Conoscendo per caso la famiglia Cantini
di Montegemoli ed avendo saputo del loro impegno nel restauro della chiesa di
San Bartolomeo di Montegemoli, non mi sarei mai aspettato che questa piccola
chiesa celasse sotto il fatiscente intonaco un’interessante paramento murario
di epoca medievale in cui sono stati riscoperti alcune feritoie ed una monofora
posta dietro l’altare, che rendono l’ambiente notevolmente affascinante.
L’impegno del parroco Don Luciano, che
ha promosso insieme ad alcuni volontari il restauro, è stato notevole ed ha
contribuito a riportare questa piccola chiesa agli antichi splendori
valorizzando quelle poche ma significative opere d’arte che vi si conservano.
Tra le cose più interessanti che vi si
trovano, come la bellissima icona trecentesca raffigurante una Madonna con
Bambino, è da considerare un oggetto che probabilmente sfugge al visitatore .
Trattasi di una acquasantiera, realizzata in alabastro locale e murata sulla
parete destra entrando, molto vicina alla porta di accesso, che reca scolpito
in bassorilievo lo stemma di un’antica famiglia di origine pomarancina, quella
degli INCONTRI.
Di questa casata me ne ero già occupato
in passato studiando la loro attività di mercatura con la produzione e lo smercio
delle maioliche pomarancine od anche per la loro parentela con il pittore
Cristofano Roncalli che dipinse nei primi anni del ‘600 a Pomarance una grande
tela per l’altare di Sant’Andrea, eretto dagli Incontri, nella chiesa di
Pomarance .
Una importante famiglia che possedeva
molti beni immobili nel comune di Pomarance e che aveva in patronato anche il
bel crocifisso ligneo,proveniente dal castello di Acquaviva, presso il Bulera,ed
oggi collocato sopra l’altare Maggiore della chiesa di Pomarance.
Lo stemma degli Incontri, effigiato nell’acquasantiera
di Montegemoli, è probabilmente risalente al XVI-XVII secolo e doveva essere
stato donato da qualche discendente che aveva voluto lasciare un suo ricordo
alla popalazione di Montegemoli. Alcuni di questi infatti furono Vescovi
Volterrani od anche pubblici Notai fiorentini come Ser Piero di Andrea
Incontri da Ripomaranci che fu, nel 1565, Cancelliere della Comunità’ di Montegemoli
.
Molti di questi stemmi che raffigurano
due leoni sovrapposti, intramezzati da una barra e con il rastrello sopra,
erano posti anticamente sulle case e possedimenti degli Incontri nel castello
e contado di Ripomarance.
Ne è una
riprova un documento del 1670, conservato nell’archivio Storico di Pomarance,
che riportiamo integralmente e che ci consente di capire l’origine della
famiglia ed i luoghi dove gli stessi blasoni erano collocati. Purtoppo la mano
dell’uomo ha contribuito a cancellare queste testimonianze del passato che
possiamo solo documentare attraverso gli antichi manoscritti.
“A dì
Dicembre 1670
Coadunati il Gonfaloniere et Priori della Comunità delle Ripomaranci nella solita residenza in numero sufficente serv. servantis ordinarono a me cancelliere farsi fede autentica come la verità fùet, che /’Alfiere Alamanno di Gio.di Marco Antonio Incontri che abita la terra delle Ripomaranci è dell’istessa e medesima famiglia dell’Incontri che di presente habitano e risiedono a Volterra e così è sempre da loro tutti stato tenuto e ripetuto per esser li loro antichi della medesima consorteria e discendere da un medesimo Autore; che così hanno ancora sempre sentito dire da loro antenati senza esserci memoria in conto e sempre fra di loro si sono trattati sempre tali e come dalla medesima consorteria ;si come ancora hanno fatto e fanno la medesima arme che sono due leoni d’oro volti sul lato diritto tramezzati da una sbarra pure d’oro in campo azzurro con un rastrello sopra rosso e tre gigli d’oro che a quello fanno di presente.
Ma nell’antiche di centinara d’anni
manca il rastrello et gigli, la quale arme si vede esposta nella terra delle
Ripomaranci, in molti luoghi pubblici et privati e particolarmente nella
chiesa Arcipresbiterale di S. Gio. Battista in due cappelle fatte dai suoi
antenati che una è l’altare del S.S. Crocifisso, et l’altro è l’altare di S.
Andrea Apostolo; et un ‘altra più antica simile fatta pure dai suoi antenati si
vede in una colonna e dove sta il Gonfaloniere di detta Comunità; si come
ancora un ‘altra antichissima di centinara d’anni se ne vede nella lapide
della sepoltura antichissima.
Della sua famiglia ha sempre quello
con il rastrello a gigli, si come da tutti pubblicamente si vede; si come anco
nel medesimo modo si vede esposta la detta arme sopra la porta della casa loro
antica in detta terra, luogo detto “In Piano” dinanzi la chiesa
principale e dentro le lor case, in molti luoghi, et in molti de lor poderi et
altrove;
Si come
attestano che detto Alfiere Incontri e suoi antenati si sono sempre trattati
civilmente et onoratamente, et con decoro conforme la sua nascita, et tenuto
sempre serve, servitori et cavalli, si come sempre si sono imparentati civilmente
et nobilmente; et particolarmente in Volterra con le prime famiglie, si come
altrove et no hanno mai fatto professione alcuna che possa denigrare la
civiltà ma esercitare sempre in caccia, arme, et lettere et simili, essendo o
ancora stati et sono comodi di facultà si come per il pubblico e notorio a
tutta la Terra delle Ripomaranci ma a chiunque li ha conosciuti et
conoscere….”.
Jader Spinelli
NOTE
Sulla
famiglia Incontri vedi:
J.Spinelli – “Il
Redentor Crocifisso d’Acquaviva”; La Comunità di Pomarance N. 3 -1987.
J. Spinelli – “Gli stovigliai
a Pomarance”; La Comunità di Pomarance N.1- 1990.
J.Spinelli – “Un
dipinto del Roncalli a Pomarance”: La Comunità di Pomarance N. 2-1992.
Al mio paese non c’erano contadini proprietari di terre, ma
solo mezzadri. La terra suddivisa in tenute, più o meno grandi, apparteneva
tutta ai “Signori”, ai padroni. I padroni avevano quasi tutti il palazzo nelle
stesse vie, ma abitavano in città e venivano al paese solo a metà estate. Essi
erano chiamati padroni, ma in realtà i veri padroni erano i fattori
(amministratori) che tartassavano i contadini e fregavano il padrone arricchendosi
piano piano alle sue spalle, spesso diventando più ricchi di lui.
“Fammi fattore una anno……. se non ar
ricchisco, mi danno!..”.
Il “Signore” più signore era il conte De Larderei ed
il suo palazzo era il più grande ed il più bello. Si allungava per un quarto
della via Roncalli, dove era l’ingresso ed anche l’abitazione del fattore,
girava l’angolo dove si spalancava il grande ingresso delle scuderie poste
sotto il palazzo e dalla parte opposta si alzava di vari metri sulle “mura”,
col suo bel giardinetto pensile e i suoi tre piani. Su questa facciata spiccava
lo stemma gentilizio. Era la riproduzione, un po’ ridotta, del palazzo De Larderei
di Livorno.
Il conte era un bel vecchio distinto dalla barba bianca.
Egli, con felice intuito, aveva comprato per una miseria la
terra brulla, considerata quasi maledetta dei soffioni, dando origine a quello
che è diventato poi il complesso industriale di Larderello che da lui ha preso
il nome.
Una sua figlia aveva sposato il principe Ginori,
aggiungendo ancora lustro alla casata. Mi par di rivedere la principessina,
quando passava da casa mia a cavallo!
Vestita da amazzone ( con la gonna lunga fino ai piedi)
sedeva in sella con le gambe a sinistra, i lunghi capelli sciolti, raccolti da
una parte, il frustino e le briglie in mano.
Tutto era lindo, luccicante, impeccabile: dall’abito al
cavallo, ai finimenti, al rispettoso scudiero in divisa che le cavalcava un
po’ dietro.
