ASPETTI DI RELIGIOSITÀ POPOLARE E PRATICHE MAGICO – RITUALI
La devozione popolare in Toscana, almeno per taluni
aspetti, pare affondi le sue radici negli antichi culti romani o addirittura
etruschi.
Da queste lontane forme di religiosità, infatti, si
ipotizza abbia avuto origine la concezione, così diffusa, che vede l’intervento
diretto della divinità nei fatti più minuti della vita non solo umana, ma anche
in quella della campagna e della natura.
In tale logica si collocano alcuni rituali in uso in molti
luoghi del nostro territorio fino a pochi decenni fa, che si rivolgono a Santi
particolari e che coincidono con le feste collegate al ciclo dell’anno.
Il 24 giugno, festa della natività di San Giovanni
Battista, si celebrava nell’antichità il solstizio d’estate.
Statuetta di S. Antonio.
La tradizione popolare attribuiva alla “guazza” di San
Giovanni poteri magici, tali da rendere le erbe medicinali particolarmente
efficaci. La mattina, prima del levar del sole, ci si recava, solitamente a
gruppi, nei luoghi dove cresceva la camomilla e si raccoglievano fasci di
steli fioriti dai quali, una volta tornati a casa, venivano tagliate le
corolle che, essicate, si potevano conservare a lungo e usare, come rimedio
naturale, in molteplici occasioni.
Dalle nostre parti si raccoglieva anche un’erba chiamata
“pìlatro”, che veniva conservata in una bottiglia piena d’olio e serviva per
curare le bruciature.
Con la “guazza” di San Giovanni c’era l’usanza di bagnarsi
i capelli poiché si diceva che facesse bene al mal di testa; inoltre, i nati
in questo giorno, erano considerati “virtuosi”, possedevano cioè una virtù che
poteva essere, ad esempio, segnare le “storte” alle persone ed agli animali.
Chi aveva simili poteri era molto conosciuto presso la comunità e veniva
chiamato a dare il suo aiuto in ogni momento della giornata, per questo, si
racconta, portava sempre con sé l’immagine di un santo o una di quelle
minuscole statuette, racchiuse in un “bucciolino” di alluminio che
raffiguravano Sant’Antonio da Padova.
Abbiamo avuto notizia che, almeno fino ai primi decenni del
1900, in molte case della nostra zona, la sera del 23 giugno le donne
ripetevano un rito che, almeno nei ricordi di chi ce ne ha parlato, non aveva
un significato particolare, “si faceva perché si era sempre fatto”: si prendeva
una bottiglia di quelle di allora, con una grossa pancia, il collo lungo ed il
tappo di vetro, la si riempiva d’acqua fino al collo e si versava dentro un
chiaro d’uovo. La notte si lasciava fuori della finestra e la mattina dopo,
come per miracolo, dentro l’acqua si vedeva una barca, la barca di San
Giovanni.
Non sempre e non a tutte riusciva di ottenere l’effetto sperato anche perché, oltre alla benedizione di San Giovanni, occorreva essere dotate di “mani buone”. Un’altra usanza riguardava le ragazze innamorate ed era una specie di prova della verità che ci fa pensare al detto, molto diffuso tra le persone non più giovani, “San Giovanni non vuole nè scherzi nè inganni”: coloro che desideravano sapere se il loro innamorato era sincero oppure no, coglievano un fiore di cardo, lo “strinavano” leggermente con un fiammifero e li lasciavano per tutta la notte di San Giovanni fuori dalla finestra. La mattina dopo, se il fiore era ritornato bello, il giovanotto diceva la verità, se invece era sciupato era segno di bugie.
Cardo selvatico.
Un’altra tradizione legata alla festa di
San Giovanni, mantenuta viva dai contadini fino all’awento dei trattori, è
quella di “bruciare la mosca”. In questo periodo, con l’inizio della stagione
calda, il bestiame usato nel duro lavoro dei campi, improvvisamente “si
ammoscava”, cominciava a saltare e, anche se aggiogato, scappava nella
macchia.
Tale comportamento era imputato alla presenza di una mosca “cattiva”, vero tormento per i buoi e pericolo di danni ingenti per i contadini che, ogni volta, rischiavano l’incolumità del loro bestiame il quale, fuggendo, poteva azzopparsi e ferirsi, anche in modo grave.
