manico, poi si disponeva la biancheria, tenendo pre­sente il principio di porre via via, dal bas­so verso l’alto, i panni sempre più sporchi. Così, cominciando dal fondo, l’ordine era, in genere, il seguente: prima le lenzuola, poi le federe, quindi le mutande, le cami­cie da donna e ancora asciugamani, asciughini e tovaglie e, infine, altri even­tuali panni bianchi.

Su di essi veniva sistemato il “cenerone”, un telo di balla, sopra al quale si versa­vano tre o quattro secchi di cenere del focarile; molte volte, per aumentare la ca­pienza della conca e per sostenere il “ce­nerone” si inserivano, fra la biancheria e le pareti interne, una serie di “schiappe” di legno che sporgevano, anche notevol­mente, dal bordo superiore della conca. Intanto si scaldava l’acqua, in un paiolo grande, e la si versava sulla cenere: dap­prima tiepida, poi sempre più calda ma non a bollore; quando cominciava ad uscire dal cannello essa veniva raccolta,

riscaldata sempre di più e versata nuo­vamente nella conca.

Questa operazione veniva ripetuta più volte, finché l’acqua estratta dal fondo era ormai calda ed aveva assunto una colo­razione tra il giallo ed il marrone chiaro: ciò significava che il ranno era pronto; al­lora lo si faceva bollire e, dopo aver inse­rito il tappo di sughero nel cannello, si ver­sava nuovamente nella conca. Ora non restava che coprire la cenere, ripiegan­do su di essa le estremità del telo, e la­sciar riposare il bucato fino all’indomani. La mattina seguente si recuperava tutto il ranno dalla conca e lo si raccoglieva in secchi per riutilizzarlo; con una paletta si provvedeva a raccogliere la cenere quin­di, dopo aver tolto il cenerono, si prende­vano i panni, si ponevano nella “panie­re” di vimini o nei graticci e si andavano a lavare ai lavatoi, dove venivano spaz­zolati, sciacquati e strizzati accuratamen­te. Con cura venivano stesi ad un filo te­so fra piante o pali in un posto soleggia­to e ventilato oppure sopra ai cespugli e, in estate, direttamente sull’erba; se tira­va vento, i capi tesi sopra ai cespugli ve­nivano fermati legandone alcuni lembi ai rametti.

Il ranno raccolto era usato per lavare i panni colorati, gli indumenti di lana ed era efficace, dato l’alto contenuto di carbonato di potassio, magnesio, calcio e silice, anche come detersivo per rigo­vernare e togliere l’unto dai tegami; mol­te donne, inoltre, lo usavano per lavarsi i capelli.

Laura

LA NOSTRA CONFRATERNITA DELLA MISERICORDIA

ORIGINE E RIEVOCAZIONE STORICA

Come ormai risaputo, nel Medioevo, non vi era in Italia città, castello o villag­gio ove non fossero fondati sodalizi che, sia per culto sia per pietà o misericordia, univano persone (fratelli) che, volontaria­mente e per impulso di carità, portavano soccorso agli ammalati, ai morenti, agli appestati. La loro opera, a seconda dei casi di malattia consisteva sia nelle cure che alla meno peggio potevano essere prodigate, sia nel trasporto in ospedale o al lazzaretto per mezzo della “ZANA” (specie di portantina a forma di gerla, ri­coperta in tela, da portarsi a tracolla e atta allo scopo). In altri casi, quelli irrimedia­bili, “I FRATELLI” si prodigavano per il funerale ed il seppellimento.

Trasporto dell’ infermo con “ZANA”.

Le origini delle Misericordie Toscane ri­salgono intorno al XIII e XIV secolo, quan­do le varie associazioni di arti e mestieri, dietro esempio del Comune di Firenze,
1615 dette inizio, a sue proprie spese, ai lavori per una Cappella nei pressi del ba­luardo sulla destra di Via della Costarel­la, all ’interno della cinta muraria del ca­stello.

La nuova istituzione fu detta “VENERA­BILE CONFRATERNITA DEL SS. SA­CRAMENTO E DELLA CARITÀ”; iniziò il suo operato e si distinse ben presto in va­rie occasioni.

Purtroppo in base al Decreto del 21 mar­zo 1785 il Granduca Pietro Leopoldo di Lorena, tutte queste benevole organizza­zioni furono soppresse con indignazione e sgomento della popolazione.

Soppresso il Decreto, dopo l’Editto Leopoldino, ripresero le attività di volontariato con varie opere di beneficenza. Anche Pomarance vide nuovamente riformarsi “l’opera assistenziale” soprattutto per vo­lontà del Dr. NICOLA VALCHIEROTTI, avevano affermata la loro vita di azione. Così ovunque si intensificavano queste Compagnie, e Associazioni con un pro­prio regolamento ed un singolo Statuto appositamente studiato per le caratteristi­che del luogo in cui nascevano.

Anche Pomarance si organizzò per que­sto Istituto Benevolo, e così, per volere del Sacerdote CESARE GIOVANNI SAN­TUCCI, (nipote dell’illustre nostro concit­tadino Antonio il Cosmografo) nell’anno

Chiesa della Misericordia.

medico condotto, uomo di singolare pie­tà, il quale aveva adottata come sua se­conda patria la nostra terra. La sua ini­ziativa si concretizzò rapidamente in una efficiente organizzazione condotta dal medesimo e da altri volenterosi. Durante il triennio della sua carica a Governato­re, egli si prodigò per la ricostituzione del­la Confraternita e per l’ampliamento dell’Oratorio. Per merito suo la vecchia Cap­pella, di proprietà della sig.ra Anna Fantacci ved. Marchionneschi, in data 24 aprile 1844, con atto di donazione , pas­sò alla Confraternita e fu così possibile dar inizio aH’ampliamento con le oblazioni dei più benefattori.

Con meraviglioso slancio i cittadini di ogni classe si iscrissero a questa nuova fratel­lanza prestando la propria opera materia­le e morale. Compilati i relativi capitoli, ap­provati con Regia Sanzione del 3 gennaio 1845, la Misericordia cominciò subito il suo regolare funzionamento.

Nonostante l’encomiabile impegno dei benefattori non si riusciva a far fronte a tutte le richieste che si moltiplicavano, co­sì che tre anni passarono in ritmo cre­scente di lavoro e di soccorsi. Il mandato di questo benemerito fondatore era ter­minato, il suo operato aveva superato ogni aspettativa e la promessa fatta all’at­to della costituzione lo aveva impegnato al massimo. L’avvio a questa opera era stato eccellente, ma alla scadenza del pri­mo triennio, il Valchierotti non si presen­tò alle elezioni volendo lasciare ad altri vo­lenterosi la libertà di continuare. Regola­
ri elezioni videro suo successore il Cav. ADRIANO DE LARDEREL, uomo tempra­to nell’esercizio della vita, che aveva da­to segno del suo impegno e del suo af­fetto per la nostra terra sia con intelletto industriale che religioso (vedi costruzio­ne caldaie Addane ed interessamento per la istituzione della Processione Bella a Pomarance). Per dieci anni questo signo­re attese con lodevole cura alla beneme­rita opera che si affermò sempre più. Il maggiore contributo di umanità si rivelò durante l’epidemia colerica che nell’an­no 1855 infestò il pomarancino, e fu an­cora più evidente la efficienza dell’orga­nizzazione e la serietà con cui essa veni­va gestita.

Il cav. Adriano de Larderei cessò di vive­re alla giovane età di 35 anni, lasciando rimpianto e cordoglio in tutti quanti lo co­nobbero.

Con lo stesso zelo e la medesima tena­cia seppe ben imitarlo il di lui fratello con­te FEDERIGO DE LARDEREL, il quale si curò dell’ampliamento di questa Confra­ternita della SS. Carità facendo in modo di porla sempre più in vista.

Venne creato anche un abito a mo’ di di­visa, a sembianza di quello già usato dalla istituzione fiorentina: una lunga tunica ne­ra con la cintola a forma di rosario, un me­daglione a giustacuore con l’emblema delle misericordie e, per mantenere l’a­nonimato a chi lo indossava, un cappuc­cio nero (detto “BUFFO” ) con solo due fori corrispondenti agli occhi. Chi vestiva questo lugubre indumento non doveva far
sapere all’assistito chi era stato il bene­fattore, dimodoché non si sentisse verso di lui debitore nell’eventuale guarigione. A completamento di questa vestizione era previsto un cappello in feltro a larga tesa che serviva a proteggere il portantino in caso di pioggia. Se la stagione era mite veniva tenuto sulla spalla tramite il cor­done del sottogola.

Sempre per interessamento del conte Fe­derigo, si trasformò di nuovo la Chieset­ta che venne abbellita con marmi ed eb­be una nuova pavimentazione. Questa chiesa era già stata consacrata a San Carlo Borromeo, che ne è patrono, e che conseguentemente dette nome anche al­la piazzetta antistante l’ingresso.

Anche una portantina per il soccorso agli ammalati fu acquistata, sostituendo la ba­rella a stanghe. Era una “LETTIGA” su ruote e per alleviare le scosse delle im­pervie strade aveva le balestre in modo da ammortizzare gli urti.

Sempre nuove migliorie per ogni tipo di bisogno venivano usate. Ed anche per i trasporti funebri venne costruito un car­ro chiuso con predisposto il posto per il cocchiere, in modo da poter trasportare il cofano funebre sino all’ultima dimora. L’ultimo cocchiere, che per anni si impe­gnò a questa triste cura fu Dante Spinelli più conosciuto come Dante dell’ortolano che, ad ogni tocco della campana, era

Campanile della Misericordia.

pronto ad avviarsi con il suo cavallo ad attaccare il mezzo tenuto presso la sede, e da lì dirigersi presso l’abitazione dell’e­stinto. I meno giovani ricorderanno que­st’uomo, che sino all’avvento del mezzo motorizzato, ha scollettato tutti a S. Ba­stiano.

Per il richiamo dei portantini, in occasio­ne dei funerali, era usata la campana del­la Misericordia, posta sul campanile del­la Chiesa Parrocchiale (vedi articolo sul n. 3/88 di questa Rivista) che con dei toc­chi particolari avvertiva: se il defunto era uomo, se era donna, se abitava in cam­pagna, se abitava in paese, se era iscrit­to alla Misericordia oppure no.

Nel corso degli anni vi è stato un susse­guirsi di nomi, di volenterosi, che con fe­de e spontanea carità si sono prodigati in questo misericordioso lavoro.

Trasporto di infermo con “Portantina a stanghe”.

È doveroso ricordare anche i Governato­ri, che con lo stesso spirito hanno conti­nuato a dirigere l’istituto cercando di am­pliarlo, ammodernandone le attrezzature per aggiornarsi con l’evolversi dei tempi. Dopo i due De Larderei, seguì il N. H. Gio­vanni Biondi Bartolini che lasciò l’impe­gno al Cav. Michele Bicocchi e che, con­seguentemente, fu sostituito dal Dr. Gio­vanni Biondi Bartolini sino ad arrivare ai nostri tempi con il Sig. Dell’Omo Augusto. A conferma delle notizie più lontane ab­biamo presso la Chiesa della Misericor­dia delle lapidi che ricordano questi uo­mini fino al fondatore iniziale, il Sacerdo­te SANTUCCI, che con una scritta latina è così ricordato:

Questo Sacro Edificio dedicato a Dio alia Divina Madre e aS. Carlo Borromeo Cardinale di Milano, lo innalzò dalle fondamenta, a proprie spese, prete Cesare di Giovan Matteo di Antonio Santucci, l’anno di nostra salute 1644.

Nella sacrestia vi è una Acquasantiera a muro, in marmo, con inciso lo stemma dei Santucci. Inoltre possiamo vedere la la­pide che onora il “secondo fondatore” il dottor Valchierotti, e poi quelle dei due De Larderei. Le cinque lapidi in marmo scan­discono il tempo come un libro e oltre ad arricchire la chiesa sono memori degli av­venimenti e dell’opera di queste degne persone.

La chiesa della misericordia non ha mol­te opere di valore, se non un’immagine della Madonna di Montenero dipinta su specchio, sul retro, nella tavola di soste­gno vi è una scritta a penna ed inchiostro “Il Cavalier Adriano de Larderei, fratello Governatore, donò alla Compagnia della R.R. Misericordia il 5 settembre 1852”. Sopra il tabernacolo dell’altare vi è un quadro rirpoducente la Madonna Addo­lorata alla cui base possiamo leggere “MATER AMABILIS”. Alla pietà ed al me­rito di Girolamo Bettoni e di donna Fla­minia Covoni nata dei principi Chigi. (Giò Batta Cecchi incisore dona e consacra, Firenze 1810). Sembra che questo qua­dro sia stato donato alla Confraternita dal conte Federigo de Larderei.

L’insieme della chiesa, più volte rimaneg­giata, si presenta assai bene ai fedeli che numerosi vi affluiscono nel mese di no­vembre per la Messa Vespertina officia­ta a nome dei defunti iscritti alla Miseri­cordia e deceduti nell’annata in corso. Ad avvertire di questa funzione religiosa è compito delle due campanine poste sul­la cella campanaria del piccolo campani­le. Il suono scandito da queste è datato dalla fusione di queste; una porta la data solamente in numeri romani MLXXX (1530), e l’altra, A.D. MDCCCXV (Anno del Signore 1815).

Documenti custoditi presso l’archivio del­la Confraternita accertano molte di que­ste notizie e tra le principali vi è quella del­
la Affiliazione alla Confederazione delle Misericordie d’Italia avvenuta nell’anno 1874.

Il nome odierno è: CONFRATERNITA DELLA MISERICORDIA DI POMARAN­CE, con sede sempre in Piazza S. Carlo al numero civico 5, adiacente alla Chie­sa ed al suo patrimonio immobiliare. Oggi questa benemerita è servita da un parco macchine composto da tre ambu­lanze che servono per gli spostamenti, sia di ricovero in ospedale come per bisogni di soccorso stradale od altro incidente. Inoltre due vetture funzionano per gli Han­dicappati ed i dializzati. Unito a queste vetture vi è un carro funebre che comple­ta il nucleo motorizzato.

Nell’ammodernamento delle attrezzature sono state acquistate, a corredo di soc­corso, delle sedie snodate atte al prelie­vo di ammalati residenti in abitazioni do­ve vi sono scalinate.

Ad oggi è in allestimento una nuova am­bulanza montata su vettura Volkswagen e che nel giro di breve tempo andrà a so­stituire quella più vecchia e non più ido­nea e sicura. Il sodalizio che tutt’oggi è assai congruo è costituito da 358 donne e 294 uomini. A questi valenti Governa­tori ed a tutti gli attivi collaboratori che ne­gli anni hanno saputo dare valore e van­to ad una istituzione basata per la mag­gior parte sul volontariato, non rimane che fare le dovute congratulazioni. A quel­li presenti ed a quelli futuri, un augurio per

Interno Chiesa della Misericordia.

Giorgio

saper continuare con lo stesso spirito sia a governare che ad abbisognarsi in ogni occasione. Inoltre un augurio a chi potrà ritrovarsi ai festeggiamenti che ovviamen­te saranno effettuati nell’anno 2015 in oc­casione del quattrocentesimo anno di vita.

NOTE BIBLIOGRAFICHE

  • Archivio Misericordia di Pomarance.
  • LE CONFRATERNITE DI MISERICOR­DIA IN TOSCANA – Ed. Arti Grafiche San Bernardino SIENA 1926 a cura del Comm. Dr. U. Patella.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

TEATRO «ACCADEMIA DEI CORAGGIOSI» DI POMARANCE

Analisi storica a cura di: Dott.sse ROBERTA COSTAGLI e GIANNA BUONAMICI

INTRODUZIONE

Molti teatri, costruiti a cavallo fra la fi­ne del settecento e la prima metà dell’ottocento, conservano ancora la memoria e la bellezza del vecchio teatro “all’italia­na”. Infatti, se la parabola storica del lo­ro declinio e dell’abbandono totale si compie nel dopoguerra, non si è esauri­ta ancora la memoria culturale che essi rappresentavano nel tessuto storico ed urbano: sono il segno dello spettacolo del passato, ma anche il segno concreto del luogo proprio di quella particolare rappre­sentazione che era la collettività che si riu­niva.

Per questo non possono apparire solo co­me contenitori vuoti ed inagibili, la cui ul­teriore ed inevitabile fatiscenza non è che la premessa per la definitiva demolizione, poiché anche in tempi come i nostri (in cui non esiste più un luogo assoluto e pri­vilegiato della rappresentazione) se op­portunamente predisposti, possono diventare contenitori specifici per lo spet­tacolo e la cultura di oggi.

Prospetto Teatro dei Coraggiosi (Foto S. DONATI)

Il problema dei teatri inagibili o comun­que da recuperare è un tema per molti versi complesso e stimolante: da un la­to, il valore storico – artistico delle strut­ture e il loro ripristino nell’ambito della po­litica della rivalutazione dei centri storici, dall’altro la funzione socio – culturale del­l’edificio teatrale, inteso come luogo di produzione, di cultura e di crescita civile per la società.

Alla luce di queste considerazioni, peral­tro ampiamente discusse in anni prece­denti e delle quali è dimostrata la validità con i numerosi restauri già conclusi, ab­biamo ritenuto interessante affrontare, co­me lavoro conclusivo degli studi univer­sitari, il tema del restauro e riuso di un teatro quale è quello dell’ex Accademia dei Coraggiosi. Il teatro in questione è col­locato nell’ambito del centro abitato di Po­marance ed ivi sorto a suo tempo, per il manifestarsi di particolari istanze di rin­novamento socio – culturali, con lo sco­po, per lo più, di portare spettacoli musi­cali e di prosa là dove ogni altra forma di svago sarebbe venuta altrimenti a man­care; istanze valide ancora oggi, che un totale ripristino della struttura potrebbe soddisfare.

ACCADEMIA DEI CORAGGIOSI ORGANIZZAZIONE ED ATTIVITÀ

Nel secolo XVIII non vi è cittadina o pae­se in Italia che non abbia la propria Ac­cademia; a Pomarance esisteva l’Accademia dei Coraggiosi fondata il 31 luglio 1790, che al pari delle altre contemplava nel proprio programma la produzione tea­trale. I fondatori dell’Accademia furono: Pietro Biondi, Giuseppe Martini, Giusep­pe Marchionneschi, Luigi Gardini, Paolo Cercignani, Gherardo Bardini Mafferi, Pietro Gardini, Niccola Tabarrini, Giulio Cercignani, Michele Bardini, Camillo Fantacci, Isidoro Biondi, Maria Borroni, Bartolino Bartolini, Giovan Battista Biondi, Carlo Incontri, Tommaso Gardini, Filippo Biondi, Marcello Inghirami, Pier Giusep­pe Biondi, Ottaviano Falconcini e Giovan

Battista Gardini.

Dietro il nome antico ed illustre di “Ac­cademia” si nascondevano istituzioni non sempre permanenti o con propri regola­menti interni che erano però di sovente l’anima culturale dei centri abitati grandi e piccoli. L’istanza di rinnovamento arti­stico e sociale è spesso il motore di que­sti sodalizi che, nel caso dei centri mino­ri rappresentavano la sola opportunità di svago, con la partecipazione ad attività teatrali o l’organizzazione di feste da ballo.

Astrusi, Georgofili, Accalorati, Intronati, Rozzi sono alcuni nomi di accademie esi­stenti in Toscana; appellativi bislacchi ed ironici, forse per segno di vera o falsa mo­destia, che sono il frutto del gusto di quei tempi. Le Accademie avevano anche l’u­sanza di fregiarsi di uno stemma che spesso riportava un motto ispirato dal no­me: nello stemma dei Coraggiosi è rap­presentato un leone rampante con la scritta “Germoglian frutti ai coraggiosi in seno”.

L’assemblea dell’Accademia dei Corag­giosi, aveva il diritto di veto sull’ammis­sione di nuovi componenti, pertanto il passaggio da una “panca” da un acca­demico ad altra persona da lui proposta era sottoposto a votazione. Una volta ac­cettata la proposta, il nuovo accademico era obbligato al pagamento di una quota corrispondente al valore frazionale del teatro e della tassa annua di scudi due. Il numero degli accademici arrivò a ven­ticinque con la costruzione del nuovo tea­tro, mentre dai rendiconti annuali sappia­mo che fino al 1805 erano ventidue e ne­gli anni successivi fino al 1810, ventitré. L’invito alle adunanze avveniva tramite l’invio di un biglietto redatto dal segreta­rio che aveva anche la funzione di redi­gere l’ordine del giorno. Nell’Accademia erano previste anche le cariche di Pre­sidente, Camarlingo e di cinque consiglie­ri, tutti eletti per votazione dall’assemblea. Ogni accademico aveva il diritto di espri­mersi con un solo voto anche se posse­deva più di un “carato”.

I soci si riunivano per decidere sui vari la­vori di restauro occorrenti al loro teatro, sull’assunzione del personale di servizio, l’apertura del teatro e per esprimere un giudizio sulle istanze pervenute da com­pagnie comiche o di musicanti.

Gli accademici, a turno, dovevano fregiar­si della carica di “Deputato d’ispezione al buon ordine” in occasione di rappre­sentazioni comiche ed ogni sera il nome della persona incaricata veniva scritto su un apposito cartello posto all’ingresso del teatro. Inoltre, tra le altre mansioni spettanti agli accademici c’era quella di for­nire olio per i lumi in occasione di feste o rappresentazioni gratuite: all’ingresso dovevano lasciare una “mazzetta d’olio’’ in mano al custode con apposita firma e in caso di maggior consumo supplire con un’altra.

L’Accademia, nel 1829, stabilì alcune re­gole a cui doveva sottostare la compagnia comica in occasione della stagione tea­trale che si svolgeva sempre in autunno: “…un regalo di zecchini dieci a condizio­ne che in essa sala dia venti recite… di ricevere la sala del teatrino e quindi di ri­consegnarla a suo rischio, nel medesimo stato detta sala offrirsi, mobili, scenari… far rispettare le panche esistenti a solo co­modo dei signori accademici e loro fami­glie… che sia a carico della comica com­pagnia la spesa serale (illuminazione e paga al personale di servizio)… che il re­galo di dieci zecchini possa solo ottener­si dalla comica compagnia metà alla me­tà delle recite e l’altra metà alla fine’’.

Nel 1840 in occasione dell’istanza pro­mossa dalla compagnia comica di Otta­viano Novellucci, fu stabilito, inoltre che ogni compagnia comica ”… presentasse l’elenco all’accademico Nobile Giovanni Novellucci… quale se l’approverà, la con­cessione si intenda definitivamente fatta, in contrario si riterrà non fatta” e l’anno seguente il prezzo d’ingresso non oltre­passasse Quattro Grazie.

Ogni accademico aveva la facoltà di or­ganizzare feste da ballo purché si inve­stisse della carica di “Deputato di Ispe­zione” per l’intera serata pubblicando poi il proprio nome sul solito cartello, ma ave­va il diritto di nominare un “Maestro di Sa­la” e di farsi sostituire da un’altro acca­demico.

Nel 1834 fa il suo ingresso nell’Accademia, al posto del cedente Ferdinando Cercignani, il conte Ferdinando De Larderei “…il quale lo accettava e richiedeva es­sere surrugato al cedente in detto posto accademico per godere tutti i favori e sop­portare tutti gli oneri ricevuti dal posto me­desimo”.

