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Descrizione, notizie ed eventi sul borgo di Pomarance.

“COME ERAVAMO”

RICORDI E IMMAGINI D’ALTRI TEMPI

TEATRO DEI CORAGGIOSI ANNO 1930 circa OPERETTA L’ACQUA CHETA fra gli interpreti Giulia Funaioli, Cesare Falcini, Socrate Righi, Luisa Baldini, Argante Casanovi, Giovannina Mazzinghi, il farmacista Quadri, Dona­tello Fontanelli, Miro Bruscoli, Bartolo Bartoli ed il Maestro Sestini.

Non c’era ancora il cinema nè tantomeno la televisione, le feste da ballo erano rare. In quel tempo l’operetta impera­va ed il suo fascino arrivò fino da noi. Direi che fu proprio questo mondo e quello della commedia musicale ad inte­ressare maggiormente i nostri nonni. Si facevano anni di prove sia per il gusto di stare insieme ma anche con lo scopo di fare un buono spettacolo che sarebbe stato motivo di conversazione nelle lunghe veglie invernali sul canto del fuoco o sotto i freschi nei lunghi pomeriggi d’estate.

L’Acqua Cheta, mi ha raccontato il Falcini, fu l’unica vera operetta da noi rappresentata, fu quella che ebbe maggior

successo, fu rappresentata tre volte a Pomarance ed una volta anche a Saline di Volterra.

Mentre parla gli si illuminano gli occhi, sta rivivendo sensazioni ed emozioni che appartengono ad un mondo lontano. Il Principe dice ci mise a disposizione per quattro prove generali l’orchestra del Teatro di Larderello ed a fine rappre­sentazione ci regalò per riconoscenza il pianoforte. Si è proprio quello della Filodrammatica che si trova nel Teatro dei Coraggiosi.

Come era bravo il Quadri!! Che bella voce aveva Luisa ed ero anch’io un bravo tenore.

Mi ricordo che Giulia cadde nel ballo delle rificolone. Che applausi! la gente voleva il bis.

Guarda la fotografia, fa un lungo sospiro.

Sono morti tutti dice.

□ Il servizio una volta al giorno andava da Volterra a Massa Marittima, successivamente fu messa la “Postale” anche per Pisa e Firenze.

Mi ricordo che per arrivare a Firenze si partiva la mattina alle 5 e si arrivava alle 10.

Alla sera quando alle 8 arrivavano i due “Postali” vi era sempre un gruppetto di gente davanti la posta in Piazza De Lardarel ad aspettarli. Mi ricordo Emogene sempre con la panierina portava il mangiare ad Amleto che ritornava a casa solo il sabato.

Amleto era il fattorino, ricordo anche Aldo il Baldini, il Busoni e Cassiano.

Le macchine erano in pochissimi a possederle, si contavano sulle dita, e la gente viaggiava quasi tutta in “Postale” e quel momento dell’arrivo era un attimo importante la gente si baciava, si salutava, aveva il piacere di ritrovarsi. Si scaricavano i bagagli che spesso erano legati sul tetto. Dopodiché si vedevano gruppetti di gente che parlando animatamente si dirigevano alle proprie case grati al Postale che aveva ancora una volta ricondotto a casa un affetto.

1919 – Linea Volterra-Massa M.ma FIAT 18 B2, a gomme piene.
Nella fotografia: Biondi Jolanda, Cerboneschi Maggi Lina, Falcini Cesare, Tonelli Piero, Coppini Seraflna, Pineschi Carla, Tani Primo, fat­torino della “Postale”, Caporioni Dino, Grandi Edoardo, Bacci Cesare, Landi Ernesta.

Mario Fiossi

C’ERA UNA VOLTA: “I Veglioni”

□ Era da pochi anni finita la guerra. Soldi ne giravano pochi e di conseguenza pochi erano i divertimenti, la gente faceva a meno di tutto impe­gnata com’era nella dura battaglia della vita, ma… “Anche quest’anno a Carnevale al Teatro dei Coraggiosi faranno tre Veglioni”.

Non tutti potevano permettersi di parteciparvi, era già un lusso poter andare ad uno. Nelle famiglie più modeste dove c’erano ragazze da marito si cominciava a fare i conti; con tanti sacrifici si sarebbe potuto comprare la stoffa e cucire un vestito da sera.

Si forse uno era possibile. Non si poteva certo andare a tutti e tre perché era usanza cambiarsi di abito ad ogni festa.

Questo forse era il problema più grosso, ma anche prenotare un palco non era impresa facile. Il primo ed il secondo ordine erano padronali; il terzo ordine “la Piccionaia” veniva affittato. Bisognava fare una lunga coda davanti alla “Bottega di Settimo” che al mattino, quando alle otto andava ad aprire il suo negozio, trovava sempre un folto gruppo di giovanottelli che a pagamento facevano la fila fin dalla sera prima per prendere in affitto “il Palco”. Non a tutti toccava ed i meno fortunati dovevano accontentarsi si andare davanti al teatro a veder entrare la gente e poter ammirare, anche di sfuggita, i vestiti delle ragazze che ne parlavano già da mesi. Anche per l’abito da sera esisteva quasi un rito: si andava a comperare la stoffa anche fuori Pomarance, non si doveva dire il colore, la sarta che lo cuciva non doveva farne parola con nessuno, le aiutanti erano diffidate a parlarne. Doveva essere una sorpresa. Ognuna in cuor suo sperava di essere la più elegante e l’effetto sorpresa doveva contribuire a questo e, perché no, anche a vincere quel premio che a volte veniva messo in palio per la “Miss” più bella.

Arrivava così la sera del ballo.

  1. ero ancora un
    ragazzetto ma mi ricordo abbastanza bene i particolari importanti di quelle
    feste. Noi del loggione si arrivava molto presto, carichi di dolciumi che
    durante la notte si sarebbero mangiati. Non si voleva perdere niente, per noi
    non era soltanto una festa da ballo, ma uno spettacolo pieno di luci e di
    colori, di bei vestiti ed anche di gente importante.

Piano piano i palchi si riempivano, arrivavano più tardi le persone che più contavano, la sala da ballo tutta addobbata di fiori e di festoni rimane­va vuota e chiuso il grande portale di accesso smaltato sotto il “Palchettone”.

Gli occhi di tutti erano concentrati su quel portone; tutto ad un tratto si apriva e dietro vi erano le coppie che avrebbero aperto il ballo. L’orchestra che stava sul palcoscenico intonava un “Valzer” e la prima coppia scioglieva il “nastro di raso bianco” e seguita dalle altre dava inizio a quel lungo valzer, proibito ai ballerini non valenti.

Mi ricordo che la festa cresceva in un turbinio di musica, di coriandoli e stelle filanti; ai piani inferiori si facevano battaglie con i coriandoli, se ne consumavano sacchi, tanto che per due o tre volte si dovevano interrompere le danze per spazzare il pavimento.

La festa dilagava dappertutto, coinvolgeva tutti. Per le scale c’era sempre una grande confusione, i giovanotti e le ragazze si rincorrevano, scherzavano e, perché no, si nascondevano per scambiarsi furtivi baci.

Le storie d’amore che nascevano in quelle serate, qualcuna continuava, altre finivano, ma erano comunque oggetto di conversazione per i mesi che seguivano.

  1. veglione più allegro e
    più bello era senza dubbio quello “Mascherato”; mi ricordo un anno di avervi
    partecipato vestito da “Gatto con gli stiva­li”. Il costume era bellissimo,
    ricercato e curato in tutti i particolari. Lo aveva realizzato “Giorgio”
    diventato poi uno dei più importanti costumisti italiani. I costumi da lui
    realizzati presso la sartoria “Cerratelli” per i film di Zeffirelli
    hanno vinto anche dei premi “Oscar” e
    quell’anno vinse con me il suo primo premio per il miglior costume.

Passarono gli anni ’50 e i veglioni per un periodo non furono più fatti. Altri furono i luoghi d’incontro dei giovani, furono fatte nuove sale da ballo e il cinema fu uno dei passatempi più frequentati dalla gente.

Ma il fascino di quelle serate era cosi intenso che non si tardò a riprendere questa bella abitudine. Ne sono stato anch’io protagonista, ho addob­bato la sala con rose, con mimose, con festoni colorati e lucenti, ho scorazzato anch’io per le scale su per i palchi con amici e amiche. Ho anch’io insieme ad una ragazza sciolto il “nastro bianco di raso”, ho ballato anch’io il lungo valzer ed ho respirato anch’io quell’atmosfera magi­ca che solo il “Teatro” sapeva dare. Da diversi anni il “Teatro dei Coraggiosi” è chiuso in attesa di restauri. Speriamo che il tempo non sia impietoso e che si possa giungere in tempo a salvare questo patrimonio che non è solo importante per la sua architettura, ma è soprattutto importante per il significato che ha avuto per tutta la comunità per tanti anni “Veglioni” a parte.

Pomarance Teatro dei “Coraggiosi” – 1950 (1° veglione)
Nella foto: Bianchi Gerardo, Dei Lunetta, Fignani Valeria, Manghetti Stefano detto “Il Chiorre”.

In estate, appena finita la scuola, andavo per lunghi periodi dai miei nonni.

Abitavano a “Poggiamonti”, lo ricordo come il posto più bello e più felice della mia fanciullezza.

Il giorno scorazzavo sull’aia e nel bosco in cerca di lucertole con i miei cugini e mio zio di poco più grande di me e la sera…………

Al sopraggiungere della sera, terminati i lunghi giochi, ci sedevamo tutti intorno al grande tavolo e tra chiacchere e grande con­fusione consumavamo il modesto pasto che mia nonna “la massaia” ci preparava. E poi a letto. Qui mi assaliva una sorta di malinconia ed una voglia scottante dei miei genitori, non potevo rimanere a letto con i miei cugini e mia nonna allora veniva con il lume a petrolio in mano, mi prendeva in braccio e mi portava nel grande letto, dove mio nonno sorridente mi accoglieva e mi avvolgeva con un grande abbraccio. Mi addormentavo così tra loro sommerso di affetto e di profumo di lavanda. Non era ancora giorno che mi svegliavo, sentivo mio nonno alzarsi, si vestiva.

Dove va?” domandavo.

Zitto, dormi!” rispondeva la nonna “è presto, nonno va a segare”.

Mia nonna era una bella donna, alta e rassicurante, con una mano reggeva il paniere in cui era il cibo che si portava nel campo con l’altra dava mano a me che piccolo piccolo la seguivo, mentre mi raccontava storie di maghi, di principi, di api e di farfalle. Si arrivava nel campo, faceva un grande caldo, tutto era sole e oro; il cielo, l’aria, il grano gli armenti e gli uomini erano immersi in una atmosfera pesante e risplendente che sprizzava giallo; solo la grande quercia dove ci sedevamo per mangiare conserva­va ancora il suo colore reale: verde, un’intenso verde, impenetrabile e fresco.

Si mangiava zuppa con cipolle, pomodori e cetrioli e poco più. Si beveva acqua dal fiasco ricoperto di vimini mentre i buoi poco più là, sempre al fresco, ruminavano il fieno che mio nonno non dimenticava mai. Poi ci si riposava, si dormiva qualche ora, fino a che il sole impietoso non smetteva di scottare, poi si riprendeva il lavoro: i buoi venivano riattaccati alla macchina che segava, mio nonno vi prendeva posto e si ricominciava. Il grano veniva falciato dalla macchina e dietro dietro una moltitudine di persone lo raccoglieva, ne faceva dei “balzi” che ammonticava poi in grandi “Barche”.

E la fatica ?

La fatica era dura, vera, sfibrante, si leggeva sui volti dei contadini rugosi e bruciati, si leggeva nel passo delle donne: sfiancato e lento e si leggeva nella camiciola di lana del nonno, molle e appiccicosa che bucava di grano quando alla sera tornava e mi prendeva in collo per baciarmi.

Mario Rossi

IL PROFUMO DELL’ESTATE

Finita la scuola, cominciava il gran caldo, pochi andavano al mare ed i ragazzi meno fortunati rimanevano in paese.

Nei lunghi pomeriggi assolati gli anziani meriggiavano sotto gli alberi, le donne finite le faccende domestiche si riversavano nelle strade, sugli scalini, nei punti più freschi, a sferruzzare o a pulire verdure e frutta per la marmellata. Noi ragazzi si giocava, sotto gli alberi del parco, sotto i freschi del “giardinello” oppure tra il verde del boschetto della “Villa”.

L’estate scorreva lenta in questo paese pieno di luce, di caldo e di sole.

E la sera? La sera, gli uomini dopo il lavoro uscivano per andare al “Circolo”, noi ragazzi, dopo corse affannate per prendere lucciole, si giocava a “rimpiattarello” mentre le donne con i più piccoli se ne andavano per le vie del paese a cercare refrigerio. Ricordo che tutto profumava di erba e grano falciato, di ginestre sfiorite, di polvere arsa di tigli e di rose.

La vita scorreva lenta, monotona non succedeva mai niente.

Poi all’improvviso: Il Palio!