Per scongiurare questa specie di
calamità naturale, la vigilia di San Giovanni, “al sotto di sole”, si accendeva
un fuoco con una fascina di frasche, con lo scopo simbolico di “bruciare la
mosca”.
Il luogo prescelto era lo spazio davanti alla stalla o, comunque, un posto ben visibile dai poderi vicini, poiché il rito era anche un’occasione per affermare i legami comunitari sfuggendo, per un momento, alla condizione di isolamento che caratterizzava la vita di molte famiglie contadine.
Questa Associazione, nel proposito di
allargare le iniziative a scopo turistico e con l’intento di richiamare nel
nostro paese un numero sempre maggiore di visitatori, ha programmato,
nell’occasione della Pasqua 1988, di riproporre per la sera del Venerdì santo
la storica processione denominata “PROCESSIONE BELLA”.
Palazzo Biondi-Bartolini in occasione della Processione Bella.
Richiesti i dovuti permessi alla
Parrocchia ed al Vescovado, si sono presi i contatti con le varie associazioni
interessate: la Corale Pomarancina, il Corpo Filarmonico “G. Puccini”, la
Confraternita della Misericordia, il Comitato Parrocchiale, l’Associazione
Sportiva Amici del Cavallo (A.S.A.C.), i rappresentanti le quattro Contrade per
mettere insieme il tutto e far sì che questa manifestazione tradizionale
ritorni a vivere.
Questa manifestazione di carattere religioso venne
effettuata l’ultima volta quarantanni fa per volere del Proposto Mons. Luigi
PAOLI.
Da ricerche intraprese per l’allestimento di tale iniziativa, risulta che venne effettuata per la prima volta nell’anno 1860. La sua preparazione, sotto la guida dell’allora parroco Mons. Ferdinando MARCHETTI, venne curata dai componenti il Consiglio della Confraternita Misericordia e, con l’iniziativa dell’allora Governatore Conte Florestano de Larderei, furono presi a noleggio i costumi presso la Ditta Riccardo MONTAGNI, vestiarista teatrale di Livorno, fornitore di vestiario da comparse e attori (come risulta da nota esistente): ‘‘per la Processione di Gesù Morto, al costume antico romano, si noleggiano n° 16 abiti per cavalleria e n° 12 per l’infanteria”. Da ulteriori documentazioni risulta pure che chi desiderava, tra i componenti la Confraternita, “munturarsi” per tale occasione, doveva prenotarsi e versare la somma di lire 10.
L’importo occorso per questo noleggio sembrò essere gravoso
e per la successiva Processione, che come stabilito doveva effettuarsi
triennalmente, si ha una delibera di Consiglio firmata dal De Larderei e di
cui riportiamo il testo: “Signori, a rendere più decorosa la Processione di
Gesù Morto, si è usato da vario tempo raccogliere le oblazioni dai fedeli per
procurarne abiti e armature di costume romano. Il nolo però di queste cose
medesime, a cui torna conto di acquistare o fare gli uni e gli altri. È in
questo intendimento che i sottoscritti deputati aprono la sottoscrizione
seguente, dichiarando che gli abiti e armature fatte, restano di assoluta
proprietà della Misericordia del nostro paese per servire allo scopo predetto
e ad altri usi paesani occorrendo. Così, questa offerta deve compendiare
quelle di molti anni, (segue l’elenco con le somme versate).’’
Arrivati alla data del 1863 troviamo molti foglietti con elenchi
vari di stoffe, bottoni, velluti, filo, ecc. così da renderci conto che i
costumi (tutt’oggi esistenti) furono fatti a Pomarance, e ciò lo dimostra una
specie di ricevuta così compilata: n°14 bustini fatti alla Giudea in teletta argento
L. 56,00 al comandante in teletta oro L. 8,00 per tagliatura e infelpatura di
16 manti L.2,00 per 32 nappe per detti manti L. 2,50 Altri documenti dimostrano
l’acquisto di cartone per la costruzione degli elmi romani e di questi, come
anche degli scu
di, sembra esserne esecutore certo Giuseppe RIGHI.
Riguardo al Miserere che
veniva cantato processionando, troviamo che fu scritto appositamente, in stile
Gregoriano, dal sacerdote MATTEO COFERATI, studiato per quattro voci dispari
(miste). La stampa fu a cura e spese del Volterrano Grand’Ufficiale Prof.