L’aspetto economico rappresentava la nota dolente di questa associazione, spesso alcuni accademici sono in ritardo nel pagamento della tassa annuale di due scudi.

Nel 1853, l’Accademia decise di darsi un regolare statuto, a questo proposito fu in­caricato l’accademico Venerando Valchierotti di redigere una proposta nel ter­mine di tre mesi, ma di questo statuto, nella documentazione successiva, non viene più fatta menzione.

Con la decisione di costruire il nuovo tea­tro viene compiuta un’accurata stima di tutti i beni mobili e immobili della socie­tà, stabilendo che ”… i soci accademici che non vogliono concorrere alla costru­zione del nuovo teatro saranno liquidati i loro diritti sociali e cesseranno cosi di far parte dell’Accademia.

Gli anni che seguirono videro l’Accademia sempre più impegnata e strettamen­te connessa al teatro e alle manifestazioni che vi si svolgevano. Tra i vari regolamen­ti pubblicati, c’è quello riguardante le “Stanze Accademiche” grazie al quale è possibile dedurre quanto questa associa­zione andasse sempre più assomiglian­do ad un circolo ricreativo per signori be­nestanti e poco rimanesse dell’attivismo letterario e filosofico che contraddistinse le accademie nei decenni trascorsi. Il re­golamento prevedeva due occasioni di in­contro: i “trattenimenti ordinari” rappre­sentati da adunanze o giochi e le “feste da ballo”: A queste stanze erano ammes­si anche non accademici stante la previa approvazione dell’assemblea ed era sta­bilito che fossero aperte “…a trattenimen­to del giuoco, nel carnevale tre giorni di ciascuna settimana, cioè martedì, giove­dì e domenica, nell’autunno, e inverno fi­no al giovedì della Settimana Santa e la domenica di ciascuna settimana e più le feste di intero precetto”. Mentre chi desiserava giocare doveva pagare “una te­nue tassa a forma della tariffa nelle mani del custode…” il quale dava poi il dena­ro al Camarlingo. Grazie anche a questi incassi serali, la società faceva fronte al­le numerose spese necessarie per man­tenere in piena efficenza un siffatto edifi­cio.

Nella generale revisione degli statuti che viene promossa alla fine dell’ottocento, c’è la proposta di abrogare due articoli che garantivano l’uguaglianza tra i vari accademici. Questo causò l’indignazione di un vecchio accademico, “unico super­stite dei compilatori dello statuto” che for­temente si oppose a questo provvedimen­to così antidemocratico.

  1. citati articoli (10 e 15) assegnavano un voto per ogni accademico senza distinzio­ne del numero di palchi posseduto; la pro­posta riformatrice, al contrario, prevede­va un voto per ogni palco di proprietà, ne­gando così “…l’uguaglianza sociale, del­l’amministrazione e del valore del voto de­liberativo… cioè il predominio della mino­ranza…”. La volontà dei proponenti era quella di risolvere il ricorrente problema del mancato numero legale nelle adunan­ze: un assenteismo che dimostra una già viva disaffezione nei confronti dell’Accademia.

Siamo ormai agli inizi del Novecento ed è tempo di mutamenti sociali, la pressio­ne che viene dagli strati sociali più pove­ri della popolazione verso l’Accademia si fa sempre più forte, come testimonia una lettera datata 15 settembre 1900 i cui fir­matari in rappresentanza della “popola­zione meno abbiente, nata e cresciuta a Pomarance”, chiedevano che il teatro fosse aperto a chiunque desideri parte­cipare…”: Questa possibilità, in futuro, non potè più essere negata infrangendo in parte quell’alone di distinzione cultu­rale e sociale di cui erano investiti gli ac­cademici.

IL VECCHIO TEATRO DEI CORAGGIOSI

  1. “Dizionario Geografico, fisico, storico della Toscana” del Repetti riferisce del­l’esistenza di “…un piccolo teatro di pro­prietà di Un’Accademia dei Terrazzani che rimonta verso il XIII”. Con molta pro­babilità si tratta dello stesso teatro dive­nuto poi nel luglio del 1730, di proprietà dell’Accademia dei Coraggiosi in quanto la prima delibera in ordine cronologico, ancora oggi esistente, del 31 Ottobre 1791, rivela la necessità di alcuni lavori “per ben ridurre la stanza della loro Ac­cademia”. Un ulteriore conferma che la “Stanza” ha svolto in passato funzione di spazio teatrale si ha con la successiva deliberazione del 9 Novembre dello stes­so anno, dove in un passo recita: “lo in­frascritto, essendo stato onorato dai illu­strissimi Soci della Stanza che serviva ad uso di teatro posto nella terra di Poma­rance, a voler unirmi con Essi in società, ridurla nuovamente ad uso di teatro e di sala da ballo…”.

La “sala delle comiche” si trovava a fian­co del palazzo Pretorio, con ingresso dal­la piazzetta del Tribunale, nel centro antico, all’interno delle mura castellane: Po­sta al primo piano sopra un portico dove si apriva l’ingresso aveva il soffitto a vol­ta affrescato, il palcoscenico, un “salot­to” ed una stanza di deposito detta delle “panche”.

Nel 1794 furono realizzate opere di rifa­cimento e dipinti nuovi scenari da un cer­to Antonio Niccolini in cambio di una gra­tifica di venti lire, vennero anche acqui­state diciasette panche in funzione di un riutilizzo dell’ambiente come sala da bal­lo. Inoltre è di questi anni l’apertura di una porta che metteva in comunicazione di­retta il teatro col Palazzo Pretorio.

Il trascorrere degli anni, in questo caso tre, tra la fase propositiva e l’attuazione dei lavori di restauro è un tema ricorren­te nella vita di questo teatro conseguen­temente alla mancanza di risorse finan­ziarie dell’Accademia.

Per un lungo periodo vi saranno interventi diretti esclusivamente all’interno del tea­tro, o meglio alla sala, poiché le attenzio­ni di miglioramento formale ignorano, co­me dettava la consuetudine interventi al­l’esterno.

Per “trarre un profitto” fu istituito nel 1798 “… il diritto d’esercitar Bottega d’acqua- cedratosa nel salotto annesso alla sala, in occorrenza di spettacoli teatrali e di fe­ste da ballo…” offrendo l’incarico di te­nere questo esercizio al migliore offeren­te. Inizia così il processo di articolazione del luogo teatro: alla vecchia sala comi­ca si è aggiunto un primitivo bar che an­cora mantiene la funzione di foyerguardaroba.

Nel 1803 viene decisa la costruzione so­pra il salotto, di una stanza ad uso dei co­mici che comporterà l’alzamento del tet­to, affidando i lavori agli impresari Raz­zagli e Bellucci. Le due finistre in faccia­ta (sopra e sotto) fu stabilito essere uguali a quelle adiacenti in costruzione. Si de­duce, pertanto, che tali lavori sono con­temporanei ad altri che si vanno facendo nel blocco di case a fianco del teatro.

Tre anni dopo, l’Accademia inaugurerà i nuovi lavori con una rappresentazione co­mica della compagnia Gatteschi di Vol­terra.

Col 1834 inizia una lunga stagione di ten­tativi falliti da parte degli accademici di avere un teatro più grande in stile con i tempi nuovi. Il presidente propose di far visitare lo stabile e sala del teatrino a Lo­reto Magri, aiuto ingegnere della Comu­nità di Pomarance, dandogli commissio­ne di redigere un progetto d’ampliamen­to riguardante la sala e il palcoscenico. Se ciò non fosse stato possibile, il sud­detto ingegnere doveva progettare un nuovo teatro con ventiquattro palchetti e con il doppio di grandezza della sala at­tuale per uso di platea. Ma è del 14 Otto­bre 1836 una nota di spesa redatta da Giuseppe Bianciardi per un generale re­stauro del teatro di cui annotiamo ‘‘…ri­quadratura della nuova sala, del salotto caffè e rifatto il boccascena nuovo…”. Nonostante i lavori di restauro intrapresi l’anno precedente, è sempre forte l’esi­genza di costruire un nuovo teatro, come in questi tempi già se ne andavano co­struendo nelle città e nei centri minori, co­me la vicina Volterra, Piombino, Pontedera, e Buti. Del resto la fine del settecento ha segnato la definitiva rottura col passa­to, una nuova sensibilità architettonica ali­menta il dibattito sulla progettazione dei teatri e i venti innovatori che spirano dal­le grandi città irretiscono le menti più sen­sibili anche di terre lontane.

Questo clima aleggiava anche negli am­bienti culturali di Pomarance e traspare dai toni enfatici di entusiastica adunan­za del 1 ottobre 1837 “…Dietro la vostra ragione e io, tutti rendiamo fatto il teatro, pensare dunque che l’incertezza nega, e la risolutezza afferma che ben ci conven­ne il nome di Coraggiosi, come ci conver­rà quello di ben affetti al vostro paese…”. Accantonata l’idea di un nuovo teatro, nel 1842 viene dato incarico all’ingegnier Ric­ci di preparare un progetto di restauro per l’attuale teatro, ma tale progetto verrà re­spinto.

Sempre quell’anno viene stabilito di inol­trare una supplica al Regio Trono per la sua approvazione alla costruzione di un nuovo teatro, facendosi promotore dell’i­niziativa il conte Francesco De Larderei. Negli anni successivi il vecchio teatro fu ripetutamente sottoposto a restauri e mo­difiche, ma il Municipio di Pomarance, nell’occasione di dover trattare della rifor­ma delle scuole Comunali, si propose di fare acquisto del teatro di Pomarance e sue stanze annesse, era il 31 dicembre 1860.

Questa iniziativa decretò la fine del vec­chio teatro dei Coraggiosi e, finalmente, l’avvio del nuovo, in quanto con la cospi­cua somma realizzata dalla vendita fu at­tuato un concreto piano finanziario.

La stima di parte, del teatro, fu affidata all’architetto Magagnini di Livorno, men­tre il municipio incaricò l’ingegner Gae­tano Niccoli. La relazione del Niccoli do­cumenta lo stato e consistenza del vec­chio teatro dei Coraggiosi che dopo se­coli di vita, il 25 febbraio 1861 era così composto: ingresso sulla piazzetta del tri­bunale, scala in pietra che portava alla, “Sala”, a destra del pianerottolo di sbar­co la “Stanza delle Panche” trasforma­ta col tempo in salotto guardaroba, la “stanza del caffè” ed infine il palcosce­nico con annessa una stanza irregolare dalla quale si accedeva in una soffitta ad uso degli attori per mezzo di una scala. Le stanze accademiche furono acquista­te dal Municipio per lire tremilaseicentoquarantacinque e sessanta centesimi.

DELIBERA RIGUARDANTE LA COSTRUZIONE DEL NUOVO TEATRO

La lettera del 31 dicembre 1860 inviata dal municipio di Pomarance all’Accademia dei Coraggiosi fu letta nell’adunan­za del 14 gennaio 1861 e in quel giorno venne finalmente deliberata, non solo la costruzione di un nuovo teatro, ma anche le modalità di attuazione del medesimo: due accademici stilarono la bozza di un programma in undici punti comprenden­te tra gli altri la spesa economica previ­sta, il denaro che ogni accademico dove­va versare, l’assegnazione dei palchetti e la formazione di una commissione in­caricata di seguire i lavori di costruzione. Il teatro doveva essere costruito fuori del­la porta Volterrana davanti alla casa del sig. Fantacci su disegno dell’architetto Ferdinando Magagnini.

ESCURSUS STOIRICO DELLE VICENDE COSTRUTTIVE

La costruzione del nuovo teatro prese l’avvio il primo marzo 1861 su terreno di proprietà in parte dell’accademico Giu­seppe Bicocchi e in parte dell’accademi­co Carlo Tabarrini; i quali poi vendettero all’Accademia: il primo braccia quadre millecentosettantasette ossiano ari quat­tro e deciari ottantaquattro, il secondo braccia quadre ottocentodieci, ossiano ari

due, centiari settantacinque e deciari no­vanta.

Il permesso del Comune per la costruzio­ne di detto teatro è datato 26 settembre 1861, mentre la richiesta del medesimo risale solo al 9 giugno 1861: appare evi­dente che si trattava di pura formalità, non solo perché i lavori erano già iniziati da diversi mesi, ma anche per gli accordi già stipulati tra il Comune e l’Accademia in seguito alla vendita del suo vecchio tea­tro.

Il finanziamento dei lavori di costruzione avvenne anche tramite alcuni prestiti con­tratti con persone benestanti della zona, in quanto il ricavato della suddetta ven­dita era insufficiente e fu liquidato in più anni.

Il “Giornale dei lavori” in particolare ed altra documentazione ancora oggi dispo­nibile, costituiscono l’ossatura portante di questa analisi sulle vicende costruttive inerenti l’edificazione del nuovo teatro dei Coraggiosi.

Il giornale prende avvio col Marzo 1861 documentando le fasi iniziali fatte di pic­cone, mine, calcina, carrette con materia­le di risulta e di tante giornate di lavoro per preparare le fondamenta.

Il teatro poggia su un banco di roccia tu­facea che fu spianata sia facendo brilla­re mine che utilizzando dei “ferri per bat­tere il masso”.

Fino agli inizi di Luglio si continuò a la­vorare sul “masso” per preparare gli sbancamenti necessari su cui poggiare i muri portanti. Dopodiché si iniziarono a tirare su i muri e come nella logica dei tempi, i materiali da costruzione venne­ro reperiti sul mercato locale, in luoghi nelle vicinanze di Pomarance. I mattoni, mattoncini e quadricci provenivano dalla vicina fornace del Gabbro, mentre a Poggiamonti era situata la cava da cui pro­venivano le bozze grandi per le “canto­nate” e le piccole per la muratura mista delle pareti esterne.

Al 14 Luglio risale il primo pagamento per la fornitura di scalini di pietra, in questo caso dodici, da parte di una persona del luogo, un certo Garfagnini Luigi e con ca­denza di circa venti giorni verrà effettua­to il saldo di altre forniture: la prima an­cora di dodici e le altre di ventiquattro. Considerando che per la buona gestione di un cantiere il materiale viene fatto ar­rivare in un periodo di poco precedente al suo utilizzo, il saldo degli scalini di pie­tra fa supporre il tempo occorso per la realizzazione delle strutture verticali e dei solai dei tre ordini.

I solai hanno struttura portante in legno, composta di travi e travicelli reperiti sul mercato di diverse località: Lajatico, Gab­bro, Castelnuovo e Livorno. Due fatture della ditta di legname “Aghib e Rocah” di Livorno documentano che ne inviaro­no un grosso quantitativo a Pomarance, ordinato da Ferdinando Magagnini e pa­gato dal conte Federigo De Larderei, il quale fu successivamente rimborsato dal Camarlingo Carlo Tabarrini. In quel tem­po per la fornitura di legname eccedente i cinque metri, era uso ricorrere al mer­cato esterno e la scelta di Livorno è da attribuire al progettista, appunto livorne­se e forse anche, per la comodità nei pa­gamenti, alla presenza in detta città di un accademico illustre come il De Larderei. Sempre in questo periodo e precisamente l’undici agosto, iniziarono i lavori di co­struzione della facciata ripulendo lo scas­so fatto nel “masso” e ponendo poi nel­le fondamenta “una memoria scritta in carta pecora, con custodia in piombo ed una moneta d’oro Romana”.

Con la costruzione delle strutture verticali, dei solai e delle volte prese l’avvio l’ope­ra di copertura della fabbrica che fu pro­babilmente ultimata verso la fine di no­vembre, poiché è registrato il pagamen­to di una merenda con la quale si festeg­gia, “come è di costruirne” questa occa­sione.

Conclusa questa fase ne iniziò una altret­tanto lunga, quella di completamento e ri­finitura. Il 16 marzo 1862 venne stilata una perizia sui lavori ancora mancanti e di conseguenza una stima del denaro ne­cessario per portare a compimento l’o­pera.

La costruzione del plafone (che copre la platea) fu affidata, a nota, a maestranze già operanti come il falegname Ferdinan­do Funaioli e il capo muratore Giovanni Mazzinghi. La progettazione del mecca­nismo degli scenari venne chiesto inizial­mente al macchinista del teatro La Per­gola di Firenze,ingegnere Cenovitti che però fu scartato, in quanto ritenuto trop­po costoso. Così anche questo incarico venne affidato al falegname Funaioli, il quale aveva “in altro teatro attentamen­te esaminato tali meccanismi”. Nel me­se di agosto 1862 sono annotati diversi pagamenti per l’acquisto di doccioni, ma anche l’ultima fornitura di pianelle, mez­zane e tegole per completare il pavimen­to e la copertura della soffitta, stavolta provenienti dalla fornace Larderei di Lucoli; dopodiché sono i piccoli lavori di ri­finitura e d’arredo a comparire sempre più frequentemente, del resto il giorno dell’i­naugurazione era ormai prossimo.

Con il 12 ottobre 1862, giorno dell’inau­gurazione, non si concluse il ciclo dei la­vori ed acquisti per il nuovo teatro; il “gior­nale” tra gli altri, riporterà ancora: l’ac­quisto di alcune porte, di gran parte del­l’arredo, la posa in opera dell’infissi in le­gno, la scala in legno che porta alla gra­ticciata, la lucidatura dello stucco della sa­la, la riquadratura dei palchetti ed altri pic­coli lavori di rifinitura.

La pittura dell’interno dei palchetti fu sta­bilito di realizzarla con “colore andante” e semplice riquadratura realizzata da en­trambi i pittori pisani chiamati ad opera­re in questo teatro, Riccardo Torricini e Giuseppe Martini; il trattamento a stucco lucido fu realizzato dal solo Martini, che era appunto “maestro di stucco lucido”, in cinque giornate di lavoro. Il pittore Tor­ricini ebbe un ruolo più importante, di ma­no sua sono le pitture del foyer, dell’atrio d’ingresso, delle stanze accademiche e il riattamento degli scenari del vecchio teatro; in quanto alla pittura della volta della sala non è sicura l’attribuzione al Torricini, in quanto l’uso di determinati co­lori farebbe supporre una sua più tarda realizzazione.

Il penultimo pagamento, il 31 gennaio 1868, riguarda il “casotto del Biglietti­naio” costruito da Ferdinando Funaioli già incaricato di tutti i lavori di falegnameria del nuovo teatro.

Il giorno 18 ottobre 1868 il “giornale dei lavori” chiude i valori totali di alcuni ma­teriali e denaro impiegati nella costruzio­ne del Teatro dei Coraggiosi. La chiusu­ra del giornale, non significò ovviamen­te, la fine dei lavori all’edificio teatrale, sia per la complessità del medesimo che im­pone continue riparazioni, sia per gli adat­tamenti e le trasformazioni conseguenti il pratico utilizzo o l’evoluzione tecnolo­gica che si impone col trascorrere degli anni.

Se i lavori di costruzione si possono con­siderare conclusi, così non è stato per gli arredi e gli abbellimenti che sono prose­guiti ancora per lunghi anni. Nelle nicchie poste nell’atrio d’ingresso solo con l’ini­zio del 1884 vi trovarono collocazione i primi busti di marmo e questo anche gra­zie all’iniziativa di un giovane studente dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, Ezio Ceccarelli di Campiglia Marittima che si prestò più per gloria che per de­naro.

Il 23 settembre del 1886 un professioni­sta di Volterra Luigi Guarnieri, stilò una “relazione sullo stato del teatro di Poma­rance” dichiarando, dopo una breve de­scrizione dell’edificio riguardante in par­ticolare le strutture portanti ed il “siste­ma antincendio”, che “l’insieme del tea­tro è in perfetta regola e nulla vi è da te­mere in rapporto alla statica” e prose­guendo poi con alcuni suggerimenti per “l’ordine e la sicurezza pubblica”. Se dal punto di vista statico il teatro non presen­tava irregolarità, diversamente era per gli
infissi e per le superfici esterne dei vari ambienti che presentavano altresì un de­grado già avanzato. Pertanto, l’anno do­po, fu deciso un grande restauro di cui ri­mane a testimonianza il “rendiconto del­le spese e delle entrate” per restauri oc­corsi al teatro di Pomarance l’anno 1888. In occasione di tali lavori l’accademico Florestano De Larderei, il 4 ottobre, chie­se ed ottenne dal corpo accademico “di far rimuovere con tutte le cautele oppor­tune, la parete di divisione” tra i due pal­chi di sua proprietà (il n° 11 e 12 del pri­mo ordine).

Negli anni che seguirono si registrarono solo lavori di manutenzione ordinaria fi­no ad arrivare al 1914, anno in cui furo­no realizzate alcune opere per improvvi­sare un cinema. I lavori per l’impianto del cinematografo riguardarono soprattutto il palco reale che fu adattato a cabina di proiezione, smontando l’apparato deco­rativo e foderando la porta di banda sta­gnata.

L’anno seguente fu installata l’illumina­zione elettrica in sostituzione di quella a petrolio, limitatamente agli spazi ad uso pubblico, con un’unica eccezione del “sa­lotto accademico”.

Gli interventi successivi saranno incentra­ti per la trasformazione del teatro in cine­ma, soprattutto dettati da ragioni di “Bot­teghino” visti i buoni incassi di quegli ul­timi anni. Così il 4 aprile 1959, per aumen­tare il numero dei posti a sedere, fu deci­so l’arretramento dello schermo e l’abbat­timento del palcoscenico con i suoi came­rini sottostanti ormai inutilizzati da lungo tempo.

Il mese successivo iniziarono i lavori di ampliamento della platea affidati alla dit­ta Moretti di Pomarance, su progetto dell’ing. arch. Beliucci di Ponsacco.

DESCRIZIONE DEL NUOVO TEATRO

Il teatro sorge fuori della porta Volterra­na, sulla via provinciale, lungo la direttri­ce di crescita del paese.

All’esterno l’edificio è abbellito da una facciata in pietra tufacea, articolata in due parti: la parte inferiore “a bugnato” con le tre porte d’accesso sormontate da un doppio cornicione, mentre quella superio­re, coronata da un cornicione più “impor­tante”, ha un ordine di tre finestroni e si distingue per un diverso trattamento del­l’apparato murario.

Il teatro, al suo interno, è strutturato in quarantaquattro palchi divisi in tre ordi­ni, distribuiti lungo una pianta a ferro di cavallo.

Dalla porta centrale di facciata si accede ad un atrio di ingresso, ampiamente de­corato. In questo spazio, dal lato sinistro si può accedere al caffè, che è a contat­to diretto con la strada, infatti per molti an­ni svolse la sua funzione anche nei gior­ni di chiusura del teatro. La biglietteria è posta alla destra dell’atrio d’ingresso, anch’essa ha l’accesso diretto dalla strada. Dall’atrio si passa successivamente al foyer e da questo superati pochi scalini, si entra nella platea.

Due vani scala, simmetricamente dispo­sti alle due estremità del foyer, distribui­scono il pubblico ai tre ordini dei palchi. Al secondo ordine sono collocate le stan­ze accademiche, sono stanze ampie e molto luminose grazie ai grandi finestro­ni che si aprono sulla facciata principale del teatro.