Fu un’invenzione per sentirsi vivi, per interrompere la monotonia delle vacanze estive, fu l’invenzione che stimolò la fantasia e la creatività, fu l’invenzione che rievocava l’istinto alla competizione così fortemente radicato nelle genti di Toscana. Ricordo che all’inizio era una competizione calcistica tra i rioni del Marzocco e del Centro. Il rione del Marzocco intese subito fin dal primo anno vestire la sua mascotte con il suo capitano con vestiti medioevali, che ricordavano il suo antico passato. Lo ricordo ancora: Paimira e Mario coloratissimi con calzamaglie e giubbetti e la bandiera del Marzocco che apriva il piccolo corteo. Si rimase un po’ tutti allibiti, ci piacque e si decise tacitamente che si sarebbe potuto far meglio.

Nacque un terzo rione, il Paese Novo e la competizione si allargò: si premiava non solo chi vinceva il torneo di calcio, ma si cominciò a premiare soprattutto la contrada che riusciva a fare il migliore corteggio prima, e dopo la migliore sfilata storica. Di quei primi anni ricordo vagamente alcuni episodi e personaggi:

Meri, giovanissima vestita da Lucia, e Michele un Don Abbondio simpatico e scanzonato. Marta, superba Minerva e fierissima Amneris. Ricordo Catuscia con il bellissimo costume della regina Isabella e Alberto bravissimo nella parte di Nerone.

Un quarto rione si costituì, agguerrito e pieno di iniziative il Gelso. Bella la sua Batterflai e riuscitissimi il conte di Cavour e la sua affascinante contessa di Castiglione.

Mentre scrivo si affacciano alla mia mente volti ed episodi di Cleopatra, Antonietta, Napoleone, Giuseppina, Semiramide, Ulisse, Robin Hud, la regina di Saba, il Doge di Venezia, Paolo e Francesca e soprattutto balzano alla mia mente le persone che presta­rono i loro volti a questi personaggi: e vedo Giacomo, Claudia, Mila, Vaschilio, Vanda, Andrea, Paolo, Gabriella, Renata, Franca e tanti tanti altri. Questo gioco ci affascinò tutti, fu interrotta la competizione calcistica e si dette spazio solamente alle sfilate che rievocavano periodi ed episodi storici.

Il gioco nel corso degli anni si affinò, si ingrandì si crearono scenografie dove le comparse recitavano scene di vita passata. Diventò teatro popolare.

Finita la scuola comincia il gran caldo, molti vanno al mare… molti lavorano, inventano, creano, si riuniscono, parlano, discutono. Tutto profuma di erba, di grano falciato, di ginestre sfiorite, di polvere arsa, di tigli, di rose e… di colla, di vernice e di legno.

Scenografia “La processione di S. Giovanni del 1598“ – Contrada Paese Novo, 1988.

Mario Rossi

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

IL GIOCO

UN LUOGO CARO Al POMARANCINI

In via dei Fossi a nord est di Pomaran­ce, dietro la chiesa parrocchiale di S. Gio­vanni Battista, vi è un’area di proprietà co­munale, adibita attualmente a parcheg­gio, che è conosciuta dai pomarancini con il semplice nome di “GIOCO” . Questo appellativo in verità non è del tutto esat­to: il suo vero nome, risultante da alcune piantine catastali del periodo leopoldino (1830), era “GIUOCO del PALLONE” in­dicante che il “calcio” ha un’antichissi­ma tradizione in Pomarance.

Probabilmente giocato dai pomarancini fin dal 1500, è certo che venne praticato sin dalla prima metà del ’700 all’interno del castello di Pomarance prima di esse­re trasferito dietro la chiesa parrocchiale (1780) per le continue lamentele degli abi­tanti della contrada di Petriccio (attuale Piazza de Larderei) a causa dei danni ar­recati alle loro abitazioni da tale gioco. Molto simile al “Calcio fiorentino” , dispu­tato su di un terreno rettangolare tra squa­dre che si contendevano la palla usando mani e piedi, assumeva talvolta partico­lari aspetti di violenza che determinaro­no la volontà delle Magistrature del Co­mune di rimuoversi dalla contrada di Petriccio il giuoco del pallone e della pal­la..’” come da una lettera del Confaloniere Franco Incontri (20 sett. 1779) in cui si invitava il Magistrato a “…destinare al­tro luogo, dove poter esercitarsi in tale giuoco senza disturbo degli abitanti cir­convicini” (1).

In questo periodo vennero proposti all’at­tenzione delle magistrature tre luoghi: “…in primo luogo il posto dietro i fossi, (attuale via dei Fossi) ove levandosi a spe­se comunitative li scarichi che vi sono, e togliendosi le piante dei gelsi che siano di impedimento, può ridursi luogo atto e capace per il giuoco………. in secondo luo­

go il campo del Treppiede di proprietà del Sig. Can. e Andrea Falchi             in terzo luo­

go la Cella di proprietà della Chiesa Arcipretale              ” .

Nello stesso periodo venne indicato an­che un altro posto detto “Campo al Zol­fo” di proprietà della Compagnia di S. Gio distante da Pomarance circa un tiro di schioppo. (2)

La scelta ricadde sul luogo dietro i fossi che era anche stato destinato da S. A.R. per la realizzazione del nuovo cimitero in seguito costruito presso la cappella di S. Rocco nel 1789 (attuale Parco della Ri­membranza). Questa area fu ben accet­ta dai giocatori stessi come rilevasi da una deliberazione del 1779 in cui: “sen­tito che i giocatori desideravano il posto dietro i fossi fu proposto, di quello desti­narsi, per non aver altro luogo in propo­sito…” (3).

L’inizio dei lavori avvenne attorno al 1780 dopo la redazione di un chirografo da va­lere come contratto tra il Sig. Franco di Pietro Guglielmo Biondi ed il Comune per la cessione di alcuni mori (gelsi) da ab­battere per fare lo “spiano” del campo da gioco in cui il Biondi si obbligò con l’in­dennizzo di lire 154 a: “…non molestare ulteriormente…detta comunità…” per qualunque ulteriore spesa che poteva ve­rificarsi in futuro (4).

Fu costruita così anche la scala presso il vicolo del Muraccio per agevolare il pas­saggio dei giocatori dal Castello a que­sto luogo.

All’inizio questo sito fu ritenuto, dagli uo­mini di comune, adatto e abbastanza tran­quillo per lo svolgimento di questo gioco, ma ben presto anche qui insorsero degli inconvenienti. Infatti nel settembre del 1780 vennero stanziate dal Comune: “…lire trenta ai giocatori del pallone per riparare la vetrata del Coro della Chiesa
Arcipretale soggeta a rompersi stante il giuoco di detto pallone costruito dietro il medesimo….”
(5).

Anche attorno al 1801 questi inconvenien­ti non cessarono; in questo periodo risul­tarono altre lagnanze rivolte alle magistra­ture del comune da parte di cittadini che avevano le loro abitazioni nei pressi del “Gioco del Pallone” come ad esempio i figli del Sig. Giovanni Buroni che “…si tro­vavano minacciati dai giocatori che non vedendosi rendere i palloni dalla loro ma­dre, spesso iniziavano la scalata del mu­ro…. ingiuriando la detta madre con pa­role offensive….e facendogli dei danni nei beni stabili come forzare la porta della ca­sa con percosse e legni     ” (6).

Dai primi del ’900 fino al dopoguerra l’a­rea del “Gioco” fu pure utilizzata dai gio­vani pomarancini come luogo di ritrovo per i loro giochi e divertimenti. Secondo il racconto dei più anziani era lì che si gio­cava al tamburello, alle bocce, alle biglie di terracotta ed anche alla “trottola” di cui si ricordano ancora abili giocatori che scalzi ed in pantaloni corti davano prova di abilità nel far girare più velocemente le trottole generalmente costruite dai lo­cali falegnami Bonucci (detti Falugi) e Pi­ni, i quali le tornivano con grande mae­stria.

Il “Gioco” fu riutilizzato per il calcio nel 1927 quando il figlio dell’avvocato Coutret (detto il Signorino) acquistò a sue spe­se delle magliette color amaranto e costi­tuì la prima squadra di Pomarance forma­ta da giovani pomarancini come Mario Pi­ni e Vittorio Baldini detto l’Abbaia.

Qui si disputarono partite amichevoli e non fino al 1935 anno in cui il “Gioco” lasciò il suo posto di campo ufficiale al sottostante “Piazone delle Fiere” ; ed è lì che la squadra del Pomarance ha gio­cato fino agli ultimi anni del 1960 per pas­sare poi in una delle più belle strutture sportive della Val di Cecina: lo Stadio Co­munale.

Spinelli Jader

NOTE BIBLIOGRAFICHE

  1. Archivio Storico Comunale Pomaran­ce, F. 210, c. 158 r. e v.
  2. A. S. C. P„ F. 126, c. 12 r.
  3. Ibidem, c. 23 r.
  4. A. S. C. P„ F. 35
  5. Comunità di Pomarance anno IV n° 1, 1971, Rievocazioni Storiche E. Mazzinghi. A. S. C. P„ F. 715, c. 1227 r.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

IL PALIO DI POMARANCE 1993

UN VIZIO DEI POMARANCINI

E anche quest’anno il Palio è stato fatto: sia per quelli che ancora continua­no a crederci sia per chi ormai non ci crede più. Le quattro contrade infatti sono ancora una volta scese in piazza ed hanno dato quanto per loro è stato il massimo dare, anche se in altri anni hanno esplicato in maniera più elevata la loro potenzialità.

Il CENTRO con il tema “Sognando”, ha creato uno spettacolo che ci aiuta a dare ancora una volta importanza alle favole ed ai sogni. Sul loro palco infatti hanno preso anima i personaggi del grande Disney, simboli di sogni e di fantasie.

Il PAESE NOVO, con “La terra del vicino è sempre più grassa” ha saputo fondere un classico comportamento umano, qua­le quello espresso nel proverbio, con una grande tradizione della nostra zona: l’alabastro.

Il GELSO, con “Anni Coraggiosi”, ha fatto rivivere a tutti noi anni di storia moderna, ma non una storia qualunque, ma la nostra storia e quella del nostro teatro, accompagnata da musica, balli e arte.

Infine il MARZOCCO con la “Bilancia della vita” con la quale ha voluto soppe­sare fantasia e realtà nelle azioni umane ed in particolar modo nelle azioni di Don Chisciotte della Mancia.

Anche quest’anno il Palio, eseguito con grande carisma e personalità artistica dalla Signora Emma Biondi della Stri­scia. è stato assegnato alla contrada del PAESE NOVO.

E nonostante le polemiche il Palio è ancora vivo; cosa lo dimostra? La vita tra le righe di un articolo di una nostra contradaiola, che quest’anno non ha neppu­re vinto, ma comunque sia sente vivo dentro di se il battito del Palio:

“Nessuno può negare di essere in qual­che modo legato alla propria terra d’ori­gine, poiché è un legame troppo forte, direi quasi animale, che radica l’indivi­duo alla sua sfera naturale. E tanto più se questa parte di terra ha una bandiera, un colore, un simbolo e un’anima riona­le. Impossibile rinunciare a tutto ciò !!! Ebbene si, potremmo definire il Palio come un vizio, uno dei peggiori vizi a cui un individuo quando si è attaccato non può più rinunciare: per la sua carica emotiva e coinvolgente, per le sensazio­ni che provoca, per le delusioni e per i momenti di follia che riesce a dare.

Il Palio è cibo di competizione che si condensa in teatro, costituito da una prassi regolare che scandisce il tempo dell’anno nell’attesa di un nuovo Palio. Maggio: “l’idea deve essere partorita. Sarà valida? Ma gli altri chi sa cosa faranno? Ne siamo certi : quest’anno vin­ceremo!”

Giugno: “Su forza, i primi preparativi: i progetti, il copione, le musiche.” Luglio: “Firenze, stoffe, colori, velluti, damaschi, pietre.”

Agosto: prove, prove, prove.

Settembre: “E gli altri? Dai vinceremo! Il progetto, le stoffe, le pietre, le prove, le musiche.” Gli uomini martellano, le don­ne cuciono e ricamano ed i ragazzini?

I ragazzini si insultano e fanno pronosti­chi sulla vittoria.

Le strade si vestono di colori e nell’aria non si respira altro che competizione e amore, un amore per il propio simbolo, insomma, in poche parole, odore di Palio. I° Domenica di settembre: le campane della chiesa suonano “a festa” ed i capi­tani da parata vanno all’altare a prende­re la benedizione del parroco di fortuna e felicità per la propia contrada ed in tutti cresce ancora di più l’ansia dell’attesa. Vigilia del Palio: gli animi si accendono, la stanchezza prende il sopravvento, ma …. vinceremo!!!

Seconda Domenica di settembre: E’ il Palio: rullo di tamburi, squillo di chiarine ed il sole del 2000 che batte e rende lucente lo splendido velluto dei vestiti medioevali, quasi a farci ricordare quan­to la nostra cultura affondi le sue origini
in quella che una volta fu la misteriosa e rude Toscana medioevale.

Centro, Paese Novo, Gelso, Marzocco. Marzocco, Centro, Paese Novo, Gelso. Gelso, Marzocco, Centro, Paese Novo     

Tra musiche, applausi, colpi di scena e attese i palcoscenici si chiudono ed ora la vera attesa: il verdetto.

