LO STEMMA DEGLI INCONTRI A MONTEGEMOLI

Conoscendo per caso la famiglia Can­tini di Montegemoli ed avendo saputo del loro impegno nel restauro della chie­sa di San Bartolomeo di Montegemoli, non mi sarei mai aspettato che questa piccola chiesa celasse sotto il fatiscente intonaco un’interessante paramento murario di epoca medievale in cui sono stati riscoperti alcune feritoie ed una monofora posta dietro l’altare, che ren­dono l’ambiente notevolmente affasci­nante.

L’impegno del parroco Don Luciano, che ha promosso insieme ad alcuni volontari il restauro, è stato notevole ed ha contri­buito a riportare questa piccola chiesa agli antichi splendori valorizzando quel­le poche ma significative opere d’arte che vi si conservano.

Tra le cose più interessanti che vi si trovano, come la bellissima icona tre­centesca raffigurante una Madonna con Bambino, è da considerare un oggetto che probabilmente sfugge al visitatore . Trattasi di una acquasantiera, realizza­ta in alabastro locale e murata sulla parete destra entrando, molto vicina alla porta di accesso, che reca scolpito in bassorilievo lo stemma di un’antica fa­miglia di origine pomarancina, quella degli INCONTRI.

Di questa casata me ne ero già occupa­to in passato studiando la loro attività di mercatura con la produzione e lo smer­cio delle maioliche pomarancine od an­che per la loro parentela con il pittore Cristofano Roncalli che dipinse nei primi anni del ‘600 a Pomarance una grande tela per l’altare di Sant’Andrea, eretto dagli Incontri, nella chiesa di Pomaran­ce .

Una importante famiglia che possedeva molti beni immobili nel comune di Poma­rance e che aveva in patronato anche il bel crocifisso ligneo,proveniente dal ca­stello di Acquaviva, presso il Bulera,ed oggi collocato sopra l’altare Maggiore della chiesa di Pomarance.

Lo stemma degli Incontri, effigiato nel­l’acquasantiera di Montegemoli, è pro­babilmente risalente al XVI-XVII secolo e doveva essere stato donato da qual­che discendente che aveva voluto la­sciare un suo ricordo alla popalazione di Montegemoli. Alcuni di questi infatti fu­rono Vescovi Volterrani od anche pub­blici Notai fiorentini come Ser Piero di Andrea Incontri da Ripomaranci che fu, nel 1565, Cancelliere della Comunità’ di Montegemoli .

Molti di questi stemmi che raffigurano due leoni sovrapposti, intramezzati da una barra e con il rastrello sopra, erano posti anticamente sulle case e possedi­menti degli Incontri nel castello e conta­do di Ripomarance.

Ne è una riprova un documento del 1670, conservato nell’archivio Storico di Po­marance, che riportiamo integralmen­te e che ci consente di capire l’origine della famiglia ed i luoghi dove gli stessi blasoni erano collocati. Purtoppo la mano dell’uomo ha contribuito a cancellare queste testimonianze del passato che possiamo solo documentare attraverso gli antichi manoscritti.

“A dì Dicembre 1670

Coadunati il Gonfaloniere et Priori della Comunità delle Ripomaranci nella solita residenza in numero sufficente serv. servantis ordinarono a me cancelliere farsi fede autentica come la verità fùet, che /’Alfiere Alamanno di Gio.di Marco Antonio Incontri che abita la terra delle Ripomaranci è dell’istessa e medesima famiglia dell’Incontri che di presente habitano e risiedono a Volterra e così è sempre da loro tutti stato tenuto e ripe­tuto per esser li loro antichi della mede­sima consorteria e discendere da un medesimo Autore; che così hanno anco­ra sempre sentito dire da loro antenati senza esserci memoria in conto e sem­pre fra di loro si sono trattati sempre tali e come dalla medesima consorteria ;si come ancora hanno fatto e fanno la medesima arme che sono due leoni d’oro volti sul lato diritto tramezzati da una sbarra pure d’oro in campo azzurro con un rastrello sopra rosso e tre gigli d’oro che a quello fanno di presente.

Ma nell’antiche di centinara d’anni man­ca il rastrello et gigli, la quale arme si vede esposta nella terra delle Ripoma­ranci, in molti luoghi pubblici et privati e particolarmente nella chiesa Arcipresbi­terale di S. Gio. Battista in due cappelle fatte dai suoi antenati che una è l’altare del S.S. Crocifisso, et l’altro è l’altare di S. Andrea Apostolo; et un ‘altra più antica simile fatta pure dai suoi antenati si vede in una colonna e dove sta il Gonfaloniere di detta Comunità; si come ancora un ‘al­tra antichissima di centinara d’anni se ne vede nella lapide della sepoltura an­tichissima.

Della sua famiglia ha sempre quello con il rastrello a gigli, si come da tutti pubbli­camente si vede; si come anco nel me­desimo modo si vede esposta la detta arme sopra la porta della casa loro anti­ca in detta terra, luogo detto “In Piano” dinanzi la chiesa principale e dentro le lor case, in molti luoghi, et in molti de lor poderi et altrove;

Si come attestano che detto Alfiere In­contri e suoi antenati si sono sempre trattati civilmente et onoratamente, et con decoro conforme la sua nascita, et tenuto sempre serve, servitori et cavalli, si come sempre si sono imparentati ci­vilmente et nobilmente; et particolarmen­te in Volterra con le prime famiglie, si come altrove et no hanno mai fatto pro­fessione alcuna che possa denigrare la civiltà ma esercitare sempre in caccia, arme, et lettere et simili, essendo o an­cora stati et sono comodi di facultà si come per il pubblico e notorio a tutta la Terra delle Ripomaranci ma a chiunque li ha conosciuti et conoscere….”.

Jader Spinelli

NOTE

Sulla famiglia Incontri vedi:

  1. J.Spinelli – “Il Redentor Crocifisso d’Acquaviva”; La Comunità di Pomaran­ce N. 3 -1987.
  2. J. Spinelli – “Gli stovigliai a Pomaran­ce”; La Comunità di Pomarance N.1- 1990.
  3. J.Spinelli – “Un dipinto del Roncalli a Pomarance”: La Comunità di Pomaran­ce N. 2-1992.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

I SIGNORI PADRONI

un racconto di Vittorina Bibbiani Salvestrini

Al mio paese non c’erano contadini proprietari di terre, ma solo mezzadri. La terra suddivisa in tenute, più o meno grandi, apparteneva tutta ai “Signori”, ai padroni. I padroni avevano quasi tutti il palazzo nelle stesse vie, ma abitavano in città e venivano al paese solo a metà estate. Essi erano chiamati padroni, ma in realtà i veri padroni erano i fattori (amministratori) che tartassavano i con­tadini e fregavano il padrone arricchen­dosi piano piano alle sue spalle, spesso diventando più ricchi di lui.

“Fammi fattore una anno……. se non ar­

ricchisco, mi danno!..”.

Il “Signore” più signore era il conte De Larderei ed il suo palazzo era il più grande ed il più bello. Si allungava per un quarto della via Roncalli, dove era l’ingresso ed anche l’abitazione del fat­tore, girava l’angolo dove si spalancava il grande ingresso delle scuderie poste sotto il palazzo e dalla parte opposta si alzava di vari metri sulle “mura”, col suo bel giardinetto pensile e i suoi tre piani. Su questa facciata spiccava lo stemma gentilizio. Era la riproduzione, un po’ ridotta, del palazzo De Larderei di Livor­no.

Il conte era un bel vecchio distinto dalla barba bianca.

Egli, con felice intuito, aveva comprato per una miseria la terra brulla, conside­rata quasi maledetta dei soffioni, dando origine a quello che è diventato poi il complesso industriale di Larderello che da lui ha preso il nome.

Una sua figlia aveva sposato il principe Ginori, aggiungendo ancora lustro alla casata. Mi par di rivedere la principessi­na, quando passava da casa mia a ca­vallo!

Vestita da amazzone ( con la gonna lunga fino ai piedi) sedeva in sella con le gambe a sinistra, i lunghi capelli sciolti, raccolti da una parte, il frustino e le briglie in mano.