Per noi bimbetti di campagna era il plus – ultra della
signorilità e li guardavamo con ammirazione mista a un po’ d’invidia. Il
fattore del Conte era un signore con la barba, robusto, altero e taciturno che
incuteva a tutti soggezione.
Era lui il vero padrone di tutta la contea. Sua moglie,
lasignoraGiulia, era bellae dolce e non usciva mai. Il fattore, forse geloso,
doveva essere un tiranno anche con lei. Aveva anche un figlio; bello e dolce
come la mamma, che studiava in città. Di fronte alla sua stanza, dall’altra
parte della strada, c’era il giardino pensile del signor Mugnaini. Sua figlia
Maria, dolce e timida, uscita da poco dal collegio, si sedeva a ricamare sotto
il pergolato. Attraverso l’aere cominciarono a partire prima sguardi furtivi,
poi sorrisi, poi saluti….e poi divennero sposi felici.
lo conoscevo abbastanza il palazzo perchè mamma , prima
della venuta dei “Signori”, andava a dare una mano alla “casiera”, e alla” sora
“ Caterina.
E mentre loro facevano le pulizie, io perlustravo lunghi
corridoi e le innumerevoli camere con i letti a baldacchino ed i rispettivi,
eleganti salottini con tante morbide poltrone e graziosi soprammobili. Di
questi quello che più mi incantava era, sotto una campana di vetro, una chioccia
a grandezza naturale che covava una bella nidiata di pulcini dorati e
birichini.
La cucina era immensa; grande acquaio, grande camino,
grandi tavole. Ad una colonna c’era appeso un macinino, anzi un macinone. E
alle pareti tanti rami luccicanti e nelle vetrine cristalliere scintillanti.
Ma il Conte era un uomo semplice, mangiava nel tinello aperto sulla cucina e
dormiva in una cameretta a pian terreno, quasi spoglia. Il suo letto era senza
baldacchino e ai piedi di esso c’era un inginocchiatoio.
Altri palazzi ,come ed esempio quelli dei Fabbricotti,dei
Galli Tassi o dei Bicocchi erano più modesti.
Ricordo che una figlia dei Bicocchi aveva sposato un
avvocato francese ed era andata ad abitare a Nizza.
Nell’estate, anche lei veniva in villeggiatura al paese di
Pomarance con le figlie; e queste, per la passeggiata vespertina, qualche volta
passavano, eleganti, davanti al “Formicaio”, accompagnate dalla istitutrice
francese, conversando in questa lingua.
Un loro zio, la sera delle sue nozze avvenute in città,
portò al paese una giovane sposa, bella , gentile e candida come un giglio. La
mattina presto quando il proposto aprì la chiesa, se la trovò alla porta
piangente, disperata, che chiedeva di confessarsi; riteneva di aver commesso
un gran peccato mortale e voleva ritornare dalla sua mamma.
Non sapeva nulla del matrimonio. Forse credeva davvero che
i bambini li portasse la cicogna.
Fu compito non facile per il proposto consolarla, erudirla
e convincerla a ritornare a palazzo a compiere i suoi doveri di sposa!
Altri tempi!
I nostri padroni erano i Signori Fabbricotti.
Abitavano a Massa Carrara dove si erano arricchiti con le
cave di marmo. Possedevano al paese una vastissima tenuta ed un bel palazzo,
anchesso col giardino pensile.Avevano una grande villa con giardino e scuderie
a Livorno, villa che porta ancora il loro nome.
Erano buoni e munifici, specialmente la signora, morta quasi in odore di santità. Ogni anno ella faceva allestire una grande fiera di beneficenza per offrire, così a tutti doni, senza umiliare.
Il loro arrivo era annunziato dal festoso suono della banda comunale ( proprio come nel “Gattopardo”).
Poi venne la guerra 1915-18 e
peggio ancora il dopoguerra; e i suoni si tramutarono in fischi. E i signori
non vennero più.
Il Principe Ginori e F. De Larderei nello stabilimento di Larderello con i loro dipendenti (1900 circa)
Caro direttore, ho accettato il tuo invito a descrivere la
tragedia dell’ARMIR, tragedia immane, della quale porto i segni indelebili sul
corpo e nella mente, sperando che i giovani e certi politicanti da caffè
imparino che cosa è la “guerra”. Premetto che l’argomento può prestarsi ad
interpretazioni di carattere politico dalle quali rifuggo.
Dirò semplicemente cose orribili che ho vissuto e sofferto.
Lo dirò con senso di riconoscenza verso quella meravigliosa
“Popolazione Russa”, senza l’aiuto della quale nessuno, dico nessuno di noi
si sarebbe salvato.
Noi eravamo gli “invasori” e loro gli “aggrediti”; non
dimentichiamolo!
Ed ecco il racconto, stringato, nudo e crudo, piaccia o
no, ma a prova di qualunque smentita perchè è la semplice durissima realtà.
Partii con gli alpini della “Cuneense” da Borgo San Dalmazzo, poi Cuneo, Torino, Milano, Brescia, Piedicolle, Villaco, Monaco, Dresda, Varsavia, Kiev, Izium. Tremilacinquecento kilometri. Durante i viaggio rimanemmo scioccati nel vedere le donne addette a pulire i binari con la “Stella di DAVID” sul dorso sorvagliate e malmenate dalle sentinelle tedesche. Tremilacinquecento Kilometri!
Non mi rendevo conto come i “sacri” confini d’Italia
fossero così dilatati!
Iniziammo la marcia verso il “Don” con un caldo
asfissiante.
Le più belle “Divisioni Alpine”, atte alla montagna, mandate al “macello” nell’immensità della “Steppa Russa”!
Ero addetto al collegamento continuo fra la “testa” e la
“coda” divisionale.
Avevo una “Sertum 500”.
Quindici giorni di lavoro durissimo nella “Steppa”
Durante la marcia i civili ci osservavano in silenzio dalle
“ISBE” (case).Arrivammo sul Don. La “Cuneense” al centro, alla destra la
“Julia”, a sinistra la “Vicenza”, poi la “Tridentina” Armamenti:
In linea le “Breda 36”, il
“vecchio 91” e le bombette “Balilla”, che, se pestate, potevano al massimo
portarti via il tacco degli scarponcelli.
Cominciammo a scavare trincee e camminamenti.
Poche scaramucce, qualche attacco sporadico, qualche
morto.
Ogni giorno mi recavo a Loscina od Annofca, poi in trincea quando finivo il turno. Nei giorni di calma ci recavamo nelle “Isbe” dei civili.
Diffidenti all’inizio, più cordiali in seguito, ci
narravano delle atrocità commesse dai tedeschi.
Devo dire che mai un soldato italiano si è macchiato di una
violenza verso la popolazione.
E loro se ne sono ricordati!
A metà settembre la temperatura diminuì A metà novembre la
“Steppa” era un “mare di neve”, ci orientavamo con i mulini a vento.
Furono distribuiti pastrani con un pò di pelo di pecora e sempre le stesse scarpe. A Loscina rimediai un completo russo: tenni solo il cappello alpino.
Natale 1942: La posta non arrivava più poiché, in pratica,
eravamo già accerchiati.
Capodanno 1943: Aspettavamo che accadesse qual’cosa.
Giorni tristi, pochi viveri, nessuna notizia da casa,
termometro a 35 gradi sotto.
E venne il 17 Gennaio: nella notte ebbe inizio la più
grande tragedia della storia. Ordine di ritirata!
La notte era illuminta dagli incendi. Ero ben equipaggiato,
con i” ValenKi”, i famosi stivali russi, come russi erano il giubbotto ed i
pantaloni. Nel tascapane avevo due pagnotte gelate e tre ciocciolate.
Bruciammo i pochi camion, caricammo le slitte, ed iniziammo la ritirata.
Da LOSCINA in poi fu un continuo coro di urla dei feriti
perché le “Katiusce” (il cannone a Trentadue Colpi) aprivano vuoti nelle
nostre file.