Carissimo TRAFELI. Quest’anno come dicevo, la nostra Associazione intende far
rivivere per una serata la vecchia tradizione, e a tal scopo si è rivolta alle
associazioni nominate, le quali hanno già risposto assicurando la loro
disponibilità e l’aiuto richiesto.
Centurione Romano impersonato da MARIANO TANI
La PROCESSIONE BELLA, oltre all’impegno di tutte le persone che si disponevano processionando in varie vesti, consisteva anche negli addobbi particolari che venivano usati per tale ricorrenza. Per ampliare in qualche modo la flebile luce dei rari lampioni a petrolio posti lungo le vie del paese, venivano collocati alle finestre delle abitazioni, svariati lampioncini di vetro attaccati a delle raggere in ferro e alimentati da olio e stoppino, (la numerosità dei lampioncini era in parte dovuta all’annata delle olive e conseguentemente alla produzione olearia). Partecipava all’illuminazione tutta la cittadinanza ma in maggior parte, a motivo delle possibilità, erano numerosi nella Via Roncalli (detta Via dei Signori poiché vi erano i palazzi di tutti i proprietari terrieri). Questa illuminazione comportava molto lavoro di preparazione e l’installazione dei lampioni aveva inizio almeno una settimana prima per dar modo che fosse tutto pronto per la data stabilita, e si faceva a gara per avere la illuminazione più bella. È curioso citare il numero dei lampioni collocati nella Via Roncalli per renderci conto della paziente opera di preparazione; i dati si riferiscono alla Pasqua del 1879 e sono stati ricavati dal diario del Maestro LESSI di cui se ne riporta il testo: Palazzo de Larderei 272 lampioni 1160 lumi
Complessivamente solo nella Via Roncalli
si aveva una luminosità composta da 772 lampioni e da circa 3500 lumi. A questi
vanno aggiunti tutti gli altri alle finestre del Palazzo Biondi Bartolini e di
cui non se ne fa nome, inoltre il Palazzo Gardini e tutta la Piazza De Larderei
compresi i terrazzi presso la Porta Volterrana, che messi tutti insieme
destavano la loro suggestione all’ingresso del vecchio Pomarance.
Sappiamo per notizie ricavate che questa
manifestazione coinvolgeva in un modo o nell’altro, credenti e non, la maggior
parte dei pomarancini che con i costumi dell’epoca doveva rappresentare i vari
personaggi.
Sin dai primi giorni dell’anno
iniziavano i preparativi, sia per la scelta dei personaggi, sia per la
corporatura adatta alla taglia della veste da indossare. Si ricercavano i vari
uomini atti ai servizi per le portantine, per il baldacchini, per i mazzieri
ed altri scopi.
Venivano effettuate nel campo del Piazzone le prove con i cavalli per abituarli al frastuono della banda ed all’andirivieni della gente. Anche le sembianze delle persone venivano contraffatte da folte barbe che si lasciavano crescere nelle ultime settimane. Tutti erano coinvolti, allo scopo di far riuscire nel miglior modo possibile questa rievocazione e far figura con tanti spettatori che venivano dai paesi limitrofi e da quelli più lontani.
La processione portava questo ordine:
Aprivano il corteo
funebre 2 cavalli (possibilmente bianchi) “IL SILENZIO’’;
seguiva la Croce
spoglia affiancata da due lampioni;
le insegne della
Passione;
la Banda paesana che
suonava marce funebri alternandosi alla Corale;
un drappello di
soldati romani di fanteria;
il Clero;
la statua di Gesù
Morto, sotto il baldacchino nero, ed ai lati i gendarmi in alta uniforme, ed
altri componenti della Misericordia incappucciati in nero, con torcia formata
di corde ritorte ed imbevute di resina;
il gruppo della Corale
al canto del Miserere;
le donne in doppia
fila con il sacerdote al centro;
la statua della
Madonna Addolorata affiancata da 8 soldati romani;
gli uomini in fila
doppia;
otto soldati a cavallo
ed al lato l’apposito palafreniere.
Gruppo Fanteria Romana (Processione Bella anno 1948).