La sera il piazzone brulica di gente. Arriva il sindaco, è adrenalina, è adrena­lina pura quella che prende il volo dai corpi di tutti quegli individui che sono li, che tremano, piangono e amano    ”11

Palio mille e novecento……. “ ma come

sappiamo “3 contrade perdono e una vince e sono più quelle che perdono che quelle che vincono”. Quindi i vincitori esultano e i perdenti affermano: “Ce l’hanno rubato”.

Ma ciò che ha vinto è stato il teatro, l’arte e l’amore per la propria bandiera e alla faccia di chi odia il nostro Palio e le nostre bandiere “per forza o per amore lo dovete rispettò!!”

“Presto è maggio, un nuovo Palio ci aspetta, un’altra idea deve essere parto­rita         e poi giugno e poi luglio e poi e

poi e poi…”.

Rione Centro: “Sognando “.
Rione Paese Novo: “L’erba del vicino è sempre più grassa”.
Rione Gelso: “Anni… coraggiosi”
Rione Marzocco: ‘La bilancia della vita”

Una Contradaiola

Come di consuetudine porgiamo i nostri più sinceri auguri di Buon Natale e Buone feste, da parte del Comitato di redazione, a tutti i lettori, agli inserzioni­sti, agli amministratori pubblici e a tutti coloro che fanno vivere e continuare questa pubblicazione, fiore all’occhiello di Pomarance.

È stata veramente una faticata riuscire a coordinare il lavoro editoriale dal mese di Giugno a Ottobre e stampare i 4 nu­meri; per questo, siamo ancor più grati­ficati in barba a chi, o a coloro, che credevano di ostacolarci nell’impresa. Non abbiamo certamente lavorato nelle migliori condizioni, visti i tempi ristretti, per reperire i testi e consegnarli in tipografia; per questo va un mio ringra­ziamento ai collaboratori della rivista che si sono dati da fare per consegnarci in tempi utili i loro elaborati.

Siamo comunque soddisfatti per aver mantenuto fede agli impegni che ci era­vamo assunti, come consiglieri della Associazione “Pro Pomarance”, di con­tinuare questa rivista che è sempre più apprezzata dai nuovi lettori.

Sicuramente non ci saremmo riusciti se oltre a tante chiacchiere e prosopopee, non ci fossero state al nostro interno persone disponibili e responsabili che si sono impegnate più di altre a far conti­nuare questa rivista come i fratelli Tifoni ed il Bongi. Ma un saluto particolare è doveroso a colui che volle anni fa la rinascita di questa rivista, che mi è sem­pre stato vicino per utili consigli e sem­pre pronto a incoraggiarmi nei momenti più difficili.

Saremo di nuovo in edicola anche il prossimo anno continuando l’inserto del Sillabario, foglio di Poesia e Letteratura, che sta riscontrando consensi notevoli tra i nostri lettori.

Ma…, lasciamo spazio ai nostri collabo­ratori; e….buona lettura!

Il Direttore Responsabile deleg.J. Spinelli

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

ANDAR PER FARRO

UNA RICETTA A CURA DI CRISTINA BLASI INSEGNANTE ALLA SCUOLA “CORDON BLEU” DI FIRENZE.

Vorrei parlare questa volta di un ingre­diente molto poco conosciuto, ma molto adatto a preparare piatti invernali, zuppe e, perché no, anche gustosissime insa­late estive: il Farro.

Questo cereale smarrito nei secoli è il ca­postipite di tutti i frumenti ed è stato per oltre 2000 anni l’alimento principale di in­tere popolazioni mediterranee e asiatiche. Riscoperto in Alta Savoia per zuppe di verdura e di leguminose è oggi diffuso in tutta la Toscana (soprattutto in Garfagnana) e un po’ conosciuto in tutta l’Italia. La sua riscoperta non è dovuta soltanto al rinnovato interesse per le vecchie tra­dizioni. Si può dire, scherzando, infatti che la popolazione garfagnina è cono­sciuta come la più sessualmente longe­va d’Italia (senza dimostrazione scienti­fica, sia chiaro!), popolazione che ha sem­pre fatto grande consumo di questo ce­reale.

A parte gli scherzi, il farro ha anche pro­prietà nutrizionali abbastanza importan­ti; è infatti ricco di vitamine, sali minerali, proteine (svolge quindi azione ricostituen­te). Come cereale povero comunque è im­portante perché contiene acido litico il quale, secondo studiosi, inibisce certe os­sidazioni dei grassi coinvolte nello svilup­po del cancro del colon.

Il farro, far latino, è una varietà di grano (TRITICUM DICOCCUM) ed appartiene alla famiglia delle graminacee. È facile trovare sul mercato il farricello o spelta con il nome di “gran farro”, il quale in cot­tura non ha la stessa resa del farro: il ve­ro farro non si impasta dopo la cottura, ma mantiene l’anima leggermente dura. Il farro è stato fin dal V secolo A.C. l’uni­co grano dei Romani a differenza dei Gre­ci noti consumatori di orzo.

Dal farro deriva la parola farina; dal farro prende il nome il più antico matrimonio rituale, la CONARRATIO, durante il qua­le gli sposi offrivano a Giove una focac­cia di farro.

Il farro era quindi tenuto molto in consi­derazione dai Romani; lo dimostra il fat­to che veniva dato sotto forma di ricom­pensa ai soldati vittoriosi. Ancora con i chicchi di farro tostato e macinato con la mola ruotante, con aggiunta di sale, le Ve­stali preparavano una polvere rituale (la MOLA SALSA) con la quale cospargeva­no la testa della vittima da sacrificare. Cosa facevano inoltre i Romani con il far­ro? Una famosa polenta: la Puls, che era la base della loro alimentazione e soprat­tutto la forza dei soldati e dei contadini.

Ancora oggi con questo prezioso ingre­diente si prepara il piatto nazionale in Libano, Libia e in quasi tutto il Medio Orien­te (Kibbè).

Ma veniamo a noi! Dove si compra il Gran Farro o Grano Farro? Dai “Civainali” o in qualsiasi negozio di alimentari ben forni­to. Se andiamo in Garfagnana (perché è qui e sull’Amiata che si coltiva) non è dif­ficile trovarlo ovunque.

Generalmente è pulito, ma è meglio la­varlo per togliere eventuali impurità. Do­po che è stato lavato, consiglio di tenerlo in bagno in acqua fredda per circa un’o­ra. Dopo la scottatura il farro, comunque, manterrà la sua consistenza gommosa; è molto adatto quindi per insalate estive in sostituzione di riso e orzo così come nelle minestre di verdura, e di fagioli. Il farro si presta ad essere usato anche co­me contorno per esempio con le carote, con le lenticchie e con i peperoni, cotto magari con meno liquido di una minestra e con un pò di pancetta.

Come dicevo prima, con il farro si posso­no preparare ottime insalate variando con gli ingredienti. Lo potete cuocere, dopo ammollo in acqua fredda, portandolo len­tamente ad ebollizione, salarlo e raffred­darlo. A questo punto conditelo come una panzanella semplice, con olio, sale, pe­pe, pomodoro, cipolla e poco aceto.

Polenta di farro

Se si vuole preparare una minestra di far­ro, quella che comunemente si mangia in alcune tipiche trattorie toscane, consiglio di cuocere lentamente dei fagioli barlotti (o cannellini o anche lenticchie); prepara­te poi una base di cipolla, sedano, carote e abbondante rosmarino tritati; cuocete in olio extravergine di oliva per circa 15 mi­nuti, dopodiché aggiungete un ciuffo di salvia, due spicchi di aglio schiacciati e due pomodori passati. Passati 10 minuti aggiungete anche 1/2 di fagioli passati con un po’ della loro acqua di cottura; fate bol­lire per 20 minuti circa, poi buttate il farro che dovrà cuocere per circa 40-50 minuti. Quasi a fine cottura si aggiunge il resto dei fagioli interi. Si spenge e si lascia riposa­re la minestra affinché il farro si “gonfi” un po’. La minestra va servita con pepe nero macinato al momento e olio di oliva extra­vergine toscano. È ottima anche dieci gior­ni dopo!

Cristina Blasi

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

IL MOLINO

Giorni fa passando da Pomarance è ve­nuta a trovarci la signora Vittorina Bibbiani, scrittrice e protagonista dell’ormai fa­moso libro “IL FORMICAIO” Durante uno scambio di idee intercorso tra di noi, ha manifestato il desiderio di poter pubblicare questo articolo.

A quei tempi i mulini erano tutti ad ac­qua. Intorno al mio paese ve ne erano quattro: quello delle Valli, quello della Doccia, quello più lontano di Berignone e quello della Bottaccina.

Il nostro era quest’ultimo ed era il più ca­ratteristico.

Ricostruzione del Molino della Bottaccina (disegno di R. Bertoli)

Veramente non era un mulino, ma ben tre mulini scaglionati lungo il fianco della col­lina giù giù fino alla valle dell’Arbiaia. Ed ora che ci penso era una cosa geniale. L’acqua di una piccola sorgente riempi­va piano piano la “gora di cima” (un pic­colo bacino che però allora mi pareva paurosamente grande); ad una ventina di metri più in basso c’era ilm primo mulino (il Mulino di cima); dopo una trentina di metri la gora la gora ed il Mulino di mez­zo, dopo una cinquantina, la gora ed il Mulino di fondo.

L’acqua utilizzata dal mulino di cima an­dava a riempire la gora di mezzo per es­sere utilizzata dal secondo mulino e da qui finiva nella “gora di fondo” per il ter­zo mulino. Così la preziosa acqua non ve­niva sciupata ed ogni giorno il mugnaio poteva macinare. I mulini erano tutti uguali: robusti casotti in pietra di una so­la stanza.

Infilata in mezzo alla pesante macina c’e­ra la tramoggia, grosso imbuto di legno a forma di tronco di piramide quadrango­lare, aperto in cima ed in fondo. Ad una parete c’era il “buratto” un grosso stac­cio cilindrico azionato a mano. Sotto il pa­vimento un antro oscuro in cui cadeva con forza l’acqua della gora che faceva girare delle grosse pale e queste a loro volta la macina.

Qualche volta il babbo portava anche me al mulino. Caricata insieme ai sacchi sulla bardella o sul barroccio, via giù per la strada scoscesa. Naturalmente ci ferma­vamo dove c’era l’acqua pronta. Babbo legava la Brenna ad un albero, scarica­va me ed i sacchi e chiamava il mugnaio. Beppino appariva sulla porta tutto infari­nato, scambiavano qualche parola, sca­ricavano i sacchi e li rovesciavano nella tramoggia. Poi il mugnaio tirava su una leva e l’acqua della gora metteva in azio­ne le pale, lo mi spostavo dall’interno al­l’esterno, alternando la mia attenzione dalla tramoggia all’antro delle pale. La grossa macina girava lentamente; io sa­livo sullo sgabello e mi affacciavo, non senza un po’ di timore, alla tramoggia. re sulla nostra Rivista alcuni racconti non inseriti nel suo libro.

Per questo numero abbiamo scelto il rac­conto “Il Mulino” che parla appunto del luogo a Lei noto per la limitata distanza che la separava dal suo Podere.

Nel mezzo di questa si formava come un piccolo vortice ed il grano veniva lenta­mente succhiato giù e schiacciato sotto la mola per uscire in farina da una boc­chetta. Il rumore dell’acqua e della maci­na, le voci del babbo e del mugnaio che urlavano per farsi intendere, creavano in me un senso di sgomento ed allora usci­vo fuori a vedere l’acqua che sbatteva nelle pale e le faceva girare schizzando spumosa sopra le pareti dove tremolava­no argentei i capelvenere. Dopo la farina veniva messa nel buratto; il babbo si se­deva sopra uno sgabello, impugnava una manovella e girava girava finché in un bianco spolverio tutta la farina veniva se­parata dalla crusca e dal semolino. Intan­to, nell’attesa, io andavo per i fossi in cer­ca di fragole o di fiori e poi, col mazzoli­no in mano, venivo ricaricata insieme ai sacchi sulla Brenna e ritornavamo a ca­sa. Per un mesetto era asicurato “il man­giare” per i cristiani ed “il mangime” per le bestie.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

IL GRANO

CNel descrivere le ultime fasi della rac­colta di questo prezioso cereale abbiamo cercato di ricostruire, più fedelmente pos­sibile, i vari momenti, riportando, in alcu­ni casi, la terminologia, così riccamente espressiva, regalataci dalle persone inter­vistate.

Tra gli innumerevoli lavori agricoli la mie­titura è rimasta nella memoria degli an­ziani contadini come uno dei più faticosi. Si faceva all’inizio dell’estate quando le notti sono corte ed i giorni, al contrario, interminabili, poche ore di sonno ed il re­sto a cuocersi nei campi, “da sole a so­le” accompagnati dal verso chiassoso delle cicale e dal canto intermittente e mo­notono del cuculo.

Ogni mietitore usava la sua falce che, fi­no agli inizi del nostro secolo, aveva la la­ma dentata e portava, appeso alla cintu­ra, un corno di bue con dentro, immersa nell’acqua, la pietra per arrotare.