Sostanzialmente il teatro riflette l’imma­gine di allora e risulta facile immaginare i giorni luminosi dei primi anni di attività, l’eleganza del pubblico e il rumoroso chiacchericcio che precede sempre una rappresentazione teatrale, magari con un tono più alto per il clima di entusiastica scoperta di un pubblico non ancora av­vezzo a simili occasioni di ritrovo, lo stes­so che forse ancora oggi si respira in oc­casione delle grandi prime.

SPETTACOLI E MANIFESTAZIONI AL TEATRO DEI CORAGGIOSI

L’attività del Teatro dei Coraggiosi è sud­divisa in due periodi: il primo prende av­vio con la stagione inaugurale di prosa dell’autunno 1862 per concludersi con i bombardamenti tedeschi del 1944, che segnano anche l’inizio del secondo perio­do caratterizzato dal lento declinio delle attività del teatro.

La prima stagione teatrale aprì con rap­presentazioni della “Compagnia comica Gagliardi e Antinori”, e per la sera d’inau­gurazione del teatro portarono in scena la commedia “Suor Teresa”.

Il contratto con le varie Compagnie avve­niva per mezzo di istanze presentate dalle stesse all’Accademia, oppure attraverso l’agente teatrale o su sollecitudine di qual­che amico di accademici che aveva assi­stito alle rappresentazioni di una certa compagnia. Comunque la scelta ricade­va sempre su compagnie conosciute o per le quali qualche personalità stimata garantiva per loro.

NOTE BIBLIOGRAFICHE

REPETTI, Dizionario Geografico, fisico, sto­rico della Toscana, Firenze, 1841, vol. IV.

E. MAZZINGHI, Rievocazioni Storiche di Po­marance, in «Rivista Comunità di Pomarance».

C. ORESTI. L. ZANGHERI, Architetti e inge­gneri nella Toscana dell’ottocento, Firenze, Uniedit, 1978, pp. 48-49.

GIUSEPPE CRUCIANI-FABOZZI, La commit­tenza De Larderei e l’opera di Ferdinando Ma­gagnici, dal «Bollettino degli Ingegneri», n° 10/1982, I parte.

GIUSEPPE CRUCIANI-FABOZZI, cit., n° 5/1983, Il parte.

AA.VV., Teatri, Luoghi di spettacolo e Acca­demiche a Montepulciano e in Valdichiana, Montepulciano, Editori Del Frigo, 1984.

M. BUSCARNO, P. PIERAZZANI, Il teatro ab­bandonato, Firenze, La Casa HSHER, 1985. «Professione: Architetto», nn. 10-11-12/1987, Firenze, Alinea, pp. 2-49.

«Recuperare, edilizia, design, impianti», n. 37/1988, pp. 588-593.

AA.VV., La fabbrica del Goldoni. Architettura e cultura teatrale a Livorno (1658-1847), Ve­nezia, Cataloghi Marsilio, 1989.

AA.VV., Teatri storici in Emilia Romagna, Bo­logna, 1st. Beni Culturali, Regione Emilia Ro­magna. 1989.

AA.VV., L’Architettura teatrale nella provincia di Siena, Roma, Giunta Regionale Toscana, 1990.

«Spazio e Società», n° 50/1990, pp. 67-80.

FONTI DI ARCHIVIO

ARCHIVIO STORICO COMUNALE DI POMA­RANCE:

  • Miscellanea Anni 1839-1866 filza n° 397.
  • Atti Magistrati 1860-1861 filza n° 199.

ARCHIVIO DELL’ACCADEMIA DEI CORAG­GIOSI

(non ordinato)

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

TEATRO DEI CORAGGIOSI

ACQUISTATO LO STORICO IMMOBILE

È stato acquistato dal Comune di Po­marance lo storico Teatro dei Coraggio­si. Così, con questa operazione, i due tea­tri presenti nel centro urbano (Teatro De Larderei – Teatro dei Coraggiosi) appar­tengono al patrimonio pubblico. In verità esistevano nel territorio comunale tre or­ganismi teatrali, di cui uno purtroppo non più esistente. Sorti dopo la metà del XIX0 secolo nel Comune di Pomarance, risul­ta organicamente connessa, come gran parte del rinnovo urbano del capoluogo e dello sviluppo insediativo ed infrastrut­turale del territorio, all’affermarsi dello sfruttamento industriale dei “lagoni” e dei “soffioni” del comprensorio boracifero e, con esso, alle fortune imprenditoriali della famiglia De Larderei.

Via Gramsci: Facciata Teatro Accademia dei Coraggiosi (1950)

Il primo, in ordine di tempo, di tali teatri, inaugurato 1’8 settembre 1856 con una fe­sta solenne e con un banchetto imbandi­to a duecento conviviali, venne realizza­to nella corte del palazzo padronale di Larderello come vera e propria attrezza­tura ricreativa aziendale, prevalentemen­te destinata alle rappresentazioni sceni­che ed alle esecuzioni musicali dei dipen­denti dello stabilimento. L’allestimento di questo spazio teatrale, come la progetta­zione di quasi tutti gli interventi edilizi commissionati da Francesco de Larderei fra il 1845 e la data di morte (1858), va ascritta all’ebanista ed architetto livorne­se Ferdinando Magagnini. La frequente presenza del versatile operatore al servi­zio dei De Larderei nel territorio di Poma­rance doveva di lì a poco invogliare i membri dell’Accademia dei Coraggiosi ad affidargli l’incarico di redigere il progetto di un nuovo edificio teatrale in sostituzio­ne della sala già esistente nell’abitato. Il nuovo Teatro dei Coraggiosi, verrà inau­gurato il 12 ottobre 1862: sotto la lunetta dell’atrio, di fronte a chi entra, figura an­cora una epigrafe gratulatoria nei riguar­di dell’architetto fatta apporre per la cir­costanza dagli accademici.

Il fabbricato, che presenta sul fronte stra­dale una sobria facciatina in pietra tufa­cea a tre assi di aperture, rileva al suo in­terno, nella contratta sequenza dei vani che precedono la sala assicurando il ne­cessario sviluppo distributivo per accede­re ai diversi ordini di posti, un gustoso contrappunto di effeti spaziali, sottolinea­to dalla decorazione geometrica delle su­peraci, che accompagnano il fruitore fi­no alla soglia dell’invaso teatrale, dall’im­pianto lievemente a campana, a tre ordi­ni di palchi, sovrastato dalla appena ac­cennata concavità del soffitto dipinto la cui complessa armatura lignea emerge come il dorso di una testuggine nel loca­le sottotetto. La trasformazione postbel­lica del teatro in cinematografo ha com­portato, assieme al tamponamento del palco di mezzo per adibirlo a cabina di proiezione, il deturpamento del proscenio in conseguenza dell’installazione dello schermo.

Con l’emanazione delle nuove normative in materia di sicurezza, il Teatro dei Co­raggiosi venne definitivamente chiuso ed abbandonato perdendo così l’originaria funzione culturale e sociale. Inizia così lo storico declino e l’abbandono totale che avrebbe certamente portato alla definiti­va demolizione quale percorso oggetivo che caratterizza la maggioranza dei tea­tri italiani costruiti tra la fine del settecento e la prima metà dell’ottocento.

Nasce da questa amara constatazione il processo necessario di recupero di que­ste vecchie strutture e la necessità di pro­gettare una destinazione d’uso coerente con la loro storia e con le esigenze cultu­rali della realtà contemporanea. È proprio attraverso queste sollecitazioni determi­nate dalle Amministrazioni Locali che na­sce il progetto F.I.O., progetto integrato per la tutela monumentale, la ristruttura­zione e l’uso infrastrutturale dell’edilizia teatrale in Toscana. Con l’approvazione da parte dello Stato del progetto presen­tato dalla Regione Toscana per una spe­sa complessiva di 41 miliardi che consen­te l’intervento e la ristrutturazione di tren­ta strutture di proprietà pubblica tra le quali figura il Comune di Pomarance con le due strutture teatrali del Teatro De Lar­derei e Teatro dei Coraggiosi. Senza l’in­serimento nel progetto F.I.O. con l’acces­so ai finanziamenti previsti dal piano, sa­rebbe stato impensabile per il Comune pensare ad una operazione del genere. Ora inizieranno i lavori di progettazione e di recupero nell’ambito della politica della rivalutazione dei centri storici e della loro “vivibilità” secondo un nuovo concet­to dell’arredo urbano e come momento di aggregazione sociale onde contrastare i segnali di decadimento culturale in atto in tutti i centri urbani e nelle aree matropolitane. Si tratta insomma di far usufrui­re ai cittadini che vivono lontani dai cen­tri momenti di vita culturali che sono in­dispensabili per la tenuta complessiva di un territorio in particolar modo per le zo­ne montane.

NOTE BIBLIOGRAFICHE

Giuseppe Cruciani Fabozzi – I TEATRI ABBANDONATI – Tip. Casa USHER.

Marco Mayer – I TEATRI ABBANDONA­TI – Tip. Casa USHER

Paolo Pierazzini – I TEATRI ABBANDO­NATI – Tip. Casa USHER

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

PALAZZO DE LARDEREL

RESIDENZA NOBILIARE DELL’OTTOCENTO

Il XIX° secolo è stato per Pomarance un importante periodo storico caratteriz­zato da notevoli trasformazioni urbanisti­che nel centro storico che cambiarono ra­dicalmente l’aspetto medioevale o rina­scimentale dei palazzi appartenuti alle an­tiche casate nobiliari o borghesi del luogo. Queste costruzioni ottocentesche procu­rarono la distruzione di antiche testimo­nianze architettoniche creando la nuova immagine di Pomarance che è possibile osservare percorrendo le vie del centro storico ed in particolar modo via Roncalli o dei “Signori”.

Palazzo De Larderel

Sui vari palazzi certamente si impone il grandioso edificio di “Palazzo De Larde­rei”. Attualmente di proprietà comunale ed adibito a sede per l’Ufficio Tecnico e della Comunità Montana della Val di Ce­cina, fu un tempo la residenza autunna­le della nobile famiglia dei De Larderei che lo iniziarono ad opera del “sagace” commerciante Francesco De Larderei su progetto dell’architetto ebanista Magagnini di Livorno. Francesco De Larderei, di origine francese, trapiantatosi a Livorno fin dai primi dell’ottocento, si stabilì nelle nostre zone attorno al 1818 quando fu fondata una società (ved. Chemin – Prat – Lamotte – Larderei) dedita alla estrazio­ne e produzione dell’acido borico conte­nuto nei “lagoni” di Montecerboli. Lago­ni ottenuti a livello dal Comune di Poma­rance ed in seguito in concessione per­petua dal Granduca di Toscana. Il “bo­race”, prodotto richiesto ed esportato in tutto il mondo, permise al conte France­sco, con l’aumento di capitali, di entrare ben presto a far parte della borsa dei Prio­ri del Comune di Pomarance (1833) e di acquistare nel territorio comunale una se­rie di “unità immobiliari” che, ampliate e ristrutturate, sarebbero andate a forma­re il grandioso Palazzo – Fattoria De Lar­derei che ricalca, se pure con un lessico architettonico semplificato, il Palazzo Lar­derei di Livorno. (1)

L’area in cui doveva essere edificato il fabbricato era stata individuata dal “Con­te di Montecerboli”, fin dai primi dell’ot­tocento, all’inizio del paese, nell’antica contrada di borgo tra la porta Massetana e la Cancelleria comunitativa.

Consultando una mappa catastale del pe­riodo leopoldino (1823) è possibile com­prendere quali furono i fabbricati che Francesco De Larderei iniziò a compera­re per la realizzazione del grandioso pro­getto. (fig. 1)

Il primo edificio acquistato fu quello di pro­prietà del Cav. Giovanni Falconcini, per arroto del 6 aprile 1832, (particella cata­stale 279 – 281 – 282 – 283) a cui si ag­giunse due anni più tardi, per arroto del 18 aprile 1835, l’acquisto della casa di Metani Donato addossata all’antico ba­luardo di Porta Massetana (part. cat. 284). Sempre nello stesso anno venne acqui­stata, con arroto del 20 maggio 1835, la casa del Cav. Giuseppe Bardini (part. cat. 282 – 282 bis – 283 bis).

Sei anni dopo fu acquisita anche l’abita­zione di Francesco Funaioli per arroto del 25 maggio 1841, (part. cat. 277 – 278 – 280) insieme ad una cantina dai fratelli Mi­chele e Giuseppe Bicocchi (part. cat. 277 – 278) ed un terreno “sodo lavorativo” dal sig. Beliucci Ermogasto, che era quella porzione di suolo al di fuori delle vecchie mura castellane denominate il “Tribbietto” (2) (part. cat. 279 bis).

Negli stessi anni vennero acquistati dal De Larderei anche una serie di poderi che andarono a formare una tenuta di “beni rurali” nel Comune di Pomarance e che permise al Conte Francesco, in base ad un regolamento catastale del 1829, di fare istanza nel 1843 alle Magistrature di Co­mune per essere sgravato dalle stime im­ponibili sui fabbricati ad uso rurale: (3) “… con /a volontà del nobil conte Cav. Prio­re Francesco De Larderei di Livorno, a possedere come appunto possiede, una tenuta di beni rurali nella Comunità di Po­marance, ebbe desiderio insieme di cor­redarla di necessari comodi per l’agen­zia, e di un comodo per abitare nell’au­tunnali villeggiature. In pertanto che pro­cede all’aggiusto di vari antichi fabbrica­ti quali parte al di fuori, parte al di dentro della porta così detta Massetana della ter­ra di Pomarance, formarano un collega­to di muri, capaci insieme, a soddisfare il di sopra espresso suo desiderio.

E dappoiché tali speciali acquisti furono fatti dopo la stima del nuovo catasto, que­sti sopra dei catastali registri furono in conto, e faccia del prefato sig. Conte De Larderei …per un ammontare totale del­la rendita imponibile di lire 543,97”. (4) Nell’istanza il conte De Larderei dichia­rava che tutti quei fabbricati erano stati utilizzati ad uso di fattoria e “… ridotti in fienili, stalle, rimesse, granai, coppai, tinai, magazzini”, in parte come abitazio­ne dell’agente ed inservienti; in parte ad abitazione propria, ‘‘per tempo della vil­leggiatura”, con un piccolo giardino an­nesso, dichiarando inoltre che nessu­no dei fabbricati riservò per appigionarli o trarne frutto di locazione alcuno …”. Non ci è dato a sapere se “l’aggiusto” dei fabbricati corrisponda all’inizio dei lavori per la realizzazione di Palazzo De Larde­rei; certo è che la situazione urbanistica di questa area cambiò radicalmente nel giro di una decina di anni (1852 ca.) (fig. 2)

Variazione Catastate 1852 c.a. (FIG. 2).

Venne demolito infatti il baluardo di Por­ta Massetana e la casa del Melani; occu­pata la piccola piazzetta detta “Padella”; abbattuti i resti delle mura castellane; am­pliato il fabbricato centrale (part. cat. 282) e costruito un giardino al quale si acce­deva anche attraverso un vicolo dalla “via di Borgo” (tra part. 277 e 280).(5)

Il lotto centrale del Palazzo che secondo gli ambiziosi progetti del De Larderei avrebbe dovuto ricreare lo stesso impo­nente prospetto del palazzo di Livorno, già terminato in quegli anni, indusse lo stesso conte Francesco a proporre alle Magistrature nel 1852 la permuta della Cancelleria in cambio della ristrutturazio­ne a sue spese del Palazzo Pretorio creando ambienti idonei per l’Ufficio del Gonfaloniere e del Cancelliere.

Proposta non molto gradita dai Priori del Comune che avrebbero invece voluto un fabbricato nuovo come risulta da una let­tera del 1853 (6):

A di 25 maggio 1853

Pregiatissimo sig. Gonfaloniere sono onorato della pregiatissima sua in data 20 corrente con la quale V.S. illu­strissima si compiace di parteciparmi la decisione sulla mia proposizione relativa alla Cancelleria Comunitativa. L’opinione dell’ingegnere nulla mi sorprende, Egli si era già pronunciato da più di un anno e prima di avere esaminato le mie piante, lo compatisco per non dire altro.

Al Gent.mo sig. Gonfaloniere dovrà sem­pre convenire, che la mia proposizione era vantaggiosissima alla Comune, e che la cattivissima casa della Cancelleria (ve­niva distrutta fino ai fondamenti) mi sareb­be costato tre volte tanto il suo valore reale.

V.S. si compiace ancora propormi di fa­re costruire una nuova Cancelleria e di darmi la vecchia per la nuova e mi invita a sottoporre il mio progetto.

Mi rincresce doverli dire che non posso accettare simile proposizione, più parti­colarmente perchè il progetto qualunque fosse, avrebbe certamente la disgrazia di stare diversi anni nelle mani dell’ingegne­re, come ha fatto il primo, sarà adunque assai meglio che io rinunzi al mio progetto per non essere ballottato ingiustamente o capricciosamente, quando tutte le mie mire erano per il vantaggio della Comu­nità, l’imbellimento del paese, e far lavo­rare dei disgraziati senza lavori.

Ho l’onore di dichiararmi rispettosa­mente…

Dev.mo servitore F. De Larderei

Trascorsi due anni dalla prima richiesta di permuta il conte De Larderei faceva nuovamente istanza (1855) al Gonfalonie­re di Comune per la cessione della fab­brica di Cancelleria proponendo di pagar­la in contanti con l’aumento del 15% so­pra le stime, oppure costruendo una nuo­va Cancelleria uguale a quella vecchia dettando però una condizione che, se fos­se stata accettata la seconda proposta egli avrebbe iniziato i lavori nella immi­nente primavera e, ”… non solito aggior­nare i suoi divisimenti…” pregava le ma­gistrature a deliberare e risolvere entro il mese di marzo la sua richiesta “… pas­sato il quale, non sarebbe stato più il ca­so di mantenerla …”.

La seconda proposta fu ben presto accor­data ed i lavori del palazzo proseguirono di pari passo con quelli della nuova Can­celleria costruita tra la via Provinciale Massetana e via dei Boschetti. (7) Purtroppo, la morte del conte Francesco De Larderei non permise di poter vedere ultimato il suo grande desiderio che fu ben proseguito dal figlio Federigo, con l’ampliamento dell’ala del palazzo verso Porta Massetana e nella quale venne creato il bellissimo teatrino privato inau­gurato nel 1872.

In quello stesso periodo vennero acqui­stati dal figlio Federigo anche la casa con orto già di Cammillo Fantacci (Part. cat. 273 – 274 – 275) che furono utilizzate in parte per nuove scuderie (attuale Audito­rium). Oggi, percorrendo via Garibaldi, è possibile vedere la facciata principale di Palazzo De Larderei nel suo antico splen­dore dopo il riuscito restauro effettuato nel 1984 ad opera del Comune di Pomaran­ce e nel quale è evidenziato ancora di più il grande stemma in cotto della famiglia De Larderei collocato all’interno del tim­pano centrale in cui si legge: “Raffaello Agresti fece all’lmpruneta nel 1871”.

Jader Spinelli

NOTE BIBLIOGRAFICHE

  1. Il Teatro abbandonato; “Pomarance: tea­tri storici” di G. Cruciani Fabozzi 1985; Ed. La Casa USHER
  2. Cfr. “La Porta Orciolina o Massetana” – La Comunità di Pomarance n° 2 e Supple­mento al n° 2 1988
  3. Patrimonio rurale nel marzo 1843 di Fran­cesco De Larderei: Podere S. Enrico, pod. S. Federigo, pod. Santa Paolina, pod. S. Filiberto, pod. Pogio Montino, Pod. Poggia­momi, pod. Luogonuovo, “Una costruzione non ultimata in aggiunta alla casa colonica dell’antico podere detto Palagetto..”.
  4. Archivio Storico Comunale Pomarance F. 609.
  5. Il giardino era delimitato da una sontuo­sa cancellata in ghisa proveniente dalle fon­derie di Follonica. Questa fu demolita negli anni quaranta come offerta alla Patria per uso bellico.
  6. Archivio Storico Comunale Pomarance F. 159.

La Cancelleria era costruita dove attual­mente sono i “Giardinetti” e l’edicola dei giornali; permutata dalla famiglia Bicocchi, per la cessione dell’attuale palazzo comu­nale, fu utilizzata come Ospedale fino al 1935 circa. L’edificio fu minato durante la ritirata delle truppe tedeschenel 1945. (ve­di Rievocazioni Storiche di Edmondo Mazzinghi – La Comunità di Pomarance 1974).

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

IL PALAZZO “BIONDI-BARTOLINI” A POMARANCE

Il palazzo “Biondi Bartolini’’ situato sul­la Piazza De Larderei al numero civico 3, è uno dei più antichi edifici esistenti nel paese di Pomarance.

Ristrutturato nel modo attuale agli inizi dell’ottocento appartenne, fin dai primi anni del XVIII secolo, alla famiglia Biondi che ebbe tra i suoi discendenti Notai, Dot­tori, Priori e Gonfalonieri nelle Magistra­ture del Comune delle Pomarance.

Attualmente conosciuto come il palazzo “Biondi Bartolini”, fu denominato come tale solo attorno al 1830, quando un di­scendente, certo Giuseppe Biondi, spo­sando Donna Violante Bartolini, aggiun­se al proprio cognome quello della mo­glie.

L’edificio, collocato al vigente catasto di Pisa con la particella catastale n° 417, può certamente essere considerato di no­tevole interesse storico per le sue prege­voli opere pittoriche dipinte sulle pareti e nei soffitti delle sale del “piano nobiliare”. Fin dai primi anni dell’ottocento il palaz­zo, ancora detto dei “Biondi”, era indi­cato negli antichi chirografi del tempo “lungo la via di Petriccio” che comincia­va all’incirca dalla “Porta alla Pieve” (o Portone di Petriccio) e terminava alla “Porta Volterrana”.

Facciata del Palazzo Biondi Bartolini nel 1890

Uno dei più antichi documenti che ci con­sente l’individuazione del palazzo è una planimetria del “Catasto Generale della Toscana” o “Catasto Leopoldino” rela­tivo a Pomarance. La piantina catastale, conservata nell’Archivio di Stato di Pisa e datata 1823, consente di verificare l’a­rea occupata dall’immobile ed a questa faremo riferimento nella nostra tratta­zione.(1)

Indicato a quel tempo con la particella ca­tastale n° 316 risultava di proprietà del Sig. Giovan Battista Biondi. Proprietà che fu tramandata, di generazione in genera­zione, fin dall’acquisto (XVIII secolo) di al­cuni beni immobili appartenuti a Cristofano Roncalli, discendente della famiglia Roncalli di Pomarance e pronipote del ce­lebre pittore Crostofano Roncalli detto il “Pomarancio” (1552-1626).

Dall’estimo del Comune di Ripomarance del 1571 risulta che l’immobile, pervenu­to in eredità al Dottor Cristofano Roncal­li, apparteneva al suo bisnonno, Giovan Antonio di Francesco Roncalli da Berga­mo, padre del pittore Cristofano Roncalli. La casa, addossata alle antiche mura ca­stellane del XIII secolo prospicenti la stra­da di Petriccio, confinava, come ancora oggi, con la Canonica della Chiesa di San Giovanni Battista, l’orto della Chiesa e la porta “alla Pieve”; confinazioni importanti che hanno permesso l’individuazione del fabbricato negli estimi del comune di “Ri­pomarance” fin dal XV secolo.