Tutto era lindo, luccicante, impeccabile: dall’abito al cavallo, ai finimenti, al ri­spettoso scudiero in divisa che le caval­cava un po’ dietro.

Per noi bimbetti di campagna era il plus – ultra della signorilità e li guardavamo con ammirazione mista a un po’ d’invi­dia. Il fattore del Conte era un signore con la barba, robusto, altero e taciturno che incuteva a tutti soggezione.

Era lui il vero padrone di tutta la contea. Sua moglie, lasignoraGiulia, era bellae dolce e non usciva mai. Il fattore, forse geloso, doveva essere un tiranno anche con lei. Aveva anche un figlio; bello e dolce come la mamma, che studiava in città. Di fronte alla sua stanza, dall’altra parte della strada, c’era il giardino pen­sile del signor Mugnaini. Sua figlia Ma­ria, dolce e timida, uscita da poco dal collegio, si sedeva a ricamare sotto il pergolato. Attraverso l’aere cominciaro­no a partire prima sguardi furtivi, poi sorrisi, poi saluti….e poi divennero sposi felici.

lo conoscevo abbastanza il palazzo per­chè mamma , prima della venuta dei “Signori”, andava a dare una mano alla “casiera”, e alla” sora “ Caterina.

E mentre loro facevano le pulizie, io perlustravo lunghi corridoi e le innume­revoli camere con i letti a baldacchino ed i rispettivi, eleganti salottini con tante morbide poltrone e graziosi soprammo­bili. Di questi quello che più mi incantava era, sotto una campana di vetro, una chioccia a grandezza naturale che cova­va una bella nidiata di pulcini dorati e birichini.

La cucina era immensa; grande acqua­io, grande camino, grandi tavole. Ad una colonna c’era appeso un macinino, anzi un macinone. E alle pareti tanti rami luccicanti e nelle vetrine cristalliere scin­tillanti. Ma il Conte era un uomo sempli­ce, mangiava nel tinello aperto sulla cu­cina e dormiva in una cameretta a pian terreno, quasi spoglia. Il suo letto era senza baldacchino e ai piedi di esso c’era un inginocchiatoio.

Altri palazzi ,come ed esempio quelli dei Fabbricotti,dei Galli Tassi o dei Bicocchi erano più modesti.

Ricordo che una figlia dei Bicocchi ave­va sposato un avvocato francese ed era andata ad abitare a Nizza.

Nell’estate, anche lei veniva in villeggia­tura al paese di Pomarance con le figlie; e queste, per la passeggiata vespertina, qualche volta passavano, eleganti, da­vanti al “Formicaio”, accompagnate dal­la istitutrice francese, conversando in questa lingua.

Un loro zio, la sera delle sue nozze avvenute in città, portò al paese una giovane sposa, bella , gentile e candida come un giglio. La mattina presto quan­do il proposto aprì la chiesa, se la trovò alla porta piangente, disperata, che chie­deva di confessarsi; riteneva di aver commesso un gran peccato mortale e voleva ritornare dalla sua mamma.

Non sapeva nulla del matrimonio. Forse credeva davvero che i bambini li portas­se la cicogna.

Fu compito non facile per il proposto consolarla, erudirla e convincerla a ritor­nare a palazzo a compiere i suoi doveri di sposa!

Altri tempi!

I nostri padroni erano i Signori Fabbri­cotti.

Abitavano a Massa Carrara dove si era­no arricchiti con le cave di marmo. Pos­sedevano al paese una vastissima tenu­ta ed un bel palazzo, anchesso col giar­dino pensile.Avevano una grande villa con giardino e scuderie a Livorno, villa che porta ancora il loro nome.

Erano buoni e munifici, specialmente la signora, morta quasi in odore di santità. Ogni anno ella faceva allestire una gran­de fiera di beneficenza per offrire, così a tutti doni, senza umiliare.

Il loro arrivo era annunziato dal festoso suono della banda comunale ( proprio come nel “Gattopardo”).

Poi venne la guerra 1915-18 e peggio ancora il dopoguerra; e i suoni si tramu­tarono in fischi. E i signori non vennero più.

Il Principe Ginori e F. De Larderei nello stabilimento di Larderello con i loro dipendenti (1900 circa)

Vittorina Bibbiani Salvestrini

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

LA RITIRATA DELL’A.R.M.I.R. IN RUSSIA

RACCONTO AUTOBIOGRAFICO DI M. SCARCIGLIA

Caro direttore, ho accettato il tuo invi­to a descrivere la tragedia dell’ARMIR, tragedia immane, della quale porto i se­gni indelebili sul corpo e nella mente, spe­rando che i giovani e certi politicanti da caffè imparino che cosa è la “guerra”. Premetto che l’argomento può prestarsi ad interpretazioni di carattere politico dal­le quali rifuggo.

Dirò semplicemente cose orribili che ho vissuto e sofferto.

Lo dirò con senso di riconoscenza verso quella meravigliosa “Popolazione Rus­sa”, senza l’aiuto della quale nessuno, di­co nessuno di noi si sarebbe salvato.

Noi eravamo gli “invasori” e loro gli “ag­grediti”; non dimentichiamolo!

Ed ecco il racconto, stringato, nudo e cru­do, piaccia o no, ma a prova di qualun­que smentita perchè è la semplice duris­sima realtà.

Partii con gli alpini della “Cuneense” da Borgo San Dalmazzo, poi Cuneo, Torino, Milano, Brescia, Piedicolle, Villaco, Mo­naco, Dresda, Varsavia, Kiev, Izium. Tremilacinquecento kilometri. Durante i viag­gio rimanemmo scioccati nel vedere le donne addette a pulire i binari con la “Stella di DAVID” sul dorso sorvagliate e malmenate dalle sentinelle tedesche. Tremilacinquecento Kilometri!

Non mi rendevo conto come i “sacri” confini d’Italia fossero così dilatati!

Iniziammo la marcia verso il “Don” con un caldo asfissiante.

Le più belle “Divisioni Alpine”, atte alla montagna, mandate al “macello” nell’immensità della “Steppa Russa”!

Ero addetto al collegamento continuo fra la “testa” e la “coda” divisionale.

Avevo una “Sertum 500”.

Quindici giorni di lavoro durissimo nella “Steppa”

Durante la marcia i civili ci osservavano in silenzio dalle “ISBE” (case).Arrivam­mo sul Don. La “Cuneense” al centro, al­la destra la “Julia”, a sinistra la “Vicen­za”, poi la “Tridentina” Armamenti:

In linea le “Breda 36”, il “vecchio 91” e le bombette “Balilla”, che, se pestate, po­tevano al massimo portarti via il tacco de­gli scarponcelli.

Cominciammo a scavare trincee e cam­minamenti.

Poche scaramucce, qualche attacco spo­radico, qualche morto.

Ogni giorno mi recavo a Loscina od Annofca, poi in trincea quando finivo il turno. Nei giorni di calma ci recavamo nelle “Isbe” dei civili.

Diffidenti all’inizio, più cordiali in segui­to, ci narravano delle atrocità commesse dai tedeschi.

Devo dire che mai un soldato italiano si è macchiato di una violenza verso la po­polazione.

E loro se ne sono ricordati!

A metà settembre la temperatura diminuì A metà novembre la “Steppa” era un “mare di neve”, ci orientavamo con i mu­lini a vento.

Furono distribuiti pastrani con un pò di pe­lo di pecora e sempre le stesse scarpe. A Loscina rimediai un completo russo: tenni solo il cappello alpino.

Natale 1942: La posta non arrivava più poiché, in pratica, eravamo già accer­chiati.

Capodanno 1943: Aspettavamo che ac­cadesse qual’cosa.

Giorni tristi, pochi viveri, nessuna notizia da casa, termometro a 35 gradi sotto.

E venne il 17 Gennaio: nella notte ebbe inizio la più grande tragedia della storia. Ordine di ritirata!

La notte era illuminta dagli incendi. Ero ben equipaggiato, con i” ValenKi”, i fa­mosi stivali russi, come russi erano il giub­botto ed i pantaloni. Nel tascapane ave­vo due pagnotte gelate e tre ciocciolate. Bruciammo i pochi camion, caricammo le slitte, ed iniziammo la ritirata.