A contenere l’ordine e la disciplina
della fila vi erano i mazzieri, che specie nei tratti curvosi, mantenevano la
retta sfilata dei processionanti. Tutto ciò sfilava in mezzo ad una folta
folla che in silenzio assisteva al passaggio per poi accodarsi fino alla
Chiesa per la dovuta “baciarella”. La Processione, che come da accordi presi
con il Proposto Don Burlacchini seguirà lo stesso ordine di una volta, sfilerà
nel seguente itinerario stradale: Partendo dalla Chiesa, per Via Mascagni,
Piazza de Larderei, Piazza S.Anna, Via Gramsci, Viale Roma, Via della Libertà,
Via della Repubblica, Via Mario Bardini, Via Garibaldi, Via Cercignani,
aggirando l’abitazione di Spinelli A., Via Indipendenza, discendendo
nuovamente in Via Cercignani, per Via Garibaldi, Piazza S.Anna, Piazza de
Larderei, Via Roncalli e risalendo da Via della Costarella si porterà
nuovamente in Via Mascagni sino alla Chiesa Parrocchiale.
Dal Parroco
Don Piero Burlacchini si ha comunicazione che le consuete oblazioni che i
fedeli usano lasciare al momento del bacio alle immagini sacre del Gesù e della
Madonna, andranno devolute alla ristrutturazione del Campanile. Vogliamo
sperare che questo richiamo sia sentito da tutti, e che sia il Campanile a
trarre vantaggi da questa PROCESSIONE BELLA.
Giorgio
NOTE BIBLIOGRAFICHE
Archivio confraternita Misericordia di Pomarance.
“RIEVOCAZIONI STORICHE” di Edmondo Mazzinghi, da La
Comunità di Pomarance Anno VII! n°3 e 4, Agosto 1975.
Attraverso le memorie di chi, per gran parte della sua vita ha vissuto in un podere, abbiamo cercato di ricostruire, anche se in modo molto parziale, ambienti, abitudini ed usi a testimonianza di un passato che distano dall’oggi solo qualche decennio ma che le grandi trasformazioni hanno reso molto più remoti. La maggior parte delle dimore rurali situate nelle nostre campagne, in quanto frutto di un’architettura spontanea, sono nate senza un progetto e si sono modellate protempore a seconda delle necessità. Gli spazi, specie quelli abitativi, erano organizzati funzionalmente e ruotavano tutti intorno alla cucina, vero cuore della casa, anzi “casa” per antonomasia.
Elemento fondamentale della cucina era il focolare, situato
su un piano rialzato e contornato da panche di legno dove ci si sedeva
d’inverno per riscaldarsi attorno al fuoco. Queste ultime, all’occorrenza si
potevano usare come letti di fortuna quando capitava di ospitare per la notte
persone di passaggio, per lo più carbonai o venditori ambulanti; in questi
casi si poneva sopra ciascuna panca una balla riempita con la paglia detta
“rapazzola” , a mo’ di materasso.
Dal camino pendeva una catena con un gancio, anneriti dal fumo, che servivano per appendervi il paiolo di rame o il calderotto per l’acqua. Vicino al focolare si trovavano due alari in ferro battuto, la paletta, le molle ed un granatino di saggina. Appesi alle pareti stavano la cassetta con il sale e vari treppiedi per arrostire il cibo; sotto alle panche si teneva la legna e, una volta usato, vi si riponeva il reggipadelle. Per cucinare si usavano anche i fornelli a carbone che, in alcuni casi, si trovavano incorporati nella struttura del focolare, in altri erano posti su un’altra parete, di solito vicino all’acquaio. Sopra all’acquaio stavano la catinella, la brocca (senza beccuccio) ed il brocco (con il beccuccio) ambedue di rame, quest’ultimo conteneva l’acqua potabile, quando era vuoto si andava in cantina e si riempiva al coppo di terracotta, servendosi di una tazza e di un imbuto, tenuti a portata di mano, sul piatto che solitamente si usava per coprire l’apertura del coppo. Quando anche questo era vuoto si andava a prendere l’acqua ad una fonte con le “barlette” di legno caricate sulla cavalla. Sotto l’acquaio c’erano il catino per rigovernare, il paiolo, il calderotto e i secchi con gli scarti di cibo per il maiale e le galline; l’apertura era di solito coperta con una tenda. Appesa al muro, al di sopra dell’acquaio vi era la piattaia dove si riponevano i piatti, i coperchi delle pentole e qualche zuppiera di modeste dimensioni. I tegami con i manici venivano appesi ai ganci dell’attaccapanni, mobiletto pensile di minimo ingombro ma di grande funzionalità, dal quale sporgevano in alto ed in basso due mensole, sulla prima si mettevano le pentole più grandi, capovolte; sulla seconda, che terminava con una piccola sponda, si riponevano i bicchieri di tutti i giorni, anch’essi capovolti.