Uno dei documenti attestanti l’apparte­nenza dell’edificio ai Roncalli risale al pri­mo decennio del ’600. Trattasi di un estratto di contratto di vendita immobiliare pubblicato nel 1969 dal Dott. Giovan Bat­tista Biondi su “La Comunità di Pomaran­ce” e conservato nell’Archivio di Stato di Firenze al protocollo n° 19887, carta 45 v., atto 93, nel quale il notaio del tempo, Ser Guasparri del fu Francesco Maffii, certificava, in data 16 maggio 1616, che “… il Cavaliere Cristofano Roncalli delle Pomarance fu Giovan Antonio fece pren­dere possesso dei suoi beni in Pomaran­ce, relitti morendo, il di lui fratello Dona­to”. Tra le varie proprietà compariva an­che la casa, oggetto della nostra ricerca, posta nel castello di Ripomarance in luo­go detto Petriccio confinante: “… a 1° Via, 2° Beni dell’eredi di Bernardino Ron­calli mediante il Portone, 3° Casa della Pieve di San Gio:Battista, 4° Orto della Pieve, a 5° la casa di Bartolomeo Cercignani e se altri confini vi fossero, con le stanze e le botteghe sotto detta casa…”. L’edificio, attaccato come ancora oggi al Portone della Pieve e ricostruito ex novo nel 1884, presentava anticamente due stanze sovrapposte che pervennero ai Roncalli probabilmente da un livello enfiteutico dato dal Comune di Ripoma­rance.

Le stanze erano di necessaria comunica­zione con l’altra casa di Giovan Antonio Roncalli posta al di là della Porta alla Pie­ve in luogo detto “Piazzetta alla Chiesa” (attuale Largo Don Morosini).

La “Lira” o “Estimo” del Comune di Ri­pomarance del 1630, con arroti fino al 1708, conferma l’esistenza di questa uni­tà immobiliare ereditata dai discendenti Roncalli. (2)

La proprietà in quell’anno risulta infatti al­la “posta” di Jacopo, Francesco e Gu­glielmo figli di Cosimo Roncalli.

Cosimo infatti era fratello del pittore Cri­stofano e figlio anche esso di Giovan An­tonio Roncalli. La proprietà è così indica­ta: “… Una casa in detto castello con più botteghe confinata a 10 Via, 2° Pieve, 3° Orto della Pieve, 4° Mura, 5° Bartolomeo Cercignani, 6° Via … stimata lire milleduecentoquarantacinque…”.

Stemma Famiglia Biondi

Alcuni anni più tardi l’appartenenza del­l’edificio passò al dottor Guglielmo Ron­calli ed al fratello prete Francesco Ron­calli. Alla morte di prete Francesco, con testamento del maggio 1683, rogato dal Notaio Gio: Antonio Armaleoni, la proprie­tà dell’immobile fu ereditata, in data 10 maggio 1696, dal Dottor Cristofano Ron­calli, “soldato” (Tenente) Giuseppe Ron­calli e prete Lorenzo Roncalli del fu Gu­glielmo suoi eredi e legittimi nipoti.(3) Nei primi anni del XVIII secolo risulta pro­prietario deH’immobile confinante con la casa della pieve soltanto il dottor Cristo­fano Roncalli; suo fratello, il tenente Giu­seppe Roncalli, era infatti padrone della casa al di là della “Porta alla Pieve” (eredi attuali della Sig.na Federiga Volpi) così descritta nell’estimo del 1716 (4): “… una casa in Petriccio al portone con pozzo a metà con Teodora Ceccherini, confinata a 1° Via, 2° Via, 3° e 4° detta Teodora Ceccherini, 5° Via, 6° Dottor Cristofano Roncalli sopra il Portone stimata scudi 200…”.

Stemma dei Bartolini

La casa del Dottor Cristofano Roncalli fu oggetto di compravendita in data 13 gen­naio 1728 (ab Incarnazione 1729). Lo scritto è riportato nell’articolo del Dottor Biondi Giovan Battista già citato.

Il Contratto conservato all’Archivio di Sta­to di Firenze (Protocollo n° 23922 pag. 169) certifica che il suddetto Dottor Cri­stofano Roncalli aveva lasciato dopo la sua morte molti debiti e che i suoi credi­tori erano riusciti a mandare all’asta pub­blica tutti i suoi beni.

Il 10 giugno 1727 (1728) i detti beni furo­no acquistati all’incanto dall’unico offe­rente, Michele di Cerbone di Michelange­lo Vadorini. Dal rogito si apprende che Pietro o Pier Francesco Biondi (1691-1730), figlio di Giovan Antonio Bion­di e Costanza di Domenico di Sebastia­no del Capitano Pietro Paolo Santucci, di­retto antenato dei Biondi (e quindi degli attuali Biondi Bartolini) acquistò dallo stesso Vadorini la casa oggetto della no­stra ricerca e cioè: “… Una casa dai fon­damenti a tetto, luogo detto Petriccio con­finata a 1 ° Via, 2° Sig. Luogotenente Giu­seppe Roncalli, 3° la Chiesa arcipretale di San Gio:Battista di detta terra, 4° ere­di del quondam Bartolomeo Cercignani et altri….”.

La parte dispositiva del contratto si chiu­deva con la seguente clausola: “… il me­desimo sig. Pietro Francesco Biondi ha promesso e si è obbligato di lasciar go­dere e possedere al sig. Luogotenente Giuseppe Roncalli le due stanze di detta casa che sono poste sopra le camere contigue al Portone (di Petriccio), sua vi­ta durante…”.(5)

Nell’estimo del 1716, con arroti fino al 1805 e conservato nell’Archivio della Bi­blioteca Guarnacci di Volterra, la suddetta proprietà è così indicata: “… Una casa in Petriccio a 1 ° Via, 2° Tenente Giuseppe Roncalli, 3° Casa ed orto della Chiesa, 4° Pasquino Borghetti, 5° Via … stimata scudi 150…”.(6)

In calce è riportata la seguente annota­zione: “…a di. 22 giugno 1729; viene det­ta casa dalla posta di Michele di Cerbo­ne Vadorini, in questo a carta 346, per compra fattane dal sig. Biondi Pietro Francesco per medesimo prezzo di scu­di 100; per rogito di Giovan Pietro Biondi (notaio) del di 13 giugno 1728; visto e re­so accomodato dal sig. Cancelliere Tor­quato Mannaioni…”.

Planimetria catastale del 1823. (Catasto Leopoldino). Palazzo “Biondi” indicato alla particella catastale n° 316

La casa aveva un nuovo confinante, Pa­squino Borghetti, che altro non era che il marito di Maria Cammilla Cercignani fi­glia del “quondam” Bartolomeo. Questi infatti possedeva una casa con più stan­ze con cantina e telaio sotto, in Petriccio confinata a 1° Via, 2° dott. Cristofano Roncalli, 3° orto della Chiesa, 4° mura castellane, 5° e 6° Simone Cercignani del valore di 50 scudi…”.(7)

Dal 22 giugno 1729 i Biondi furono gli uni­ci proprietari di questo immobile. La sud­detta famiglia, che è annotata nell’estimo del Comune di Pomarance fin dal XVII se­colo, risultava proprietaria di diversi beni nella corte di Ripomarance. Secondo lo storico Don Socrate Isolani pare che es­sa provenisse dal “Castello della Pietra” nei pressi di San Gimignano e che alcu­ni suoi membri si fossero stabiliti attorno al XVI secolo nel piccolo castello di San Dalmazio. Giovanni di Giovan Pietro Bion­di (1604-1697), annotato nell’estimo del Comune di Pomarance risulta provenien­te infatti da San Dalmazio.(8)

Questi aveva comprato, in data 6 ottobre 1675, a Pomarance tutti i beni apparte­nuti ad Agnolo Sorbi ed a suo fratello Ba­stiano tra cui una casa posta in Petriccio confinante con lo “Spedale” di San Gio­vanni. Le proprietà risultano successiva­mente essere poste a carico di suo figlio Giovanni Antonio (1670-1730).

Il di lui figlio, Pietro Francesco Biondi (1671-1730) fu l’autore dell’acquisto del­l’antico palazzo appartenuto ai Roncalli che, come già descritto, fu comprato al­l’asta dai Vadorini e poi successivamen­te rivenduto al Biondi nel 1728 (1729).

Il dottor Pietro Francesco Biondi sposan­dosi con … dette la nascita a tre figli: Pom­peo, Francesco (Michelangelo) e Giusep­pe (Maria). Rimasti orfani in tenera età, per la precoce morte del padre, eredita­rono tutti i beni del nonno Giovan Antonio per atto di testamento datato 22 agosto
1734; alla presenza del sig. Tenente Pier Giuseppe Biondi, uno dei tutori e provve­ditori. Tra i vari possedimenti risulta an­che la casa confinante con la Chiesa, og­getto della nostra indagine. In data 13 agosto 1743 venne cancellato dalla “posta” dei beni dei fratelli Biondi il sig. Pompeo “… stante la divisione e cessione fatta a detti fratelli, come appa­re per contratto rogato dal Notaio Anto­nio Nicola Tabarrini…”.(9)

I due fratelli, Francesco e Giuseppe, ri­masti unici proprietari della casa posta lungo la via di Petriccio accanto alla por­ta “alla Pieve”, nel 1760 ricomprarono una piccola stanza “posta nello stasso palazzo di loro dimora”, che era stata venduta molti anni prima a certo Giovan Maria Funaioli per scudi 10.

La riacquisizione della suddetta stanza ad opera di Giuseppe e Francesco Biondi è confermata oltre che nell’estimo del XVIII secolo, anche da un contratto conserva­to nell’archivio privato della famiglia Bion­di Bartolini.(IO) Dal rogito si apprende quanto segue: “…adì 30 maggio 1760 … Qualmente dal già Sig. Pietro Francesco Biondi delle Pomarance fu venduta una stanza a terreno a Francesco e Andrea, fratelli e figli del già Giovan Maria Funaioli di detto luogo … qual stanza è contigua alla casa di proprietà di abitazione di detto signor venditore; luogo detto Petriccio, confinante a 1° Via, 2° Signori Biondi, 3° Portone detto di Petriccio … come per contratto rogato dal Dott. Bernardino Cercignani … ed avendo adesso convenuto e stabilito che il detto padrone di detta stanza, rilasci e conceda la suddetta stan­za alli Signori Francesco e Giuseppe Biondi del prefato Sig. Pietro Francesco Biondi…”.

In un documento successivo del 1779, tratto daH’Archivio Storico di Pomarance, la suddetta casa viene citata come appar­tenente allo stesso Giuseppe Biondi, gon­faloniere in quegli anni nel Comune del­le Pomarance. In una descrizione di “Strade e Fabbriche della Comunità di Pomarance” dello stesso anno infatti, si annotava che dalla via di Petriccio si stac­cava una piccola via denominata “Dietro il canto”, la quale iniziava: “dalla canto­nata del Sig. Giuseppe Biondi a mano dritta, et a sinistra dalla casa del Sig. Can­celliere Incontri, con direzione le­vante…”.(11)

Nello stesso anno i due fratelli Biondi fa­cevano istanza al Comune delle Poma­rance per poter sbassare una torre delle vecchie mura castellane che impediva lu­ce necessaria alla loro abitazione: “… di poi letta un’istanza dei Sig.ri Dottori Giu­seppe e fratello (Francesco) Biondi colla quale domandano di poter sbassare alcu­ne parti di braccia della torre esistente lungo le mura castellane, luogo detto il Tavone, per acquistare l’aria della casa di loro abitazione… Deliberarono perciò di quanto spetta, ed è facoltà del Magi­strato loro, accordarsi il mandato stesso… ‘>(12)

Una sala del piano nobiliare con decorazioni e pitture murali

È ipotizzabile che la suddetta torre posta in località Tavone, altro non fosse che la torre circolare (attualmente conosciuta come “dei Biondi Bartolini”) ubicata nel giardino degli stessi Biondi Bartolini die­tro Via dei Fossi.

Un’altra notizia storica del palazzo risale al 1783, quando il sig. Giuseppe Biondi faceva domanda al comune delle Poma­rance che: “… gli fosse accordata licen­za di fare tre paloni per l’ingresso ad una bottega da esso fatta ai pié della casa di sua abitazione, quale rimane troppo alta dal piano della strada…”.(13)

Attorno al 1785 il fratello Francesco Bion­di lasciava la casa paterna per formarne una propria. Il 15 settembre infatti face­va domanda alle Magistrature del Comu­ne di Pomarance “… di assere ammes­so al godimento dei Priori della Comuni­tà così come ha goduto e gode la sua ca­sa paterna del Gonfalonierato, e Operaio per formare distinta famiglia dagli altri suoi fratelli (Giuseppe e Pompeo)”.(14) Francesco Biondi si stabilì con la propria famiglia nel palazzo posto sulla via di “Borgo” (oggi Roncalli) nel palazzo at­tualmente conosciuto come “dei Ricci”. Nella divisione patrimoniale dei tre fratelli anche il “prete” Pompeo fu liquidato con una retta annuale sul capitale di famiglia; rimase unico possessore dell’immobile il Dottor Giuseppe che morì nell’anno 1799. Con voltura n° 11 e n° 30 dello stesso an­no ed una voltura (n° 9) del 1803 la pro­prietà della casa posta “in Petriccio” e confinante con la casa ed orto della chie­sa, fu ereditata dai suoi tre figli; Dottor Giovan Battista (1756-1826), Tommaso ed Isidoro.(15)

La tutela del patrimonio fu affidata al fra­tello maggiore Giovan Battista Biondi che fu anche il promotore della ristrutturazio­ne del palazzo “Biondi”, così come ci è pervenuto oggi.

La notizia è del 24 maggio 1800; trattasi di una istanza presentata al Comune delle Pomarance dal Dottor Capitano Giovan Battista Biondi ”… colla quale domanda accordarseli la facoltà di poter porre l’antenne (paloni per impalcature) o quanto altro occorra nella necessità in cui si tro­va di dover rifondare le muraglie di sua abitazione posta in Petriccio e domanda di poter occupare lungo le muraglie di es­sa casa un terzo di suolo di strada e piaz­zetta di Petriccio col pagare alla comuni­tà l’occorrente…”.(16)

La conferma di questa ristrutturazione agli albori dell’ottocento è data anche da un documento conservato nell’archivio Biondi Bartolini che tratta di una ricevuta di pagamento ad una “maestranza” ori­ginaria di Firenze e lavorante in Pomaran­ce: “… Adì 9 settembre 1802… lo Pasqua­le Bitossi ho ricevuto dal Sig. Capitano Giovan Battista Biondi la somma di lire 80 tanti sono per opere fatte in sua casa, e mi chiamo contento e soddisfatto in tutto per lire ottanta…”.

La riedificazione comportò anche l’am­pliamento dell’edificio al di là delle vec­chie mura castellane, sul versante dell’or­to della chiesa di Pomarance. “Suolo ca­nonicale” concesso a livello enfiteutico al­la famiglia Biondi, dal parroco Saverio Pandolfini che consentì l’allineamento dell’edificio stesso verso la proprietà del­l’orto della famiglia Biondi. Questa notizia è certificata da un atto di divisione patrimoniale del 1804 tra i fra­telli Biondi e conservato nell’archivio di famiglia: “… essendo che fino dall’anno 1804 l’illustrissimo Vicario, Dottor Tom­maso Biondi del già sig. Giuseppe (Anto­nio) Biondi di Pomarance, entrasse in de­terminazione di provvedere alla divisione
del patrimonio sostante e i beni che rite­neva in comune gli III.mi signori, Capita­no Giovan Battista e Isidoro di detto già Sig. Giuseppe Antonio Biondi di detto luo­go, di lui fratelli, ad essi pervenuti in ere­dità paterna e materna, quanto per ere­dità del defunto Sig. Dottor Francesco Biondi comune zio…”.

Nella descrizione dei beni in divisione è annotata anche: “… la casa di abitazio­ne di loro stessi dividendi, posta in detta terra di Pomarance nella contrada di Petriccio, assieme colla nuova aggiunta eretta sul suolo ortale della chiesa di detto luogo con tutte le sue adiacenze e perti­nenze…”.(17)

Anche se non sono stati ritrovati docu­menti concernenti il contratto di livello enfiteutico per l’occupazione del suolo or­tale della chiesa, la stessa concessione enfiteutica è testimoniata in una relazio­ne della metà del XIX secolo sulle proprie­tà dei Biondi Bartolini nel quale l’edificio è descritto: ”… composto di tre piani da terra a tetto il tutto per la più gran parte di libera proprietà, ma per piccola parte “livello” della Propositura di Pomarance

In quegli anni vennero dipinte e decora­te le stanze ed i soffitti del “piano nobi­liare” in cui furono raffigurati, in stile Im­periale, vedute paesaggistiche di notevoli dimensioni tra le quali è di notevole inte­resse un paesaggio del castello di Poma­rance (fine XVIII secolo) visto dalla zona di Piuvico o Cappella di San Carlino.(18) Giovan Battista ed Isidoro, rimasti unici proprietari del patrimonio di famiglia, in data 30 novembre 1813 addivennero ad una nuova divisione dei loro beni tra cui figuravano alcuni possedimenti ereditati dallo zio paterno, Francesco Biondi.

Nell’atto notarile conservato tra i docu­menti di famiglia Biondi Bartolini è indi­cata anche “… la metà della casa di abi­tazione degli antedetti condividendi posta nella terra di Pomarance, contrada di Petriccio, confinata a 10 strada pubblica, Bartolomeo Fedeli, 3° casa canonicale, 4° orto annesso a detta casa canonica­le, 5° stanze dell’Opera, 6° Annibaie Vadorini con orto e casa e torna a detta via, dentro qual confini restano compresi il ter­razzo ed orto uniti a detta casa dei con­dividendi che vien formata dalle fabbriche urbane descritte in faccia dei medesimi condividendi a carta 198 e 296 di detto estimo di Pomarance, stimata scudi 1000; qui per metà scudi 500…”.

Successivamente la casa pervenne al Ca­pitano Giovan Battista Biondi che morì nel 1826. Questi lasciò eredi dei propri pos­sedimenti i suoi tre figli: Giuseppe, Pie­tro e Jacopo che risultano proprietari, al Catasto Generale della Toscana (1830), deH’immobile posto in Petriccio e descrit­to alla particella catastale n° 316 e 315 (cioè abitazione e orto).

In una successiva divisione patrimoniale tra gli stessi fratelli Biondi, figli di Giovan Battista, le proprietà pervennero (30 aprile 1837) al fratello maggiore Giuseppe; gli altri, Jacopo e Pietro furono liquidati con una cospicua somma di danaro (8000 scudi ciascuno) ed una rendita annuale sui fruttati di interesse sul capitale di fa­miglia. Jacopo si trasferì a Montalcino de­dicandosi alla sua tenuta vinicola e pro­ducendo il famoso “Brunello di Montal­cino”.

L’avvocato Pietro sposando Domira Vadolini dette luogo al ramo dei Biondi da cui discendono il dottor P.G. Biondi ed i suoi figli, Notaio Giovan Battista e Andrea Biondi della Sdriscia.

Il dottor Giuseppe Biondi sposando nel 1830 Donna Violante Bartolini, del Gon­faloniere Bartolino Bartolini e Guglielma Tabarrini, con decreto del 26 febbraio 1830, aggiunse al proprio cognome quello della moglie dal quale è derivata l’attua­le famiglia “Biondi Bartolini”, proprietari ancora oggi dell’ornonimo palazzo situa­to in Piazza de Larderei.

Alla morte del dottor Giuseppe Biondi Bartolini, avvenuta nel 1863, gli succedet­tero nella tenuta del patrimonio immobi­liare i suoi figli Bartolino e Giovanni.

Particolare del Castello di Pomarance agli inizi del XIX see. dipinto sulla parete della sala al piano nobiliare.

In quell’anno infatti, e precisamente il 22 maggio, fu stilata una relazione dettaglia­ta del “patrimonio” Biondi Bartolini, dell’Ing. Lorenzo Chiostri che è ben conser­vata nell’archivio di famiglia. Nel mano­scritto di stima dei beni Biondi Bartolini è descritto con minuzia il “palazzo nobi­liare” dai fondi al tetto, il valore degli ar­redi che adornavano le varie stanze: “… Patrimonio lasciato dal Nobil Uomo dott. Giuseppe Biondi Bartolini al 22 maggio 1863… Un palazzo con orto annesso si­tuato in comunità di Pomarance eprecisamente nel paese di tal nome in corri­spondenza della nuova Piazza de Larde­rei, e della via maestra che ne fa, segui­to procedendo verso il centro del paese, composto di tre piani da terra a tetto, il tutto per la più gran parte di libera pro­prietà, ma per piccola parte livello della propositura di Pomarance; di superficie tutto compreso orto e palazzo, braccia 1457 equivalente a mq. 496 e così confi­nato: a 1 ° Piazza de Lardarel, 2° Via, un tempo detta di Petriccio, 3° Via Masca­gni, 4°, 5°, 6°, 7°, 8°, Propositura di Po­marance con fabbricato ed orto, 9°, 10°, 11°, 12°, 13°, Sig. Vadorini Giuseppe con orto e casa. Annesso a detto palaz­zo sta una terrazza a livello del terzo pia­no, costruita sopra un’antica porta del paese, il cui arco da un lato appoggia al palazzo Biondi Bartolini e dall’altro alla casa dei fratelli Bongi… Il piano terreno del suddetto palazzo è composto, come appresso: una piccola bottega con unico ingresso dall’esterno, un corridoio corri­spondente alla porta principale di ingres­so… Il descritto palazzo offre stabilità nel­le sue mura, comodità nelle sue stanze ed eleganza specialmente in quelle del primo piano… Fra queste meritano spe­ciale considerazione la sala ed il salotto da ricevere per le belle pittura che ador­nano le pareti; ma il pavimento a smalto lustrato e figurato a disegno con pietra di vari colori che presenta la sala, accresco­no alla sala stessa un pregio, che la pari­fica alle sale dei palazzi signorili delle cit­tà… Le finestre del piano terreno sono guarnite di inferriate esternamente e di serramento a due imposte di cristalli e scurini internamente. Quelle del piano su­periore sono provvedute d’imposte a cri­stalli e scurini e di persiane; quelle del pri­mo piano a tetto hanno semplicemente le imposte a cristalli e scurini… Al piantario del nuovo estimo della Comunità di Po­marance il suddetto palazzo con orto è fi­gurato dalle particelle n° 315 e 316 della sezione C accese a conto di Biondi Bar­tolini Bartolino e Giovanni del dottor Giu­seppe…”.

Stato attuale del Palazzo Biondi Bartolini indicato alla particella n° 417

Nella relazione dettagliata è annotato che manca il documento del livello corrispo­sto alla Canonica per l’occupazione del suolo destinato alTampliamento dell’edi­ficio avvenuto agli inizi dell’ottocento e che comportava una spesa annua di lire 45,20.