Da LOSCINA in poi fu un continuo coro di urla dei feriti perché le “Katiusce” (il cannone a Trentadue Colpi) aprivano vuo­ti nelle nostre file.

Urla dei feriti che chiamavano “mamma”, urla di chi, sfinito, si accasciava per non alzarsi più.

Unici punti di riferimento il bagliore degli incendi.

Ci riposavamo al calore dei pagliai bru­ciati.

Da LOSCINA in poi un coro continuo, lan­cinante: MAMMA! MAMMA!

La fame ci dilaniava e nella steppa fi­schiava il vento sollevando aghi di ghiac­cio che crivellavano la faccia.

Avevo solo mezza pagnotta gelata.

40 gradi sotto. Ci riposavamo, puntando la pistola, per dormire nelle poche “Isbe” rimaste in piedi, perchè dormire fuori, si­gnificava non svegliarsi più.

Riempii il tascapane di occhiali da neve tolti ai morti, e li cambiai con scatolette di carne e pezzi di marmellata.

Chi non aveva occhiali doveva pagare o perdere gli occhi.

Li avrei tolti anche alla mia Mamma!

Ho dormito poche volte nelle “Isbe”, spesso nei pagliai, e le donne russe ci hanno aiutato sino al limite delle loro pos­sibilità.

Un vecchio stava mangiando latte e ce­trioli, mi dette tutto e mi riempì la gavetta. Ragazzi russi di 14-15 anni con il “Para­bellum” controllavano che fossimo ita­liani.

Ai Tedeschi facevano subito la “pelle”. Le donne ci davano latte, miele, e cetrio­li acidi.

Quanto latte ho bevuto, quanti telai di miele ho mangiato, quanti soldati italiani anno salvato!.

Prima di “VALUIKI” vidi un gruppo che aspettava un pezzo di carne: “CARNE UMANA”, carne di un alpino squartato da un colpo di “Katuiscia”. L’ho visto con i miei occhi. E se non credete a me chie­detelo a Don Turla il nostro cappellano che, con il mitra in mano, fece finire lo scempio; li avrebbbe ammazzati se non si fossero fermati!. Eravamo al limite fra lucidità e pazzia, valeva solo l’istinto be­stiale della conservazione a qualunque costo.

Arrivammo nel vallone di “VALUIKI”, pe­nultimo baluardo da superare; nel vallo­ne ci rafficavano con le mitragliatrici e una raffica spezzò una gamba di un alpino che con il fratello correva verso il riparo urlando disperato.

Un alpino chiamò il fratello, lui si girò vide e continuò a correre, e rispose: “Mamma ne vedrà almeno uno’’.

Soldati italiani sul fronte russo – 1942

Entrai in una “Isbà” dove un vecchio mi dette una ciotola di latte e cetrioli, sua mo­glie si tolse i guanti e me li mise. L’Abbracciai piangendo.

Dopo “Valuiki” continuammo verso l’ul­timo sfondamento:

“NICOLAJEFKA” e fu l’apocalisse.

Ci precipitammo verso la ferrovia, ma non sentii arrivare la Katiusca; una vampata e caddi urlando. Accanto a me fu squar­tato il generale MARTINAT. Urlavo come un pazzo; fortunatamente passò una slitta di carabinieri che mi portarono fuori dal­l’ultima sacca.

Fermi, in attesa di essere caricati su un merci, assistetti ad un episodio di puro eroismo:

Don Turla, Il nostro cappellano, sfinito ma illeso, mentre ci caricavano alzò il “Cro­cifisso’’ e ci benedisse, poi lentamente, tornò nel vallone per non abbandonare i feriti e i morbondi. Quell’atto di puro eroi­smo gli costò quattro anni di “SIBERIA”. È tornato ed ha costruito una chiesetta nelle sue valli ove ogni anno raduna gli ultimi supestiti.

Quello era un Prete!

Arrivai a Varsavia in un liceo trasformato in un ospedale, poi, dopo un sommario medicamento, mi portarono nei sotterra­nei.Dopo due giorni di bombardamenti al­tro treno.

Sostai due giorni a Vienna dove mi cam­biarono le bende e finalmenete col treno N. 20 della Croce di Malta rientrai in Ita­lia e fui subito operato a Chiavari, nella Colonia Fara e Piaggio, ove rimasi 40 giorni.

Vennero la mia mamma e mia zia che non mi riconobbero.

Ero trentuno kilogrammi.

Di nuovo operato a Pisa, poi cure, aria di mare, affetti, hanno rimarginato le ferite, ma in noi sopravvissuti c’e un nodo di ge­lo che nessun calore scioglierà mai più. Considerazioni:

Le più belle divisoni del mondo “Cunenese, Julia, Tridentina”, distrutte.

Fummo spediti nell’immensità della step­pa russa noi alpini allenati in montagna, perchè ci fu chi aveva bisognio di cin­quantamila morti da far pesare sul tavo­lo delle trattative!

Li hanno avuti:

114.240 giovani hanno lasciato i loro 20 anni nel gelo della steppa russa a male­dizione di chiunque voglia la GUERRA.

Bollettino di Guerra del Comando Supre­mo Russo N. 630 dell’8/3/1943: ” Solo il corpo di armata Alpino deve ritenersi im­battuto sul suolo russo”.

Firmato Josef Diugasvili STALIN.

Non era dal cuore tenero ma seppe egualmente riconoscere il nostro valore.

PERCHÈ GLI ITALIANI RICORDINO

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

“UN CAVOLO…”

Negli ultimi anni di guerra, forse era il 1944, in un giorno d’inverno abbastanza freddo, io, che abitavo a La Spezia mi recai a Pomarance, da certi parenti in cer­ca di pasta e farina, che non si aveva in casa, malgra­do la tessera annonaria.

Mia madre, mi diede un bel cavolo da portare a questi parenti, poiché a La Spezia il clima abbastanza mite favoriva la crescita delle verdure. Mentre mio padre mi diede un paio di stivali di gomma.

– Faranno comodo a qualche contadino – Mi disse!

A quei tempi il viaggio in treno era lungo. Prima di Pi­sa, a S. Rossore, il treno finiva la sua corsa per ripren­derla oltrepassata la stazione al cosiddetto “collo d’o­ca” cioè un bel pezzo a piedi in mezzo ai binari distrut­ti dai bombardamenti.

Quando era buio alla stazione di Saline, ci fu un posto di blocco di militari fascisti, che vollero controllare i ba­gagli di ciascuno dei viaggiatori giunti col treno.

Alla domanda di cosa avessi nella valigia risposi can­didamente:

“Un cavolo e degli stivali!” Il resto della valigia era vuoto. Ero andato apposta per caricare un pò di mangiare. Questi si offesero parecchio e credendo ad una battu­ta messa li, mi dissero di fare meno lo spiritoso, che aprissi subito, al che quando li accontentai, ci rimase­ro assai male, tanto che uno di quelli, mi disse se ave­vo uno scontrino relativo all’acquisto degli stivali.

lo veramente non sapevo che da queste parti fosse in vigore la ricevuta fiscale, anticipando di circa quaran­ta anni i tempi, per cui rimasi alquanto perplesso, dissi che non l’avevo, che a La Spezia le cose si comprava­no e basta, le uniche ricevute erano quelle dell’affitto e della luce. Ci rimase male e mi disse di andare.

Pomarance – Via Roncalli, 1920

Geom. GIUSEPPE PINESCHI

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

“COME ERAVAMO”

RICORDI E IMMAGINI D’ALTRI TEMPI

TEATRO DEI CORAGGIOSI ANNO 1930 circa OPERETTA L’ACQUA CHETA fra gli interpreti Giulia Funaioli, Cesare Falcini, Socrate Righi, Luisa Baldini, Argante Casanovi, Giovannina Mazzinghi, il farmacista Quadri, Dona­tello Fontanelli, Miro Bruscoli, Bartolo Bartoli ed il Maestro Sestini.

Non c’era ancora il cinema nè tantomeno la televisione, le feste da ballo erano rare. In quel tempo l’operetta impera­va ed il suo fascino arrivò fino da noi. Direi che fu proprio questo mondo e quello della commedia musicale ad inte­ressare maggiormente i nostri nonni. Si facevano anni di prove sia per il gusto di stare insieme ma anche con lo scopo di fare un buono spettacolo che sarebbe stato motivo di conversazione nelle lunghe veglie invernali sul canto del fuoco o sotto i freschi nei lunghi pomeriggi d’estate.