Nel campo ci si disponeva a “passate” (solchi appositamente preparati al mo­mento della semina) e solitamente ci si organizzava a gruppi di tre persone. Chi prendeva la passata centrale era chiama­to “fendarello” poiché iniziava a mietere
per primo e creava spazio per fare “la fi­lata dei balzi”. Gli altri due, oltre che a mietere la loro passata, pensavano a pre­parare la “vetta” per legare il balzo con una manciata di grano divisa in due parti ed annodata dalla parte della spiga.

Una volta finito un campo, si “rimetteva il grano”: prima si formavano i “covoni” ammucchiando i balzi e disponendoli in cerchio fino ad ottenere una corona; suc­cessivamente si “abbarcavano” al cen­tro, costruendo il “montino”. Infine si ca­ricava il grano sui carri e si trasportava sull’aia dove si innalzava la “barca” in at­tesa della trebbiatura. Prima di trebbiare però occorreva preparare l’aia: con le zappe arrotate si toglieva l’erba e si “vac­cinava” il suolo con lo sterco di vacca, poi si innaffiava e si consolidava con la “pu­la” dell’anno precedente; il calore del sole seccava la superficie e la rendeva com­patta.

Nella foto Giuseppe Anichini

Sino alla fine del secolo scorso e, nelle zone difficilmente accessibili, anche suc­cessivamente, il sistema più diffuso per trebbiare il grano era la battitura: si “riz­zavano” i balzi sull’aia e si battevano con una pertica, quindi con le forche di legno

mente diffusa la mezzadria, il raccolto non andava che in minima parte a riem­pire il granaio del contadino. Si comincia­va col togliere il grano per seme, che con­servava il padrone, quel che restava ve­niva diviso a metà. Ogni raccolto permet­teva al contadino di “rimettere il grano per il pane di una mezzannata”, il resto lo do­veva comprare alla fattoria vanificando così i già esigui guadagni ricavati dalla vendita del bestiame. Il fattore inoltre pre­tendeva “il piatto dei galletti per l’aia”, a risarcimento del grano rimasto per terra che il contadino spazzava e raccoglieva accuratamente.

Laura e Silvano

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE A POMARANCE (I PARTE)

Il presente articolo è tratto dal lavoro svolto dagli studenti Rodolfo BERTOLI, Alberto BOCELLI, Massimo DELL’AIU­TO, Benedetto ROVENTINI, per sostene­re l’esame di Restauro dei Monumenti, corso del Prof. ROCCHI (Assistente Arch. NEGRI) alla facoltà di Architettura dell’Università di Firenze.

I disegni qui riprodotti sono stati riela­borati o fatti appositamente per il presente articolo allo scopo di una più facile com­prensione anche per il lettore meno com­petente da Rodolfo BERTOLI.

INTRODUZIONE

Il fabbricato delle “Peschiere”, è col­locato nelle vicinanze della cittadina di Pomarance, nella zona a Sud della pro­vincia di Pisa compresa nell’area delle “Colline Metallifere” e caratterizzata dalla presenza dei “Soffioni” di Larderello (emanazioni di vapore acqueo ad alta temperatura a pressione naturale o pro­vocate mediante trivellazioni contenenti discrete quantità di sali boraciferi).

Il teritorio di Pomarance è interessato da una fitta rete di corsi di acqua ed è ricco di fonti naturali di acqua potabile, geolo­gicamente è caratterizzato da formazio­ni marine del pliocene inferiore-medio con presenza di calcari detritico-organogeni, arenarie e sabbie con fossili marini. Pomarance è situata in una zona della To­scana particolarmente decentrata rispetto ai centri maggiori, lungo la Strada Stata­le n° 439 ’Sarzanese-Val d’Era’. Le “Pe­schiere” sono raggiungibili percorrendo tale strada in direzione Nord-Sud e supe­rato il centro abitato, prendendo il bivio a destra posto al Km 115,1. Percorso un breve tratto di strada sterrata giungiamo al fabbricato interessato, facilmente rico­noscibile dalla presenza di quattro vasche alimentate da una sorgente naturale di acqua potabile.

“LE PESCHIERE”: prospettiva

Il decentramento dai centri urbani più im­portanti ha causato per Pomarance, da sempre, una certa forma di autonomia economica e politica nella gestione del proprio territorio comunale e la formazio­ne di attività produttive tali da rendere il comune indipendente.

La somma di diversi fattori quali la viabi­lità, la presenza di acqua, la particolare situazione politico economica creatisi nel­la prima metà del secolo scorso e la vici­nanza di vaste aree boschive, permisero il sorgere di una conceria alle “Pe­schiere”.

ANALISI STORICA

La concia alle “Peschiere” in Poma­rance nasce su di un vecchio manufatto rurale nella prima metà del secolo pas­sato. La situazione politica, sociale ed economica di quel tempo era quella tipi­ca del dopo Napoleone.

L’Europa unita sotto l’impero Napoleoni­co si vedeva nuovamente divisa dopo il Congresso di Vienna del 1814 secondo il principio della “Legittimità”. Tale prin­cipio proposto dal principe Talleyrand del­la Francia Borbonica indicava una possi­bile suddivisione del vecchio Continente secondo l’ordine che aveva prima della Rivoluzione Francese, richiamando sui troni perduti i vecchi sovrani e restauran­do i vecchi confini.

L’Italia del 1815 dopo la Restaurazione si vedeva così nuovamente suddivisa se­condo il principio di legittimità nel Regno di Sardegna, il Regno Lombardo Vene­to, il Granducato di Toscana ed altri.

Il Granducato di Toscana fu reso ai Lore­na (e per essi a Ferdinando lll° fratello dell’imperatore d’Austria).

“Il Granducato di Toscana potè così go­dere per lunghi anni di un governo mite
Riesumato il vecchio codice leopoldino che però venne aggiornato, fu dedicata particolare attenzione all’agricoltura che aveva la sua forza nell’istituto della mez­zadria, vale a dire il contratto stabilito tra il proprietario di un podere ed il contadi­no che lo lavora, mediante il quale al mo­mento del raccolto i frutti venivano divisi a metà. La mezzadria rappresentava nella prima metà dell’800 un tipo di rapporto particolarmente civile tra proprietario e contadino”….“venne ripresa la tradizio­nale opera di bonifica nelle Maremme e nella Val di Chiana”.(1) Perciò “la Tosca­na rimane l’oasi del liberalismo economico-commerciale in un’Italia fer­reamente protezionistica o proibizionista vi si filano e tessono la seta, la lana, il lino, la canapa, il cotone. Vi materia prima, la scorza, per il processo si conciano le pelli; vi si fabbricano vetri di conciatura si lavorano metalli; e cristalli, cappelli di feltro e paglia; i mo­bili, le porcellane, la carta.”(2) La felice situazione economica e politica in cui si trovava la Toscana ebbe delle ripercus­sioni sulle economie locali; anche a Po­marance vi furono nuove attività impren­ditoriali.

Già dal 1777 ci si rende conto della enor­me ricchezza racchiusa nelle viscere del territorio dell’attuale Larderello sotto for­ma di acido borico contenuto nelle ema­nazioni di vapore provenienti dal sotto­suolo. Nessuno però tenterà di sfruttare quei “tristi e fetidi bulicami”(3), quei la­goni di acqua bollente, da cui fuggono spaventati gli uomini e le bestie fino ad arrivare all’anno 1815, quando abbiamo un primo concreto interessamento a sfrut­tare in maniera industriale i “Fumacchi”; infine nel 1818 con l’acquisto da parte di Francesco Larderei del terreno ove sono presenti i “Lagoni” inizia una nuova era che porterà a concentrare in questa zo­na attività uniche al mondo. “Si metterà in moto una macchina che porterà benes­sere alle popolazioni di queste plaghe del­la alte valli del fiume Cecina e ove afflui­ranno anche popolazioni di altri paesi vi­cini”.(4)

Si arriva così al 29 marzo 1843 allorché: “sentita l’istanza prodotta dal Sig. Cam­mino Fantacci con la quale fa conoscere che una di lui fabbrica fatta al di lui po­dere delle Peschiere per uso di concia fu costruita nell’anno 1842 e perciò ai ter­mini della Notificazione della Soprinten­denza alle Comunità del Granducato del 1/7/1843 debbino rimanere esenti da Da­zio fino all’anno 1852”.(5)

Con le condizioni esistenti all’epoca il Sig. Cammillo Fantacci vide la occasione pro­querce, garantivano la reperibilità della

Le Peschiere erano inoltre situate in una zona abbastanza pianeggiante e tramite una fitta rete stradale direttamente colle­gate al centro urbano ed alla “via da Po­marance a S. Dalmazio” che la relazio­nava ai territori comunali.

La felice situazione economica, le favo­revoli condizioni orografiche e geografi­che, la consistenza demografica del co­mune pomarancino relativamente all’epo­ca (“nell’anno 1845 la comunità di Poma­rance, con gli annessi 5759 abitanti”(6) di cui 2119 nel centro) e la presenza del­l’industria boracifera del Larderei permi­sero l’impianto della nuova attività anche in una zona distante da quelle tradizionali per la lavorazione delle pelli.

Il podere delle Peschiere venne amplia­to distinguendo all’interno di esso diver­se zone per la lavorazione della pelle ed una zona destinata alla residenza delle fa­miglie addette alla concia, vedremo me­glio più avanti nell’analisi storico­morfologica il funzionamento specifico delle singole parti in rapporto alla produ­zione.

La restaurazione non accontentò molto la nuova classe emergente dalla rivoluzio­ne, la “Borghesia”. Questa infatti rappre­sentava di fatto il potere economico e non poteva perciò sopportare il peso di una gestione politica monarchica basata su arcaici rapporti con il latifondo. Occorre­va una maggiore elasticità delle leggi e dei confini per permettere un più facile scambio di materie prime o finite.

La situazione era aggravata in Italia, co­me in altre regioni, dalla presenza di so­vrani stranieri che direttamente o indiret­tamente governavano i diversi “Regni” in cui era stata suddivisa la penisola: si preparavano gli anni del Risorgimento. L’attività della concia continua passando il periodo del Risorgimento, le prime guer­re di indipendenza, l’unificazione dell’Ita­lia, l’ultima guerra di indipendenza del 1866 e resiste fino all’avvento della sinistra al governo prima con Depretis, fi­no al 1887, e successivamente con Crispi. La crisi economica provocata dalla politica espansionistica di questo utimo con le sconfitte riportate in Africa sul fini­re del 1895, aggravano lo stato dell’eco­nomia del giovane Regno d’Italia e “Col deterioramento” di essa “anche la con­cia delle pelli che si trova in località le Pe­schiere di Pomarance é costretta a chiu­dere. Lo stabile costruito da Cammillo Fantacci nell’anno 1842, dopo 53 anni di attività non produce più un reddito che permetta di far fronte al pagamento del­l’imposta sui fabbricati ed il discendente Paolo Fantacci si vede, suo malgrado, co­stretto ad interrompere definitivamente quella iniziativa del suo predecessore.

li 31 dicembre 1895

Il sindaco comunica come Paolo Fantac­ci in nome proprio per sgravio di imposta sui fabbricati, e quale rappresentante la Ditta Fontani e C. per sgravio di imposta sulla Fiochezza Mobile, abbia domanda­to a questa Giunta il rilascio di un certifi­cato da cui risulti che col giorno uno di­cembre ultimo scorso sia stato definitiva­mente chiuso lo stabile di proprietà di es­so Fantacci e adibito definitivamente ad uso della concia di appartenenza della Ditta di cui sopra. La Giunta riconoscen­do come sia la verità quanto si richiede; Acconsente ad unanimità, astenendosi !’Assessore Sig. Cav. Bicocchi quale membro della Commissione liquidatrice della ditta stessa.(7)

Dopo il fallimento della concia il fabbricato subisce un lento abbandono; utilizzato prima come edificio rurale e, successiva­mente, solo come ricovero di attrezzi e per animali di bassa corte a causa dell’e­sodo dalla campagna.

Ai giorni nostri l’abbandono ha gravemen­te compromesso le strutture e perciò la stabilità stessa dell’intero manufatto.

ANALISI CATASTALE

Consultando le mappe del Catasto Leopoldino della Comunità di Pomarance se­zione D detta di Bufera e Ripaie’,’ ci è sta­to possibile risalire al nucleo originario del fabbricato delle Peschiere.

La prima mappa rintracciata, in ordine cronologico, risale al 15 febbraio 1823; al­l’epoca sui registri veniva annotato che la particella n° 5 di 3716 braccia quadra­te (circa 1260 mq.) consistente in una ca­panna e risiedo e le n° 6 e 7 di comples­sive 94.112 braccia quadrate (32055 mq.) erano a carico del Sig. Fantacci Cammillo di Domenico.

Non è stato possibile rintracciare delle do­cumentazioni a riguardo della consisten­za del risiedo ma, leggendo in scala ci è parso che il nucleo originario fosse forma­to dal corpo ad Est del complesso archi­tettonico. Tale ipotesi è convalidata da al­cune tracce di rifilatura della muratura che fanno pensare ad un rialzamento suc­cessivo del piano e conseguentemente della linea di gronda del tetto. Altra osser­vazione da fare è al riguardo della viabi­lità che collega la zona con l’attuale S.S. n° 439 Sarzanese Valdera; il collegamen­to era diretto e passava a ridosso delle Peschiere, dove oggi corre un fosso par­ticolarmente ricco di vegetazione sponta­nea e delimitato da una parte dallo stes­so fabbricato, dall’altra da un argine che per l’abbandono ha subito degli smotta­menti. È da rilevare la presenza sull’ar­gine di alcune piante fra cui una quercia secolare.