Nel periodo tra il 1863 ed il 1868 Bartoli­no e Giovanni ampliarono i possedimen­ti immobiliari nelle immediate adiacenze della loro abitazione. Infatti in una rela­zione sul “patrimonio attivo e passivo” dei fratelli Bartolini e Giovanni del 22 maggio 1863, confrontato con quello del 10 novembre 1868 risulta, nella voce “ac­quisti di immobili” un pagamento a Giu­seppe Vadorini per “vitalizio di lui casa”, di lire 552. Egli infatti cedette i propri pos­sedimenti (particelle 315 e 314 del Cata­sto Leopoldino) in cambio di una rendita vitalizia. Nell’acquisto come si può osser­vare dalla planimetria catastale (1823-1898) era compresa anche la torre cilindrica o “baluardo” detta del “Tavo- ne” ed un appezzamento di terreno lun­go la via “dei Fossi”.(19)

Dopo la morte del cavalier Bartolino Bion­di Bartolini avvenuta il 28 giugno 1900 le proprietà rurali nonché la casa paterna pervennero, con testamento registrato a Volterra il 20 dicembre 1900, al fratello Giovanni Biondi Bartolini (1838-1904). Da questi, per discendenza diretta fu eredi­tata dal di lui figlio Giulio (1877-1918) dal quale sono pervenute all’attuale Giovan­ni Biondi Bartolini.

Jader Spinelli

NOTE:

  1. Archivio di Stato di Pisa; Planimetria cata­stale della Toscana (Catasto Leopoldino); Uf­ficio fiumi e fossi: Comunità di Pomarance Sez. C n° 2; Scala 1: 1250; 6 maggio 1823.
  2. Archivio Storico Comunale di Pomarance F. 430 (estimo 1630) c. 115 r.
  3. Archivio Storico Comunale di Pomarance F. 430 (estimo 1630) c. 289 v.
  4. Archivio Storico Comunale di Pomarance F. 432 (estimo 1716) c. 2 r.
  5. Dott. Giovan Battista Biondi: “La famiglia Roncalli a Pomarance” in La Comunità di Po­marance 1969.
  6. Biblioteca Guarnacci Volterra, estimo 1716 c. 198 r.
  7. Biblioteca Guarnacci Volterra, estimo 1716 c. 206 r.
  8. Archivio Storico Comunale Pomarance F. 378.
  9. Biblioteca Guarnacci Volterra; estimo 1716 c. 195 r., v.
  10. Archivio Biondi Bartolini (non catalogato)
  11. Archivio Storico Comunale di Pomarance F. 378. Il vicolo “Dietro il Canto”, come è pos­sibile osservare dalla piantina catastale del 1823, lambiva il palazzo Biondi (attuale Bion­di Bartolini) indicato alla particella catastale 316 e il palazzo del Can.re Incontri (part. 448); poi del Panicacci, che era quel grande edificio po­sto nel centro dell’attuale Piazza de Lardarel. Edificio distrutto a carico e spese del Conte de Larderei nel 1860 al quale fu dedicata l’omo­nima piazza.
  12. Archivio Storico Comunale di Pomarance F. 126 c. 123 v.
  13. Archivio Storico Comunale di Pomarance F.127 c. 30 v.
  14. Archivio Storico Comunale di Pomarance F.127 c. 97 r.
  15. Biblioteca Guarnacci Volterra, estimo 1716 c. 195 r.
  16. Archivio Storico Comunale di Pomarance F. 130 c. 13 (1800).
  17. Archivio Biondi Bartolini. Da alcune noti­zie orali del Sovrintendente ai monumenti P.G. Biondi, riportatimi dallo storico Don Mario Boc­ci, pare che durante i lavori di ristrutturazione dell’edificio, fossero state rinvenute diverse tombe etrusche anche del periodo arcaico. Ne è testimonianza nelle vicinanze una tomba a quattro celle sotto la Canonica databile attor­no al IV secolo A.C.
  18. Gli affreschi che si trovano dipinti sui sof­fitti delle stanze nobiliari e soprattutto le gran­di pitture murali delle sale da ricevimento so­no molto simili, per tecnica e soggetto, a quelle dell’ex Palazzo Ricci, già dei Biondi nel 1800. La parentela che esisteva tra i proprietari dei due palazzi favorì certamente una commissio­ne agli stessi decoratori e pittori per gli abbel­limenti interni. Il Palazzo ex Ricci, attualmen­te di proprietà comunale, fu di proprietà di Francesco Biondi, fratello di Giuseppe che vi andò ad abitare dopo il 1785 quando formò un proprio nucleo familiare. Attorno al 1826 que­sto immobile era assegnato ai fratelli Giovan Carlo e Luigi Biondi del fu Francesco Biondi. In una delle sale affrescate di questo palazzo, utilizzata impropriamente come ambulatorio U.S.L., è impressa una data molto importante per datare l’esecuzione di questi affreschi e quelli conservati in palazzo Biondi Bartolini. Questa è scritta in numeri romani sopra un ca­minetto incassato nel muro e riporta l’anno 1810.
  19. Con la costruzione della nuova Piazza de Larderei nel 1860, l’immobile dei Biondi Bar­tolini accatastato con la particella 316 aveva l’entrata principale indicata al numero civico 44; secondo il “Registro dei possessori di fab­bricati” del 1878 e del 1889 il suo valore era di lire 168, 75.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

IL PONTE DI FERRO

a cura di F. Bongi

Il ponte sul fiume Cecina, o “Ponte di Ferro” come viene chiamato dalle popolazioni della Val di Cecina, è un nodo stradale molto importante sulla S. S. n° 439 per i collegamenti tra l’Alta e la Bassa Val di Cecina.

Da quanto abbiamo potuto trovare nell’Archivio Storico Comunale di Pomarance, la prima notizia sulla esi­genza della costruzione di un ponte nel luogo compreso tra il Piano delle Macie e la collina di Montebono risale al 24 agosto 1786. E’ infatti in questa data che, nel Libro delle Deliberazioni e dei Partiti, risulta adottato quanto segue:

“Adunati i signori Gonfaloniere e Priori residenti nel Magistrato Comunitativo di Pomarance, Vicariato di Val di Cecina, in legittimo e sufficiente numero di cinque per trattare … OMISSIS…

Di poi fu fatta ostentabile al Magi­strato loro la lettera dell’III. mo Signor Filippo Giobert, colla quale accompa­gna diversi quesiti relazionando al memoriale stato fatto sulla costruzio­ne del Ponte a Cecina … Deliberati deliberandis dissero commettersi conforme commessero al Sig. Dott. Giuseppe Maria Biondi il replicare a detti quesiti in quella forma, che cre­derà convenire, avendo ora per allora già approvate le repliche e quelle spe­dirsi al nominato Sig. Filippo e tutto con loro legittimo partito di voti favore­voli cinque nessuno contrario.

Sig. Francesco Biondi Gonfa loniere”.

I motivi che inducono alcuni Partico­lari a perorare la causa della costru­zione di un ponte sul fiume Cecina non ci è dato di conoscerli. In quegli anni infatti il traffico non era molto intenso e le persone che viaggiavano con una certa frequenza sulla Via Maremmana detta anche del Cerro Bucato (antico nome della S. S. n° 439) erano i Canovieri del sale delle Comunità dell’Alta Val di Cecina che si recavano al R. Magazzino di Volterra a fare il prelievo, il Procaccia che por­tava la posta da e per Firenze e Vol­terra, gli addetti al prelievo della pol­vere da “botta e da archibuso” presso i magazzini del Bastione di Volterra, i predicatori, gli addetti al trasporto dei malati di una certa gravità all’Ospedale di Volterra e saltuariamente gli uomini di Comune che dovevano sbrigare delle pratiche o a Firenze o a Volterra. Queste persone, a causa del carattere torrentizio del Cecina, spe­cialmente nelle stagioni piovose trova­vano un ostacolo pressoché insor­montabile nel fiume ingrossato dalla pioggia per cui o attendevano che le acque calassero o ritornavano sui loro passi.

Un’ipotesi probabile potrebbe esse­re quella di un suggerimento dato agli uomini del Comune da una persona­lità

che conosceva bene Pomarance ed i rischi di guadare il fiume quando questo era ingrossato dalla pioggia.

In quegli anni infatti una alta perso­nalità di origine pomarancina veniva a trascorrere un periodo di riposo nella casa paterna durante il mese di set­tembre. Era questi il Sen. Carlo Alber­to Biondi, cugino e fratello dei Biondi che ricoprivano importanti cariche nel Comune di Pomarance.

Essendo il Biondi Consigliere Intimo Attuale dell’imperatore d’Austria non­ché Presidente del Supremo Consiglio di Giustizia della Lombardia, gli uomi­ni del Comune pensarono di poter sfruttare la sua influenza sul Grandu­ca di Toscana che, fra l’altro, era fra­tello dell’imperatore d’Austria. La cosa però non sortì alcun risultato e del ponte sul Cecina non abbiamo trovato più notizie sino al 18 novembre 1795, data in cui torna a farsi sentire la necessità della costruzione di tale opera. Infatti, come risulta dalla seguente delibera, vennero delegati
dal Gonfaloniere Anton Lorenzo Sorbi i signori Biondi e Contugi affinché si recassero a Firenze per fare opera di persuasione presso S. A.R. il Grandu­ca.

Ponte Sospeso a catene sul Fiume Cecina (1902)

“A di 18 novembre 1795

Adunati i signori Gonfaloniere e Priori residenti nel Magistrato Comunitativo di Pomarance in legittimo e sufficiente numero di cinque per trat­tare servati servandis. Assente il sig. Dott. Giovanni Lenzi sebbene intimato … OMISSIS …

Di poi fu proposta la necessità della costruzione di un ponte al passo del fiume Cecina divisorio tra la Comunità di Volterra e quella di Pomarance con riprendere in esame tale affare a loro volta proposto presso S. A. R. e per­ciò eseguire

Deliberati deliberandis dissero eleg­gersi e deputarsi, conforme eleggono e deputano i signori Dott. Giuseppe Maria Biondi e Michele Contugi anco di concerto e con intelligenza alla Comunità di Volterra facciano quelle relazioni e proposizioni che crederan­no più convenienti e proficue al pub­blico ed alle Comunità comprese nel Dipartimento di Pomarance e di quelle di Volterra e insieme all’interesse medesimo delle Saline addette alla Comunità di Volterra con rilevare il notabile vantaggio ancora che ne ridonderebbe per il pubblico Commer­cio. E tutto da approvarsi tali proposizioni e relazioni che verranno fatte da ambe le Comunità. E tutto con il legit­
timo partito di voti favorevoli cinque nessuno contrario.

Anton Lorenzo Sorbi Gonfaloniere.

Nonostante la loro buona volontà i due delegati non ottennero alcun risul­tato e del ponte non se ne parlò più per altri 40 anni circa.

In questo periodo il traffico andava sempre più aumentando. Erano infatti state attivate le fabbriche di acido borico in varie località dell’Alta Val di Cecina e quindi il prodotto doveva essere trasportato in diverse parti d’Italia e all’estero tramite il porto di Livorno. In Pomarance, proprio a causa deH’aumento di traffico, si rese­ro necessarie alcune opere come ad esempio l’abbattimento della Porta Maremmana e l’allargamento del rela­tivo tratto stradale che era divenuto pericoloso sia per le persone che per gli animali.

Nel dicembre dell’anno 1832 i com­ponenti il Magistrato della Comunità di Pomarance presero la seguente deci­sione:

“Adunati Servati Servandis gli Illu­strissimi Signori Gonfaloniere e Priori componenti il Magistrato della Comu­nità di Pomarance in pieno numero di sei per trattare … OMISSIS…

Fatto presente dal loro Sig. Gonfa­loniere ed altri Priori del Magistrato di questa Comune che ricevono conti­nuamente delle lagnanze dalla popo­lazione di Pomarance non solo quan­to ancora da quelle dei Castelli e Comunità limitrofe perchè la strada che da Pomarance conduce a Volter­ra unica che dia comunicazione alla Capitale, ed alle altre città principali del Granducato, nel corpo dell’inverno si rende impraticabile ed inutile per essere mancante di un ponte che cavalchi il fiume Cecina che taglia la strada medesima, e che ordinaria­mente in tale stagione abonda tal­mente di acque che impedisce asso­lutamente di essere guadato fino a tanto che almeno non siano quasi del tutto scolate le di lui acque, le quali rodendo le sponde del proprio letto guastano continuamente il passo che avanti ad una piena era guadabile ed obbliga i passeggeri a fare con i loro legni dei lunghi ed incomodi giri sulla rena e sul letto del fiume per trovare un passo che conduca alla strada attraversando sopra i terreni dei pos­sidenti adiacenti che reclamano una servitù si variabile ma che necessaria­mente vien loro imposta

Considerando Essi III.mi Adunati che effettivamente senza la costruzio­ne di un ponte sulla Cecina nella sta­gione d’inverno resta spessissimo interrotta la comunicazione di questa Comunità ed altre limitrofe e che tale inconveniente pregiudica moltissimo al Commercio dei Comunisti non solo quanto al trasporto del Sai Borace, e del Fame che in tanta abbondanza si estrae dalle miniere esistenti ed aper­te in questo territorio

Considerato che la rilevantissima spesa occorrente per la costruzione di un tal ponte è assolutamente supe­riore alle forze della loro Comunità che è aggravatissima per spese di tal natura

Fatte altre considerazioni, e rilievi, e dopo lungo, e maturo colloquio

Modellino del Ponte Sospeso a catene che si trova nel Museo della Geotermia di Larderello

Deliberati deliberandis commessero ed incaricarono il loro Signore Gonfa­loniere di supplicare l’innata Bontà e Clemenza deH’Augustissimo Nostro Sovrano a volersi degnare di assicu­rare una permanente comunicazione delle città terre e castelli esistenti al di qua della Cecina col rimanente del Granducato facendo costruire un Ponte al passo così detto di Pomaran­ce incaricandolo di fare una tal suppli­ca di concerto con i Signori Gonfalo­nieri di tutte le altre Comunità interes­sate, facendo tutti quei rilievi che cre­derà opportuni non senza omettere però di avvertire che questa Comune tanto più è impossibilitata a supplire e concorrere alla spesa del Ponte da costruirsi in quanto che dopo tal costruzione è indispensabile che la Comune faccia formare circa tre miglia di nuova strada che dal richie­sto ponte vada ad unirsi con quella oggi esistente; e ciò autenticarono per partito di voti favorevoli cinque contra­rio nessuno non rendente il Sig. Gon­faloniere come sopra indicato

Camillo Tabarrini Gonfaloniere.

Dovettero ancora trascorrere quasi due anni prima che le popolazioni dell’Alta Val di Cecina vedessero deli­berata la costruzione del ponte sul fiume Cecina da parte del Granduca Leopoldo II di Toscana. Infatti, solo agli inizi del 1834, il Granduca ne deli­berò la costruzione ed affidò l’incarico e la direzione dei lavori a Francesco Larderel che sin dal 1818 aveva ini­ziato e sviluppato l’impresa boracifera dei Lagoni di Montecerboli e di altre località per la produzione di Acido Borico e Borace raffinato. Il Larderei chiamò in suo aiuto due ingegneri francesi, Francesco Tarpin e Tanislao Bigot i quali, molto probabil­mente realizzarono il progetto del ponte e fecero venire dalla Francia quattro specialisti (due fabbri e due falegnami). Le rimanenti maestranze (contabili, interpreti, maestri muratori, manovali, terrazzieri, barrocciai, ecc.) furono reperite nelle Comunità della Val di Cecina.

I lavori furono iniziati il 18 marzo 1834 e terminarono il 18 giugno 1835.

Al ponte, lungo 75 metri comprese le spallette terminali ed ubicato nello stesso luogo di quello odierno, fu rea­lizzato in una sola campata di circa 50 metri sorretta da due sistemi multipli di catene ed ancorata a otto grandi pilastri in muratura. Le catene a loro volta furono fissate al piano stradale, costruito con travi di legno ricoperte di terra e largo 3 metri, mediante due serie di tiranti in ferro che davano al ponte una ottima compattezza e soli­dità. Su uno dei pilastri fu installata una lapide, consevata oggi nel Museo di Larderello insieme ad un modellino in scala del Ponte sospeso.

Il costo complessivo dell’opera fu di 285.000 lire fiorentine che, tenuto conto del rapporto di 1 a 1.000 circa tra il valore d’acquisto della lira fioren­tina del 1835 e quello della lira attua­le, corrispondono a circa 2 miliardi e 850 milioni attuali.

Il ponte sospeso svolge il proprio servizio con perfezione fino alla notte tra il 6 e 7 settembre 1847 quando, a causa di una piena del fiume, crolla sotto la forza delle acque. Questo crollo mette a disagio tutte le popola­zioni dell’Alta Val di Cecina che si rivolgono al Magistrato affinchè venga subito chiesta al Governo Reale la ricostruzione. Il 25 ottobre in una riunione dei
componenti il Magistrato della Comu­nità di Pomarance “… Richiedono che la presente loro deliberazione sia inviata al Regio Trono per l’organo dell’III.mo Sig. Provveditore, affinchè voglia degnarsi di dare le opportune disposizioni aU’effetto che non venga più a lungo ritardata la ricostruzione del piano stradale e porzione della Pila del diroccato Ponte Sospeso per varcare liberamente e con tutta sicu­rezza il fiume Cecina sulla linea della Strada Provinciale Massetana ed i vettori specialmente dell’Acido Borico possano liberamente trasportarlo alla Piazza di Livorno e procurarsi con tale mezzo il proprio sostentamento e quello delle loro famiglie. Con partito di voti favorevoli 6 e nessuno contra­rio”.

I lavori furono iniziati il 18 marzo 1834 e terminarono il 18 giugno 1835.

Al ponte, lungo 75 metri comprese le spallette terminali ed ubicato nello stesso luogo di quello odierno, fu rea­lizzato in una sola campata di circa 50 metri sorretta da due sistemi multipli di catene ed ancorata a otto grandi pilastri in muratura. Le catene a loro volta furono fissate al piano stradale, costruito con travi di legno ricoperte di terra e largo 3 metri, mediante due serie di tiranti in ferro che davano al ponte una ottima compattezza e soli­dità. Su uno dei pilastri fu installata una lapide, consevata oggi nel Museo di Larderello insieme ad un modellino in scala del Ponte sospeso.

Il costo complessivo dell’opera fu di 285.000 lire fiorentine che, tenuto conto del rapporto di 1 a 1.000 circa tra il valore d’acquisto della lira fioren­tina del 1835 e quello della lira attua­le, corrispondono a circa 2 miliardi e 850 milioni attuali.

Il ponte sospeso svolge il proprio servizio con perfezione fino alla notte tra il 6 e 7 settembre 1847 quando, a causa di una piena del fiume, crolla sotto la forza delle acque. Questo crollo mette a disagio tutte le popola­zioni dell’Alta Val di Cecina che si rivolgono al Magistrato affinchè venga subito chiesta al Governo Reale la ricostruzione.

Il 25 ottobre in una riunione dei
componenti il Magistrato della Comu­nità di Pomarance “… Richiedono che la presente loro deliberazione sia inviata al Regio Trono per l’organo dell’III.mo Sig. Provveditore, affinchè voglia degnarsi di dare le opportune disposizioni aU’effetto che non venga più a lungo ritardata la ricostruzione del piano stradale e porzione della Pila del diroccato Ponte Sospeso per varcare liberamente e con tutta sicu­rezza il fiume Cecina sulla linea della Strada Provinciale Massetana ed i vettori specialmente dell’Acido Borico possano liberamente trasportarlo alla Piazza di Livorno e procurarsi con tale mezzo il proprio sostentamento e quello delle loro famiglie. Con partito di voti favorevoli 6 e nessuno contra­rio”.

Pomarance continua ad espandersi fuori dalle mura e sorgono nuove costruzioni nella zona del Treppiede e fuori Porta Volterrana.

Il Ponte sul fiume Cecina viene rico­nosciuto come opera di basilare importanza per lo sviluppo economico dell’Alta Val

di Cecina e quindi il Magistrato Comunitativo viene invitato a pronun­ciarsi circa il nuovo modo in cui dovrà essere ricostruito.

Il 3 marzo 1848 giunge al Comune una “ Officiale” della Regia Camera di Pisa riguardante la ricostruzione del ponte.

Il 16 marzo successivo si riunisce il Magistrato Comunitativo di Pomaran­ce e visto che nella “Officiale” viene ordinato di ricostruire il ponte a carico delle Comunità interessate; che anche le Comunità di Massa Marittima e Grosseto traggono vantaggio dal tran­sito sulla Strada Provinciale Masseta­na che attraversa le Terre di Poma­rance poiché, ora che il ponte è inter­rotto, devono percorrere la via più lunga dell’Emilia; e che la precedente costruzione era stata eseguita secon­do le prescrizioni della “Sovrana Resoluzione” del 19 giugno 1835; deliberano di “essere pronti a contri­buire la quota che per la richiesta loro occorrente alla ricostruzione del Ponte sul Fiume Cecina gli può spet­tare pagabili secondo le proprie forze amministrative; e domandano che a questa spesa siano chiamate non solo tutte quelle Comunità che sono comprese nel circondario castellabile del tratto di strada ove ricorre il Ponte da ricostruirsi, ma tutte le altre ancora che risentono in generale un interesse nel sicuro transito del Fiume Cecina

E frattanto rendono le più sentite grazie a S. A. S. Reale /Amatissimo Sovrano Leopoldo II per la fatta dichiarazione di far contribuire a questa spesa la Reale Azienda del Sale con un discreto contributo

Lapide posta sul pilone del Ponte di Ferro (Museo Larderello)

E tutto quanto sopra con Partito di voti Favorevoli 7 e nessuno contrario Donato Metani Gonfaloniere”.

Le difficoltà per le vetture e i vian­danti continuano ed il 22 aprile 1848 due passeggeri rischiano di affogare a causa di una piena. Il 6 maggio suc­cessivo, in seguito ad una “Officiale” del Prefetto del Circondario di Pisa che rende noto agli Amministratori del Comune il Progetto dell’ispettore delle Acque e delle Strade del Comparti­mento Fiorentino per la ricostruzione del Ponte, il Magistrato si riunisce per deliberare in quale modo e luogo si debba ricostruire il Ponte.

Esaminati i progetti presentati dall’ispettore delle Acque e delle Stra­de del Compartimento Fiorentino, Sig. Maurizio Zannetti, in uno dei quali si prevede di ricostruire il Ponte Sospe­so con catene di ferro nello stesso luogo e nello stesso modo del prece­dente con una spesa preventiva di lire 115.750,95 e nell’altro di ricostruirlo ex novo a tre arcate presso il podere Cerreto di fronte alle Vecchie Saline di San Lorenzo con una spesa preventi­va di lire 196.471,69, viene dato il seguente parere:

“Dichiarano che sono di parere doversi ricostruire il Ponte sul Fiume Cecina nel sito ove era già quello diruto

E che debba essere della qualità dei Ponti Sospesi con catene di Ferro

Con partito di voti Favorevoli 6 nes­suno contrario.

E tanto più confermano il proposto progetto in quanto che sono nella Lusinga che il Signor Cavaliere Conte de Larderei

possa nella peggiore ipotesi assu­merne la costruzione con la somma di lire Centomila

E tutto ratificarono e confermarono con Partito di voti Favorevoli 6 e nessun contrario”

Il 1848 è l’anno in cui tutta l’Italia è scossa dalle agitazioni democratiche ed anche a Firenze si scatenano lotte rivoluzionarie. Il Granduca fugge e ritorna alcuni mesi più tardi scortato dagli Austriaci che lo reinsediano sul Trono.