L’Acqua Cheta, mi ha raccontato il Falcini, fu l’unica vera operetta da noi rappresentata, fu quella che ebbe maggior

successo, fu rappresentata tre volte a Pomarance ed una volta anche a Saline di Volterra.

Mentre parla gli si illuminano gli occhi, sta rivivendo sensazioni ed emozioni che appartengono ad un mondo lontano. Il Principe dice ci mise a disposizione per quattro prove generali l’orchestra del Teatro di Larderello ed a fine rappre­sentazione ci regalò per riconoscenza il pianoforte. Si è proprio quello della Filodrammatica che si trova nel Teatro dei Coraggiosi.

Come era bravo il Quadri!! Che bella voce aveva Luisa ed ero anch’io un bravo tenore.

Mi ricordo che Giulia cadde nel ballo delle rificolone. Che applausi! la gente voleva il bis.

Guarda la fotografia, fa un lungo sospiro.

Sono morti tutti dice.

□ Il servizio una volta al giorno andava da Volterra a Massa Marittima, successivamente fu messa la “Postale” anche per Pisa e Firenze.

Mi ricordo che per arrivare a Firenze si partiva la mattina alle 5 e si arrivava alle 10.

Alla sera quando alle 8 arrivavano i due “Postali” vi era sempre un gruppetto di gente davanti la posta in Piazza De Lardarel ad aspettarli. Mi ricordo Emogene sempre con la panierina portava il mangiare ad Amleto che ritornava a casa solo il sabato.

Amleto era il fattorino, ricordo anche Aldo il Baldini, il Busoni e Cassiano.

Le macchine erano in pochissimi a possederle, si contavano sulle dita, e la gente viaggiava quasi tutta in “Postale” e quel momento dell’arrivo era un attimo importante la gente si baciava, si salutava, aveva il piacere di ritrovarsi. Si scaricavano i bagagli che spesso erano legati sul tetto. Dopodiché si vedevano gruppetti di gente che parlando animatamente si dirigevano alle proprie case grati al Postale che aveva ancora una volta ricondotto a casa un affetto.

1919 – Linea Volterra-Massa M.ma FIAT 18 B2, a gomme piene.
Nella fotografia: Biondi Jolanda, Cerboneschi Maggi Lina, Falcini Cesare, Tonelli Piero, Coppini Seraflna, Pineschi Carla, Tani Primo, fat­torino della “Postale”, Caporioni Dino, Grandi Edoardo, Bacci Cesare, Landi Ernesta.

Mario Fiossi

C’ERA UNA VOLTA: “I Veglioni”

□ Era da pochi anni finita la guerra. Soldi ne giravano pochi e di conseguenza pochi erano i divertimenti, la gente faceva a meno di tutto impe­gnata com’era nella dura battaglia della vita, ma… “Anche quest’anno a Carnevale al Teatro dei Coraggiosi faranno tre Veglioni”.

Non tutti potevano permettersi di parteciparvi, era già un lusso poter andare ad uno. Nelle famiglie più modeste dove c’erano ragazze da marito si cominciava a fare i conti; con tanti sacrifici si sarebbe potuto comprare la stoffa e cucire un vestito da sera.

Si forse uno era possibile. Non si poteva certo andare a tutti e tre perché era usanza cambiarsi di abito ad ogni festa.

Questo forse era il problema più grosso, ma anche prenotare un palco non era impresa facile. Il primo ed il secondo ordine erano padronali; il terzo ordine “la Piccionaia” veniva affittato. Bisognava fare una lunga coda davanti alla “Bottega di Settimo” che al mattino, quando alle otto andava ad aprire il suo negozio, trovava sempre un folto gruppo di giovanottelli che a pagamento facevano la fila fin dalla sera prima per prendere in affitto “il Palco”. Non a tutti toccava ed i meno fortunati dovevano accontentarsi si andare davanti al teatro a veder entrare la gente e poter ammirare, anche di sfuggita, i vestiti delle ragazze che ne parlavano già da mesi. Anche per l’abito da sera esisteva quasi un rito: si andava a comperare la stoffa anche fuori Pomarance, non si doveva dire il colore, la sarta che lo cuciva non doveva farne parola con nessuno, le aiutanti erano diffidate a parlarne. Doveva essere una sorpresa. Ognuna in cuor suo sperava di essere la più elegante e l’effetto sorpresa doveva contribuire a questo e, perché no, anche a vincere quel premio che a volte veniva messo in palio per la “Miss” più bella.

Arrivava così la sera del ballo.

  1. ero ancora un
    ragazzetto ma mi ricordo abbastanza bene i particolari importanti di quelle
    feste. Noi del loggione si arrivava molto presto, carichi di dolciumi che
    durante la notte si sarebbero mangiati. Non si voleva perdere niente, per noi
    non era soltanto una festa da ballo, ma uno spettacolo pieno di luci e di
    colori, di bei vestiti ed anche di gente importante.

Piano piano i palchi si riempivano, arrivavano più tardi le persone che più contavano, la sala da ballo tutta addobbata di fiori e di festoni rimane­va vuota e chiuso il grande portale di accesso smaltato sotto il “Palchettone”.

Gli occhi di tutti erano concentrati su quel portone; tutto ad un tratto si apriva e dietro vi erano le coppie che avrebbero aperto il ballo. L’orchestra che stava sul palcoscenico intonava un “Valzer” e la prima coppia scioglieva il “nastro di raso bianco” e seguita dalle altre dava inizio a quel lungo valzer, proibito ai ballerini non valenti.

Mi ricordo che la festa cresceva in un turbinio di musica, di coriandoli e stelle filanti; ai piani inferiori si facevano battaglie con i coriandoli, se ne consumavano sacchi, tanto che per due o tre volte si dovevano interrompere le danze per spazzare il pavimento.

La festa dilagava dappertutto, coinvolgeva tutti. Per le scale c’era sempre una grande confusione, i giovanotti e le ragazze si rincorrevano, scherzavano e, perché no, si nascondevano per scambiarsi furtivi baci.

Le storie d’amore che nascevano in quelle serate, qualcuna continuava, altre finivano, ma erano comunque oggetto di conversazione per i mesi che seguivano.

  1. veglione più allegro e
    più bello era senza dubbio quello “Mascherato”; mi ricordo un anno di avervi
    partecipato vestito da “Gatto con gli stiva­li”. Il costume era bellissimo,
    ricercato e curato in tutti i particolari. Lo aveva realizzato “Giorgio”
    diventato poi uno dei più importanti costumisti italiani. I costumi da lui
    realizzati presso la sartoria “Cerratelli” per i film di Zeffirelli
    hanno vinto anche dei premi “Oscar” e
    quell’anno vinse con me il suo primo premio per il miglior costume.

Passarono gli anni ’50 e i veglioni per un periodo non furono più fatti. Altri furono i luoghi d’incontro dei giovani, furono fatte nuove sale da ballo e il cinema fu uno dei passatempi più frequentati dalla gente.

Ma il fascino di quelle serate era cosi intenso che non si tardò a riprendere questa bella abitudine. Ne sono stato anch’io protagonista, ho addob­bato la sala con rose, con mimose, con festoni colorati e lucenti, ho scorazzato anch’io per le scale su per i palchi con amici e amiche. Ho anch’io insieme ad una ragazza sciolto il “nastro bianco di raso”, ho ballato anch’io il lungo valzer ed ho respirato anch’io quell’atmosfera magi­ca che solo il “Teatro” sapeva dare. Da diversi anni il “Teatro dei Coraggiosi” è chiuso in attesa di restauri. Speriamo che il tempo non sia impietoso e che si possa giungere in tempo a salvare questo patrimonio che non è solo importante per la sua architettura, ma è soprattutto importante per il significato che ha avuto per tutta la comunità per tanti anni “Veglioni” a parte.

Pomarance Teatro dei “Coraggiosi” – 1950 (1° veglione)
Nella foto: Bianchi Gerardo, Dei Lunetta, Fignani Valeria, Manghetti Stefano detto “Il Chiorre”.