L’edificio originario aveva su questa stra­da l’accesso ed alcuni affacci allo stato attuale tamponati.

Nella mappa del 1846 è registrato il fra­zionamento del resiedo originale a cui è stato attribuito il numero catastale n° 211 e registrato parte al Sig. Fantacci Cam­mino di Domenico e parte ai Sigg. Cam­mino e Paolo Fantacci di Pietro. Nella stessa mappa è riscontrabile il nuovo edi­ficio, corrispondente al n° 212, intestato al Sig. Fantacci Cammino di Domenico da lui fatto costruire nel 1842, come si è vi­sto nell’analisi storica ed adibito aH’uso di concia.

Nel 1877 parte della particella n° 5 viene caricata a favore dei Fantacci di contro (Paolo e Cammillo di Petro) e parte di questa con l’intera particella n° 6 a Pellini Odoardo. Nello stesso anno il catasto registra lo scarico dalle proprietà del Sig. Fantacci Cammillo di Domenico ed il re­lativo carico a favore dei Sigg. Paolo e Cammillo di Pietro Fantacci dei fraziona­menti dall’originale particella n° 5 nelle particelle n° 237 (le vasche), n° 238 (par­ticella in un primo momento inedificata fra il fabbricato rurale originario e l’edificio della nuova concia) e la n° 239 (la strada a fianco delle vasche).

Il citato Pellini Odoardo vendette il 30 apri­le 1885 la di lui parte del fabbricato n° 211 e la particella n° 6 al Sig. Biondi Meliini Dott. Vincenzo; quest’ultimo costruisce nell’anno successivo una capanna ad uso agricolo nella parte della particella n° 5 di sua proprietà. Un suo discendente Biondi Bartolini Giovanni insieme ad al­tri non meglio Specificati, acquista nel 1901 le particelle n° 237, 238, 239.

Sono allegati i disegni ricavati dalle men­zionate mappe e riportati i dati di carico e scarico delle particelle ripresi dai regi­stri catastali.

LA CONCIA

□ La concia è un insieme di trattamenti chimici e meccanici che permettono di trasformare la pelle naturale di numerosi animali in un prodotto robusto e durevo­le quale è il cuoio, la pelle, le pellicce.

Il processo di concia nel passato, come oggi, avveniva in tre fasi:

  1. Preparazione della pelle.
  2. Concia propriamente detta.
  3. Rifinitura.

Oggi sono soprattutto cambiati i prodotti utilizzati per i vari processi che si sono an­che notevolmente accorciati mediante l’u­tilizzo di appositi macchinari.

Un tempo la preparazione della pelle assumeva tempi e denominazioni diver­se a seconda di come la pelle naturale
giungeva in conceria, abbiamo la MES­SA A BAGNO per le pelli fresche, che aveva lo scopo di eliminare tutte le so­stanze estranee, oppure si aveva il RIN­VENIMENTO per le pelli secche allo sco­po sia di ripulirle, sia di restituire l’acqua sottratta e renderle più morbide. Entram­be le operazioni venivano compiute nel­le quattro vasche presenti all’esterno del­le peschiere, l’acqua di tali vasche era sottoposta a continuo ricambio grazie al­la presenza della fonte naturale. Le pri­me due vasche, più piccole, servivano per la “messa a bagno” e talvolta, adottan­do appositi coltelli, raschiavano via la car­ne che era ancora attaccata, le altre due, di dimensioni più grandi (A), permetteva­no il RINVENIMENTO di un numero mag­giore di pelli dato il tempo più lungo oc­corrente per l’operazione.

Successivamente le pelli venivano raccol­te dall’acqua ed inviate attraverso un’ap­posita apertura nella parte seminterrata del fabbricato dove avveniva il processo di DEPILAZIONE, che veniva compiuto in apposite vasche (B) dette calcinai conte­nenti bagni di latte di calce, si trattava in genere di tre vasche con bagni sempre più basici, le pelli erano poste in tempi, successivi nelle tre vasche; a questo pun­to le pelli venivano raschiate allo scopo di togliere i rimanenti peli. La fase suc­cessiva era la scarnatura che veniva fat­ta nell’intento di togliere il carnicchio, dal­la parte interna della pelle, ammorbidito­si durante il bagno di calce. (C)

A questo punto le pelli subivano il proces­so di PURGA e RIGONFIAMENTO effet­tuati in vasche contenenti bagni acidi (D), venivano tolti così i residui basici della De­pilazione ridando porosità e morbidezza alle pelli, tali bagni potevano essere ef­fettuati utilizzando una poltiglia a base di sterco di cane e di piccione.

  • Le pelli così preparate sono pronte per la concia propriamente detta, tale proces­so è oggi effettuato con sostanze chimi­che, talvolta anche sintetiche, un tempo invece il prodotto base era la scorza di quercia macinata che, come già detto, era presente in notevoli quantità nei dintorni di Pomarance.

La scorza della quercia contiene dal 6 al 17% di tannino, prodotto conciante cono­sciuto da secoli, che aveva il vantaggio di poter essere utilizzata allo stato natu­rale rispetto al castagno che, pur conte­nente tannino in maggior quantità, neces­sitava di un processo di distillazione per poterlo estrarre.

Le pelli venivano così messe in apposite fosse (E) alternate con strati di scorza ma­cinata, in maniera che venissero rivesti­te da uno strato conciante di qualche cen­timetro; una volta riempita la fossa si ag­giungeva acqua fino a sommergerle, in modo da sciogliere la sostanza concian­te. Tale operazione avveniva ogni due mesi e, data la relativa quantità di tanni­no presente nella quercia, il processo completo poteva durare due anni o più.

  • Le pelli ancora umide venivano traspor­tate in appositi locali (F) ben areati ed in­chiodate a tavole o telai, quindi appese per la completa asciugatura; a questo punto la pelle era ingrassata e piegata più volte allo scopo di ammorbidirla. Alle Pe­schiere questi ambienti erano collocati al secondo piano e direttamente collegati col seminterrato in cui avvenivano le ope­razioni precedentemente descritte. Al pri­mo piano erano collocate le residenze de­gli addetti alla conceria (G).

BIBLIOGRAFIA GENERALE

C. BARBAGALLO – Le origini della grande in­dustria contemporanea – LA NUOVA ITALIA , Perugia.

CAMERA FABIETTI – Corso di storia – ZINGA- RELLI , Bologna

Rivista LA COMUNITÀ DI POMARANCE – Nu­meri vari

BIBLIOGRAFIA SPECIFICA

  1. CAMERA FABIETTI – Volume II pag. 197
  2. C. BARBAGALLO – Le Origini …. pag. …
  3. Riv. LA COMUNITÀ DI POMARANCE – Rie­vocazioni Storiche di Edmondo Mazzinghi pag. 26 N° 5 anno V
  4. Riv. LA COMUNITÀ DI POMARANCE – Op. Cit. pag. 27 N° 5 anno V
  5. Riv. LA COMUNITÀ DI POMARANCE – Op. Cit. pag. 26 N° 5 anno V
  6. Riv. LA COMUNITÀ DI POMARANCE – Op. Cit. pag. 31 N° 5 anno V
  7. Riv. LA COMUNITÀ DI POMARANCE – Op. Cit. pag. 37 N° 5 – 6 anno Vili

Variazioni catastali del fabbricato conciario delle Peschiere dal 1823 al 1886

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

GLI STOVIGLIAI A POMARANCE

UNA MANIFATTURA LOCALE NEL XVI – XVII SEC.

Tra le varie attività artigianali che ven­nero svolte a Pomarance fin dal Medioe­vo (fabbri, cuoiai, muratori, lanceolai, ecc.), merita una considerazione partico­lare l!Arte della Ceramica che fu prodot­ta per molti anni nell’antico “castello di Ripomarance’’ e che ebbe il suo massi­mo sviluppo produttivo nel Rinascimento. Questo antico mestiere, eseguito da spe­cifiche maestranze locali denominate ge­neralmente “Stovigliai o Vasellai’’, con­sisteva nella lavorazione di argille che abi­li mani trasformavano in piatti, scodelle, boccali od altri oggetti usati quotidiana­mente in cucina o sulla mensa.

Questi manufatti, destinati in un primo tempo al solo fabbisogno locale, in segui­to furono, per la buona qualità, anche esportati al di fuori del “contado volter­rano” per essere apprezzati al pari delle ceramiche di Montelupo Fiorentino, di Volterra e di Castelfiorentino.

Alcuni rari esemplari conservati presso il Museo d’Arte Sacra di Volterra, la Pina­coteca della stessa città od altri frammenti di maioliche appartenenti ad alcune fami­glie pomarancine come i Biondi ed i Bion­di Bartolini, sono solo alcune delle testi­monianze di questa produzione cerami­ca (1). Uno studio su questa manifattura locale, ad opera di esperti archeologi, è stata possibile grazie al ritrovamento ne­gli scantinati di Palazzo Bicocchi di diversi frammenti ceramici che hanno conferma­to Pomarance come centro produttore di maioliche “ingabbiate graffite’’.

Fondo di maiolica ingubbiata-graffita sec. XVI raffigurante lo stemma della famiglia Roncalli (Proprietà BIONDI BARTOLINI).

L’individuazione di fornaci per la cottura dei vasellami, all’interno ed all’esterno del castello di Ripomarance, ha permesso so­lo in minima parte la conoscenza delle maestranze che operavano in questo set­tore. Ben poco infatti sappiamo sui nomi dei vasellai, quali erano le regole statu­tarie del mestiere, il numero degli addet­ti. Molto rare sono le fonti documentarie relative a questi artigiani. L’estimo del co­mune di Ripomarance, che annota tutti i beni dei cittadini del castello, solo poche volte riporta l’attività o mestiere esercita­to dal capofamiglia. Un’indicazione mol­to frequente è quella dei maestri fornaciai che sono da considerare più nella condu­zione di fornaci per “lavoro quadro’’ che non di vasellame.

Tralasciando quindi l’indagine sugli esti­mi del Comune e consultando con meto­dicità la parte di Archivio Storico relativa agli atti della Podesteria di Val di Cecina, nella speranza di trovare in qualche cau­sa civile la professione dei nominativi ci­tati in giudizio, sono scaturite sporadiche ma interessanti documentazioni di que­sti artigiani

ceramisti. Sono emersi infatti nominativi di intere generazioni di famiglie che si tra­mandavano di padre in figlio i segreti di questo antico mestiere, il numero degli operatori e chi fra i mercanti era autoriz­zato a vendere tali prodotti.

I maestri stovigliai erano iscritti all’arte dell’università per Fabbricanti della Potesteria di Val di Cecina ed operavano nelle loro botteghe dislocate generalmen­te all’interno del castello di Ripomaran­ce. Spesso, secondo gli estimi, erano an­che proprietari di fornaci attigue alla loro abitazione; solo attorno al XVII secolo ri­sultano più stovigliai possessori di una so­la fornace condotta in società.

Le prime notizie relative ai nomi di cera­misti in Pomarance risalgono al 1511 quando viene citato un certo Meo vasel­laio da San Gimignano abitante a Poma­rance. Alcuni anni più tardi è menziona­to Julio “Vasellaio” da Ripomarance che, secondo i dati raccolti, risulterebbe appar­tenere ad un ramo della famiglia Incontri che ebbe notevoli possedimenti nella cor­te di Ripomarance (3). Un altro nominati­vo interessante è fornito anche dal regi­stro dei Debitori e Creditori del Comune di Ripomarance del 1528 nel quale sono menzionati Michele e Pasquino “Porcel­lana” (4). Il cognome potrebbe far pen­sare ad un esperto nella lavorazione del­le terre cotte o addirittura ad un capace perito nella preparazione della “vetrina” per riuscire ad ottenere un prodotto ce­ramico molto simile alla porcellana, cioè bianco e lucente.