Urla dei feriti che chiamavano “mamma”, urla di chi,
sfinito, si accasciava per non alzarsi più.
Unici punti di riferimento il bagliore degli incendi.
Ci riposavamo al calore dei pagliai bruciati.
Da LOSCINA in poi un coro continuo, lancinante: MAMMA!
MAMMA!
La fame ci dilaniava e nella steppa fischiava il vento
sollevando aghi di ghiaccio che crivellavano la faccia.
Avevo solo mezza pagnotta gelata.
40 gradi sotto. Ci riposavamo, puntando la pistola, per dormire
nelle poche “Isbe” rimaste in piedi, perchè dormire fuori, significava non
svegliarsi più.
Riempii il tascapane di occhiali da neve tolti ai morti, e
li cambiai con scatolette di carne e pezzi di marmellata.
Chi non aveva occhiali doveva pagare o perdere gli occhi.
Li avrei tolti anche alla mia Mamma!
Ho dormito poche volte nelle “Isbe”, spesso nei pagliai, e
le donne russe ci hanno aiutato sino al limite delle loro possibilità.
Un vecchio stava mangiando latte e cetrioli, mi dette
tutto e mi riempì la gavetta. Ragazzi russi di 14-15 anni con il “Parabellum”
controllavano che fossimo italiani.
Ai Tedeschi facevano subito la “pelle”. Le donne ci davano
latte, miele, e cetrioli acidi.
Quanto latte ho bevuto, quanti telai di miele ho mangiato,
quanti soldati italiani anno salvato!.
Prima di “VALUIKI” vidi un gruppo che aspettava un pezzo di
carne: “CARNE UMANA”, carne di un alpino squartato da un colpo di “Katuiscia”.
L’ho visto con i miei occhi. E se non credete a me chiedetelo a Don Turla il
nostro cappellano che, con il mitra in mano, fece finire lo scempio; li
avrebbbe ammazzati se non si fossero fermati!. Eravamo al limite fra lucidità e
pazzia, valeva solo l’istinto bestiale della conservazione a qualunque costo.
Arrivammo nel vallone di “VALUIKI”, penultimo baluardo da
superare; nel vallone ci rafficavano con le mitragliatrici e una raffica
spezzò una gamba di un alpino che con il fratello correva verso il riparo
urlando disperato.
Un alpino chiamò il fratello, lui si girò vide e continuò a correre, e rispose: “Mamma ne vedrà almeno uno’’.
Soldati italiani sul fronte russo – 1942
Entrai in una “Isbà” dove un vecchio mi
dette una ciotola di latte e cetrioli, sua moglie si tolse i guanti e me li
mise. L’Abbracciai piangendo.
Dopo “Valuiki” continuammo verso l’ultimo
sfondamento:
“NICOLAJEFKA” e fu l’apocalisse.
Ci precipitammo verso la ferrovia, ma
non sentii arrivare la Katiusca; una vampata e caddi urlando. Accanto a me fu
squartato il generale MARTINAT. Urlavo
come un pazzo; fortunatamente passò una slitta di carabinieri che mi portarono
fuori dall’ultima sacca.
Fermi, in attesa di essere caricati su
un merci, assistetti ad un episodio di puro eroismo:
Don Turla, Il nostro cappellano, sfinito
ma illeso, mentre ci caricavano alzò il “Crocifisso’’ e ci benedisse, poi
lentamente, tornò nel vallone per non abbandonare i feriti e i morbondi.
Quell’atto di puro eroismo gli costò quattro anni di “SIBERIA”. È tornato ed
ha costruito una chiesetta nelle sue valli ove ogni anno raduna gli ultimi
supestiti.
Quello era un Prete!
Arrivai a Varsavia in un liceo
trasformato in un ospedale, poi, dopo un sommario medicamento, mi portarono nei
sotterranei.Dopo due giorni di bombardamenti altro treno.
Sostai due giorni a Vienna dove mi cambiarono
le bende e finalmenete col treno N. 20 della Croce di Malta rientrai in Italia
e fui subito operato a Chiavari, nella Colonia Fara e Piaggio, ove rimasi 40
giorni.
Vennero la mia mamma e mia zia che non
mi riconobbero.
Ero trentuno kilogrammi.
Di nuovo operato a Pisa, poi cure, aria
di mare, affetti, hanno rimarginato le ferite, ma in noi sopravvissuti c’e un
nodo di gelo che nessun calore scioglierà mai più. Considerazioni:
Le più belle divisoni del mondo “Cunenese, Julia, Tridentina”, distrutte.
Fummo spediti nell’immensità della steppa
russa noi alpini allenati in montagna, perchè ci fu chi aveva bisognio di cinquantamila
morti da far pesare sul tavolo delle trattative!
Li hanno avuti:
114.240
giovani hanno lasciato i loro 20 anni nel gelo della steppa russa a maledizione
di chiunque voglia la GUERRA.
Bollettino di Guerra del Comando Supremo Russo N. 630
dell’8/3/1943: ” Solo il corpo di armata Alpino deve ritenersi imbattuto sul
suolo russo”.
Firmato Josef Diugasvili STALIN.
Non era dal cuore tenero ma seppe egualmente riconoscere il nostro valore.
Negli ultimi anni di guerra, forse era il 1944, in un
giorno d’inverno abbastanza freddo, io, che abitavo a La Spezia mi recai a
Pomarance, da certi parenti in cerca di pasta e farina, che non si aveva in
casa, malgrado la tessera annonaria.
Mia madre, mi diede un bel cavolo da portare a questi
parenti, poiché a La Spezia il clima abbastanza mite favoriva la crescita delle
verdure. Mentre mio padre mi diede un paio di stivali di gomma.
– Faranno comodo a qualche contadino – Mi disse!
A quei tempi il viaggio in treno era lungo. Prima di Pisa,
a S. Rossore, il treno finiva la sua corsa per riprenderla oltrepassata la
stazione al cosiddetto “collo d’oca” cioè un bel pezzo a piedi in mezzo ai
binari distrutti dai bombardamenti.
Quando era buio alla stazione di Saline, ci fu un posto di
blocco di militari fascisti, che vollero controllare i bagagli di ciascuno dei
viaggiatori giunti col treno.
Alla domanda di cosa avessi nella valigia risposi candidamente:
“Un cavolo e degli stivali!” Il resto della valigia era
vuoto. Ero andato apposta per caricare un pò di mangiare. Questi si offesero
parecchio e credendo ad una battuta messa li, mi dissero di fare meno lo
spiritoso, che aprissi subito, al che quando li accontentai, ci rimasero assai
male, tanto che uno di quelli, mi disse se avevo uno scontrino relativo
all’acquisto degli stivali.
lo veramente non sapevo che da queste parti fosse in vigore la ricevuta fiscale, anticipando di circa quaranta anni i tempi, per cui rimasi alquanto perplesso, dissi che non l’avevo, che a La Spezia le cose si compravano e basta, le uniche ricevute erano quelle dell’affitto e della luce. Ci rimase male e mi disse di andare.
TEATRO DEI CORAGGIOSI ANNO
1930 circa OPERETTA L’ACQUA CHETA fra gli interpreti Giulia Funaioli, Cesare
Falcini, Socrate Righi, Luisa Baldini, Argante Casanovi, Giovannina Mazzinghi,
il farmacista Quadri, Donatello Fontanelli, Miro Bruscoli, Bartolo Bartoli ed
il Maestro Sestini.
Non c’era ancora il cinema nè
tantomeno la televisione, le feste da ballo erano rare. In quel tempo
l’operetta imperava ed il suo fascino arrivò fino da noi. Direi che fu proprio
questo mondo e quello della commedia musicale ad interessare maggiormente i
nostri nonni. Si facevano anni di prove sia per il gusto di stare insieme ma
anche con lo scopo di fare un buono spettacolo che sarebbe stato motivo di
conversazione nelle lunghe veglie invernali sul canto del fuoco o sotto i
freschi nei lunghi pomeriggi d’estate.