In estate, appena finita la scuola, andavo per lunghi periodi dai miei nonni.

Abitavano a “Poggiamonti”, lo ricordo come il posto più bello e più felice della mia fanciullezza.

Il giorno scorazzavo sull’aia e nel bosco in cerca di lucertole con i miei cugini e mio zio di poco più grande di me e la sera…………

Al sopraggiungere della sera, terminati i lunghi giochi, ci sedevamo tutti intorno al grande tavolo e tra chiacchere e grande con­fusione consumavamo il modesto pasto che mia nonna “la massaia” ci preparava. E poi a letto. Qui mi assaliva una sorta di malinconia ed una voglia scottante dei miei genitori, non potevo rimanere a letto con i miei cugini e mia nonna allora veniva con il lume a petrolio in mano, mi prendeva in braccio e mi portava nel grande letto, dove mio nonno sorridente mi accoglieva e mi avvolgeva con un grande abbraccio. Mi addormentavo così tra loro sommerso di affetto e di profumo di lavanda. Non era ancora giorno che mi svegliavo, sentivo mio nonno alzarsi, si vestiva.

Dove va?” domandavo.

Zitto, dormi!” rispondeva la nonna “è presto, nonno va a segare”.

Mia nonna era una bella donna, alta e rassicurante, con una mano reggeva il paniere in cui era il cibo che si portava nel campo con l’altra dava mano a me che piccolo piccolo la seguivo, mentre mi raccontava storie di maghi, di principi, di api e di farfalle. Si arrivava nel campo, faceva un grande caldo, tutto era sole e oro; il cielo, l’aria, il grano gli armenti e gli uomini erano immersi in una atmosfera pesante e risplendente che sprizzava giallo; solo la grande quercia dove ci sedevamo per mangiare conserva­va ancora il suo colore reale: verde, un’intenso verde, impenetrabile e fresco.

Si mangiava zuppa con cipolle, pomodori e cetrioli e poco più. Si beveva acqua dal fiasco ricoperto di vimini mentre i buoi poco più là, sempre al fresco, ruminavano il fieno che mio nonno non dimenticava mai. Poi ci si riposava, si dormiva qualche ora, fino a che il sole impietoso non smetteva di scottare, poi si riprendeva il lavoro: i buoi venivano riattaccati alla macchina che segava, mio nonno vi prendeva posto e si ricominciava. Il grano veniva falciato dalla macchina e dietro dietro una moltitudine di persone lo raccoglieva, ne faceva dei “balzi” che ammonticava poi in grandi “Barche”.

E la fatica ?

La fatica era dura, vera, sfibrante, si leggeva sui volti dei contadini rugosi e bruciati, si leggeva nel passo delle donne: sfiancato e lento e si leggeva nella camiciola di lana del nonno, molle e appiccicosa che bucava di grano quando alla sera tornava e mi prendeva in collo per baciarmi.

Mario Rossi

IL PROFUMO DELL’ESTATE

Finita la scuola, cominciava il gran caldo, pochi andavano al mare ed i ragazzi meno fortunati rimanevano in paese.

Nei lunghi pomeriggi assolati gli anziani meriggiavano sotto gli alberi, le donne finite le faccende domestiche si riversavano nelle strade, sugli scalini, nei punti più freschi, a sferruzzare o a pulire verdure e frutta per la marmellata. Noi ragazzi si giocava, sotto gli alberi del parco, sotto i freschi del “giardinello” oppure tra il verde del boschetto della “Villa”.

L’estate scorreva lenta in questo paese pieno di luce, di caldo e di sole.

E la sera? La sera, gli uomini dopo il lavoro uscivano per andare al “Circolo”, noi ragazzi, dopo corse affannate per prendere lucciole, si giocava a “rimpiattarello” mentre le donne con i più piccoli se ne andavano per le vie del paese a cercare refrigerio. Ricordo che tutto profumava di erba e grano falciato, di ginestre sfiorite, di polvere arsa di tigli e di rose.

La vita scorreva lenta, monotona non succedeva mai niente.

Poi all’improvviso: Il Palio!

Fu un’invenzione per sentirsi vivi, per interrompere la monotonia delle vacanze estive, fu l’invenzione che stimolò la fantasia e la creatività, fu l’invenzione che rievocava l’istinto alla competizione così fortemente radicato nelle genti di Toscana. Ricordo che all’inizio era una competizione calcistica tra i rioni del Marzocco e del Centro. Il rione del Marzocco intese subito fin dal primo anno vestire la sua mascotte con il suo capitano con vestiti medioevali, che ricordavano il suo antico passato. Lo ricordo ancora: Paimira e Mario coloratissimi con calzamaglie e giubbetti e la bandiera del Marzocco che apriva il piccolo corteo. Si rimase un po’ tutti allibiti, ci piacque e si decise tacitamente che si sarebbe potuto far meglio.

Nacque un terzo rione, il Paese Novo e la competizione si allargò: si premiava non solo chi vinceva il torneo di calcio, ma si cominciò a premiare soprattutto la contrada che riusciva a fare il migliore corteggio prima, e dopo la migliore sfilata storica. Di quei primi anni ricordo vagamente alcuni episodi e personaggi:

Meri, giovanissima vestita da Lucia, e Michele un Don Abbondio simpatico e scanzonato. Marta, superba Minerva e fierissima Amneris. Ricordo Catuscia con il bellissimo costume della regina Isabella e Alberto bravissimo nella parte di Nerone.

Un quarto rione si costituì, agguerrito e pieno di iniziative il Gelso. Bella la sua Batterflai e riuscitissimi il conte di Cavour e la sua affascinante contessa di Castiglione.

Mentre scrivo si affacciano alla mia mente volti ed episodi di Cleopatra, Antonietta, Napoleone, Giuseppina, Semiramide, Ulisse, Robin Hud, la regina di Saba, il Doge di Venezia, Paolo e Francesca e soprattutto balzano alla mia mente le persone che presta­rono i loro volti a questi personaggi: e vedo Giacomo, Claudia, Mila, Vaschilio, Vanda, Andrea, Paolo, Gabriella, Renata, Franca e tanti tanti altri. Questo gioco ci affascinò tutti, fu interrotta la competizione calcistica e si dette spazio solamente alle sfilate che rievocavano periodi ed episodi storici.

Il gioco nel corso degli anni si affinò, si ingrandì si crearono scenografie dove le comparse recitavano scene di vita passata. Diventò teatro popolare.

Finita la scuola comincia il gran caldo, molti vanno al mare… molti lavorano, inventano, creano, si riuniscono, parlano, discutono. Tutto profuma di erba, di grano falciato, di ginestre sfiorite, di polvere arsa, di tigli, di rose e… di colla, di vernice e di legno.

Scenografia “La processione di S. Giovanni del 1598“ – Contrada Paese Novo, 1988.

Mario Rossi

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

IL GIOCO

UN LUOGO CARO Al POMARANCINI

In via dei Fossi a nord est di Pomaran­ce, dietro la chiesa parrocchiale di S. Gio­vanni Battista, vi è un’area di proprietà co­munale, adibita attualmente a parcheg­gio, che è conosciuta dai pomarancini con il semplice nome di “GIOCO” . Questo appellativo in verità non è del tutto esat­to: il suo vero nome, risultante da alcune piantine catastali del periodo leopoldino (1830), era “GIUOCO del PALLONE” in­dicante che il “calcio” ha un’antichissi­ma tradizione in Pomarance.

Probabilmente giocato dai pomarancini fin dal 1500, è certo che venne praticato sin dalla prima metà del ’700 all’interno del castello di Pomarance prima di esse­re trasferito dietro la chiesa parrocchiale (1780) per le continue lamentele degli abi­tanti della contrada di Petriccio (attuale Piazza de Larderei) a causa dei danni ar­recati alle loro abitazioni da tale gioco. Molto simile al “Calcio fiorentino” , dispu­tato su di un terreno rettangolare tra squa­dre che si contendevano la palla usando mani e piedi, assumeva talvolta partico­lari aspetti di violenza che determinaro­no la volontà delle Magistrature del Co­mune di rimuoversi dalla contrada di Petriccio il giuoco del pallone e della pal­la..’” come da una lettera del Confaloniere Franco Incontri (20 sett. 1779) in cui si invitava il Magistrato a “…destinare al­tro luogo, dove poter esercitarsi in tale giuoco senza disturbo degli abitanti cir­convicini” (1).