Altro oggetto importantissimo della cucina era la madia, essa era usata come piano di lavoro per fare il pane inoltre, al suo interno vi si conservava il pane cotto edlievito ricoperto di farina. Nei cassetti si tenevano i fusi, i gomitoli di lana, la tovaglia ed i teli del pane. Nella parte bassa, chiusa da due sportelli, si riponevano, tra le altre cose, i fiaschi con l’olio e l’aceto. Oltre alla madia, in alcuni poderi, si trovava anche un cassone dove si conservava la farina e tutti quegli utensili che con essa avevano qualche relazione: staccio, capretta (reggistaccio), maccheronaio, ecc.
Incavati all’interno delle spesse mura sitrovavano di frequente delle scaffalature chiuse con tende, che servivano da disensa. Sulle relative tavole si ponevano i fiaschi del vino, il fiasco dell’olio per i lumi, il lume ad olio, il lume a cantino (petrolio) e la lanterna ad olio per la stalla, la bugia ed il lanternino per andare a veglia quando non c’era la luna, i barattoli di grano ed orzo tostati, i barattoli di marmellata ed i barattoli di terra con i pomodori sotto sale, i sacchetti di stoffa con i ceci ed i fagioli, olive e fichi secchi. Per terra senza una precisa collocazione si trovava talvolta una grossa ciotola di legno detta “boriglia” che conteneva la semola, in essa, quando era l’ora di coricarsi, le donne infilavano le rocche con la lana o il lino perchè stessero ben dritte.
Dietro la porta d’ingresso si tenevano
la granata di saggina e la “cassetta” di legno. Al centro della stanza stava
il grande tavolo e nel senso della lunghezza vi erano una o due panche e
qualche seggiola impagliata.
Gran parte dei pasti quando il tempo lo
permetteva, erano consumati all’aperto, in questo caso spesso non si usavano i
piatti ma si mangiava direttamente dal tegame e si beveva ad un solo bicchiere
o a “garganella” direttamente dal fiasco. Se i pasti erano fatti a casa si
apparecchiava sempre la tavola con la tovaglia bianca di “rinfranto” , si
mettevano i cucchiai, le forchette, non si usavano invece i coltelli poiché
ogni contadino ne aveva uno tascabile.
Dopo la cena le donne facevano le faccende e gli uomini andavano a veglia o ricevevano i vegliarini. Durante la veglia gli uomini giocavano a carte e bevevano qualche bicchiere di vino, mentre le donne si tenevano occupate filando, facendo la calza, rammendando, poiché il loro stare con le “mani in mano” sarebbe stato motivo di biasimo. Presso alcune famiglie, al sabato sera, le donne, a turno, lavavano e ungevano con il grasso di maiale (sugna) le scarpe di cuoio e di vacchetta di tutti i familiari; e mentre si lavorava e si giocava, talvolta qualcuno raccontava storie e novelle oppure si parlava del raccolto, delle bestie, di argomenti insomma legati alla vita quotidiana.
La Signora Bibbiani, la già conosciuta protagonista e scrittrice dell’ormai noto libro “IL FORMICAIO”, è stata qualche giorno a Pomarance ospite della sua amica Emma.
Durante il suo soggiorno è venuta a trovarci alla
Pro Loco. Abbiamo parlato di argomenti del tempo passato, del suo libro e di
altre cose di Pomarance.
In
questi giorni ha trovato il tempo per scrivere ancora qualcosa che poi ci ha
lasciato insiema ad altro, tracciato precedentemente.
Sono tre racconti che riprendono il discorso dalla fine del suo libro. Il primo parla del trasloco dal Formicaio alla Fonte del Comune, il secondo del Lavatoio pubblico che si trovava presso la sua nuova abitazione e delle storie accadute tra le donne che frequentavano questo luogo, il terzo è un racconto su questi ultimi giorni trascorsi a Pomarance e delle ore di lettura passate nel Piazzone.Certi di far cosa gradita ai nostri lettori, proponiamo loro tutti e tre i racconti.