L’unico nominativo di cui è specificata la professione di ceramista è elencato nel­l’estimo del 1523; trattasi di Maestro Fi­lippo “Orciao”, od orciaio; specializzato cioè nella produzione di Orcioli od Orcio­lini (recipienti per bevande). Questi pos­sedeva la metà di una casa posta in Borghetto (attuale Piazza S. Carlo) (5) ed è probabile che questo tipo di produzione abbia dato luogo alla denominazione del­l’antica Porta Orciolina che si trovava nei pressi della sua bottega o della sua for­nace. L’ottima qualità delle argille che si

Frammento di scodella con stemma famiglia Incontri (Prop. BIONDI BARTOLINI).

trovavano nei dintorni di Ripomarance era certamente uno degli elementi primari per la buona qualità delle stoviglie. L’unico to­ponimo ancora oggi esistente, riferito al­la loro estrazione, è la località o podere “Arzillaia”; questo luogo infatti originaria­mente era denominato attorno al 1544 “Argillaia” e vi possedeva un pezzo di or­to Meo di Sebastiano Barzaloni “posto in luogo detto all’Argillaia’’ (6). Un’altra lo­calità ove probabilmente era estratta la “terra” è citata nell’estimo del 1532 in una possessione di maestro Giovanni di Martino consistente in … “un pezzo di ter­ra al Mattaione”… (7). Il figlio di Giovan­ni di Martino, che verso la metà del ’500 portava il cognome Pellegrini, svolgeva attività di mercante in Ripomarance ed è citato in una causa civile per aver acqui­stato, presso una bottega di Stovigliai, un servito di piatti e ciotole. In questa causa sono menzionati anche altri operatori ce­ramisti che erano attivi nel 1544:… “Gio­vanni di Pagolo di Benedetto disse che Bernardino di Rinaldo Lanciotti di Ripomarancio lavorò nella bottega di Giovan­ni di Pagolo (Incontri) per cinque o sei an­ni, et che disegnò un lavoro di ciotole per un fornimento da tavola con il segno di mastro Martino, per Martino di Giovanni… Bastiano di Nanni… disse che la verità fu, che sono già cinque o sei anni che detto Bernardino lavorava nella bottega di decto Giovanni di Pagolo et che fece forni­mento di terra da Tavola con le iniziali di una lettera… et che quando fu cotto, il det­to Martino, un corbello solo portò a casa sua…’’(8).

Giovanni di Pagolo, appartenente alla stir­pe degli Incontri di “Acquaviva’’, aveva la propria bottega di fronte alla pieve di San Giovanni Battista dove era ubicata anche la sua fornace utilizzata per la cot­tura dei vasellami che confinava con la casa dei Roncalli di Bergamo in prossi­mità della Porta alla Pieve. (9)

Dagli estimi del Comune di Ripomaran­ce trasparisce la prevalenza della fami­glia Incontri, nella produzione e commer­cializzazione dei vasellami. Alcuni capi fa­miglia infatti erano proprietari, almeno fi­no alla prima metà del 500, di diversi be­ni immobili tra cui alcune fornaci dislocate sia all’interno che all’esterno della cerchia muraria del Castello. Probabilmente, ver­so i primi anni del XVI secolo, dovevano anche avvalersi della collaborazione di periti Fornaciai esperti nella cottura del­le terrecotte; nel 1532 infatti, abbiamo no­tizia della proprietà di una fornace appar­tenente a Polito di Bonincontro Incontri “pro divisa’’ con Maestro Bernardino di Antonio Fornaciaio. (10)

Lo stesso Polito di Buonincontro doveva aver rilevato la fornace del suo parente, Giovanni Incontri, ed aveva costruito in seguito un ’altra fornace più grande nella zona detta di PIU VICO dove produceva sia vasellami che materiali edili, come te­stimoniano alcuni reperti recuperati in quella località. (11)

Sempre nell’anno 1532 abbiamo notizia di un altro ceramista, cugino di Polito In­contri, Giulio, figlio di Simone che era fra­tello di Buonincontro e figlio del caposti­pite Ippolito Incontri.

Giulio di Simone Incontri possedeva una casa in Petriccio ed era anche proprieta­rio di “una casa con orto, oggi detta la Fornace, posta fuori della porta Volterra­na, luogo detto Chiusa o alla Cella” che fu comprata da suo cugino Giovanni In­contri nel 1553 (12).

La specializzazione della bottega di Giu­lio era quella della manifattura di “Rasi­ni o Catini” che fu tramandata anche al figlio Simone che nel 1560 era annove­rato tra i catinai di Ripomarance. La noti­zia risale al 1562 quando Simone di Giu­lio Incontri venne pagato dalla Podeste­ria per aver fornito “una conca da buca­to che servì nel palazzo del Potestà’’ (13). Uno dei primi documenti che però ci fa conoscere con certezza quali furono i no­minativi degli stovigliai, risale al 1562 ed è conservato negli atti della Potesteria di quel tempo. Vi sono annotati infatti tutti coloro che svolgevano un mestiere; tra questi sono iscritti anche quattro Stovi­gliai ed un Catinaio:

FRANCESCO DI BERNARDINO DI CON­TRO INCONTRI

GIOVANNI DI MARIO DI FRANCESCO LAMBARDO

ULIVIERI DI BASTIANO DI SAL VESTRO GIULIANO DI BASTIANO DI SALVE­STRO SIMONE DI GIULIO INCONTRI (Catinaio) Nell’elenco, a riprova del florido commer­cio che doveva svolgersi con la produzio­ne dei vasellami, sono iscritti anche co­loro che potevano tenere e vendere que­sti prodotti.

Tra essi vi è anche un prestatore ebreo che si stabilì in Ripomarance nel 1558 aprendo un banco di Prestito. Tutti gli elencati dovevano pagare la “Grascia” cioè un dazio per esportare od introdur­re vettovaglie dalla Podesteria di Val di Cecina. Ne era esonerato solamente l’u­suraio ebreo che godeva dei privilegi da­ti agli ebrei in vigore nel Granducato di Toscana (14).

Questi erano: Batista di Giovanni Antonio Pellegrini, Matteo di Namo Zoppo, Tomme di Jacopo, Giovanni di Martino Pelle­grini, Batista di Martino Pellegrini, Santi­no di Martino Pellegrini, Giovanni da Vicchio, Cristofano di Giovanni Pellegrini, Maestro Sabbato hebreo e Bastiano di Antonio Imprendi. Tra gli altri sono cen­siti anche tre fornaciai: Bernardino di An­tonio, Menico di Bastiano e Andrea di Baccio di Livio (15).

Dall’elenco degli stovigliai risultano in questo periodo alcuni operatori ceramisti di provenienza allogena; trattasi dei fra­telli Ulivieri e Giuliano di Salvestro che si erano stabiliti in loco fin dalla prima me­tà del ’500, originari dell’area aretina,por­tavano il cognome Tanini. Il capostipite Salvestro nel 1560 era consigliere comu­nale, i suoi figli addestrati all’arte della ce­ramica fin da ragazzi furono talmente abili in questa lavorazione che uno di loro, Uli­vieri, venne invitato dal Comune di Vol­terra nel 1571 ad aprire una bottega in

Stemma graffito (Prop. BIONDI BARTOLINI)

quella città a causa della scarsità di mae­stranze locali (16):

…dal momento che tutte le arti sono mo­tivo di onore e di crescita alla nostra cit­tà, e si tramandi che nel castello di Ripomaranci viva un certo Ulivieri di (Seba­stiano Tanini di Borgo San Sepolcro, in­sieme con i figli, un eccellente vasaio, il quale potrebbe essere attirato facilmen­te a venire ad abitare qui se gli venissero concessi la casa per abitare o altre como­dità… I Priori… abbiano facoltà di con­cedere a detto vasaio quei privilegi ed una pensione come abitazione per esercita­re comodamente detta arte…

Nell’estimo dello stesso anno derivano al­cuni possedimenti appartenenti a Ulivie­ri nella corte e castello di Ripomarance tra le quali una casa in Petriccio confinan­te con l’ospedale di San Giovanni Batti­sta. Molto vicino a questa vi era anche l’a­bitazione del fratello Giuliano che era pro­prietario “…di una mezza casa ad uso Fornace in Petriccio confinante con la Via e Friano Botrilli del valore di lire 50 (Da un confronto delle rispettive confinazioni è deducibile che alcuni membri della fa­miglia Tanini abitassero nell’area del vi­colo delle Fornaci in prossimità dell’ore­ficeria Cavicchioli).

Nel 1571 troviamo ancora attiva la forna­ce di Piuvico di proprietà di Buonincontro Incontri; era così indicata nell’estimo di quell’anno:… un sito di fornace, co una stanza a coprir un ‘altra stanza sola… con a capo il focone, con un pezzo di terra la­vorativa distante due miglia, in detta cor­te, luogo detto Piuvico… presso la via che va a Botrilli… (18).

Un altro dato interessante sullo sviluppo produttivo delle maioliche pomarancine è ratificato da un nuovo elenco di “vasel­lai” del 1577 dove è possibile individua­re un numero maggiore di addetti tra i quali i figli di Ulivieri Tanini e lo stesso padre che non aveva accettato l’invito pro­posto dal Comune di Volterra del 1571: (19)

Raffigurazione di un forno ceramico del XVI sec.

ULIVIERI DI BASTIANO DI SALVESTRO (TANINI)

BASTIANO SUO FIGLIO

GIULIANO SUO FIGLIO

GIULIANO DI BASTIANO DI SALVE­STRO (TANINI)

GIOVAN MARIA DI DOMENICO NERO SIMONE DI GIULIO INCONTRI FRANCESCO DI BENVENUTO INCONTRI FILIPPO DI GIOVANNI MADIA Rispettivamente erano aumentati anche gli addetti alle fornaci; sinonimo forse di un notevole sviluppo economico relativo alla produzione e commercio delle maio­liche ingubbiate e graffite. Molti infatti in questo periodo formavano società per la vendita di questi manufatti.

L’indicazione è contenuta in una causa civile del 1581, tra gli eredi di Michele Maffii e gli eredi del defunto Octaviano Biondi per alcuni debiti che quest’ultimo aveva con i Maffii a causa di un affitto mai pagato.

Frammento Ceramico (Prop. BIONDI BARTOLINI)

“… Gli eredi Maffii più tempo fa posse­devano et oggi posseggono per sua, una bottega posta in castello di Ripomaran­ce, luogo detto alla porta al Peso (attua­le Porta Orcolina) confinata a 1° via pub­blica, 2° beni delti eredi di Antonio di Namo di Ripomaranci, 3° beni di detti com­parenti, 4° beni del Comune di Ripoma­ranci…

…Dato che fino dall’anno 1571 del mese di Luglio o più in vero tempo detti com­parenti alluogarono la detta bottega a Oc­taviano di Antonio Biondi nuncupato Cicio, et gli consegnarono la chiave di det­ta bottega dandogli et permettendogli l’u­so di quella, secondo ciò che si richie­deva…

…il qual Octaviano tenne decta bottega … servando sempre la chiave a presso di sè, et servandosene in suo uso le mer­canzie et robbe per tre anni continui… insino alla morte sua, senza mai pagare cosa alcuna di pigione, cosi come era te­nuto…; … dato che i detti comparenti rieb­bero la chiave di detta bottega nel mese di settembre passato 1580 …” venivano invitati gli eredi di Octaviano Biondi a pa­gare lire 30 agli eredi Maffii.

Frammento Ceramico (Prop. BIONDI BARTOLINI)

Uno dei testimoni interrogato su questa causa affermava che: “… detto Octaviano tenne a pigione detta bottega per me­si quattordici et sino alla sua morte, et che dentro vi teneva stoviglie da vendere… ”. La stessa versione fu confermata da un certo Antonio di Gismondo detto Gobbino da Ripomaranci il quale affermava che per due anni incirca: “… faci compagnia di stoviglie col detto Octaviano, il quale teneva et possedeva la suddetta bottega, et che fino a quando durò la compagnia tenemmo continuamente stoviglie in detta bottega …” (20). Ancora nell’anno 1581 abbiamo notizia di un altro operatore ceramologico; trattasi di Lorenzo di Giulio Incontri Stovigliaio che è citato in una let­tera al podestà di Ripomarance per alcuni debiti contratti con le Magistrature dei Sig.ri Nove della Jurisdizione Fiorentina. Nel documento è annotata l’età di 20 an­ni et che a suo carico pendeva il mante­nimento del padre, di quattro fratelli ed una sorella ‘‘poveri’’ (21). Lo stato di po­vertà che si riscontra su questa famiglia fu forse l’inizio di un certo calo produtti­vo delle maioliche conseguentemente ad una diminuzione delle stesse maestran­ze. La conferma è deducibile da un elen­co degli artigiani del 1623; vi sono iscritti infatti solo quattro operatori ceramisti (22): FLAMINIO DI GIULIANO TANINI (stovi­gliaio)

Stemma in legno dei RONCALLI LUPATELLI (26).

ANTONIO DI PUPILIO TAMBILLONI (brocca io)

BENEDETTO DI GIULIO (INCONTRI) (broccaio)

SIMONE INCONTRI (catinaio)

Flaminio Tanini, nipote di Ulivieri, posse­deva attorno al 1632 una fornace o per meglio dire: …la metà di una mezza ca­sa ad uso fornace in Petriccio confinata a 1° Via, 2° Benedetto di Giulio, 3° Do­menico di Iacopo Faina, 4° mura, stima­ta lire 25… (23). Gli altri tre quarti della fornace di vasellame appartenevano ad altri tre soci vasellai o fornaciai che era­no rispettivamente: Annibaie di Bartolo­meo Cercignani, Giovanni di Marcantonio Biondi e Bernardo Tognoli.

Le confinazioni d’estimo farebbero indi­viduare questa unità di cottura nel Vico­lo della Fornace, dato che attorno al 1581 era indicata come la “Fornace di Togno­li” in una causa civile tra il canonico Se­gherio e Ippolito Incontri e nella quale era anche citato Meo di Bernardino fornaciaio “affittuario”.