In questo periodo vennero proposti all’at­tenzione delle magistrature tre luoghi: “…in primo luogo il posto dietro i fossi, (attuale via dei Fossi) ove levandosi a spe­se comunitative li scarichi che vi sono, e togliendosi le piante dei gelsi che siano di impedimento, può ridursi luogo atto e capace per il giuoco………. in secondo luo­

go il campo del Treppiede di proprietà del Sig. Can. e Andrea Falchi             in terzo luo­

go la Cella di proprietà della Chiesa Arcipretale              ” .

Nello stesso periodo venne indicato an­che un altro posto detto “Campo al Zol­fo” di proprietà della Compagnia di S. Gio distante da Pomarance circa un tiro di schioppo. (2)

La scelta ricadde sul luogo dietro i fossi che era anche stato destinato da S. A.R. per la realizzazione del nuovo cimitero in seguito costruito presso la cappella di S. Rocco nel 1789 (attuale Parco della Ri­membranza). Questa area fu ben accet­ta dai giocatori stessi come rilevasi da una deliberazione del 1779 in cui: “sen­tito che i giocatori desideravano il posto dietro i fossi fu proposto, di quello desti­narsi, per non aver altro luogo in propo­sito…” (3).

L’inizio dei lavori avvenne attorno al 1780 dopo la redazione di un chirografo da va­lere come contratto tra il Sig. Franco di Pietro Guglielmo Biondi ed il Comune per la cessione di alcuni mori (gelsi) da ab­battere per fare lo “spiano” del campo da gioco in cui il Biondi si obbligò con l’in­dennizzo di lire 154 a: “…non molestare ulteriormente…detta comunità…” per qualunque ulteriore spesa che poteva ve­rificarsi in futuro (4).

Fu costruita così anche la scala presso il vicolo del Muraccio per agevolare il pas­saggio dei giocatori dal Castello a que­sto luogo.

All’inizio questo sito fu ritenuto, dagli uo­mini di comune, adatto e abbastanza tran­quillo per lo svolgimento di questo gioco, ma ben presto anche qui insorsero degli inconvenienti. Infatti nel settembre del 1780 vennero stanziate dal Comune: “…lire trenta ai giocatori del pallone per riparare la vetrata del Coro della Chiesa
Arcipretale soggeta a rompersi stante il giuoco di detto pallone costruito dietro il medesimo….”
(5).

Anche attorno al 1801 questi inconvenien­ti non cessarono; in questo periodo risul­tarono altre lagnanze rivolte alle magistra­ture del comune da parte di cittadini che avevano le loro abitazioni nei pressi del “Gioco del Pallone” come ad esempio i figli del Sig. Giovanni Buroni che “…si tro­vavano minacciati dai giocatori che non vedendosi rendere i palloni dalla loro ma­dre, spesso iniziavano la scalata del mu­ro…. ingiuriando la detta madre con pa­role offensive….e facendogli dei danni nei beni stabili come forzare la porta della ca­sa con percosse e legni     ” (6).

Dai primi del ’900 fino al dopoguerra l’a­rea del “Gioco” fu pure utilizzata dai gio­vani pomarancini come luogo di ritrovo per i loro giochi e divertimenti. Secondo il racconto dei più anziani era lì che si gio­cava al tamburello, alle bocce, alle biglie di terracotta ed anche alla “trottola” di cui si ricordano ancora abili giocatori che scalzi ed in pantaloni corti davano prova di abilità nel far girare più velocemente le trottole generalmente costruite dai lo­cali falegnami Bonucci (detti Falugi) e Pi­ni, i quali le tornivano con grande mae­stria.

Il “Gioco” fu riutilizzato per il calcio nel 1927 quando il figlio dell’avvocato Coutret (detto il Signorino) acquistò a sue spe­se delle magliette color amaranto e costi­tuì la prima squadra di Pomarance forma­ta da giovani pomarancini come Mario Pi­ni e Vittorio Baldini detto l’Abbaia.

Qui si disputarono partite amichevoli e non fino al 1935 anno in cui il “Gioco” lasciò il suo posto di campo ufficiale al sottostante “Piazone delle Fiere” ; ed è lì che la squadra del Pomarance ha gio­cato fino agli ultimi anni del 1960 per pas­sare poi in una delle più belle strutture sportive della Val di Cecina: lo Stadio Co­munale.

Spinelli Jader

NOTE BIBLIOGRAFICHE

  1. Archivio Storico Comunale Pomaran­ce, F. 210, c. 158 r. e v.
  2. A. S. C. P„ F. 126, c. 12 r.
  3. Ibidem, c. 23 r.
  4. A. S. C. P„ F. 35
  5. Comunità di Pomarance anno IV n° 1, 1971, Rievocazioni Storiche E. Mazzinghi. A. S. C. P„ F. 715, c. 1227 r.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

IL PALIO DI POMARANCE 1993

UN VIZIO DEI POMARANCINI

E anche quest’anno il Palio è stato fatto: sia per quelli che ancora continua­no a crederci sia per chi ormai non ci crede più. Le quattro contrade infatti sono ancora una volta scese in piazza ed hanno dato quanto per loro è stato il massimo dare, anche se in altri anni hanno esplicato in maniera più elevata la loro potenzialità.

Il CENTRO con il tema “Sognando”, ha creato uno spettacolo che ci aiuta a dare ancora una volta importanza alle favole ed ai sogni. Sul loro palco infatti hanno preso anima i personaggi del grande Disney, simboli di sogni e di fantasie.

Il PAESE NOVO, con “La terra del vicino è sempre più grassa” ha saputo fondere un classico comportamento umano, qua­le quello espresso nel proverbio, con una grande tradizione della nostra zona: l’alabastro.

Il GELSO, con “Anni Coraggiosi”, ha fatto rivivere a tutti noi anni di storia moderna, ma non una storia qualunque, ma la nostra storia e quella del nostro teatro, accompagnata da musica, balli e arte.

Infine il MARZOCCO con la “Bilancia della vita” con la quale ha voluto soppe­sare fantasia e realtà nelle azioni umane ed in particolar modo nelle azioni di Don Chisciotte della Mancia.

Anche quest’anno il Palio, eseguito con grande carisma e personalità artistica dalla Signora Emma Biondi della Stri­scia. è stato assegnato alla contrada del PAESE NOVO.

E nonostante le polemiche il Palio è ancora vivo; cosa lo dimostra? La vita tra le righe di un articolo di una nostra contradaiola, che quest’anno non ha neppu­re vinto, ma comunque sia sente vivo dentro di se il battito del Palio:

“Nessuno può negare di essere in qual­che modo legato alla propria terra d’ori­gine, poiché è un legame troppo forte, direi quasi animale, che radica l’indivi­duo alla sua sfera naturale. E tanto più se questa parte di terra ha una bandiera, un colore, un simbolo e un’anima riona­le. Impossibile rinunciare a tutto ciò !!! Ebbene si, potremmo definire il Palio come un vizio, uno dei peggiori vizi a cui un individuo quando si è attaccato non può più rinunciare: per la sua carica emotiva e coinvolgente, per le sensazio­ni che provoca, per le delusioni e per i momenti di follia che riesce a dare.

Il Palio è cibo di competizione che si condensa in teatro, costituito da una prassi regolare che scandisce il tempo dell’anno nell’attesa di un nuovo Palio. Maggio: “l’idea deve essere partorita. Sarà valida? Ma gli altri chi sa cosa faranno? Ne siamo certi : quest’anno vin­ceremo!”

Giugno: “Su forza, i primi preparativi: i progetti, il copione, le musiche.” Luglio: “Firenze, stoffe, colori, velluti, damaschi, pietre.”

Agosto: prove, prove, prove.

Settembre: “E gli altri? Dai vinceremo! Il progetto, le stoffe, le pietre, le prove, le musiche.” Gli uomini martellano, le don­ne cuciono e ricamano ed i ragazzini?

I ragazzini si insultano e fanno pronosti­chi sulla vittoria.