Fino al 1852 si discute su come ricostruire il Ponte sul Cecina e, poi­ché la spesa è notevole, ci si doman­da se sia meglio sfruttare le parti del vecchio Ponte di Ferro o ricostruirlo ex novo in pietra.

Il 25 agosto 1852 il Consiglio Comunale delibera quanto segue:

“Informato il Consiglio Comunale da alcuni residenti, che dalla Direzione d’Acqua e Strade era stata data com­missione allo Ingegnere Distrettuale di fare un progetto per la ricostruzione di un Ponte Sospeso sul Fiume Ceci­na al passo della già esistente Strada Provinciale Massetana detta del Cerro Bucato

Visto Tart. 52 lettera A della L.C. de! 20 novembre 1849 in ordine al quale i Consigli Comunali possono emettere Deliberazioni sui progetti di spese da eseguirsi a spese del Comune o col suo concorso

Attesoché alla spesa della ri costru­zione del Ponte di che si tratta fra le altre Comuni deve concorrervi anche quella di Pomarance da Loro Ammini­strata

Attesoché la ricostruzione del Ponte sulla Cecina che interessa la comuni­cazione di questa Provincia è neces­sario che offra una permanente stabi­lità

Attesoché sebbene a prima vista sembri conveniente per risparmio di spesa il ricostruire il detto Ponte di Ferro traendo profitto dal materiale tuttora esistente, pur nonostante resterebbe da esaminarsi se la mino­re spesa che potrebbe occorrere per la ricostruzione del Ponte Sospeso predetto fosse da preferirsi alla mag­giore spesa che occorrerebbe per la nuova costruzione di un ponte di pie­tra a fronte della instabilità dell’uno colla stabilità dell’altro, ed a fronte ancora della continua manutenzione e forte spesa che abbisogna pel primo, e della minore che occorre per il secondo; per questi motivi e nel solo desiderio di vedere una volta rico­struito il ponte di che si tratta, e per quanto si può nel più stabil modo, il Consiglio osa pregare il Sig. Prefetto a volersi compiacere d’incaricare l’ingegnere di Distretto, o l’ingegnere in capo del Compartimento a fare gli studi necessari per conoscere la spesa occorrente, onde costruire nel luogo suindicato un ponte di materiale con la massima economia, valutando e confrontando tutto considerato, se avvi maggior convenienza stante la specialità dalle circostanze a rifare un ponte di ferro simile a quello che rovinò, o a sostituirne uno di materiali vendendo il ferro che tuttora esiste, con partito di voti favorevoli 16 nes­sun contrario”.

Veniva quindi richiesto un nuovo progetto che doveva essere affidato o ailing. Distrettuale o all’lng. Capo del Compartimento.

Passò quasi un anno ed il 2 luglio 1853 giungeva una “Officiale” dalla Prefettura di Pisa che richiamava il Consiglio Comunale ad emettere una delibera per approvare il nuovo pro­getto di ricostruzione del Ponte diruto.

Il Consiglio Comunale, riunitosi il 18 luglio successivo, deliberava:

“A di 18 luglio 1853

Letta la Officiale della Prefettura di Pisa del dì 2 luglio andante, colla quale mentre accompagnava la peri­zia compilata dall’lng. in Capo Sig. Ridolfo Castinelli relativa alla ricostru­zione del diruto ponte a catene di ferro sul fiume Cecina al passo della Strada Provinciale Massetana, veni­vano Essi Signori adunati richiamati ad emettere su tal proposito la oppor­tuna deliberazione;

Udito che la ricostruzione del Ponte che sopra sull’antico sistema e preci­sa ubicazione del primo profittando della vecchia fiancata alla sponda destra del fiume e dei ferramenti ed altri materiali raccolti dopo la rovina vi occorreva la spesa di L. 58.000;

Attesoché ricostruendo il ponte a catene di ferro oltre a ristabilirsi sicuro e permanente il passo della Cecina viene anche a commettersi una spesa assai minore di quella che sarebbe occorsa per la costruzione sul fiume medesimo di un ponte di materiale;

Attesoché niun dubbio può a senso loro elevarsi sulla utilità e vantaggio che a causa di questo ponte tornano a risentire nuovamente tutte quelle pubbliche Amministrazioni che contri­buirono per la primitiva costruzione del ponte ridetto, cosicché repartendo tra esse nel modo tracciato dall’art. 2 Venerabile Legge del 21 agosto 1843 la presagita somma di L. 58.000, la quota spettante alla Loro Comunità sarà sempre minore di quella da essa corrisposta nella sua prima costruzio­ne.

Deliberati deliberandis, approvaro­no e approvano per quanto loro può spettare il progetto stato compilato dal predetto Sig. Ing. in Capo Cav. Ridolfo Castelletti fino dal dì 27 gen­naio anno corrente, e convennero che la Comunità di Pomarance concorra nel modo sopraindicato alla ricostru­zione del ponte surriferito, e frattanto attese le limitate finanze di essa e per non elevare di troppo l’annua imposta domandano al Governo un sussidio, o l’anticipazione almeno delle somme occorrenti per la esecuzione del lavo­ro da rimborsarsi dalle Comuni inte­ressate a modiche annue rate, lusin­gandosi Essi Signori adunati, che saranno secondati i loro desideri in vista della utilità grande che è per risentire la I. R. Amministrazione delle Saline col trasporto della legna che in gran parte transiteranno sul ponte in progetto.

E tutto quanto sopra ratificarono, con partito di voti 15 favorevoli contra­rio nessuno.

Dr. Giuseppe Biondi Bartolini Gon­faloniere”.

Il 28 gennaio 1854 giunge la tanto sospirata approvazione con cui si autorizza la ricostruzione del ponte, ed il 3 aprile successivo viene delibe­rato:

“A dì 3 aprile 1854

Letta la Officiale del Compartimento Pisano del 28 gennaio anno corrente colla quale rende noto che S.A.I.R. con veneratissimo Rescritto comuni­cato dal Ministero

dell’interno con dispaccio del 28 gennaio detto, mentre si era degnata approvare la ricostruzione del Ponte di Ferro sul Fiume Cecina, aveva altresì ordinato che la spesa relativa stata presagita in L. 58.000 pagar dovesse per un terzo a carico del Regio Erario e per gli altri due terzi a carico delle Comunità collettabili della seconda e terza Sezione della Strada Provinciale Massetana, e che le sud­dette Comunità che sono Volterra, Montecatini, Pomarance e Castelnuovo erano autorizzate a prendere a mutuo la somma necessaria per far fronte al contributo dimissibile in rate annuali in proporzione delle loro risor­se, e che la quota di contributo spet­tante alle Comunità suddette princi­piasse a decorrere nel futuro anno 1855.

Se ne chiamarono intesi e notificati con Partito di voti quattro favorevoli.

Dr. Giuseppe Biondi Bartolini Gon­faloniere “

La ricostruzione del Ponte Sospeso a catene di ferro pose termine ai disa­gi delle popolazioni e di coloro i quali, dovendo trasportare il Borace e l’Acido Borico da Larderello a Livorno e la legna dai boschi di Berignone a Saline, erano costretti a guadare il fiume con non pochi rischi da affronta­re.

Il Ponte di Ferro Sospeso svolse il proprio servizio sino al maggio 1922 quando a causa della evoluzione tec­nica dei mezzi di trasporto non venne più ritenuto idoneo. Infatti si era pas­sati dai barrocci trainati dai cavalli alle automobili ed ai camions. Questi ulti­mi erano molto più pesanti e larghi dei barrocci per cui non essendo le carat­teristiche costruttive del ponte idonee a sopportare tali carichi, fu decisa la sua demolizione e la sua sostituzione con un nuovo ponte in cemento.

La demolizione avvenne il 25 mag­gio 1922 a 87 anni dalla costruzione.

NOTE BIBLIOGRAFICHE

  1. LA COMUNITÀ’ DI POMARAN­CE – Rievocazioni Storiche di E. Mazzinghi – Anni 19 – 19
  2. ARCHIVIO STORICO COMUNA­LE – Deliberazioni e Partiti della Comunità di Pomarance – Filze 127, 129, 137, 141, 148, 150.
  3. BIBLIOTECA MUSEO DELLA GEOTERMIA LARDERELLO – Trattati di Domenico Cioni 1785- 1835.
  4. R. NASINI – I soffioni e i lagoni della Toscana e la industria boracifera – Ed. 1930

F. Bongi

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

PANORAMA MINERARIO DEL TERRITORIO VOLTERRANO ALLA METÀ DEL XVII SECOLO

a cura dei Dott. ANGELO MARRUCCI

Fin dalla più remota antichità protostori­ca il Volterrano è sempre stato conosciuto come un territorio ricco di risorse natura­li e, come tale, continuamente frequen­tato e lungamente investigato col preci­so scopo di ricercarne e coltivarne gli sva­riati giacimenti minerari, di sfruttarne le diffuse acque minerali e terapeutiche o, più semplicemente, per tentare di com­prendere, studiare e descrivere i sugge­stivi e inconsueti fenomeni naturali (sof­fioni, bulicami, putizze , lagoni ecc.) che in esso si riscontrano.

La storia economica legata allo sfrutta­mento medievale delle risorse minerarie del Volterrano – specialmente per quan­to riguarda lo zolfo, l’allume e il vetriolo – è stata, com’è noto, ampiamente rico­struita e documentata da Fiumi (1) il quale ha così permesso di valutare e di deter­minare con maggior precisione il ruolo fondamentale svolto dall’estrazione e dal commercio di queste materie prime (alle quali bisogna aggiungere il salgemma) nell’economia della zona durante tutto il Medioevo.

Le numerosissime evidenze naturalistiche e minerarie del Volterrano hanno quindi sempre esercitato indiscutibili e ri­levanti motivi d’interesse sia, ovviamen­te, in vista di un loro potenziale sfrutta­mento economico (2) , sia, ed è ciò che qui ci interessa, sotto l’aspetto della de­scrizione e dell’enumerazione fenomeno­logica delle più svariate manifestazioni e produzioni naturali.

A testimonianza di questo aspetto documentario-memorialistico sull’area in esame sta tutta la serie di relazioni redatte .sempre più frequentemente a partire dal­la metà del Quattrocento, da viaggiatori, storici, geografi, ufficiali e naturalisti allo scopo di evidenziare, illustrare e valoriz­zare questo non comune patrimonio di ri­sorse e nel preciso intento sia di incorag­giarne o svilupparne lo sfruttamento sia di indicare, emblematicamente, le vesti­gia e le tracce delle più antiche attività a tale fine intraprese.

A quanto risulta, la prima di queste rela­zioni (a noi purtroppo non pervenuta) fu compilata dall’artista volterrano Zaccaria Zacchi (1474-1544) che “descrisse tutto quello che gli venne osservato, non tan­to dei residui e artefatti della bella Anti­chità, quanto ancora le produzioni natu­rali più ragguardevoli, come acque mine­rali, miniere, pietre ecc. Il P. Leandro Al­berti e il P.Giovannelli hanno veduto que­sta descrizione manoscritta e ne hanno pubblicato un miserabile compendio, dal quale si viene in cognizione che essa do­veva esser bellissima e di somma impor­tanza. Ella non è giammai pubblicata colle stampe, anziché non si sa più dov’ella sia’’ (3). Purtroppo, tutte le ricerche svol­te a più riprese nel corso del tempo per rintracciare il documento (a Volterra, a Fi­renze, a Bologna) sono sempre risultate vane (4), facendo così temere seriamen­te che esso debba ormai considerarsi, salvo imprevisti, irrimediabilmente perdu­to. E non si tratta certo di una perdita da poco se pensiamo, per contrasto, che gli analoghi scritti successivi di Leandro Al­berti (5) e di Mario Giovannelli (6) parve­ro al Targioni Tozzetti solo “un miserabi­le compendio” di quel prezioso originale. In realtà la descrizione data da Leandro Alberti del territorio volterrano, benché forzatamente sintetica (in quanto inseri­ta in un’opera di carattere generale sul­l’Italia) possiede un duplice motivo di in­teresse poiché oltre al suo intrinseco va­lore documentario può forse permetterci di immaginare, seppure a grandi linee, quale doveva essere lo schema di base che ordinava lo scritto di Zaccaria Zacchi: inizialmente la Descrittione di tutta Italia (1550) illustra, procedendo in senso ora­rio, gli immediati dintorni di Volterra (Montebradoni, Portone, Ulimeto, Monte Ne­ro, Monte Voltraio) per poi dirigere l’atten­zione verso i borghi sparsi nel territorio a Sud della città, il più ricco di risorse mi­nerarie e di produzioni naturali (Saline, Pomarance, Libbiano, Monterufoli, Montecerboli, Castelnuovo, Leccia, i vari Ba­gni, Monterotondo, Lustignano). Da qui in avanti, però, la decrizione perde un ordi­ne logico preciso, una direzione di mar­cia chiara e preordinata; si passa infatti da Spicchiaiola a Silano a S.Dalmazio per poi tornare indietro verso Casole d’Elsa, Mazzolla e Roncolla. Di tutti luoghi citati vengono menzionate le peculiarità natu­ralistiche o minerarie dedicando solo bre­vissimi accenni alle attività estrattive eventualmente in atto o alle tracce dei la­vori antichi. In altre parole siamo di fron­te ad una panoramica del territorio real­mente “a volo d’uccello“ che però ser­ve, nonostante tutto, a “fotografare11 quali erano lo stato delle conoscenze sulle produzioni naturali del Volterrano e la situa­zione del loro sfruttamento alla metà del Cinquecento.

Carta mineraria schematica del territorio volterrano alla metà del Seicento

Ad arricchire il quadro di queste descri­zioni cinquecentesche contribuisce poi un altro documento, stavolta manoscritto: si tratta di una relazione stilata nel 1580 dal Capitano Giovanni Rondinelli e diretta al Granduca di Toscana Francesco de’ Medici (7). In questo rapporto, dopo un’in­troduzione di carattere storico-geografico relativa a Volterra, dopo aver trattato bre­vemente della situazione idrica del capo­luogo e del territorio e dopo aver descrit­to le possenti mura volterrane, l’Autore passa ad illustrare la condizione attuale (numero dei fuochi,situazione economica, caratteri produttivi peculiari) dei vari bor­ghi del circondario. È a questo punto che Rondinelli inizia la vera e propria enume­razione delle varie “doti, virtù e ricchez­ze” del territorio volterrano applicando a tale scopo uno schema tematico- gerarchico che da questo momento in poi è stato spesso adottato da quanti si sono occupati in seguito della questione e che è strutturato in base al seguente criterio ordinatore: miniere d’oro, miniere d’ar­gento, miniere di rame, calcedoni e dia­spri, travertini e marmi (broccatelli), sa­le, allume, vetriolo, zolfi gialli e neri, ba­gni e lagoni.

Dopo questi due casi, il Cinquecento for­nisce la sua ultima trattazione illustrativa del Volterrano con l’ottavo libro della Sto­ria dell’antichissima città di Volterra del volterrano Lodovico Falconcini (1524-1602). In quest’opera, scritta in la­tino nel 1589 e stampata (tradotta con te­sto originale a fronte) solamente nel 1876 (8), l’Autore passa tra l’altro in rassegna tutte le località rilevanti sotto l’aspetto sto­rico e naturalistico riportando osservazio­ni e notizie di grande interesse e offren­do talora al lettore preziose annotazioni e particolari del tutto inediti, come nel ca­so, ad esempio, delle miniere di Montecastelli e di Querceto o dei Bagni di S.Mi­chele delle Formiche presso Montecerboli.Per comodità del lettore diamo di segui­to l’elenco delle località illustrate dal Fal­concini ,avendo cura di evidenziare gra­ficamente in corsivo quelle su cui si sof­fermò maggiormente l’attenzione dell’Au­tore: Monte Nero, Cozzano, Pignano, Berignone, Pomarance, S.Michele delle For­miche, Montecerboli, Morba, Castelnuovo, Sasso, Lustignano, Leccia, Serrazzano, Libbiano, Micciano, Monterufoli, Montegemoli, Querceto, Montecastelli, Silano, S.Dalmazio, Radicondoli, Montecatini, Buriano, Miemo.

Per quanto riguarda il secolo successivo preferiamo sorvolare sulla già citata Cro­nistoria di Mario Giovannelli, pubblica­ta nel 1613, in quanto altro non può es­sere considerata che una copia piuttosto fedele della già ricordata descrizione di Leandro Alberti.

Ricerca di vene metallifere nel Medioevo (da G. Agricola – De Re Metallica – Basilea, 1556)

In verità, sebbene la storia mineraria del Volterrano durante il Seicento non sia molto conosciuta, appare chiaro, come vedremo, che le attività estrattive e commerciali legate alle risorse del sottosuo­lo dovevano stagnare ancora nello stato di crisi e di abbandono in cui erano ve­nute a trovarsi sempre più nel corso del secolo precedente. Dal 1472 agli ultimi decenni del ’500 la società e l’economia del Volterrano subirono infatti una profon­da trasformazione dovuta, tra l’altro, sia alla forzata integrazione politico­istituzionale nello stato fiorentino che al­la prolungata fase di progressiva specia­lizzazione che dalla fine del Quattrocen­to sembra caratterizzare l’economia to­scana.

Per quanto ci riguarda direttamente, que­ste nuove condizioni economico-sociali di necesario riassestamento dei vari settori produttivi segnarono il marcato declino delle attività connesse allo sfruttamento delle risorse minerarie del Volterrano: il commercio dei prodotti minerari del ter­ritorio (nella fattispecie il vetriolo e lo zol­fo) venne meno, la scoperta dell’allume si rivelò illusoria, mentre l’unica eccezio­ne di tutto rilievo in questo caso di gene­rale abbandono fu rappresentata dall’e­strazione del salgemma la cui “industria1‘ conobbe un’interessante continuità pro­duttiva. A questa generalizzata crisi del­le attività minerarie della zona si accom­pagnò inoltre una decisa accentuazione del carattere agricolo dell’economia vol­terrana e una decisa espansione delle grandi proprietà terriere. (9)

Nel settore minerario questa generale li­nea di tendenza negativa si protrasse an­che nel Seicento, periodo durante il qua­le la forte contrazione subita dai settori estrattivi (e alla quale certo non fu estra­nea la terribile pestilenza del 1630) con­dusse al conseguente ristagno generaliz­zato o, nella maggior parte dei casi, ad­dirittura alla completa cessazione di que­sti generi di attività economiche.

Per quanto riguarda ad esempio l’estra­zione del rame sappiamo che sia le celeberi miniere di Montecatini Val di Cecina che quelle di Montecastelli dopo il 1630 cessarono la propria attività fino al 1636 quando uno sfortunato tentativo di ripre­sa dei lavori attuato a Montecatini deter­minò la chiusura di entrambe le miniere per tutto il secolo. Analogamente, è noto che anche le meno importanti “ramiere” di Montecerboli restarono abbandonate durante tutto il Seicento e che, nella zo­na, analogo destino toccò pure a tutti i giacimenti fino ad allora più o meno sfrut­tati di minerali metalliferi. Fortunatamente ad aiutare lo storico e l’e­conomista nello studio e nella ricostruzio­ne di questo aspetto della realtà econo­mica locale seicentesca, esiste presso la Biblioteca Guarnacci di Volterra una re­lazione manoscritta (10) compilata intor­no alla metà del Seicento dal volterrano Raffaello Maffei (1605-1673), Provvedi­tore dei sali e della Fortezza (11). Si trat­ta di una descrizione abbastanza accu­rata, e per certi versi originale e dettaglia­ta, relativa alle cose notevoli del Volter­rano, alle ricchezze del suo sottosuolo e alle antiche vestigia, ancora visibili, che dallo sfruttamento di quelle notevoli risor­se avevano tratto origine.

Dal punto di vista morfologico il mano­
scritto si compone di un fascicolo di 13 carte numerate; il testo è incompiuto e dalle note apposte successivamente sul foglio di guardia che contiene il fascicolo si rileva che lo scritto era diretto a un re­ligioso. Circa la datazione essa è sicura­mente posteriore al 1625, anno di pubbli­cazione del De Mineralibus del volterra­no Giovanni Guidi, di cui si trova preciso riferimento nel testo.

L’argomento della relazione è chiaramen­te espresso nel titolo conferitogli in segui­to: Discorso sopra i residui d’antichità di Volterra. Bagni e acque termali. Saline e acque salse. Minerali, e risulta così ripar­tito:

  • antichità volterrane: cc. 1r – 4r;
  • bagni e acque termali: cc. 4v – 8v;
  • saline e acque salse: cc. 8v – 10v;
  • minerali: cc. 10v – 13v (incompiuto).

Per quanto riguarda l’aspetto che qui ci interessa fermeremo pertanto l’attenzio­ne sull’ultima parte, intitolata,.appunto, De i Minerali; essa risulta infatti molto in­teressante sia perché tra le varie sezioni del Discorso del Maffei è senza dubbio la meno conosciuta e la meno citata sia per­ché rispetto alle altre relazioni (preceden­ti, coeve o anche successive) di analogo argomento appare in alcuni casi più pre­cisa, più dettagliata e più informata, quin­di per noi più utile.

In particolare i punti di novità e di origi­nalità che vi si riscontrano si possono così riassumere:

  1. la notizia, citata poi da Fiumi (12), che immediatamente sotto la rupe su cui sor­ge il castello di Fosini, ovvero lungo il Bo­tro Ripenti o Riponti (un piccolo tributa­rio del Pavone) si ebbero anticamente escavazioni di oro. Anche se quasi cer­tamente si trattò di galena argentifera (o meglio, di tetraedrite) tutto ciò appare confermato dal fatto che all’epoca del Maffei le tracce di quell’attività erano an­cora riconoscibili sul terreno e che un pez­zetto di quel minerale “purgato dal fuo­co” era stato lì rinvenuto pochi anni pri­ma. In questo caso, a differenza di quan­to accade quasi inevitabilmente in que­sto genere di relazioni, il Maffei offre un’informazione topograficamente preci­sa su un lavoro minerario fino ad allora trascurato dai cronisti;
  2. la testimonianza di antichi lavori intra­presi presso il Monte S.Croce dove ana­loghe escavazioni di oro e di argento, seb­bene citate di sfuggita, appaiono qui fi­nalmente segnalate. La notizia è interes­sante poiché in precedenza questa loca­lità non veniva di solito menzionata nelle trattazioni del genere, sebbene fosse noto che in passato vi erano state svolte ricer­che ed attività estrattive (13). Dal Maffei giunge dunque la conferma dell’antichi­tà dei lavori e la testimonianza che ai suoi tempi la “cava” era in attività;
  3. la suggestiva e prolungata descrizio­ne incentrata sulla riscoperta delle minie­re di rame presso Prata, in luogo detto al­lora Piano di Siedi;
  4. la conferma che durante il Seicento le miniere di rame attivate nel secolo pre­cedente presso Montecerboli, in luogo detto le Maltagliate, versavano nel più completo stato di abbandono(14);
  5. la segnalazione di antiche ricerche di rame intraprese sul Poggio di M/emo(15);
  6. la notizia dell’esistenza di una miniera di piombo presso Montecerboli in luogo detto Botro a Tracolle, dove erano anco­ra visibili i resti dell’edificio ad essa atti­guo e dove si riscontravano abbondanti testimonianze che almeno la prima fusio­ne del minerale doveva avvenire sul luogo;
  7. una brevissima ma preziosa illustrazio­ne qualitativa delle cave di vetriolo presso Libbiano (in luoghi detti La Giunca e Tigugnano) e la segnalazione di analoghi lavori condotti a Porciniano (16) e alla Stri­scia (17).
  8. la generale conferma che alla metà del ’600, tranne le poche eccezioni legate al­l’estrazione del vetriolo (a Monterotondo M.mo e alla Striscia) e alla produzione del salgemma, l’attività mineraria nel Volter­rano versava nel più completo abbando­no e che l’estrazione e il commercio dei minerali metallici erano praticamente fermi.
Una miniera del Cinquecento (da G. Agricola – De Re Metallica – Basilea, 1556)

Per tutti questi motivi riteniamo opportu­no proporre all’attenzione e alla cono­scenza dei lettori questo breve documen­to che aiuta in qualche modo a far luce su un aspetto molto importante ma non completamente conosciuto della storia economica del Volterrano durante il XVII secolo e che contribuisce, nel suo picco­lo, a far meglio comprendere l’evoluzio­ne storica e topografica delle attività estrattive legate ad alcune risorse mine­rarie del nostro territorio.