L’Acqua Cheta, mi ha
raccontato il Falcini, fu l’unica vera operetta da noi rappresentata, fu quella
che ebbe maggior
successo, fu rappresentata tre volte a Pomarance ed una
volta anche a Saline di Volterra.
Mentre parla gli si
illuminano gli occhi, sta rivivendo sensazioni ed emozioni che appartengono ad
un mondo lontano. Il Principe dice ci mise a disposizione per quattro prove
generali l’orchestra del Teatro di Larderello ed a fine rappresentazione ci
regalò per riconoscenza il pianoforte. Si è proprio quello della Filodrammatica
che si trova nel Teatro dei Coraggiosi.
Come era bravo il Quadri!! Che bella voce aveva Luisa ed
ero anch’io un bravo tenore.
Mi ricordo che Giulia cadde nel ballo delle rificolone. Che
applausi! la gente voleva il bis.
Guarda la fotografia, fa un lungo sospiro.
Sono morti tutti dice.
□ Il servizio una volta al giorno andava da Volterra a Massa Marittima,
successivamente fu messa la “Postale” anche per Pisa e Firenze.
Mi ricordo che per
arrivare a Firenze si partiva la mattina alle 5 e si arrivava alle 10.
Alla sera quando alle 8 arrivavano i due “Postali” vi era
sempre un gruppetto di gente davanti la posta in Piazza De Lardarel ad
aspettarli. Mi ricordo Emogene sempre con la panierina portava il mangiare ad Amleto
che ritornava a casa solo il sabato.
Amleto era il fattorino, ricordo anche
Aldo il Baldini, il Busoni e Cassiano.
Le macchine erano in pochissimi a possederle, si contavano sulle dita, e la gente viaggiava quasi tutta in “Postale” e quel momento dell’arrivo era un attimo importante la gente si baciava, si salutava, aveva il piacere di ritrovarsi. Si scaricavano i bagagli che spesso erano legati sul tetto. Dopodiché si vedevano gruppetti di gente che parlando animatamente si dirigevano alle proprie case grati al Postale che aveva ancora una volta ricondotto a casa un affetto.
1919 – Linea Volterra-Massa M.ma FIAT 18 B2, a gomme piene. Nella fotografia: Biondi Jolanda, Cerboneschi Maggi Lina, Falcini Cesare, Tonelli Piero, Coppini Seraflna, Pineschi Carla, Tani Primo, fattorino della “Postale”, Caporioni Dino, Grandi Edoardo, Bacci Cesare, Landi Ernesta.
Mario Fiossi
C’ERA UNA VOLTA: “I Veglioni”
□ Era da pochi anni finita la guerra. Soldi ne giravano
pochi e di conseguenza pochi erano i divertimenti, la gente faceva a meno di
tutto impegnata com’era nella dura battaglia della vita, ma… “Anche
quest’anno a Carnevale al Teatro dei Coraggiosi faranno tre Veglioni”.
Non tutti potevano permettersi di parteciparvi, era già un
lusso poter andare ad uno. Nelle famiglie più modeste dove c’erano ragazze da
marito si cominciava a fare i conti; con tanti sacrifici si sarebbe potuto
comprare la stoffa e cucire un vestito da sera.
Si forse uno era possibile. Non si poteva certo andare a
tutti e tre perché era usanza cambiarsi di abito ad ogni festa.
Questo forse era il problema più grosso, ma anche prenotare
un palco non era impresa facile. Il primo ed il secondo ordine erano padronali;
il terzo ordine “la Piccionaia” veniva affittato. Bisognava fare una lunga coda
davanti alla “Bottega di Settimo” che al mattino, quando alle otto andava ad
aprire il suo negozio, trovava sempre un folto gruppo di giovanottelli che a
pagamento facevano la fila fin dalla sera prima per prendere in affitto “il
Palco”. Non a tutti toccava ed i meno fortunati dovevano accontentarsi si
andare davanti al teatro a veder entrare la gente e poter ammirare, anche di
sfuggita, i vestiti delle ragazze che ne parlavano già da mesi. Anche per
l’abito da sera esisteva quasi un rito: si andava a comperare la stoffa anche
fuori Pomarance, non si doveva dire il colore, la sarta che lo cuciva non
doveva farne parola con nessuno, le aiutanti erano diffidate a parlarne. Doveva
essere una sorpresa. Ognuna in cuor suo sperava di essere la più elegante e
l’effetto sorpresa doveva contribuire a questo e, perché no, anche a vincere
quel premio che a volte veniva messo in palio per la “Miss” più bella.
Arrivava così la sera del ballo.
ero ancora un ragazzetto ma mi ricordo abbastanza bene i particolari importanti di quelle feste. Noi del loggione si arrivava molto presto, carichi di dolciumi che durante la notte si sarebbero mangiati. Non si voleva perdere niente, per noi non era soltanto una festa da ballo, ma uno spettacolo pieno di luci e di colori, di bei vestiti ed anche di gente importante.
Piano piano i palchi si riempivano, arrivavano più tardi le
persone che più contavano, la sala da ballo tutta addobbata di fiori e di
festoni rimaneva vuota e chiuso il grande portale di accesso smaltato sotto il
“Palchettone”.
Gli occhi di tutti erano concentrati su quel portone; tutto
ad un tratto si apriva e dietro vi erano le coppie che avrebbero aperto il
ballo. L’orchestra che stava sul palcoscenico intonava un “Valzer” e la
prima coppia scioglieva il “nastro di raso bianco” e seguita dalle altre dava
inizio a quel lungo valzer, proibito ai ballerini non valenti.
Mi ricordo che la festa cresceva in un turbinio di musica,
di coriandoli e stelle filanti; ai piani inferiori si facevano battaglie con i
coriandoli, se ne consumavano sacchi, tanto che per due o tre volte si dovevano
interrompere le danze per spazzare il pavimento.
La festa dilagava dappertutto, coinvolgeva tutti. Per le
scale c’era sempre una grande confusione, i giovanotti e le ragazze si
rincorrevano, scherzavano e, perché no, si nascondevano per scambiarsi furtivi
baci.
Le storie d’amore che nascevano in quelle serate, qualcuna
continuava, altre finivano, ma erano comunque oggetto di conversazione per i
mesi che seguivano.
veglione più allegro e più bello era senza dubbio quello “Mascherato”; mi ricordo un anno di avervi partecipato vestito da “Gatto con gli stivali”. Il costume era bellissimo, ricercato e curato in tutti i particolari. Lo aveva realizzato “Giorgio” diventato poi uno dei più importanti costumisti italiani. I costumi da lui realizzati presso la sartoria “Cerratelli” per i film di Zeffirelli hanno vinto anche dei premi “Oscar” e quell’anno vinse con me il suo primo premio per il miglior costume.
Passarono gli anni ’50 e i veglioni per un periodo non
furono più fatti. Altri furono i luoghi d’incontro dei giovani, furono fatte
nuove sale da ballo e il cinema fu uno dei passatempi più frequentati dalla
gente.
Ma il fascino di quelle serate era cosi intenso che non si
tardò a riprendere questa bella abitudine. Ne sono stato anch’io protagonista,
ho addobbato la sala con rose, con mimose, con festoni colorati e lucenti, ho
scorazzato anch’io per le scale su per i palchi con amici e amiche. Ho anch’io
insieme ad una ragazza sciolto il “nastro bianco di raso”, ho ballato
anch’io il lungo valzer ed ho respirato anch’io quell’atmosfera magica che
solo il “Teatro” sapeva dare.
Da diversi anni il “Teatro dei Coraggiosi” è chiuso in
attesa di restauri. Speriamo che il tempo non sia impietoso e che si possa
giungere in tempo a salvare questo patrimonio che non è solo importante per la
sua architettura, ma è soprattutto importante per il significato che ha avuto
per tutta la comunità per tanti anni “Veglioni” a parte.
Pomarance Teatro dei “Coraggiosi” – 1950 (1° veglione) Nella foto: Bianchi Gerardo, Dei Lunetta, Fignani Valeria, Manghetti Stefano detto “Il Chiorre”.
In estate, appena finita la scuola, andavo per lunghi
periodi dai miei nonni.