Le strade si vestono di colori e nell’aria non si respira altro che competizione e amore, un amore per il propio simbolo, insomma, in poche parole, odore di Palio. I° Domenica di settembre: le campane della chiesa suonano “a festa” ed i capi­tani da parata vanno all’altare a prende­re la benedizione del parroco di fortuna e felicità per la propia contrada ed in tutti cresce ancora di più l’ansia dell’attesa. Vigilia del Palio: gli animi si accendono, la stanchezza prende il sopravvento, ma …. vinceremo!!!

Seconda Domenica di settembre: E’ il Palio: rullo di tamburi, squillo di chiarine ed il sole del 2000 che batte e rende lucente lo splendido velluto dei vestiti medioevali, quasi a farci ricordare quan­to la nostra cultura affondi le sue origini
in quella che una volta fu la misteriosa e rude Toscana medioevale.

Centro, Paese Novo, Gelso, Marzocco. Marzocco, Centro, Paese Novo, Gelso. Gelso, Marzocco, Centro, Paese Novo     

Tra musiche, applausi, colpi di scena e attese i palcoscenici si chiudono ed ora la vera attesa: il verdetto.

La sera il piazzone brulica di gente. Arriva il sindaco, è adrenalina, è adrena­lina pura quella che prende il volo dai corpi di tutti quegli individui che sono li, che tremano, piangono e amano    ”11

Palio mille e novecento……. “ ma come

sappiamo “3 contrade perdono e una vince e sono più quelle che perdono che quelle che vincono”. Quindi i vincitori esultano e i perdenti affermano: “Ce l’hanno rubato”.

Ma ciò che ha vinto è stato il teatro, l’arte e l’amore per la propria bandiera e alla faccia di chi odia il nostro Palio e le nostre bandiere “per forza o per amore lo dovete rispettò!!”

“Presto è maggio, un nuovo Palio ci aspetta, un’altra idea deve essere parto­rita         e poi giugno e poi luglio e poi e

poi e poi…”.

Rione Centro: “Sognando “.
Rione Paese Novo: “L’erba del vicino è sempre più grassa”.
Rione Gelso: “Anni… coraggiosi”
Rione Marzocco: ‘La bilancia della vita”

Una Contradaiola

Come di consuetudine porgiamo i nostri più sinceri auguri di Buon Natale e Buone feste, da parte del Comitato di redazione, a tutti i lettori, agli inserzioni­sti, agli amministratori pubblici e a tutti coloro che fanno vivere e continuare questa pubblicazione, fiore all’occhiello di Pomarance.

È stata veramente una faticata riuscire a coordinare il lavoro editoriale dal mese di Giugno a Ottobre e stampare i 4 nu­meri; per questo, siamo ancor più grati­ficati in barba a chi, o a coloro, che credevano di ostacolarci nell’impresa. Non abbiamo certamente lavorato nelle migliori condizioni, visti i tempi ristretti, per reperire i testi e consegnarli in tipografia; per questo va un mio ringra­ziamento ai collaboratori della rivista che si sono dati da fare per consegnarci in tempi utili i loro elaborati.

Siamo comunque soddisfatti per aver mantenuto fede agli impegni che ci era­vamo assunti, come consiglieri della Associazione “Pro Pomarance”, di con­tinuare questa rivista che è sempre più apprezzata dai nuovi lettori.

Sicuramente non ci saremmo riusciti se oltre a tante chiacchiere e prosopopee, non ci fossero state al nostro interno persone disponibili e responsabili che si sono impegnate più di altre a far conti­nuare questa rivista come i fratelli Tifoni ed il Bongi. Ma un saluto particolare è doveroso a colui che volle anni fa la rinascita di questa rivista, che mi è sem­pre stato vicino per utili consigli e sem­pre pronto a incoraggiarmi nei momenti più difficili.

Saremo di nuovo in edicola anche il prossimo anno continuando l’inserto del Sillabario, foglio di Poesia e Letteratura, che sta riscontrando consensi notevoli tra i nostri lettori.

Ma…, lasciamo spazio ai nostri collabo­ratori; e….buona lettura!

Il Direttore Responsabile deleg.J. Spinelli

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

ANDAR PER FARRO

UNA RICETTA A CURA DI CRISTINA BLASI INSEGNANTE ALLA SCUOLA “CORDON BLEU” DI FIRENZE.

Vorrei parlare questa volta di un ingre­diente molto poco conosciuto, ma molto adatto a preparare piatti invernali, zuppe e, perché no, anche gustosissime insa­late estive: il Farro.

Questo cereale smarrito nei secoli è il ca­postipite di tutti i frumenti ed è stato per oltre 2000 anni l’alimento principale di in­tere popolazioni mediterranee e asiatiche. Riscoperto in Alta Savoia per zuppe di verdura e di leguminose è oggi diffuso in tutta la Toscana (soprattutto in Garfagnana) e un po’ conosciuto in tutta l’Italia. La sua riscoperta non è dovuta soltanto al rinnovato interesse per le vecchie tra­dizioni. Si può dire, scherzando, infatti che la popolazione garfagnina è cono­sciuta come la più sessualmente longe­va d’Italia (senza dimostrazione scienti­fica, sia chiaro!), popolazione che ha sem­pre fatto grande consumo di questo ce­reale.

A parte gli scherzi, il farro ha anche pro­prietà nutrizionali abbastanza importan­ti; è infatti ricco di vitamine, sali minerali, proteine (svolge quindi azione ricostituen­te). Come cereale povero comunque è im­portante perché contiene acido litico il quale, secondo studiosi, inibisce certe os­sidazioni dei grassi coinvolte nello svilup­po del cancro del colon.

Il farro, far latino, è una varietà di grano (TRITICUM DICOCCUM) ed appartiene alla famiglia delle graminacee. È facile trovare sul mercato il farricello o spelta con il nome di “gran farro”, il quale in cot­tura non ha la stessa resa del farro: il ve­ro farro non si impasta dopo la cottura, ma mantiene l’anima leggermente dura. Il farro è stato fin dal V secolo A.C. l’uni­co grano dei Romani a differenza dei Gre­ci noti consumatori di orzo.

Dal farro deriva la parola farina; dal farro prende il nome il più antico matrimonio rituale, la CONARRATIO, durante il qua­le gli sposi offrivano a Giove una focac­cia di farro.

Il farro era quindi tenuto molto in consi­derazione dai Romani; lo dimostra il fat­to che veniva dato sotto forma di ricom­pensa ai soldati vittoriosi. Ancora con i chicchi di farro tostato e macinato con la mola ruotante, con aggiunta di sale, le Ve­stali preparavano una polvere rituale (la MOLA SALSA) con la quale cospargeva­no la testa della vittima da sacrificare. Cosa facevano inoltre i Romani con il far­ro? Una famosa polenta: la Puls, che era la base della loro alimentazione e soprat­tutto la forza dei soldati e dei contadini.

Ancora oggi con questo prezioso ingre­diente si prepara il piatto nazionale in Libano, Libia e in quasi tutto il Medio Orien­te (Kibbè).

Ma veniamo a noi! Dove si compra il Gran Farro o Grano Farro? Dai “Civainali” o in qualsiasi negozio di alimentari ben forni­to. Se andiamo in Garfagnana (perché è qui e sull’Amiata che si coltiva) non è dif­ficile trovarlo ovunque.

Generalmente è pulito, ma è meglio la­varlo per togliere eventuali impurità. Do­po che è stato lavato, consiglio di tenerlo in bagno in acqua fredda per circa un’o­ra. Dopo la scottatura il farro, comunque, manterrà la sua consistenza gommosa; è molto adatto quindi per insalate estive in sostituzione di riso e orzo così come nelle minestre di verdura, e di fagioli. Il farro si presta ad essere usato anche co­me contorno per esempio con le carote, con le lenticchie e con i peperoni, cotto magari con meno liquido di una minestra e con un pò di pancetta.

Come dicevo prima, con il farro si posso­no preparare ottime insalate variando con gli ingredienti. Lo potete cuocere, dopo ammollo in acqua fredda, portandolo len­tamente ad ebollizione, salarlo e raffred­darlo. A questo punto conditelo come una panzanella semplice, con olio, sale, pe­pe, pomodoro, cipolla e poco aceto.