Angelo MARRUCCI

R. MAFFEI – Discorso sopra i residui d’an­tichità di Volterra.

Bagni e acque termali. Saline e acque sal­se. Minerali, metà sec.XVII. Volterra, Bi­blioteca Guarnacci, Ms.5819 (Lll.5.2)

De i Minerali

Ma per dar principio a i Minerali stimo che havendo la P.V. per benignità sua dato piena fede alla mia relazione dell’acque termali che si trovano in questo contorno e sapendo essa molto bene che le quali­tà peregrine delle quali quest’acque son dotate non d’altronde pervengano loro che da luoghi sotteranei per i quali esse vanno scorrendo prima di venire alla lu­ce, sarà (credo io) senz’altro persuasa che i medesimi luoghi siano ripieni di quelle cose che son atte a contribuire le virtù che di quell’acque si raccontano, e perché queste sono ordinariamente mi­nerali e mezze minerali ne seguirà in ne­cessaria conseguenza che il paese sia abondantemente ripieno di miniere.

E non solamente la ragione ci persuade quanto io le dico, ma le autorità d’infiniti scrittori ce ne fan certi, le quali tutte tra­lasciando come a Lei molto ben note, mi basterà addurre come men vulgata l’au­torità di Gio. Guidi nel principio della sua Mineralogia Legale in queste parole: nulla Urbs, nullave ditio, ne dum huius Provin- ciae, sed totius etiam Italiae, tot tantisque regalibus naturae, ac Dei Optimi Maximi donis abundet, quemadmodum territorium Urbis Volaterrarum constat. Nam praeter Salinarum numerum, et facunditatem adsunt Auri, Argenti, Lapillorum, adsunt AEris, adsunt Aluminis, Sulphuris, Vitreoli, Ferri, Plumbi, Stamni et aliorum fere omnium Mineralium, ita peremnes venae, ut nullus in hac ditione mons emineat, nullus quamvis humilis coll is appareat, qui non aliquam metallicam Venam in sinu eius contineat, atque abscondat (*)•

Ma è superfluo affaticarsi con le ragioni e con le autorità di provare quello che si vede chiaro dall’evidenza del fatto poiché di tutte le sopradette cose l’esperienza ci ammaestra e l’occhio ne è oculato testi­monio.

E per dar principio dalle miniere dell’ar­gento e dell’oro dico che se bene non so­no state queste ne tempi moderni eser­citate, tuttavia e dalle scritture e dalle tra­dizioni e dalle vestigie di quegli edifizi e dalle cave si viene in cognizione che nel Monte della Nera vicino alla Città tre mi­glia vi è la vena dell’oro. Similmente in un Monte vicino al Castello di Querceto vici­no a qui nove miglia ve n’è un altra vena e si vede esserci stato cavato.Nella Con­tea di Fosini di questa Diocesi non solo si vede esserci una simil cava in luogo che si chiama Botro Ripenti, ma poch’an­ni sono un contadino del luogo s’abbatté a trovarne un pezzetto purgato dal fuo­co, il che dà chiaro indizio esser già la det­ta cava stata esercitata. Ma più chiare se ne vedono le vestigie nel territorio di Gerfalco di questo Vescovado, dove in un Monte detto di S.Croce vi sono di presen­te diverse buche donde si cava la minie­ra dell’oro e dell’argento, ed io ho vedu­to alcuni istrumenti antichi di locazioni fat­te di beni di questo luogo da i Vescovi di Volterra cum Aurifodinis et Argentifodinis. Né solo delle cave predette trovo riscon­tri molto chiari, na apparisce in uno istrumento del 13 di settembre 1277 che Mes­ser Tolomeo Tolomei rinunzia a Messer Ranieri Vescovo di Volterra le cave d’Argento di Montieri; anzi che nel 1257 si tro­va che il Vescovo Galgano II, come dice il Giovannelli, concede a Guido Tolomei licenza di batter moneta nel Comune di Montieri. Apparisce ancora un indulto di Carlo IV Imperatore dato in Pisa (s’io non ho male inetso) sotto il dì 22 maggio 1355 dove esenta Filippo Vescovo di Volterra dal pagamento di 60 marche d’Argento per esser mancate le miniere di Montie­ri, mediante la peste e la guerra. Queste cave d’Argento in Montieri furono molto famose e furono ritrovate da alcuni de To­lomei Gentil huomini Senesi l’anno 1175 nel tempo apunto che viveva S.Galgano e tuttavia si vedono dette cave et il pae­se all’intorno pieno di loppe e ceneracci. Ma più cospicue sono le cave del Rame delle quali la più moderna è quella di M.Catini fatta aprire et esercitare fino l’an­no 1580 dalla felice memoria del Gran Du­ca Francesco e poi tralasciata alla sua morte per essersi gl’altri Principi succes­sori più applicati ad altre gloriose impre­se. Questa miniera s’estende per lungo tratto sotto le radici d’alti Monti per la schena de quali si vedono molte buche che servivano per l’esalazione de fiati e vi sono diverse caverne più basse per le quali si dava l’esito all’acque. Ma la ca­va reale ha un ampia bocca in hoggi tut­ta ripiena d’acqua poiché si può credere che gl’esiti per i quali si smaltisca siano otturati.

Nel territorio di Monte Rotondo di questa Diocesi vi sono pozzi molto spessi e di quivi ancora fu già cavato il Rame vedendovisi gran quantità di loppe e di Marcassite con segni evidenti della miniera.

Ma sopramodo meravigliose sono le ca­ve del rame nel territorio di Prata anch’e­gli sottoposto in spirituale a questo Vesco­vo, ma in temporale territorio senese, do­ve nel luogo che si chiama piano di Sierli sono quelle famose miniere dette Porta di ferro dalle quali si cavava il Rame con un poco d’Argento e da persona che l’ha riconosciute d’ordine del Serenissimo principe Mattias mi vie referto che entra­to egli con sei huomini per li Cavi Reali e per gl’altri minori e camminando per le viscere della terra e talvolta andando car­pone e passando molti pericoli d’animali sotterranei e d’acque freddissime e cor­renti, videro esserci quasi un labirinto di strade e stradelle che dura quasi due mi­glia senza però potere andare in ogni luo­go perché molti viali sono ricoperti dalle rovine. Trovorono ivi la miniera del rame con i suoi filoni e più di 300 pozzi i quali vanno a ferire i Cavi ma per lo più guasti e rovinati et i Cavi medesimi sono gran­dissimi stanzoni e di vastezza così mo­struosa che sarebbe incredibile il dire la loro vastità. Sono ancora le cave del Ra­me vicino al Castello di Monte Cerbero et a i lagoni grandi de i quali ho fatto men­zione et il luogo si dice le Maltagliate. Qui­vi oltre alla bocca della Cava si vedono diversi pozzi per l’esito dell’aria, onde si conosce essere state per lungo tempo esercitate et a i nostri tempi hanno quei paesani trovati sotto terra grossi pani di Rame lavorato et uno tra gl’altri ne ven­derono più di venti scudi.

A Miemo luogo parimente di questo ter­ritorio in un poggio che si dice il poggio di Miemo sono pur anche le Cave del Ra­me e tuttavia vi si trovano da quei del luo­go dei pezzetti di Rame purgato siche si vede essere state ancor’queste alcune volte esercitate.

Il Piombo trovo essere stato cavato in due luoghi: l’uno a Monte Cerbero luogo det­to il botro a Tracolle, e trovo essere stata questa miniera esercitata dalla famiglia de Broccardi circa l’anno 1560, ma in hoggi l’edifizio è rovinato e solo se ne ve­dono le vestigie e quivi all’intorno quan­tità di ceneracci; l’altro è nel Comune di Monte Rotondo, ma di questo ne ho po­ca cognizione.

Delle Cave del ferro non ho notizia se non d’una nel Comune di Castel Nuovo a can­to al fiume Pavone, ma non son ben cer­tificato se quivi fusse la miniera o seppu­re la portassero d’altrove a quocere per­ché quei Paesani non ne mostrano vesti­gia. Si vede ben chiaro che quivi era il for­no dove il ferro si purgava vedendovisi al­l’intorno quantità grande di loppe e di pur­gami.

Vengo adesso alle Cave deH’Allume del­le quali una ne è vicina ai sopradetto luo­go ove ho detto che si purgava il ferro e

vi si vedono tuttavia quattro fornelli mu­rati per servizio d’essa fabrica d’Allume et ivi contiguo in un picciolo monticello vi son molte buche profonde donde si ca­vava la terra alluminosa, e queste Cave furono esercitate dalla famiglia de Pallini di Castel Nuovo circa l’anno 1570.

Nel Comune del Sasso vi sono quelle Ca­ve d’Allume memorabili per haver dato causa alla guerra di Volterra et alla per­dita della sua libertà l’anno 1472. Erano queste fertilissime vedendovisi grandis­simi residui di fornelli e d’habitazioni e molti monacelli di terra colata.

A Monte Rotondo vi è una bella Cava d’Allume la quale fu dismessa quando Ariadeno Barbarossa famoso Console Turco prese a infestare i nostri mari per­ché allora restò interrotto l’esito della mer­canzia, tanto più essendo occorse in quei tempi le guerre di Siena mediante le quali hebbero queste miniere l’ultimo tracollo. Parimente in detto territorio vi è un altra bella miniera d’Allume dove il Botro del­la Dirutta mette nel fiume Risecco da una parte del Monte Leo luogo detto la Maio­nica, e questa cava fu esercitata lungo tempo, ma poi tralasciata per interesse delle Cave della Tolfa nello stato della Chiesa.

Pagina manoscritto di R. Maffei

Non meno è abondante questo territorio di Vetriolo perché una miniera se ne tro­va nel Comune del Sasso vicino al Castel­lo un quarto di miglio, ma in hoggi le bu­che sono ripiene e più non s’esercitano. Nel Comune di Libbiano v’erano due ca­ve di Vetriolo: l’una si dice la Giunca, e vi si vedono ancora i fondamenti dell’edifizio e due profondissime buche dalle quali si cavava la terra; l’altra pure in detto Comune chiamata le Cave di Tigugnano, e di questa ho una memoria nella quale si dice che queste cave fossero molto mi­gliori che quelle dette di sopra della Giun­ca perché in queste l’acqua non dava im­pedimento e la terra era migliore facendovisi il Vetriolo senza ferro oltre all’es­sere il paese più comodo per la terra e per le legna e la terra medesima più fe­conda di miniera questa che quella.

A Monte Rotondo vi sono due Cave di Ve­triolo le quali si sono esercitate a i tempi nostri et anco in parte s’esercitano al pre­sente da i Baldassarrini di quel luogo; l’una per essere assai attaccata all’allume et al solfo fa molta feccia, ma col fuoco si purga e se ne fa buon Vetriolo. L’altra pure in detto Comune luogo detto il Lago partecipa anche essa un poco di solfo; ca­vasi in terra e non in Marcassita et è sti­mato questo Vetriolo molto buono per la tinta della seta perché è dolce al pari d’ogn’altro.

A Serrazzano ancora sono simili Cave ma non s’ha memoria quando sono state esercitate.

A Porcignano villa cinque miglia di qui lon­tano ve ne sono cave molto buone le quali à tempi nostri sono state esercitate da Gentil huomini di questa Città ma poi tra­lasciate perché la fertitilità e la bontà di quelle della Sdriscia l’ha superate. Que­ste dunque della Sdriscia che sono nel Vescovado di Volterra ma nel Contado di Firenze sono le più famose et esercitate e che tuttavia s’esercitano con frutto et uti­le grande, e se bene da parecchi anni in­dietro erano in disastro furono.poi median­te l’industria e la diligenza de Sig.ri Attavanti di Firenze rimesase in stato florido nel quale si mantengono ancora con fabricare quantità grande di Vetriolo.

Havendo io de sali parlato altra volta re­stami solamente a dire circa la miniera di zolfo. Di questo se ne trovano di due sor­te cioè il nero et il giallo. Il nero non è pun­to inferiore al giallo nelle sue qualità et di questo se ne trova assai nel contado di Libbiano et in particolare in una posses­sione che si chiama Fonte Bagni et si tro­va in miniera pura che per lo più ha poco bisogno d’esser purgata dal fuoco. Furo­no queste miniere di zolfo esercitate già dalla famiglia de Guidi di questa Città i quali ne traevano buon profitto, ma in hoggi…

NOTE BIBLIOGRAFICHE

  1. E.FIUMI – L’utilizzazione dei lagoni boraciferi della Toscana nell’industria medievale. Firenze, Dott. Car­lo Cya, 1943.
  2. Cfr. anche A.MENICONI – Studi antichi e recenti sulle miniere medievali in Toscana: alcune conside­razioni, in: “Ricerche Storiche”, anno XIV, n.1, gennaio-aprile 1984, pp.203-226.
  3. G.TARGIONI TOZZETTI – Relazioni d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana. 2.ed., Firenze, Stamperia Granducale, t.lll, 1769, p.104.
  4. Cfr. in proposito R.S.MAFFEI – Di Zaccaria Zacchi pittore e scultore volterrano (1474-1544). Volterra, Sborgi, 1905, p.17.
  5. L.ALBERTI – Descrittione di tutta Italia. In Bologna, per Anseimo Giaccarelli, 1550 (territorio volterrano: cc. 49r-51v).
  6. M.GIOVANNELLI – Cronistoria dell’antichità e no­biltà di Volterra. In Pisa, appresso Giouanni Fontani, 1613 (territorio volterrano: pp. 59-67).
  7. Descrizione dell’antica e nobile città di Volterra fatta da Giovanni Rondinelli Capitano l’anno 1580. Volter­ra, Biblioteca Guarnacci, Ms.8467 (LXII.7.16).
  8. L.FALCONCINI – Storia dell’antichissima città di Vol­terra. Scritta latinamente da Lodovico Falconcini e vol­tata in italiano dal Sac.Berardo Berardi. Firenze- Volterra, Sborgi, 1876 (territorio volterrano: pp.539-597).
  9. cfr. A.K.ISAACS – Volterra nel Cinquecento: alcu­ne prospettive di ricerca, in: “Bollettino storico pisa­no”, anno LVIII, 1989, pp.189-205.
  10. R.MAFFEI – Discorso sopra i residui d’antichità di Volterra. Bagni e acque termali. Saline e acque sal­se. Minerali, metà sec. XVII. Volterra. Biblioteca Guar­nacci, Ms.5819 (Lll.5.2).
  11. Per la vita e le opere del Provveditore Raffaello Maffei cfr. R.S.MAFFEI – Vita di Raffaello Maffei. In: Storia volterrana del Provv. Raffaello Maffei, a cura di Annibaie Cinci. Volterra, Sborgi, 1887, pp. VII-LX.
  12. E.FIUMI, op. cit., p.71.
  13. Cfr. B.LOTTI – Descrizione geologico-mineraria dei dintorni di Massa Marittima in Toscana. Mem. Descr. Carta Geol. d’lt.,vol.VIII, Roma, 1893, pp.114-115 e id. – Geologia della Toscana. Mem. Descr. Carta Geol. d’lt., vol. XIII, Roma, 1910, pp.334-335.
  14. Cfr. in proposito A.MARRÙCCI – Le miniere di ra­me del Podere ‘‘La Corte”, in: “La Comunità di Po­marance”, anno III, 1989, n.2, pp.10-13.
  15. Si veda anche M.BOCCI – Curiosità storico­minerarie del circondario di Volterra, in: “Volterra”, an­no VI, n.12, dicembre 1967, pp.20-22.
  16. Cfr. in proposito G.BATISTINI – / vetrioli nelle zo­ne del volterrano, in: “Rassegna Volterrana”, LXIII-LIV, 1987-1988, pp.3-19.
  17. Sulle cave della Striscia si veda G. TARGIONI TOZZETTI, op. cit., pp.112-117 e S.ISOLANI – Storia politica e religiosa dell’antica comunità di Montigno- so Valdelsa. Volterra, Tip. Carnieri, 1919, pp.120-123. *) I.GUIDI – De Mineralibus. Venetiis, apud Thomam Ballionum, MDCXXV, p.1

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

NOTE DI STORIA MINERARIA

Se vi ha paese, che offra copia e varie­tà di minerali, egli è senza dubbio nella nostra Italia questa prediletta Toscana… È noto che fin dalla più remota antichità qui da noi si cavavano miniere… e di que­st’arte antichissima restano le vestigia nei pertugi delle montagne…’’.(1)

Non è certo questa la sede per eviden­ziare ancora una volta il ruolo svolto dal­le risorse minerarie (nella fattispecie sali e metalli) nella storia economica della To­scana medievale; una regione in cui il sot­tosuolo si presentava particolarmente ric­co di minerali utili in giacimenti di rilevante interesse economico e la cui storia mine­raria risulta per noi tanto più interessan­te se consideriamo che in quest’area “se ne togli qualche argentiera e ferriera di Lunigiana e Garfagnana, e qualche altra nell’alta Valle delTArno, su le terre dei Conti Guidi, tennero innanzi tutto la pal­ma i territori di Volterra e Massa- Populonia…”.(2)

La conoscenza di questo aspetto della storia economica toscana vanta infatti stu­di fondamentali e illuminanti come quelli di VOLPE e di FIUMI,(3) anche se man­ca tuttavia un’opera di ricostruzione com­plessiva delle operazioni intraprese, del­le relazioni con la metallurgia coeva, delle attività economiche indotte. Fortunata­mente però negli ultimi anni questo con­testo di studi è andato suscitando sem­pre più l’interesse dei ricercatori, arric­chendosi così di nuovi lavori tesi ad ag­giungere nuove tessere a questo com­plesso mosaico.(4)

Per quanto riguarda il territorio di Montecastelli, la sua grande attrattiva economi­ca fin dall’antichità è stata rappresenta­ta dalla notevole presenza di “vene di oro, argento e rame”(5) nella valle del Pavo­ne: la costituzione geologica, le eviden­ze mineralogiche, la documentazione storico-archivistica e, non ultime, le vesti­gia esterne e la grande estensione dei la­vori intrapresi sul fondo della stretta e pro­fonda gola posta fra Montecastelli e Roc­ca Sillana, rappresentano una sicura te­stimonianza dell’importante ruolo avuto da questa zona nella storia mineraria del­la Val di Cecina. In quest’area le ricerche e le escavazioni effettivamente documen­tate rimontano infatti, a quanto sembra, alla fine del sec. XII – inizio del sec. XIII, ovvero al periodo in cui il Vescovo di Vol­terra Ildebrando Pannocchieschi “ebbe libertà e comodità di ricoltivare lungo il fiu­me Pavone le miniere di rame, piombo ar­gentifero e forse oro ”.(6) Successivamente, sappiamo che uno dei Vescovi di Volterra, proprietari di queste miniere, le dette in affitto agli Incontri di Siena “con patto che d’ogni dieci libbre d’Argento che cavassero, gliene doves­sero dare una da mettersi sotto il co­nio’’.{7) Esse poi appaiono ricordate nei documenti d’archivio dell’inizio del Tre­cento come “argenterie et a u ri fodin is ”,(8) comparendo cioè genericamente negli at­ti comunitativi al pari degli altri beni co­nosciuti e ormai certi sui quali veniva esercitata giurisdizione nel territorio di Montecastelli. Tuttavia, come fatto giusta­mente osservare da FIUMI, “più che la prova di un’attività escavatrice in atto, po­trebbe ritenersi che gli strumenti registrati nelle carte di comunità alludessero a sta­bilire un diritto in potenza; ma è certo che nel corso dei secoli si ritrovano in quei luoghi segni di sfruttamento precedente e vestigia. Ciò è specialmente evidente per le cave di Montecastelli...”.(9) A con­ferma infatti dell’attività di queste minie­re nel corso del XIV secolo sta ad esem­pio la notizia che nel 1352 il Vescovo di Volterra Filippo Beiforti affittò a tre montierini “due cave di argento e rame o al­tro metallo poste nel territorio di Montecastelli sopra il fiume Pavone fra Silano e Montecatelli” a condizione che essi dessero a lui o ai suoi successori “la ven­tiquattresima parte di ogni metallo sca­vato’ ’.(10)

Anche Lodovico FALCONCINI, nel corso del Cinquecento, ricorda queste miniere di argento e rame “feracissime di detti metalli’’, ubicate precisamente “presso la riva del torrente Pavone, nella quale so­no state trovate anche oggi delle piscine in cui si lavava la gleba d’argento… ” e ri­porta di avere appreso che “perdue vol­te vi è stato cavato argento e rame per molti anni continui ogni volta, da duecen­to anni in qua ad istanza del Vescovo di Volterra allora signore di quelle miniere. Il luogo poi ov’esse si trovano appellasi Montepelato o Monte dell’Oro”.

Nel 1580, inoltre il Capitano Giovanni RONDINELLI accenna telegraficamente all’esistenza di queste miniere senza spe­cificare se esse si trovassero allora in at­tività.(1 2) In realtà nel corso del Quattrocento e, soprattutto, del Cinquecento le operazioni minerarie in questa zona do­vettero inarrestabilmente declinare svol­gendosi prima in modo saltuario e occa­sionale per poi cessare del tutto fino al 1584, quando Bernardo Giorgi, ministro economo delle miniere del Granducato, in una lettera diretta al Granduca di To­scana descrisse le consistenti potenzia­lità minerarie della zona, perorando con entusiasmo la pronta riattivazione dei la­vori: “… sotto braccia 11 si trova della mi­niera assai e di miglior qualità che la pri­ma che si manda di saggio… e la minie­ra va per filoni e non a noccioli come quel­la di Montecatini ed io ci ho grande spe­ranza’ ’.(13)

Ho ritenuto opportuno proporre questa lunga introduzione proprio per mostrare come tutte le fonti storiche note in mate­ria facciano riferimento unicamente alle miniere poste nella valle del Pavone, in­discutibilmente le più ricche e fertili di questa terra, e trascurino invece, se si ec­cettuano le generiche attestazioni di di­ritti “in potenza’’, tutte le altre analoghe (ma forse allora sconosciute) evidenze mi­nerarie della zona.