Abitavano a “Poggiamonti”, lo ricordo come il posto più
bello e più felice della mia fanciullezza.
Il giorno scorazzavo sull’aia
e nel bosco in cerca di lucertole con i miei cugini e mio zio di poco più
grande di me e la sera…………
Al sopraggiungere della sera, terminati i lunghi giochi, ci
sedevamo tutti intorno al grande tavolo e tra chiacchere e grande confusione
consumavamo il modesto pasto che mia nonna “la massaia” ci preparava. E poi a
letto. Qui mi assaliva una sorta di malinconia ed una voglia scottante dei miei
genitori, non potevo rimanere a letto con i miei cugini e mia nonna allora
veniva con il lume a petrolio in mano, mi prendeva in braccio e mi portava nel
grande letto, dove mio nonno sorridente mi accoglieva e mi avvolgeva con un
grande abbraccio. Mi addormentavo così tra loro sommerso di affetto e di
profumo di lavanda. Non era ancora giorno che mi svegliavo, sentivo mio nonno
alzarsi, si vestiva.
Dove va?” domandavo.
Zitto, dormi!” rispondeva la nonna “è presto, nonno va a
segare”.
Mia nonna era una bella donna, alta e rassicurante, con una
mano reggeva il paniere in cui era il cibo che si portava nel campo con l’altra
dava mano a me che piccolo piccolo la seguivo, mentre mi raccontava storie di
maghi, di principi, di api e di farfalle. Si arrivava nel campo, faceva un
grande caldo, tutto era sole e oro; il cielo, l’aria, il grano gli armenti e
gli uomini erano immersi in una atmosfera pesante e risplendente che sprizzava
giallo; solo la grande quercia dove ci sedevamo per mangiare conservava ancora
il suo colore reale: verde, un’intenso verde, impenetrabile e fresco.
Si mangiava zuppa con cipolle, pomodori e cetrioli e poco
più. Si beveva acqua dal fiasco ricoperto di vimini mentre i buoi poco più là,
sempre al fresco, ruminavano il fieno che mio nonno non dimenticava mai. Poi ci
si riposava, si dormiva qualche ora, fino a che il sole impietoso non smetteva
di scottare, poi si riprendeva il lavoro: i buoi venivano riattaccati alla
macchina che segava, mio nonno vi prendeva posto e si ricominciava. Il grano
veniva falciato dalla macchina e dietro dietro una moltitudine di persone lo
raccoglieva, ne faceva dei “balzi” che ammonticava poi in grandi “Barche”.
E la fatica ?
La fatica era dura, vera,
sfibrante, si leggeva sui volti dei contadini rugosi e bruciati, si leggeva nel
passo delle donne: sfiancato e lento e si leggeva nella camiciola di lana del
nonno, molle e appiccicosa che bucava di grano quando alla sera tornava e mi
prendeva in collo per baciarmi.
Mario Rossi
IL PROFUMO DELL’ESTATE
Finita la scuola, cominciava il gran caldo, pochi andavano al mare ed i ragazzi meno fortunati rimanevano in paese.
Nei lunghi pomeriggi assolati gli
anziani meriggiavano sotto gli alberi, le donne finite le faccende domestiche
si riversavano nelle strade, sugli scalini, nei punti più freschi, a
sferruzzare o a pulire verdure e frutta per la marmellata. Noi ragazzi si
giocava, sotto gli alberi del parco, sotto i freschi del “giardinello” oppure
tra il verde del boschetto della “Villa”.
L’estate scorreva lenta in questo paese
pieno di luce, di caldo e di sole.
E la sera? La sera, gli uomini dopo il
lavoro uscivano per andare al “Circolo”, noi ragazzi, dopo corse affannate per
prendere lucciole, si giocava a “rimpiattarello” mentre le donne con i più
piccoli se ne andavano per le vie del paese a cercare refrigerio. Ricordo che
tutto profumava di erba e grano falciato, di ginestre sfiorite, di polvere arsa
di tigli e di rose.
La vita scorreva lenta, monotona non
succedeva mai niente.
Poi all’improvviso: Il Palio!
Fu un’invenzione per sentirsi vivi, per
interrompere la monotonia delle vacanze estive, fu l’invenzione che stimolò la
fantasia e la creatività, fu l’invenzione che rievocava l’istinto alla
competizione così fortemente radicato nelle genti di Toscana. Ricordo che
all’inizio era una competizione calcistica tra i rioni del Marzocco e
del Centro. Il rione del Marzocco intese subito fin dal primo anno vestire
la sua mascotte con il suo capitano con vestiti medioevali, che ricordavano il
suo antico passato. Lo ricordo ancora: Paimira e Mario coloratissimi con
calzamaglie e giubbetti e la bandiera del Marzocco che apriva il piccolo
corteo. Si rimase un po’ tutti allibiti, ci piacque e si decise tacitamente che
si sarebbe potuto far meglio.
Nacque un terzo rione, il Paese Novo
e la competizione si allargò: si premiava non solo chi vinceva il torneo di
calcio, ma si cominciò a premiare soprattutto la contrada che riusciva a fare
il migliore corteggio prima, e dopo la migliore sfilata storica. Di quei primi
anni ricordo vagamente alcuni episodi e personaggi:
Meri, giovanissima vestita da Lucia, e
Michele un Don Abbondio simpatico e scanzonato. Marta, superba Minerva e
fierissima Amneris. Ricordo Catuscia con il bellissimo costume della regina
Isabella e Alberto bravissimo nella parte di Nerone.
Un quarto rione si costituì, agguerrito
e pieno di iniziative il Gelso. Bella la sua Batterflai e riuscitissimi
il conte di Cavour e la sua affascinante contessa di Castiglione.
Mentre scrivo si affacciano alla mia
mente volti ed episodi di Cleopatra, Antonietta, Napoleone, Giuseppina,
Semiramide, Ulisse, Robin Hud, la regina di Saba, il Doge di Venezia, Paolo e
Francesca e soprattutto balzano alla mia mente le persone che prestarono i
loro volti a questi personaggi: e vedo Giacomo, Claudia, Mila, Vaschilio,
Vanda, Andrea, Paolo, Gabriella, Renata, Franca e tanti tanti altri. Questo
gioco ci affascinò tutti, fu interrotta la competizione calcistica e si dette
spazio solamente alle sfilate che rievocavano periodi ed episodi storici.
Il gioco nel corso degli anni si affinò,
si ingrandì si crearono scenografie dove le comparse recitavano scene di vita
passata. Diventò teatro popolare.
Finita la scuola comincia il gran caldo, molti vanno al mare… molti lavorano, inventano, creano, si riuniscono, parlano, discutono. Tutto profuma di erba, di grano falciato, di ginestre sfiorite, di polvere arsa, di tigli, di rose e… di colla, di vernice e di legno.
Scenografia “La processione di S. Giovanni del 1598“ – Contrada Paese Novo, 1988.
In via dei Fossi a nord est di Pomarance, dietro la chiesa
parrocchiale di S. Giovanni Battista, vi è un’area di proprietà comunale,
adibita attualmente a parcheggio, che è conosciuta dai pomarancini con il
semplice nome di “GIOCO” . Questo appellativo in verità non è del tutto esatto:
il suo vero nome, risultante da alcune piantine catastali del periodo
leopoldino (1830), era “GIUOCO del PALLONE” indicante che il “calcio” ha
un’antichissima tradizione in Pomarance.
Probabilmente giocato dai pomarancini fin dal 1500, è certo che venne praticato sin dalla prima metà del ’700 all’interno del castello di Pomarance prima di essere trasferito dietro la chiesa parrocchiale (1780) per le continue lamentele degli abitanti della contrada di Petriccio (attuale Piazza de Larderei) a causa dei danni arrecati alle loro abitazioni da tale gioco. Molto simile al “Calcio fiorentino” , disputato su di un terreno rettangolare tra squadre che si contendevano la palla usando mani e piedi, assumeva talvolta particolari aspetti di violenza che determinarono la volontà delle Magistrature del Comune di rimuoversi dalla contrada di Petriccio il giuoco del pallone e della palla..’” come da una lettera del Confaloniere Franco Incontri (20 sett. 1779) in cui si invitava il Magistrato a “…destinare altro luogo, dove poter esercitarsi in tale giuoco senza disturbo degli abitanti circonvicini” (1).