Dalla “lira” del 1632 è evidenziato che molti stovigliai e fornaciai possedevano le loro abitazioni e botteghe proprio nelle vi­cinanze di questa fornace. Nessun docu­mento fino ad oggi però è pervenuto per confermare l’esistenza produttiva di un’al­tra fornace, individuata e descritta nel 1956 dal dott. P.G. Biondi, che doveva trovarsi nell’attuale Vicolo del Muraccio in corrispondenza dell’ex forno di “Or­feo”.

Frammento Ceramico (Prop. BIONDI BARTOLINI)

Molti autori di storia locale farebbero ces­sare l’antica manifattura di ceramiche at­torno al 1630; in un articolo apparso su Rassegna Volterrana del Dott. P.G. Pie­tro Biondi intitolato “Le terrecotte di Po­marance” veniva infatti riportato uno scrit­to del 1758 di G.M. Riccobaldi del Bava che dava come attendibile questa notizia (24).

Nuove fonti documentarie proverebbero invece il prolungamento di questa arte fi­no agli ultimi anni del ’600.

Troviamo infatti ancora attiva nel 1644 la “Fornace del Tognoli” che apparteneva ad Andrea di Piero Livi il quale aveva spo­sato una figlia di Giovanni Tanini, Anto­nia. A convalidare l’attività ceramica per tutto il XVII secolo è un documento del 10

POMARANCE: Vicolo della Fornace.

Frammento Ceramico (Prop. BIONDI BARTOLINI)

novembre 1598 nel quale viene annota­to un altro stovigliaio, Annibaie di Silvio Geri, che risultava debitore della somma di lire 2 e soldi 10 all’ufficio dei Consoli dell’Arte di Firenze (25).

Annibaie di Silvio Geri è da considerare quindi uno degli ultimi vasellai delle Po­marance dato che un successivo elenco di Artigiani del 1700 non riporta alcuna profesione legata ai ceramisti. Se per tut­to il XVIII secolo l’attività di maioliche ces­sasse, una labile ripresa di questo mestie­re pare fosse stata intrapresa agli inizi dell’Ottocento. In un manoscritto del 1940 dell’ex Podestà di Pomarance Onorato Biondi, viene asserito, secondo documen­tazioni di famiglia, che un suo discenden­te denominato Giovan Battista Biondi im­piantò nel 1809 un laboratorio di vasella­mi inverniciati in società con un vasellaio volterrano, certo Taddeucci Vincenzo. La terra utilizzata era quella del Gelso e la fornace, per la cottura del vasellame, era sempre l’antica fornace detta del “Togno­li” che apparteneva allo stesso Giovan Battista Biondi. Questa era ubicata nel “Chiasso delle Fornaci in S. Dalmazio”. La produzione cessava però solo dopo al­cuni anni e precisamente nel 1828.

Jader Spinelli

NOTE BIBLIOGRAFICHE

  1. I cocci di Maioliche Ingubbiate Graffi­te conservate dai Biondi Bartolini furono ritrovati attorno al 1913 durante lavori di sterro per la costruzione di un garage sul­la Via dei Fossi al numero civico 24. Trat­tasi per lo più di frammenti di fondi e bor­di di piatti scodelle del periodo tardo ri­nascimentale dove sono decorati alcuni stemmi di nobili famiglie del ’500 come
    gli Incontri ed i Roncalli di cui è stata gen­tilmente concessa la visione e la pubbli­cazione. Ringrazio sentitamente il Dott. Giovanni Biondi Bartolini e suo figlio Giu­lio per la loro collaborazione.
  2. Archeologia Medioevale 1987 G. Gui­doni, A. Coscarella, Marco de Marco, G. Pasquinelli. TESTIMONIANZE ARCHEO­LOGICHE DELLA PRODUZIONE CERA­MICA A POMARANCE, pagg. 277 e se­guenti.
  3. Dott. P.G. BIONDI “Le terrecotte di Po­marance’’ – RASSEGNA VOLTERRANA 1968.
  4. Archivio Storico Pomarance F. 627 c. 75 v.
  5. Archivio Storico Pomarance F. 426 c. 24 r.
  6. Archivio Storico Pomarance F. 427 c.115 r.
  7. Archivio Storico Pomarance F. 426 c. 42 r.
  8. Archivio Storico Pomarance F. 67 B Civile 1544 c.124 r. V.
  9. Archivio Storico Pomarance F. 113 c. 49. La notizia è contenuta in un documento del 3 maggio 1561 nel quale due uomini del Consiglio sono chiamati a stimare un sito del comune occupato abusivamente da Giovannantonio Roncalli posto al lato della fornace che era di Giovanni di Pagolo Incontri, luogo detto alla Porta alla Pieve. La fornace è quindi da individua­re dove sorge la abitazione di Pineschi Aroldo.
  10. Archivio Storico Pomarance F. 426 Estimo 1532 c. 54 V.
  11. Archivio Storico Pomarance F. 427 c. 176 e 323 r.
  12. Archivio Storico Pomarance F. 427 c. 95.
  13. Archivio Storico Pomarance F. 113 c. 148 r.
  14. “Un Prestatore Ebreo a Pomarance’’ LA COMUNITÀ DI POMARANCE n° 2 / 1989.
  15. Archivio Storico Pomarance F. 85 B c. 148 r. Nell’elenco sono iscritti anche 4 Fabbri, 1 Manescalco, 2 Magnani, 1 Spadaio (Be­nedetto di Rinaldo Lanciotti), 6 Muratori, 1 Bottaio, 1 Lanceolaio che tiene anche vasellami (Gio. Antonio Roncalli), 1 Zoc­colaio.
  16. Gianna Pasquinelli – LE CERAMICHE DI VOLTERRA NEL MEDIOEVO – Ed. Gi­glio Firenze 1987.
  17. Archivio Storico Pomarance F. 428 c. 104.
  18. Archivio Storico Pomarance F. 428 c. 237 r.
  19. Archivio Storico Pomarance F. 100 B c. 299 r. e v.
  20. Archivio Storico Pomarance F. 103 B c. 852 – 859 r. e v.
  21. Archivio Storico Pomarance F. 104 B c. 396.
  22. Archivio Storico Pomarance F. 149 B c. 496.
  23. Archivio Storico Pomarance F. 430 c. 14 v. 74 v. 157 r. 158 r.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

“I FALUGI” ARTIGIANI DEL LEGNO

I FALUGI. Falegnami mobilieri a Poma­rance tra ’800 e ’900.

□ Uno dei più antichi mestieri che vengo­no svolti ancora oggi a Pomarance è si­curamente quello di “Falegname”.

Questa attività artigianale, dedicata so­prattutto alla produzione di infissi fatti con l’aiuto di modernissimi macchinari, era nei tempi passati svolta con attrezzi ma­nuali che caratterizzavano le piccole bot­teghe dislocate nel centro storico di Po­marance. Attrezzi come pialle, pialletti, sponderuole, scalpelli, sgorbie od altro erano eseguiti dagli stessi maestri i quali cominciavano l’arte di falegname quasi da bambini stando dietro il “banco” ad eseguire lavori più semplici.

Atività che nella tradizione artigianale ve­niva spesso trasmessa di padre in figlio, come nel caso della famiglia Bonucci di Pomarance, vissuta tra la metà dell’otto­cento e gran parte del nostro secolo. Ancora oggi i vecchi pomarancini ricordano personaggi come Federigo, Vittorio, Lui­gi morti attorno agli anni ’50.

C. Bonucci “II Falugi”

Conosciuti da tutti come i “FALUGI”, questi ereditarono lo pseudonimo dal pa­dre Claudio Bonucci al quale fu attribui­to in memoria di un personaggio volter­rano vissuto nella prima metà dell’otto­cento, il quale amava consigliare la gen­te più umile nei loro problemi od affari senza percepire alcun compenso.

Pare infatti che le origini della famiglia Bo­nucci fossero volterrane e che alcuni membri si fossero stabiliti a Pomarance all’inizio dell’ottocento come falegnami “carrai” al servizio dei signori Bicocchi che possedevano alcune fattorie nella co­munità di Pomarance.

A questi proprietari terrieri infatti furono molto legati da rapporti di lavoro, di sti­ma, di amicizia per intere generazioni e, grazie a loro, alcuni Bonucci ebbero la possibilità di frequentare corsi di studio all’Accademia di Siena e di Firenze.

Le prime notizie della famiglia Bonucci ri­salgono agli ultimi anni del ’700 con cer­to Pellegrino Bonucci che sposando Se­vera Baroncelli dettero luogo a Giusep­pe Bonucci e Luigi Bonucci nato il 4 gen­naio 1803.

Luigi Bonucci si stabilì a Pomarance at­torno al 1830 lavorando come “Carrado­re” presso i Bicocchi nella sua bottega ubicata nei fondi di palazzo Biondi – Mel­lini, accanto alla Porta Orciolina (o al Pe­so) in piazzetta S. Carlo. Sposatosi con Luisa Orzalesi ebbero diversi figli tra cui Claudio Bonucci detto il “Falugi” che nacque il 5 dicembre 1844. Dotato di spic­cata intelligenza fu fatto studiare nelle pri­me classi elementari e contemporanea­mente avviato al mestiere di falegname “carraio” nella bottega di suo padre. Di­plomato ben presto “Fabbricante di Mo­bilio”, come attesta un diploma conser­vato nella sua casa di via Mascagni, que­sti si sposò con la pomarancina Maria Bufalini nel 1864.

Dal loro matrimonio nacquero diversi fi­gli tra cui Carlo nel 1866, Federiga nel 1868, Vittoria nel 1870, Luigi nel 1871, Fe­derigo nel 1873, Vittorio nel 1877, Sofia nel 1879, Anita nel 1882 ed infine Alber­ta Luisa nel 1890.

Negli anni della sua lunga attività artigia­nale Claudio Bonucci “Falugi” realizzò in Pomarance e nelle nostre zone manufat­ti di ottima qualità utilizzando legni loca­li, che sotto le sue abili mani diventava­no robusti infissi, pregiate credenze, ve­trine, mobili da cucina o da camera, che andavano ad arredare sia le case nobi­liari del tempo che le più modeste dei con­tadini.

La lavorazione artistica dei mobili fu in se­guito coadiuvata anche dai suoi figli ma­schi Carlo, Luigi, Federigo e Vittorio ai quali era dato il compito di intagliare le parti decorative dei mobili che necessita­vano di figure animali o floreali e che era­no applicate a specchiere, toilette, arma­di, cassettoni, ecc. Molti di questi model­li in gesso sono ancora conservati nella “Casa dei Falugi” a testimoniare l’ottima qualità dei mobili che venivano eseguiti. La vecchia falegnameria di piazzetta S. Carlo fu, negli ultimi anni dell’800, trasfe­rita in via Mascagni al n° 54 dove negli appartamenti soprastanti andò ad abita­re anche la numerosa famiglia dei Bo­nucci.(1)

La bottega fu corredata di macchinari, al­l’avanguardia per quei tempi, che contri­buirono ad alleviare le notevoli fatiche per piallare o segare grossi tronchi di le­gname.

La sega a nastro, la toupie, la pialla a fi­lo, il tornio ed altri macchinari erano azio­nati prima dell’installazione della corren­te elettrica, da una macchina a vapore che trasmetteva il moto rotatorio alle mac­chine utensili attraverso cinghie di tra­smissione e pulegge collocate sopra un contro solaio in legno che proteggeva e nascondeva tutti i meccanismi dei rinvìi atti ad azionare o meno le macchine uten­sili. Con l’impianto della corrente elettri­ca a pomarance nel 1914 al posto della macchina a vapore fu collocato un moto­re elettrico che, con lo stesso principio azionava le varie macchine utensili. Que­ste macchine operatrici innovative per quei tempi, quando ancora la maggior parte dei falegnami lavorava a mano, era­no spesso utilizzate anche da altri colleghi pomarancini che si facevano segare e portare a misura il legname che in se­guito avrebbero terminato di lavorare nel­le proprie botteghe.

La Famiglia Bonucci

Uno dei primi figli che frequentò la botte­ga di Claudio Bonucci fu Carlo. Dotato di notevole talento artistico, fu fin da ragaz­zo inviato all’Accademia di Belle Arti a Siena per imparare scultura e disegno. Molto scarse sono le notizie storiche di questo valente professionista che, secon­do fonti orali, fu il migliore dei figli del “Fa­lugi” e che, per motivi a noi sconosciuti, lasciò Pomarance nel 1909 per andare ad abitare a Rosignano Marittimo. Tra i suoi più importanti lavori vi è certamente l’in­
carico, da parte del Comune di Pomaran­ce, di assistente ai lavori nella costruzio­ne del campanile parrocchiale (progetta­to dal Bellincioni di Pontedera) nel quale realizzò alcune sculture in tufo.

In una pubblicazione stampata in occa­sione dell’inaugurazione del campanile nel 1898 e curata dal Maestro Angelo Lessi veniva fatto un elogio particolare a Carlo Bonucci il quale “… oltre ad assi­stere ai lavori scolpì lo stemma di Poma­rance, il San Giovanni e la Madonna del Buon Consiglio che si vedono sotto i ter­razzi balaustrati del campanile …”.

La Banda con Federigo Bonucci al centro in bianco.