Tuttavia alcuni documenti conservati nel­la Biblioteca Guarnacci di Volterra e fino­ra inediti(14) consentono oggi di amplia­re, anche se pur di poco, le conoscenze relative alla storia mineraria della terra di Montecastelli, allargando il campo d’inda­gine a un’area finora mai citata in lette­ratura, ovvero quella delle pendici orien­tali del paese digradanti verso la valle del Cecina.

La filza 57 dell’Archivio Maffei contiene infatti tre documenti del 1605 e una map­pa presumibilmente coeva relativi alla scoperta di una nuova “cava” di rame in località Casa delle Pàstine.

A un’esame sommario i tre documenti sembrano testimonianze rese fra il 19 e il 20 febbraio 1605 a un processo istitui­to per dirimere la controversa causa sul­l’effettiva paternità della scoperta, e, co­me detto, assumono particolare rilievo perché per la prima volta l’area d’interes­se minerario si situa fuori della valle del Pavone; essi permettono pertanto di ar­ricchire la topografia storica delle esca­vazioni minerarie e dei tentativi operati nella zona di Montecastelli.

Esaminiamo dapprima i tre documenti:

Addi 19 di febraio 1605

tassi fede per me Bastiano di Sisto Ghilli da Monte Castelli come la verità è che sotto il dì 8 del presente mese volevamo andare a Firenze Marco di Giovan Paulo

  1. Pieralli e io venne Domenico di Matteo Bernardi di detto loco et disse che vole­va che noi portassi dua o vi ero tre pezuol
  2. di miniera di rame alla galleria la quale dette al sopra detto Marcho che la portase et andando detto Marcho et lo Bastia­no sopra detto.

Insieme permisino a Pogibonsi et lo Ba­stiano andai innanzi et arrivando detto Marcho il di dieci stante mi disse avere portato detta miniera alla galleria di S.A.S. et che non aveva trovato il provveditore ma che si bene vi voleva tornare per la risposta et per fede del vero lo Bastiano soprascritto o schritto di mia propria mano.

Adì 20 di febraio 1605

Fede per me Piero di Giusto d’Agusti no dal Bagnano Contado di Firenze come la verità è che! giorno di Carnovale prossi­mo passato fui chiamato da Domenico di Matteo Bernardi da Monte Castelli, a la­vorare alla Cava del Fame del luogo det­to alle Pastine insieme et in compagnia di Mario di Luca lavorante in detto luogho, et in mentre che lavoravamo detto Dome­nico disse a me Piero mentre che cava­va l’acqua per poter lavorare, disse Pie­ro domanda Mario chi trovò detto filone, et detto Mario disse Domenico et di più mi disse zappa qui, et in poche zappate trovammo il segno, et allora detto Piero disse harete cento scudetti, et lavoram­mo insino a notte, et cavammo della mi­niera, et la presi addosso, et la pesam­mo in casa di Messer Domenico et fu lib­bre trenta et di tanto dico essere la veri­tà, et per fede dico a preghato me Anto­nio Cial… Prete di Monte Castelli, che a nome suo facci da fede, perché le disse non sapere scrivere et tutto o fatto alla prese ntia del li infrascritti testimoni lo Bastiano di Sisto Ghilli fui presente quando detto Piero fece detta fede al so­pra detto Domenico et disse essere la ve­rità di quanto di sopra si contiene et in fe­de di mia propria mano o scritto lo Giovani Diacomo di Baco fui presente quato di sopra se rito in fede scrisi.

Adì 20 di febraio 1605Comparse avanti me Cosimo fu Provve­ditore di Volterra Michelangelo di Santi da Cerbaiola del Vicariato di Monti Castelli e disse che la miniera che si è scoperta nei beni di detto Santi suo Padre luogo detto le Pastine, la prima che si è scoper­ta fumo dua oprai che vi messino a far della legna, cioè Santi di Carlotto e Bal­dassarre che ne trovonno circa libbre 30, che l’hebbe Domenico fabro, e Mario di Luca lavoratori a Cerbaiola scoperse la vena della Cava in detto luogo, e me ne ha scoperto in un altro luogo acanto alla Casa dell’Aia e fra tutti dua questi luoghi ne ha cavata all’Aia 60 libbre e più il det­to Mario ne ha cavata fra tutti i luoghi cir­ca 200 libbre e tutta la hauta Domenico fabro, che la pagata parsi soldi 4 la lib­bra et disse che detto Domenico li ha volsuti dare uno scudo acciò dica che l’habbi trovata detto Domenico.

Se vi ha paese, che offra copia e varie­tà di minerali, egli è senza dubbio nella nostra Italia questa prediletta Toscana… È noto che fin dalla più remota antichità qui da noi si cavavano miniere… e di que­st’arte antichissima restano le vestigia nei pertugi delle montagne…’’.(1)

Non è certo questa la sede per eviden­ziare ancora una volta il ruolo svolto dal­le risorse minerarie (nella fattispecie sali e metalli) nella storia economica della To­scana medievale; una regione in cui il sot­tosuolo si presentava particolarmente ric­co di minerali utili in giacimenti di rilevante interesse economico e la cui storia mine­raria risulta per noi tanto più interessan­te se consideriamo che in quest’area “se ne togli qualche argentiera e ferriera di Lunigiana e Garfagnana, e qualche altra nell’alta Valle delTArno, su le terre dei Conti Guidi, tennero innanzi tutto la pal­ma i territori di Volterra e Massa Populonia…”.(2)

La conoscenza di questo aspetto della storia economica toscana vanta infatti stu­di fondamentali e illuminanti come quelli di VOLPE e di FIUMI,(3) anche se man­ca tuttavia un’opera di ricostruzione com­plessiva delle operazioni intraprese, del­le relazioni con la metallurgia coeva, delle attività economiche indotte. Fortunata­mente però negli ultimi anni questo con­testo di studi è andato suscitando sem­pre più l’interesse dei ricercatori, arric­chendosi così di nuovi lavori tesi ad ag­giungere nuove tessere a questo com­plesso mosaico.(4)

Per quanto riguarda il territorio di Montecastelli, la sua grande attrattiva economi­ca fin dall’antichità è stata rappresenta­ta dalla notevole presenza di “vene di oro, argento e rame”(5) nella valle del Pavo­ne: la costituzione geologica, le eviden­ze mineralogiche, la documentazione storico-archivistica e, non ultime, le vesti­gia esterne e la grande estensione dei la­vori intrapresi sul fondo della stretta e pro­fonda gola posta fra Montecastelli e Roc­ca Sillana, rappresentano una sicura te­stimonianza dell’importante ruolo avuto da questa zona nella storia mineraria del­la Val di Cecina. In quest’area le ricerche e le escavazioni effettivamente documen­tate rimontano infatti, a quanto sembra, alla fine del sec. XII – inizio del sec. XIII, ovvero al periodo in cui il Vescovo di Vol­terra Ildebrando Pannocchieschi “ebbe libertà e comodità di ricoltivare lungo il fiu­me Pavone le miniere di rame, piombo ar­gentifero e forse oro ”.(6) Successivamente, sappiamo che uno dei Vescovi di Volterra, proprietari di queste miniere, le dette in affitto agli Incontri di Siena “con patto che d’ogni dieci libbre d’Argento che cavassero, gliene doves­sero dare una da mettersi sotto il co­nio’’.{7) Esse poi appaiono ricordate nei documenti d’archivio dell’inizio del Tre­cento come “argenterie et a u ri fodin is ”,(8) comparendo cioè genericamente negli at­ti comunitativi al pari degli altri beni co­nosciuti e ormai certi sui quali veniva esercitata giurisdizione nel territorio di Montecastelli. Tuttavia, come fatto giusta­mente osservare da FIUMI, “più che la prova di un’attività escavatrice in atto, po­trebbe ritenersi che gli strumenti registrati nelle carte di comunità alludessero a sta­bilire un diritto in potenza; ma è certo che nel corso dei secoli si ritrovano in quei luoghi segni di sfruttamento precedente e vestigia. Ciò è specialmente evidente per le cave di Montecastelli...”.(9) A con­ferma infatti dell’attività di queste minie­re nel corso del XIV secolo sta ad esem­pio la notizia che nel 1352 il Vescovo di Volterra Filippo Beiforti affittò a tre montierini “due cave di argento e rame o al­tro metallo poste nel territorio di Montecastelli sopra il fiume Pavone fra Silano e Montecatelli” a condizione che essi dessero a lui o ai suoi successori “la ven­tiquattresima parte di ogni metallo sca­vato’ ’.(10)

Anche Lodovico FALCONCINI, nel corso del Cinquecento, ricorda queste miniere di argento e rame “feracissime di detti metalli’’, ubicate precisamente “presso la riva del torrente Pavone, nella quale so­no state trovate anche oggi delle piscine in cui si lavava la gleba d’argento… ” e ri­porta di avere appreso che “perdue vol­te vi è stato cavato argento e rame per molti anni continui ogni volta, da duecen­to anni in qua ad istanza del Vescovo di Volterra allora signore di quelle miniere. Il luogo poi ov’esse si trovano appellasi Montepelato o Monte dell’Oro”.

Nel 1580, inoltre il Capitano Giovanni RONDINELLI accenna telegraficamente all’esistenza di queste miniere senza spe­cificare se esse si trovassero allora in at­tività.(1 2) In realtà nel corso del Quattrocento e, soprattutto, del Cinquecento le operazioni minerarie in questa zona do­vettero inarrestabilmente declinare svol­gendosi prima in modo saltuario e occa­sionale per poi cessare del tutto fino al 1584, quando Bernardo Giorgi, ministro economo delle miniere del Granducato, in una lettera diretta al Granduca di To­scana descrisse le consistenti potenzia­lità minerarie della zona, perorando con entusiasmo la pronta riattivazione dei la­vori: “… sotto braccia 11 si trova della mi­niera assai e di miglior qualità che la pri­ma che si manda di saggio… e la minie­ra va per filoni e non a noccioli come quel­la di Montecatini ed io ci ho grande spe­ranza’ ’.(13)

Ho ritenuto opportuno proporre questa lunga introduzione proprio per mostrare come tutte le fonti storiche note in mate­ria facciano riferimento unicamente alle miniere poste nella valle del Pavone, in­discutibilmente le più ricche e fertili di questa terra, e trascurino invece, se si ec­cettuano le generiche attestazioni di di­ritti “in potenza’’, tutte le altre analoghe (ma forse allora sconosciute) evidenze mi­nerarie della zona.

Tuttavia alcuni documenti conservati nel­la Biblioteca Guarnacci di Volterra e fino­ra inediti(14) consentono oggi di amplia­re, anche se pur di poco, le conoscenze relative alla storia mineraria della terra di Montecastelli, allargando il campo d’inda­gine a un’area finora mai citata in lette­ratura, ovvero quella delle pendici orien­tali del paese digradanti verso la valle del Cecina.

La filza 57 dell’Archivio Maffei contiene infatti tre documenti del 1605 e una map­pa presumibilmente coeva relativi alla scoperta di una nuova “cava” di rame in località Casa delle Pàstine.

A un’esame sommario i tre documenti sembrano testimonianze rese fra il 19 e il 20 febbraio 1605 a un processo istitui­to per dirimere la controversa causa sul­l’effettiva paternità della scoperta, e, co­me detto, assumono particolare rilievo perché per la prima volta l’area d’interes­se minerario si situa fuori della valle del Pavone; essi permettono pertanto di ar­ricchire la topografia storica delle esca­vazioni minerarie e dei tentativi operati nella zona di Montecastelli.

Esaminiamo dapprima i tre documenti:

Addi 19 di febraio 1605

tassi fede per me Bastiano di Sisto Ghilli da Monte Castelli come la verità è che sotto il dì 8 del presente mese volevamo andare a Firenze Marco di Giovan Pauol

  1. Pieralli e io venne Domenico di Matteo Bernardi di detto loco et disse che vole­va che noi portassi dua o vi ero tre pezuo
  2. di miniera di rame alla galleria la quale dette al sopra detto Marcho che la portase et andando detto Marcho et lo Bastia­no sopra detto.

Insieme permisino a Pogibonsi et lo Ba­stiano andai innanzi et arrivando detto Marcho il di dieci stante mi disse avere portato detta miniera alla galleria di S.A.S. et che non aveva trovato il provveditore ma che si bene vi voleva tornare per la risposta et per fede del vero lo Bastiano soprascritto o schritto di mia propria mano.

Adì 20 di febraio 1605

Fede per me Piero di Giusto d’Agusti no dal Bagnano Contado di Firenze come la verità è che! giorno di Carnovale prossi­mo passato fui chiamato da Domenico di Matteo Bernardi da Monte Castelli, a la­vorare alla Cava del Fame del luogo det­to alle Pastine insieme et in compagnia di Mario di Luca lavorante in detto luogho, et in mentre che lavoravamo detto Dome­nico disse a me Piero mentre che cava­va l’acqua per poter lavorare, disse Pie­ro domanda Mario chi trovò detto filone, et detto Mario disse Domenico et di più mi disse zappa qui, et in poche zappate trovammo il segno, et allora detto Piero disse harete cento scudetti, et lavoram­mo insino a notte, et cavammo della mi­niera, et la presi addosso, et la pesam­mo in casa di Messer Domenico et fu lib­bre trenta et di tanto dico essere la veri­tà, et per fede dico a preghato me Anto­nio Cial… Prete di Monte Castelli, che a nome suo facci da fede, perché le disse non sapere scrivere et tutto o fatto alla prese ntia del li infrascritti testimoni lo Bastiano di Sisto Ghilli fui presente quando detto Piero fece detta fede al so­pra detto Domenico et disse essere la ve­rità di quanto di sopra si contiene et in fe­de di mia propria mano o scritto lo Giovani Diacomo di Baco fui presente quato di sopra se rito in fede scrisi.

Adì 20 di febraio 1605Comparse avanti me Cosimo fu Provve­ditore di Volterra Michelangelo di Santi da Cerbaiola del Vicariato di Monti Castelli e disse che la miniera che si è scoperta nei beni di detto Santi suo Padre luogo detto le Pastine, la prima che si è scoper­ta fumo dua oprai che vi messino a far della legna, cioè Santi di Carlotto e Bal­dassarre che ne trovonno circa libbre 30, che l’hebbe Domenico fabro, e Mario di Luca lavoratori a Cerbaiola scoperse la vena della Cava in detto luogo, e me ne ha scoperto in un altro luogo acanto alla Casa dell’Aia e fra tutti dua questi luoghi ne ha cavata all’Aia 60 libbre e più il det­to Mario ne ha cavata fra tutti i luoghi cir­ca 200 libbre e tutta la hauta Domenico fabro, che la pagata parsi soldi 4 la lib­bra et disse che detto Domenico li ha volsuti dare uno scudo acciò dica che l’habbi trovata detto Domenico.

Mappa del Borgo di Montecastelli del Seicento

Come si può notare, anche se la vicenda appare intricata, assai chiara risulta inve­ce la ben ferma e determinata posizione di Domenico di Matteo Bernardi di Mon­tecastelli, intenzionato ad aggiudicarsi con ogni mezzo la scoperta del nuovo gia­cimento che doveva fargli presagire chis­sà quali speranze di ricchezza.

Dell’esito di questa vicenda non abbiamo notizie, ma certamente l’escavazione del­la nuova vena di minerale non ebbe al­cun seguito di rilievo visto che le sue trac­ce documentarie si perdono e che anche le estese e attente ricerche intraprese in tutta l’area nel corso dell’ottocento e nel­la prima metà di questo secolo non ne hanno dato alcun riscontro.

Particolarmente importante per ricostruire topograficamente la zona agli inizi del Seicento risulta però la mappa allegata ai documenti: in essa appare chiaramente descritto il borgo di Montecastelli con la sua possente torre a base quadrata e le due porte contrapposte a Bucignano e a Gabbro, elementi questi che permettono di orientare la carta e di posizionare nel­le sue linee generali il nuovo giacimento. Dai pressi della porta a Gabbro si dipar­tiva la strada per Volterra che potrebbe forse corrispondere oggi alla strada che, diretta da Montecastelli a Cerbaiola, fini­sce poi in Bocca di Pavone: da qui essa andava probabilmente a congiungersi con l’antica Via Maremmana nel suo trat­to di fondovalle fra Volterra e Pomarance. Per quanto riguarda l’esatta identificazio­ne topografica della Casa delle Pàstine essa è resa difficile dal fatto che questo toponimo risulta oggi pressoché scono­sciuto agli abitanti di Montecastelli. Oc­corre pertanto procedere all’interpretazio­ne diretta della pianta avendo cura di te­nere ben presenti sia le caratteristiche strutturali dell’area in questione sia le condizioni geominerarie (presenza di masse o lembi di ofioliti, esistenza di fa­glie o contatti ecc.) compatibili con la pre­senza di mineralizzazioni di rame.(15) Ebbene, in base a tali criteri e coerente­mente aH’orientamento degli elementi pia­nimetrici raffigurati nel disegno, la zona descritta dovrebbe coincidere con quel­la oggi compresa fra i Poderi Casina e Catro e C. Suveretine (o Sugheretino), ov­vero un’area in cui compaiono affiora­menti di ofioliti (serpentina e gabbro) e contatti (anche per faglia) sia tra le stes­se “pietre verdi’’ che tra queste e le al­tre formazioni geologiche.

In realtà il terzo documento parla anche di un altro luogo in cui fu rinvenuta “la ve­na della cava”, e cioè “acanto Casa del­l’Aia’’, ma anche questo toponimo risul­ta oggi di difficile identificazione in quan­to, oltretutto, non figura neppure sulla mappa.

Per l’interpretazione delle distanze ripor­tate nel disegno basti sapere che un brac­cio corrispondeva a circa 60 centimetri. Per meglio collocare storicamente questa vicenda diremo che in quel periodo i la­vori alla “cava vecchia’’ del Pavone, no­nostante le grandi speranze lasciate in­travedere da Bernardo Giorgi, dovevano languire o essere del tutto fermi visto che, tranne un infelice tentativo attuato nel 1636, gli sforzi dei Medici per riattivare le due importanti miniere di Montecatini Val di Cecina e di Montecastelli risultarono nulli e “sino al 1751 ni uno pensò né a MonteCastelli né a Montecatini’’.(16) Appare pertanto più che comprensibile, in questo periodo di contrazione, di rista­gno o addirittura di abbandono delle atti­vità minerarie nella zona, l’invio di alcuni campioni di minerale del nuovo giacimen­to alla “galleria di Sua Altezza Serenis­sima’’ con lo scopo e la speranza di po­ter vedere confermati il valore e l’impor­tanza della scoperta e di poter quindi su­scitare una nuova ripresa delle ricerche e un fruttuoso interessamento economi­co alla coltivazione del filone. Si trattava in pratica di veder sancita e dischiusa tut­ta una serie di preziose possibilità eco­nomiche.

Come si può comprendere, anche per quanto riguarda il caso appena illustrato si tratta di una piccola testimonianza che riemerge dal passato, una piccola tesse­ra da aggiungere al mosaico: pochi dati che però possono contribuire ad accre­scere le conoscenze sulla microstoria economica e sociale di Montecastelli, una terra che appariva ricca di ambiti metalli e il cui sottosuolo, assieme alle diffuse mi­neralizzazioni, sembrava fornire alterne ma convincenti prospettive alle attività mi­nerarie, accendendo così a più riprese, nel corso dei secoli, le più rosee speran­ze di ricchezza.(17)

Angelo MARRUCC1

NOTE BIBLIOGRAFICHE

  • G. D’ACHIARDI – Mineralogia della Tosca­na. Pisa, 1872-73. p.1.
  • G. VOLPE – Montieri: costituzione politica, struttura sociale, attività economica d’una terra mineraria toscana nel secolo XIII. In: Marem­ma, anno I (1924), fase. 1, p. 29.
  • E. FIUMI – L’utilizzazione dei lagoni bora­ciferi della Toscana nell’industria medievale.

Firenze, Dott. Carlo Cya, 1943.

  • Cfr. ad es. A. MENICONI – Studi antichi e recenti sulle miniere medievali in Toscana: al­cune considerazioni. In: Ricerche Storiche, an­no XIV, n.1 gennaio-aprile 1984. pp. 49-56.
  • G. VOLPE – op. cit., p. 31.
  • M. BOCCI – Montecastelli Valdicecina. In: TAraldo, anno XLII, n. 25, 25 giugno 1972, p. 4.
  • G. TARGIONI-TOZZETTI – Relazioni d’al- cuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana. Firenze, Stamperia Granducale, 1769-74, t. VII, p. 392.
  • A.S.C.V. – Filza S nera 1 c.127r: Il documen­to reca la data 19 settembre 1301: esso va quindi postdatato rispetto al 1285, come ripor­tato da Fiumi (cfr. nota 3, p. 71).
  • E. FIUMI – op. cit. p. 71.
  • M. CAVALLINI – Notizie e spogli d’archi­vio. In: Rassegna Volterrana, anno I (1924), fase. Il, p. 84.
  • L. FALCONCINI – Storia dell’antichissima città di Volterra. Volterra, Sborgi, 1876, pp. 583-585. Il toponimo Monte dell’Oro è tuttora presente nella denominazione locale del pro­fondo e scosceso canalone che sovrasta l’an­tica miniera di Montecastelli detto, appunto, Vallone (o Borro) di Pietralloro.
  • B.G.V. – Ms. 8467 (LXII.7.16) – Descrizio­ne dell’antica e nobile città di Volterra fatta da Giovanni Rondinelli Capitano nel 1580, c.5r.
  • C. RIDOLFI – D’alcune miniere della Ma­remma. Cenni storico-economici per servire al­l’eccitamento dell’industria che si occupa di trarne profitto. In: Giornale Agrario Toscano, n. 24 (1832), tomo VI, p. 495.
  • B.G.V. – Archivio Maffei, filza 57: si tratta di un opuscolo costituito dalla mappa ripiega­ta e dalle tre lettere; la mappa reca sul dorso: scritture della Cava di Rame.
  • Cfr. la Carta archeologica dell’alta Val di Cecina alla scala 1:25.000 in: A. LAZZAROT- TO, R. MAZZANTI – Geologia dell’alta Val di Cecina. Boll. Soc. Geol. It., 95(6), 1976, pp. 1365-1487.
  • C. RIDOLFI – Op. cit. p. 495.

Evidenti limiti di spazio e di opportunità m’impediscono di occuparmi in questa sede della storia della più celebre e antica miniera di Montecastelli, se non per brevi cenni relati­vi al periodo tardo-medievale. In realtà la col­tivazione di questa miniera assunse il maggiore sviluppo nel corso dell’ottocento dando luo­go a vestigia e lavori sotterranei di grande in­teresse per l’archeologia industriale del nostro territorio. Su tutta questa storia intendo tutta­via tornare più a lungo in altra occasione col necessario e prezioso apporto di planimetrie e dati tecnici e col contributo di un’adeguata trattazione.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.