In questo periodo vennero
proposti all’attenzione delle magistrature tre luoghi: “…in primo luogo
il posto dietro i fossi, (attuale via dei Fossi) ove levandosi a spese
comunitative li scarichi che vi sono, e togliendosi le piante dei gelsi che
siano di impedimento, può ridursi luogo atto e capace per il giuoco………. in secondo luo
go il campo del Treppiede
di proprietà del Sig. Can. e
Andrea Falchi in terzo luo
go la Cella di proprietà della Chiesa Arcipretale ” .
Nello stesso periodo venne indicato anche un altro posto
detto “Campo al Zolfo” di proprietà della Compagnia di S. Gio distante
da Pomarance circa un tiro di schioppo. (2)
La scelta ricadde sul luogo dietro i fossi che era
anche stato destinato da S. A.R. per la realizzazione del nuovo cimitero in
seguito costruito presso la cappella di S. Rocco nel 1789 (attuale Parco della
Rimembranza). Questa area fu ben accetta dai giocatori stessi come rilevasi
da una deliberazione del 1779 in cui: “sentito che i giocatori desideravano
il posto dietro i fossi fu proposto, di quello destinarsi, per non aver altro
luogo in proposito…” (3).
L’inizio dei lavori avvenne attorno al 1780 dopo la
redazione di un chirografo da valere come contratto tra il Sig. Franco di
Pietro Guglielmo Biondi ed il Comune per la cessione di alcuni mori (gelsi) da
abbattere per fare lo “spiano” del campo da gioco in cui il Biondi si obbligò
con l’indennizzo di lire 154 a: “…non molestare ulteriormente…detta
comunità…” per qualunque ulteriore spesa che poteva verificarsi in
futuro (4).
Fu costruita così anche la scala presso il vicolo del
Muraccio per agevolare il passaggio dei giocatori dal Castello a questo
luogo.
All’inizio questo sito fu ritenuto, dagli uomini di
comune, adatto e abbastanza tranquillo per lo svolgimento di questo gioco, ma
ben presto anche qui insorsero degli inconvenienti. Infatti nel settembre del
1780 vennero stanziate dal Comune: “…lire trenta ai giocatori del pallone
per riparare la vetrata del Coro della Chiesa
Arcipretale soggeta a rompersi stante il giuoco di detto pallone costruito
dietro il medesimo….” (5).
Anche attorno
al 1801 questi inconvenienti non cessarono; in questo periodo risultarono
altre lagnanze rivolte alle magistrature del comune da parte di cittadini che
avevano le loro abitazioni nei pressi del “Gioco del Pallone” come ad esempio i
figli del Sig. Giovanni Buroni che “…si trovavano minacciati dai
giocatori che non vedendosi rendere i palloni dalla loro madre, spesso
iniziavano la scalata del muro…. ingiuriando la detta madre con parole
offensive….e facendogli dei danni nei beni stabili come forzare la porta
della casa con percosse e legni ”
(6).
Dai primi del ’900 fino al dopoguerra
l’area del “Gioco” fu pure utilizzata dai giovani pomarancini come luogo di
ritrovo per i loro giochi e divertimenti. Secondo il racconto dei più anziani
era lì che si giocava al tamburello, alle bocce, alle biglie di terracotta ed
anche alla “trottola” di cui si ricordano ancora abili giocatori che scalzi ed
in pantaloni corti davano prova di abilità nel far girare più velocemente le
trottole generalmente costruite dai locali falegnami Bonucci (detti Falugi) e
Pini, i quali le tornivano con grande maestria.
Il “Gioco” fu riutilizzato per il calcio nel 1927 quando il figlio dell’avvocato Coutret (detto il Signorino) acquistò a sue spese delle magliette color amaranto e costituì la prima squadra di Pomarance formata da giovani pomarancini come Mario Pini e Vittorio Baldini detto l’Abbaia.
Qui si
disputarono partite amichevoli e non fino al 1935 anno in cui il “Gioco” lasciò
il suo posto di campo ufficiale al sottostante “Piazone delle Fiere” ; ed è lì
che la squadra del Pomarance ha giocato fino agli ultimi anni del 1960 per passare
poi in una delle più belle strutture sportive della Val di Cecina: lo Stadio Comunale.
Spinelli Jader
NOTE BIBLIOGRAFICHE
Archivio Storico Comunale Pomarance, F. 210, c. 158 r. e v.
A. S. C. P„ F. 126, c. 12 r.
Ibidem, c. 23 r.
A. S. C. P„ F. 35
Comunità di Pomarance anno IV n° 1, 1971, Rievocazioni Storiche E. Mazzinghi. A. S. C. P„ F. 715, c. 1227 r.
E anche quest’anno il Palio è stato
fatto: sia per quelli che ancora continuano a crederci sia per chi ormai non
ci crede più. Le quattro contrade infatti sono ancora una volta scese in piazza
ed hanno dato quanto per loro è stato il massimo dare, anche se in altri anni
hanno esplicato in maniera più elevata la loro potenzialità.
Il CENTRO con il tema “Sognando”, ha
creato uno spettacolo che ci aiuta a dare ancora una volta importanza alle
favole ed ai sogni. Sul loro palco infatti hanno preso anima i personaggi del
grande Disney, simboli di sogni e di fantasie.
Il PAESE NOVO, con “La terra del vicino
è sempre più grassa” ha saputo fondere un classico comportamento umano,
quale quello espresso nel proverbio, con una grande tradizione della nostra
zona: l’alabastro.
Il GELSO, con “Anni Coraggiosi”, ha
fatto rivivere a tutti noi anni di storia moderna, ma non una storia qualunque,
ma la nostra storia e quella del nostro teatro, accompagnata da musica, balli e
arte.
Infine il MARZOCCO con la “Bilancia
della vita” con la quale ha voluto soppesare fantasia e realtà nelle azioni
umane ed in particolar modo nelle azioni di Don Chisciotte della Mancia.
Anche quest’anno il Palio, eseguito con
grande carisma e personalità artistica dalla Signora Emma Biondi della Striscia.
è stato assegnato alla contrada del PAESE NOVO.
E nonostante le polemiche il Palio è ancora vivo; cosa lo dimostra? La vita tra le righe di un articolo di una nostra contradaiola, che quest’anno non ha neppure vinto, ma comunque sia sente vivo dentro di se il battito del Palio:
“Nessuno può negare di essere in qualche
modo legato alla propria terra d’origine, poiché è un legame troppo forte,
direi quasi animale, che radica l’individuo alla sua sfera naturale. E tanto
più se questa parte di terra ha una bandiera, un colore, un simbolo e un’anima
rionale. Impossibile rinunciare a tutto ciò !!! Ebbene si, potremmo definire
il Palio come un vizio, uno dei peggiori vizi a cui un individuo quando si è
attaccato non può più rinunciare: per la sua carica emotiva e coinvolgente, per
le sensazioni che provoca, per le delusioni e per i momenti di follia che
riesce a dare.
Il Palio è cibo di competizione che si condensa in teatro,
costituito da una prassi regolare che scandisce il tempo dell’anno nell’attesa
di un nuovo Palio. Maggio: “l’idea deve essere partorita. Sarà valida? Ma gli
altri chi sa cosa faranno? Ne siamo certi : quest’anno vinceremo!”
Giugno: “Su forza, i primi preparativi: i progetti, il
copione, le musiche.” Luglio: “Firenze, stoffe, colori, velluti, damaschi,
pietre.”
Agosto: prove, prove, prove.
Settembre: “E gli altri? Dai vinceremo! Il progetto, le
stoffe, le pietre, le prove, le musiche.” Gli uomini martellano, le donne
cuciono e ricamano ed i ragazzini?
I ragazzini si insultano e fanno pronostichi sulla
vittoria.