In questo lavoro furono coinvolti anche gli altri fratelli Bonucci Luigi, Federigo e Vit­torio che “…. lasciata la pialla e preso lo scalpello eseguirono con generale soddi­sfazione i lavori più complicati e difficili…” (2)

Tra i suoi lavori a noi conosciuti è certa­mente il progetto del campanile nuovo at­taccato alla Chiesa di San Cerbone nel Castello di Montecerboli finito di realizza­re nel 1909. Ne è testimonianza una la­pide collocata alla base dello stesso cam­panile che riporta la seguente dicitura: ‘‘Il 15 maggio 1902 fu cominciata la costru­zione di questo campanile che col dena­ro della Compagnia di Conte e l’opera della popolazione di Montecerboli fu fati­cosamente compiuto e inaugurato il 19 di­cembre 1909. Carlo Bonucci di Pomaran­ce disegnò e Luigi Micheletti di Larderello diresse i lavori”.

L’altro figlio secondogenito del Falugi fu Luigi Bonucci che per il suo temperamen­to estroverso fu il solo a lasciare ben pre­sto la bottega del padre per fare lo scul­tore professionista a Firenze. A questo personaggio pomarancino, morto nel 1954, è stata dedicata una monografia nel n° 4 della rivista ‘‘La Comunità di Poma­rance” del 1989 insieme ad una mostra antologica delle sue opere esposte nel Palazzo ex Pretura di Pomarance (Dicem­bre 1989).

Vissuto a Firenze per molti anni e ricono­sciuto come artista fiorentino nelle mostre nazionali, ha lasciato molte sue opere an­che a Pomarance come il Busto del Tabarrini (1911), quello del Dottor Cercignani (1934), i decori in bronzo del Monumen­to ai caduti del Parco della Rimembran­za. Tornato ad abitare a Pomarance nel­la casa paterna di via Mascagni nel 1929, collaborò alla conduzione della falegna­meria eseguendo e scolpendo parti di mo­bili realizzati dai suoi fratelli Federigo e Vittorio, che particolarmente ereditarono lo pseudonimo del padre Claudio quan­do morì nel 1919.

I due fratelli Federigo e Vittorio infatti con­tinuarono il mestiere del padre realizzan­do una infinità di manufatti che ancor og­gi, a distanza di 50 o 70 anni, vengono indicati con lo stesso pseudonimo di ‘‘Fa­lugi”. È il caso di una poltrona conserva­ta a Milano dai signori Frediani che vie­ne ancora oggi chiamata la ‘‘poltrona dei Falugi”.

Tra i vari lavori eseguiti da questi artigia­ni a nostra conoscenza sono certo da ri­cordare il portone del Municipio di Poma­rance oppure quello della Chiesa Parroc­chiale nel quale sono scolpiti il San Gio­vanni e la Madonna. AH’interno della stes­sa chiesa furono eseguite anche le pan­che laterali e la balaustra dell’Altare Mag­giore.

Di pregevole valore sono le scrivanie del Sindaco e del Segretario Comunale rea­lizzate nel periodo fascista e nelle quali si denotano pregevoli intagli. Del 1925 è sicuramente un tavolo in noce eseguito per la famiglia Bicocchi e custodito nel­l’omonimo palazzo di via Roncalli. Di que­sto esemplare è conservata fra i docu­menti dei Bonucci una fotografia del ta­volo in cui sono intagliati gli stemmi di fa­miglia dei Bicocchi. La committenza del lavoro è certificata anche da una ricevu­ta di pagamento conservata nel costituen­do ‘‘Museo Bicocchi” firmata Vittorio Bo­nucci Falugi.

Per l’avviamento della caldaia a vapore, che serviva per azionare le macchine utensili della falegnameria prima dell’in­stallazione del motore elettrico, necessi­tava la patente di caldaista che detene­va solamente Federigo Bonucci il quale durante i periodi estivi partecipava anche alle campagne di trebbiatura del grano conducendo le grosse ‘‘Caldaie a vapo­re” costruite dall’artigiano locale Angio­lo Pineschi.(3)

Sempre pronto all’iniziativa imprenditoria­le attorno al 1925 formò una società per la produzione e vendita di gesso con il Po­destà del tempo Onorato Biondi.

Fin dal 1891 i due fratelli Vittorio e Fede­rigo alternarono il loro mestiere di fale­gname con quello di Fotografi Dilettanti, fotografando immagini di Pomarance, personaggi e vedute panoramiche dei monumenti più importanti della zona che riproducevano in cartoline postali. Ne è testimonianza una cartolina datata 28 lu­glio 1900 in cui è fotografata la Rocca di Sillano di quel periodo ed in cui è impres­so il marchio di fabbrica ‘‘Fratelli Bonuc­ci Fotografi Dilettanti”.(4) Questi utilizza­rono per questa attività due macchine a soffietto con il sistema di impressionatura a lastra di vetro; una corredata di ca­valletto in legno, l’altra portatile e databi­le intorno al 1902.

Grandi appassionati di musica fin da gio­vani fecero parte della Società Filarmo­nica di Pomarance denominata l’indipen­dente, diretta per molti anni dal maestro Giovanni Chimera di Crema.

Intaglio per Specchiera.

Federigo suonava il “Genis” mentre Vit­torio il Trombone. Spesso partecipavano insieme al collega falegname Pini Ranieri (maestro di musica e costruttore di man­dolini) all’accompagnamento musicale del cinema muto che veniva proietato a Pomarance fin dal 1914 nei fondi della ca­sa di Baldeschi Ernesto in via Roncalli (At­tuale casa di Aroldo Pineschi).

Da fonti orali riportatemi dal novantenne Aroldo Pineschi, sembra che i due fratel­li Bonucci, amanti della fotografia e del cinema fossero stati i promotori nel con­vincere gli accademici del Teatro dei Co­raggiosi ad impiantarvi la macchina da proiezione per il cinema muto. Negli an­ni venti infatti iniziarono le proiezioni che furono affidate all’esperto Federigo Bo­nucci.

Una iniziativa certamente conveniente per l’Accademia dei Coraggiosi che vide aumentare considerevolmente il numero degli spettatori domenicali a discapito del­l’altro cinema del Baldeschi che, da buon burlone, lo aveva denominato: “CINEMA, VITA BREVE, MORTE SICURA”.(6) Federigo Bonucci rimase celibe e morì il 23 settembre 1945. Suo fratello Vittorio, sposato con Maria Molesti di Peccioli, do­po la morte del fratello assunse come ap­prendista il sedicenne Paolo Bocci al qua­le insegnò gran parte delle sue esperien­ze di falegname sino al 1953 quando si spense all’età di 76 anni.

Erede del patrimonio Bonucci rimase la sorella Alberta Luisa Bonucci sposata con il falegname carraio Carlo Pineschi. La fa­legnameria fu data in affitto dal 1954 al­l’artigiano falegname Unitario Garfagnini detto la “Gatta” che la tenne aperta fi­no alla sua morte avvenuta nel 1987.(7)

Jader Spinelli

NOTE

  1. Fonti orali affermano che la “Casa dei Falugi” di via Mascagni insieme alla bottega fos­se stata ceduta dai Bicocchi in cambio di la­vori di falegnameria che gli stessi Bonucci ave­vano eseguito per le Fattorie Bicocchi. La ca­sa infatti era pervenuta ad Emilio Bicocchi in dote a sua moglie Paolina Ghilli il cui padre era proprietario della Fattoria di Lanciaia ed anche del Palazzo ex Ricci.
  2. Festeggiamento e Inaugurazione del Cam­panile di Pomarance 1898.
  3. Le caldaie a vapore costruite dall’artigiano Angiolo Pineschi erano realizzate nella sua of­ficina in via della Cella (attuale Via Bardini) sot­to la casa di proprietà di Umberto Buzzichelli.
  4. La cartolina è conservata nella collezione privata di Umberto Rossi a Montecerboli.
  5. Le macchine fotografiche sono attualmen­te di proprietà di Bartoli Gerardo che le acqui­stò dagli eredi Bonucci nel 1956.
  6. Un ringraziamento sincero vada a Giovan­ni Danzini, Aroldo Pineschi e Paolo Bocci per le notizie orali fornitemi sui Falugi. Una espres­sione di gratitudine vada inoltre a Giovanni Ba­roni che mi è stato vicino nella consultazione dei documenti Bonucci e nella esecuzione di riproduzioni fotografiche.
  7. Dopo la morte di Alberta Luisa Bonucci la casa dei Falugi fu ereditata da sua sorella So­fia che si era sposata a Milano nel 1910 con certo Prato Alfredo. Alla morte di questi il pa­trimonio Bonucci passò alla loro figlia Gianni­na Prato sposata nel 1940 con lo scrittore e critico d’arte Giuseppe Zanella. Alla morte di questi la proprietà è pervenuta al loro figlio, l’in­gegnere Marco Zanella, sposato con M.G. Moschini da cui sono nati Daniele ed Andrea ai quali va il mio più sincero ringraziamento per avermi dato la possibilità di consultare i docu­menti di famiglia in modo da poter lasciare ai posteri una traccia sulla attività artigianale di questa importante famiglia pomarancina.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

PAMPURIO L’ALABASTRAIO

La pensione, un riposo meritato dopo una vita intera dedicata più o meno inten­samente ad una attività, viene istantaneamente a troncare i rapporti con i propri colleghi e con gli ambienti ormai familia­ri, che per anni, sono stati parte integran­te di ogni singolo, operaio o impiegato che fosse.

Dopo un arrivederci con tanto di rinfresco e di strette di mano, ci si trova a cambiar vita e a fare nuove amicizie, magari si ri­trovano vecchi compagni di scuola, che da anni non si vedevano più e si ricreano nuove abitudini.

Per non andare a braccetto dell’ozio, che è padre del vizio, si cerca in un modo o in un altro di rendersi ancora utili, con qualsiasi mezzo, con le più banali inizia­tive, magari rispolverando mestieri prati­cati in gioventù, ma rivisti con l’esperien­za dell’anziano, ci si dedica perché me­glio scorra il tempo e per soddisfazioni proprie, per hobby, si dice in parole mo­derne.

Opere realizzate al tornio e a mano.

Abbiamo parlato di hobbisti già altre vol­te su questa Rivista, oggi presentiamo “PAMPURIO”, non quello dei fumetti del CORRIERINO DEI PICCOLI degli anni trenta, ma di un Pampurio adulto, messo a riposo dalle Ferrovie dello Stato sin dal 1975. Pampurio, nella sua botteghetta sotto casa, costruita sul terreno dell’ex tenditoio del Docciarello, attiguo al Par­co della Rimembranza, in una morbida nebbiolina, ha ripreso il suo lavoro di gio­

ventù “L’ALABASTRAIO”.

L’alabastraio di quei tempi, con attrezzi forgiati appositamente per specifici lavo­ri. Un sistema di lavoro manuale, antiqua­to, che solo la passione e l’illusione di sentirsi ancor giovane può ridare il via a questi mezzi sorpassati dalle tecniche moderne, dai torni copiativi, dai pantografi e da altri sistemi computerizzati.

Pampurio, con “RAMPINO” (sorta di at­trezzo arcato, atto a svuotare a tazza un pezzo di alabastro), riesce con maestria a dar forma al pezzo ruotante piazzato sulla coppaia del tornio, ad un vaso, ad una fruttiera o ad un’anfora. Sugli scaf­fali, prospicenti il banchetto di lavoro, pez­zi incompiuti, carichi di polvere rinvecchiata, non più bianca, ma ingiallita dal tempo, stanno lì come campioni a mez­za tiratura a far corona all’ambiente sa­turo di pulviscolo. Un cappellaccio in te­sta a far si che i capelli canuti non si im­bianchino ancor di più, un grembiule che copra gli spruzzi stillati dal tornio, una ma­scherina antipolvere sistemata alla boc­ca da un elastico mezzo imporrito, è tut­to l’abbigliamento necessario per tale im­piego.

Attorno al banchetto variate sorte di ar­nesi: seghetti, raspe, rampini di varie for­me, punte da trapano, scuffie multiformi, collanti, colori artefatti e quant’altro pos­sa servire allo scopo.

Una lampada schermata da un lato, a mo’ di paraluce per non offendere la vista e una finestrella con dei piccoli vetri semi­sommersi di polvere da sembrare nevo­si, diffondono una opaca visibilità, da cui emerge il lavoro che mani rudi nel tatto, ma delicate nel servire, portano a termi­ne in candide forme elaborate.

Lavoro al tornio

Rivolgendo la parola a quest’uomo, che nel giro degli alabastrai è conosciuto co­me PAMPURIO (in realtà il suo nome è Libero), abbiamo da lui risposte precise riguardo agli attrezzi usati, ai modi di la­voro, alle specie di alabastro usato, alla cottura, alla tinteggiatura e lucidatura, ed un sistema che “LUI” solamente Lui usa al mondo d’oggi.

Inoltre, a mo’ di scaramanzia, tiene a di­re come fosse un motto: “Diamo credibi­lità all’alabastro”, l’alabastro che dalle no­stre locali cave è riuscito sempre con il suo marchio a passare i confini, le fron­tiere e gli oceani per farsi conoscere in tutto il mondo.

Giorgio

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.