Polenta di farro

Se si vuole preparare una minestra di far­ro, quella che comunemente si mangia in alcune tipiche trattorie toscane, consiglio di cuocere lentamente dei fagioli barlotti (o cannellini o anche lenticchie); prepara­te poi una base di cipolla, sedano, carote e abbondante rosmarino tritati; cuocete in olio extravergine di oliva per circa 15 mi­nuti, dopodiché aggiungete un ciuffo di salvia, due spicchi di aglio schiacciati e due pomodori passati. Passati 10 minuti aggiungete anche 1/2 di fagioli passati con un po’ della loro acqua di cottura; fate bol­lire per 20 minuti circa, poi buttate il farro che dovrà cuocere per circa 40-50 minuti. Quasi a fine cottura si aggiunge il resto dei fagioli interi. Si spenge e si lascia riposa­re la minestra affinché il farro si “gonfi” un po’. La minestra va servita con pepe nero macinato al momento e olio di oliva extra­vergine toscano. È ottima anche dieci gior­ni dopo!

Cristina Blasi

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

IL MOLINO

Giorni fa passando da Pomarance è ve­nuta a trovarci la signora Vittorina Bibbiani, scrittrice e protagonista dell’ormai fa­moso libro “IL FORMICAIO” Durante uno scambio di idee intercorso tra di noi, ha manifestato il desiderio di poter pubblicare questo articolo.

A quei tempi i mulini erano tutti ad ac­qua. Intorno al mio paese ve ne erano quattro: quello delle Valli, quello della Doccia, quello più lontano di Berignone e quello della Bottaccina.

Il nostro era quest’ultimo ed era il più ca­ratteristico.

Ricostruzione del Molino della Bottaccina (disegno di R. Bertoli)

Veramente non era un mulino, ma ben tre mulini scaglionati lungo il fianco della col­lina giù giù fino alla valle dell’Arbiaia. Ed ora che ci penso era una cosa geniale. L’acqua di una piccola sorgente riempi­va piano piano la “gora di cima” (un pic­colo bacino che però allora mi pareva paurosamente grande); ad una ventina di metri più in basso c’era ilm primo mulino (il Mulino di cima); dopo una trentina di metri la gora la gora ed il Mulino di mez­zo, dopo una cinquantina, la gora ed il Mulino di fondo.

L’acqua utilizzata dal mulino di cima an­dava a riempire la gora di mezzo per es­sere utilizzata dal secondo mulino e da qui finiva nella “gora di fondo” per il ter­zo mulino. Così la preziosa acqua non ve­niva sciupata ed ogni giorno il mugnaio poteva macinare. I mulini erano tutti uguali: robusti casotti in pietra di una so­la stanza.

Infilata in mezzo alla pesante macina c’e­ra la tramoggia, grosso imbuto di legno a forma di tronco di piramide quadrango­lare, aperto in cima ed in fondo. Ad una parete c’era il “buratto” un grosso stac­cio cilindrico azionato a mano. Sotto il pa­vimento un antro oscuro in cui cadeva con forza l’acqua della gora che faceva girare delle grosse pale e queste a loro volta la macina.

Qualche volta il babbo portava anche me al mulino. Caricata insieme ai sacchi sulla bardella o sul barroccio, via giù per la strada scoscesa. Naturalmente ci ferma­vamo dove c’era l’acqua pronta. Babbo legava la Brenna ad un albero, scarica­va me ed i sacchi e chiamava il mugnaio. Beppino appariva sulla porta tutto infari­nato, scambiavano qualche parola, sca­ricavano i sacchi e li rovesciavano nella tramoggia. Poi il mugnaio tirava su una leva e l’acqua della gora metteva in azio­ne le pale, lo mi spostavo dall’interno al­l’esterno, alternando la mia attenzione dalla tramoggia all’antro delle pale. La grossa macina girava lentamente; io sa­livo sullo sgabello e mi affacciavo, non senza un po’ di timore, alla tramoggia. re sulla nostra Rivista alcuni racconti non inseriti nel suo libro.

Per questo numero abbiamo scelto il rac­conto “Il Mulino” che parla appunto del luogo a Lei noto per la limitata distanza che la separava dal suo Podere.

Nel mezzo di questa si formava come un piccolo vortice ed il grano veniva lenta­mente succhiato giù e schiacciato sotto la mola per uscire in farina da una boc­chetta. Il rumore dell’acqua e della maci­na, le voci del babbo e del mugnaio che urlavano per farsi intendere, creavano in me un senso di sgomento ed allora usci­vo fuori a vedere l’acqua che sbatteva nelle pale e le faceva girare schizzando spumosa sopra le pareti dove tremolava­no argentei i capelvenere. Dopo la farina veniva messa nel buratto; il babbo si se­deva sopra uno sgabello, impugnava una manovella e girava girava finché in un bianco spolverio tutta la farina veniva se­parata dalla crusca e dal semolino. Intan­to, nell’attesa, io andavo per i fossi in cer­ca di fragole o di fiori e poi, col mazzoli­no in mano, venivo ricaricata insieme ai sacchi sulla Brenna e ritornavamo a ca­sa. Per un mesetto era asicurato “il man­giare” per i cristiani ed “il mangime” per le bestie.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

IL GRANO

CNel descrivere le ultime fasi della rac­colta di questo prezioso cereale abbiamo cercato di ricostruire, più fedelmente pos­sibile, i vari momenti, riportando, in alcu­ni casi, la terminologia, così riccamente espressiva, regalataci dalle persone inter­vistate.

Tra gli innumerevoli lavori agricoli la mie­titura è rimasta nella memoria degli an­ziani contadini come uno dei più faticosi. Si faceva all’inizio dell’estate quando le notti sono corte ed i giorni, al contrario, interminabili, poche ore di sonno ed il re­sto a cuocersi nei campi, “da sole a so­le” accompagnati dal verso chiassoso delle cicale e dal canto intermittente e mo­notono del cuculo.

Ogni mietitore usava la sua falce che, fi­no agli inizi del nostro secolo, aveva la la­ma dentata e portava, appeso alla cintu­ra, un corno di bue con dentro, immersa nell’acqua, la pietra per arrotare.

Nel campo ci si disponeva a “passate” (solchi appositamente preparati al mo­mento della semina) e solitamente ci si organizzava a gruppi di tre persone. Chi prendeva la passata centrale era chiama­to “fendarello” poiché iniziava a mietere
per primo e creava spazio per fare “la fi­lata dei balzi”. Gli altri due, oltre che a mietere la loro passata, pensavano a pre­parare la “vetta” per legare il balzo con una manciata di grano divisa in due parti ed annodata dalla parte della spiga.

Una volta finito un campo, si “rimetteva il grano”: prima si formavano i “covoni” ammucchiando i balzi e disponendoli in cerchio fino ad ottenere una corona; suc­cessivamente si “abbarcavano” al cen­tro, costruendo il “montino”. Infine si ca­ricava il grano sui carri e si trasportava sull’aia dove si innalzava la “barca” in at­tesa della trebbiatura. Prima di trebbiare però occorreva preparare l’aia: con le zappe arrotate si toglieva l’erba e si “vac­cinava” il suolo con lo sterco di vacca, poi si innaffiava e si consolidava con la “pu­la” dell’anno precedente; il calore del sole seccava la superficie e la rendeva com­patta.

Nella foto Giuseppe Anichini

Sino alla fine del secolo scorso e, nelle zone difficilmente accessibili, anche suc­cessivamente, il sistema più diffuso per trebbiare il grano era la battitura: si “riz­zavano” i balzi sull’aia e si battevano con una pertica, quindi con le forche di legno

mente diffusa la mezzadria, il raccolto non andava che in minima parte a riem­pire il granaio del contadino. Si comincia­va col togliere il grano per seme, che con­servava il padrone, quel che restava ve­niva diviso a metà. Ogni raccolto permet­teva al contadino di “rimettere il grano per il pane di una mezzannata”, il resto lo do­veva comprare alla fattoria vanificando così i già esigui guadagni ricavati dalla vendita del bestiame. Il fattore inoltre pre­tendeva “il piatto dei galletti per l’aia”, a risarcimento del grano rimasto per terra che il contadino spazzava e raccoglieva accuratamente.

Laura e Silvano

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.