Le strade si vestono di colori e nell’aria non si respira
altro che competizione e amore, un amore per il propio simbolo, insomma, in
poche parole, odore di Palio. I° Domenica di settembre: le campane della chiesa
suonano “a festa” ed i capitani da parata vanno all’altare a prendere la
benedizione del parroco di fortuna e felicità per la propia contrada ed in
tutti cresce ancora di più l’ansia dell’attesa. Vigilia del Palio: gli animi si
accendono, la stanchezza prende il sopravvento, ma …. vinceremo!!!
Seconda Domenica di settembre: E’ il Palio: rullo di
tamburi, squillo di chiarine ed il sole del 2000 che batte e rende lucente lo
splendido velluto dei vestiti medioevali, quasi a farci ricordare quanto la
nostra cultura affondi le sue origini
in quella che una volta fu la misteriosa e rude Toscana medioevale.
Centro, Paese Novo, Gelso,
Marzocco. Marzocco, Centro, Paese Novo, Gelso. Gelso, Marzocco, Centro, Paese
Novo
Tra musiche, applausi, colpi di scena e attese i
palcoscenici si chiudono ed ora la vera attesa: il verdetto.
La sera il piazzone brulica
di gente. Arriva il sindaco, è adrenalina, è adrenalina pura quella che prende
il volo dai corpi di tutti quegli individui che sono li, che tremano, piangono
e amano ”11
Palio mille e novecento……. “ ma come
sappiamo “3 contrade perdono e una vince e sono più quelle
che perdono che quelle che vincono”. Quindi i vincitori esultano e i perdenti
affermano: “Ce l’hanno rubato”.
Ma ciò che ha vinto è stato il teatro, l’arte e l’amore per
la propria bandiera e alla faccia di chi odia il nostro Palio e le nostre
bandiere “per forza o per amore lo dovete rispettò!!”
“Presto è maggio, un nuovo
Palio ci aspetta, un’altra idea deve essere partorita e poi giugno e poi luglio e poi e
poi e poi…”.
Rione Centro: “Sognando “. Rione Paese Novo: “L’erba del vicino è sempre più grassa”. Rione Gelso: “Anni… coraggiosi” Rione Marzocco: ‘La bilancia della vita”
Una
Contradaiola
Come di consuetudine porgiamo i nostri più sinceri
auguri di Buon Natale e Buone feste, da parte del Comitato di redazione, a
tutti i lettori, agli inserzionisti, agli amministratori pubblici e a tutti
coloro che fanno vivere e continuare questa pubblicazione, fiore all’occhiello
di Pomarance.
È stata veramente una faticata riuscire
a coordinare il lavoro editoriale dal mese di Giugno a Ottobre e stampare i 4
numeri; per questo, siamo ancor più gratificati in barba a chi, o a coloro,
che credevano di ostacolarci nell’impresa. Non abbiamo certamente lavorato
nelle migliori condizioni, visti i tempi ristretti, per reperire i testi e
consegnarli in tipografia; per questo va un mio ringraziamento ai
collaboratori della rivista che si sono dati da fare per consegnarci in tempi
utili i loro elaborati.
Siamo comunque soddisfatti per aver
mantenuto fede agli impegni che ci eravamo assunti, come consiglieri della
Associazione “Pro Pomarance”, di continuare questa rivista che è sempre più
apprezzata dai nuovi lettori.
Sicuramente non ci saremmo riusciti se
oltre a tante chiacchiere e prosopopee, non ci fossero state al nostro interno
persone disponibili e responsabili che si sono impegnate più di altre a far
continuare questa rivista come i fratelli Tifoni ed il Bongi. Ma un saluto
particolare è doveroso a colui che volle anni fa la rinascita di questa
rivista, che mi è sempre stato vicino per utili consigli e sempre pronto a
incoraggiarmi nei momenti più difficili.
Saremo di nuovo in edicola anche il
prossimo anno continuando l’inserto del Sillabario, foglio di Poesia e
Letteratura, che sta riscontrando consensi notevoli tra i nostri lettori.
Ma…,
lasciamo spazio ai nostri collaboratori; e….buona lettura!
UNA RICETTA A CURA DI CRISTINA BLASI INSEGNANTE ALLA SCUOLA “CORDON BLEU” DI FIRENZE.
Vorrei parlare questa volta di un ingrediente molto poco
conosciuto, ma molto adatto a preparare piatti invernali, zuppe e, perché no,
anche gustosissime insalate estive: il Farro.
Questo cereale smarrito nei secoli è il capostipite di tutti i frumenti ed è stato per oltre 2000 anni l’alimento principale di intere popolazioni mediterranee e asiatiche. Riscoperto in Alta Savoia per zuppe di verdura e di leguminose è oggi diffuso in tutta la Toscana (soprattutto in Garfagnana) e un po’ conosciuto in tutta l’Italia. La sua riscoperta non è dovuta soltanto al rinnovato interesse per le vecchie tradizioni. Si può dire, scherzando, infatti che la popolazione garfagnina è conosciuta come la più sessualmente longeva d’Italia (senza dimostrazione scientifica, sia chiaro!), popolazione che ha sempre fatto grande consumo di questo cereale.
A parte gli scherzi, il farro ha anche proprietà
nutrizionali abbastanza importanti; è infatti ricco di vitamine, sali
minerali, proteine (svolge quindi azione ricostituente). Come cereale povero
comunque è importante perché contiene acido litico il quale, secondo
studiosi, inibisce certe ossidazioni dei grassi coinvolte nello sviluppo del
cancro del colon.
Il farro, far latino, è una varietà di grano (TRITICUM
DICOCCUM) ed appartiene alla famiglia delle graminacee. È facile trovare sul
mercato il farricello o spelta con il nome di “gran farro”, il quale in cottura
non ha la stessa resa del farro: il vero farro non si impasta dopo la cottura,
ma mantiene l’anima leggermente dura. Il farro è stato fin dal V secolo A.C.
l’unico grano dei Romani a differenza dei Greci noti consumatori di orzo.
Dal farro deriva la parola farina; dal farro prende il nome
il più antico matrimonio rituale, la CONARRATIO, durante il quale gli
sposi offrivano a Giove una focaccia di farro.
Il farro era quindi tenuto
molto in considerazione dai Romani; lo dimostra il fatto che veniva dato
sotto forma di ricompensa ai soldati vittoriosi. Ancora con i chicchi di farro
tostato e macinato con la mola ruotante, con aggiunta di sale, le Vestali
preparavano una polvere rituale (la MOLA SALSA) con la quale cospargevano la
testa della vittima da sacrificare. Cosa facevano inoltre i Romani con il farro?
Una famosa polenta: la Puls, che era la base della loro alimentazione e
soprattutto la forza dei soldati e dei contadini.
Ancora oggi con questo prezioso ingrediente si prepara il piatto nazionale in Libano, Libia e in quasi tutto il Medio Oriente (Kibbè).
Ma veniamo a noi! Dove si compra il Gran
Farro o Grano Farro? Dai “Civainali” o in qualsiasi negozio di alimentari ben
fornito. Se andiamo in Garfagnana (perché è qui e sull’Amiata che si coltiva)
non è difficile trovarlo ovunque.
Generalmente è pulito, ma è meglio lavarlo
per togliere eventuali impurità. Dopo che è stato lavato, consiglio di tenerlo
in bagno in acqua fredda per circa un’ora. Dopo la scottatura il farro,
comunque, manterrà la sua consistenza gommosa; è molto adatto quindi per
insalate estive in sostituzione di riso e orzo così come nelle minestre di
verdura, e di fagioli. Il farro si presta ad essere usato anche come contorno
per esempio con le carote, con le lenticchie e con i peperoni, cotto magari con
meno liquido di una minestra e con un pò di pancetta.
Come dicevo prima, con il farro si possono
preparare ottime insalate variando con gli ingredienti. Lo potete cuocere, dopo
ammollo in acqua fredda, portandolo lentamente ad ebollizione, salarlo e
raffreddarlo. A questo punto conditelo come una panzanella semplice, con olio,
sale, pepe, pomodoro, cipolla e poco aceto.
Polenta di farro
Se si vuole preparare una minestra di farro, quella che comunemente si mangia in alcune tipiche trattorie toscane, consiglio di cuocere lentamente dei fagioli barlotti (o cannellini o anche lenticchie); preparate poi una base di cipolla, sedano, carote e abbondante rosmarino tritati; cuocete in olio extravergine di oliva per circa 15 minuti, dopodiché aggiungete un ciuffo di salvia, due spicchi di aglio schiacciati e due pomodori passati. Passati 10 minuti aggiungete anche 1/2 di fagioli passati con un po’ della loro acqua di cottura; fate bollire per 20 minuti circa, poi buttate il farro che dovrà cuocere per circa 40-50 minuti. Quasi a fine cottura si aggiunge il resto dei fagioli interi. Si spenge e si lascia riposare la minestra affinché il farro si “gonfi” un po’. La minestra va servita con pepe nero macinato al momento e olio di oliva extravergine toscano. È ottima anche dieci giorni dopo!
Giorni fa passando da Pomarance è venuta a trovarci la signora Vittorina Bibbiani, scrittrice e protagonista dell’ormai famoso libro “IL FORMICAIO” Durante uno scambio di idee intercorso tra di noi, ha manifestato il desiderio di poter pubblicare questo articolo.
A quei tempi i mulini erano tutti ad acqua. Intorno al mio paese ve ne erano quattro: quello delle Valli, quello della Doccia, quello più lontano di Berignone e quello della Bottaccina.
Il nostro era quest’ultimo ed era il più caratteristico.
Ricostruzione del Molino della Bottaccina (disegno di R. Bertoli)
Veramente non era un mulino, ma ben tre mulini scaglionati
lungo il fianco della collina giù giù fino alla valle dell’Arbiaia. Ed ora che
ci penso era una cosa geniale. L’acqua di una piccola sorgente riempiva piano
piano la “gora di cima” (un piccolo bacino che però allora mi pareva
paurosamente grande); ad una ventina di metri più in basso c’era ilm primo
mulino (il Mulino di cima); dopo una trentina di metri la gora la gora ed il
Mulino di mezzo, dopo una cinquantina, la gora ed il Mulino di fondo.
L’acqua utilizzata dal mulino di cima andava a riempire la
gora di mezzo per essere utilizzata dal secondo mulino e da qui finiva nella
“gora di fondo” per il terzo mulino. Così la preziosa acqua non veniva
sciupata ed ogni giorno il mugnaio poteva macinare. I mulini erano tutti
uguali: robusti casotti in pietra di una sola stanza.
Infilata in mezzo alla pesante macina c’era la tramoggia,
grosso imbuto di legno a forma di tronco di piramide quadrangolare, aperto in
cima ed in fondo. Ad una parete c’era il “buratto” un grosso staccio
cilindrico azionato a mano. Sotto il pavimento un antro oscuro in cui cadeva
con forza l’acqua della gora che faceva girare delle grosse pale e queste a
loro volta la macina.
Qualche volta il babbo portava anche me al mulino. Caricata
insieme ai sacchi sulla bardella o sul barroccio, via giù per la strada
scoscesa. Naturalmente ci fermavamo dove c’era l’acqua pronta. Babbo legava la
Brenna ad un albero, scaricava me ed i sacchi e chiamava il mugnaio. Beppino
appariva sulla porta tutto infarinato, scambiavano qualche parola, scaricavano
i sacchi e li rovesciavano nella tramoggia. Poi il mugnaio tirava su una leva e
l’acqua della gora metteva in azione le pale, lo mi spostavo dall’interno all’esterno,
alternando la mia attenzione dalla tramoggia all’antro delle pale. La grossa
macina girava lentamente; io salivo sullo sgabello e mi affacciavo, non senza
un po’ di timore, alla tramoggia. re sulla nostra Rivista alcuni racconti non
inseriti nel suo libro.
Per questo
numero abbiamo scelto il racconto “Il Mulino” che parla appunto del luogo a
Lei noto per la limitata distanza che la separava dal suo Podere.
Nel mezzo di questa si formava come un piccolo vortice ed il grano veniva lentamente succhiato giù e schiacciato sotto la mola per uscire in farina da una bocchetta. Il rumore dell’acqua e della macina, le voci del babbo e del mugnaio che urlavano per farsi intendere, creavano in me un senso di sgomento ed allora uscivo fuori a vedere l’acqua che sbatteva nelle pale e le faceva girare schizzando spumosa sopra le pareti dove tremolavano argentei i capelvenere. Dopo la farina veniva messa nel buratto; il babbo si sedeva sopra uno sgabello, impugnava una manovella e girava girava finché in un bianco spolverio tutta la farina veniva separata dalla crusca e dal semolino. Intanto, nell’attesa, io andavo per i fossi in cerca di fragole o di fiori e poi, col mazzolino in mano, venivo ricaricata insieme ai sacchi sulla Brenna e ritornavamo a casa. Per un mesetto era asicurato “il mangiare” per i cristiani ed “il mangime” per le bestie.
CNel descrivere le ultime fasi della raccolta di questo
prezioso cereale abbiamo cercato di ricostruire, più fedelmente possibile, i
vari momenti, riportando, in alcuni casi, la terminologia, così riccamente
espressiva, regalataci dalle persone intervistate.
Tra gli innumerevoli lavori agricoli la mietitura è
rimasta nella memoria degli anziani contadini come uno dei più faticosi. Si
faceva all’inizio dell’estate quando le notti sono corte ed i giorni, al
contrario, interminabili, poche ore di sonno ed il resto a cuocersi nei campi,
“da sole a sole” accompagnati dal verso chiassoso delle cicale e dal canto intermittente
e monotono del cuculo.
Ogni mietitore usava la sua falce che, fino agli inizi del
nostro secolo, aveva la lama dentata e portava, appeso alla cintura, un corno
di bue con dentro, immersa nell’acqua, la pietra per arrotare.
Nel campo ci si disponeva a “passate” (solchi appositamente
preparati al momento della semina) e solitamente ci si organizzava a gruppi di
tre persone. Chi prendeva la passata centrale era chiamato “fendarello” poiché
iniziava a mietere
per primo e creava spazio per fare “la filata dei balzi”. Gli altri due, oltre
che a mietere la loro passata, pensavano a preparare la “vetta” per legare il
balzo con una manciata di grano divisa in due parti ed annodata dalla parte
della spiga.
Una volta finito un campo, si “rimetteva il grano”: prima
si formavano i “covoni” ammucchiando i balzi e disponendoli in cerchio fino ad
ottenere una corona; successivamente si “abbarcavano” al centro, costruendo
il “montino”. Infine si caricava il grano sui carri e si trasportava sull’aia
dove si innalzava la “barca” in attesa della trebbiatura. Prima di trebbiare
però occorreva preparare l’aia: con le zappe arrotate si toglieva l’erba e si
“vaccinava” il suolo con lo sterco di vacca, poi si innaffiava e si
consolidava con la “pula” dell’anno precedente; il calore del sole seccava la
superficie e la rendeva compatta.
Nella foto Giuseppe Anichini
Sino alla fine del secolo scorso e, nelle zone
difficilmente accessibili, anche successivamente, il sistema più diffuso per
trebbiare il grano era la battitura: si “rizzavano” i balzi sull’aia e si
battevano con una pertica, quindi con le forche di legno
mente diffusa la mezzadria, il raccolto non andava che in minima parte a riempire il granaio del contadino. Si cominciava col togliere il grano per seme, che conservava il padrone, quel che restava veniva diviso a metà. Ogni raccolto permetteva al contadino di “rimettere il grano per il pane di una mezzannata”, il resto lo doveva comprare alla fattoria vanificando così i già esigui guadagni ricavati dalla vendita del bestiame. Il fattore inoltre pretendeva “il piatto dei galletti per l’aia”, a risarcimento del grano rimasto per terra che il contadino spazzava e raccoglieva accuratamente.
Laura e Silvano
Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.
La Storia Continua
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