LO SGOMBERO
Gli sgomberi sono avvenimenti molto
importanti nella nostra vita, perché segnano le tappe del nostro percorso,
tappe che lasciano dietro di sé un certo modo di vita, un certo ambiente, certe
amicizie e ci portano in un ambiente tutto diverso, dove diverso sarà il modo
di vivere, diverse le amicizie, diverse le esperienze.
Il primo fu per me il più doloroso. Fu
il distacco dal Formicaio, dal nostro piccolo regno dove noi ragazzi eravamo
nati e dove avevamo vissuto un’infanzia povera sì ma libera, sana e
spensierata.
Fu l’addio al nostro piccolo grande
Formicaio coi suoi campi, le sue piante, le sue bestie, la sua casa, la sua
Croce.
Come risuonavano tristi le sue stanze
vuote!
Vi rimase solo la mucca. E per mamma fu
questo l’addio più doloroso poiché l’amava quasi come una persona; amore del
resto ricambiato, poiché la povera bestia mugghiò dolorosamente per giorni e
giorni come quando le portavano via il vitellino.
Portò via le nostre povere cose un carro
trainato da buoi. All’ultimo viaggio in cima al carro troneggiavano il
trabiccolo e lo scaldaletto! Sotto, in
una cesta, c’erano le galline, poiché mamma non aveva voluto separarsi da loro.
E noi dietro, a piedi, tristi, come a un
funerale.
Tornammo alla fonte del Comune, a
ridosso della collina, dove il sole tramontava alle tre del pomeriggio, in una
vecchia casetta di tre misere stanze, davanti al lavatoio pubblico. Fu un cambiamento
in peggio per tutti, in tutti i sensi. Babbo passò dalla vita contadina,
faticosa si ma libera, a quella incerta e dipendente di operaio e mamma dovette
andare a mezzo servizio. Perfino le galline ci scapitarono, private del vasto
pollaio, dell’aia e dei campi e costrette in un angusto recinto dove non
vedevano mai il sole.
La gattina bianca addirittura fuggì:
ormai vecchia volle andare a morire al suo Formicaio.
V. Bibbiani
IL LAVATOIO
Il lavatoio pubblico fu per
me come un palco da cui potei assistere a più d’uno spettacolo gratuito, e
venire a conoscenza di vita morte e miracoli di tutto il paese, poiché le donne
portavano al lavatoio non solo i panni sporchi materiali ma anche gli altri,
cioè tutti i petegolezzi, tutti i segreti, tutti gli scandali.
La via della Fonte
Stropicciavano, sbattevano,
sciacquavano, torcevano, e chiacchieravano, chiacchieravano… mentre l’acqua
diventava sempre più sporca e più densa, finché si ricopriva di una coltre di
sudicia saponata che le donne cercavano di allontanare continuamente dai loro
panni.
Una volta, una donna, moralmente vulnerabile, malignò sul conto di un’altra che era dal lato opposto; questa naturalmente, replicò; la prima raddoppiò la dose, la seconda passò alle offese, finché tutte e due, rosse dalla rabbia, cominciarono a lanciarsi, a piene mani, quell’acqua limpida e profumata bagnando anche le altre.
Successe il finimondo!!!!
Spesso qualche pezzo di sapone scivolava dalle mani infreddolite delle donne e, siccome il fondo del lavatoio era in pendenza, riprenderlo era un problema. Munite di una mazza, in cima alla quale era legata una vecchia forchetta; povere donne, quanto frugavano e quanto imprecavano!
Il lavatoio della Fonte di Cannerj detta del comune
Il lavatoio veniva svuotato e
pulito solo una volta o due alla settimana da Mizio, lo spazzino. Veniva giù
nel tardo pomeriggio, armato di secchio e ramazza, dava all’ultima donna che si
trovava lì il suo fagottino di panni sporchi perché glieli lavasse (era
vedovo), mentre la vasca lentamente si svuotava. Infine vi entrava dentro per
pulirla, recuperando fazzoletti, calzini, fibbie e bottoni e quei benedetti
pezzi di sapone che erano diventati morbidi come pappa e* che regalava alla
donna che gli aveva lavato i panni.
Durante la notte, lentamente,
il lavatoio si riempiva.
La mattina dopo, le donne
facevano a gara ad alzarsi presto per poter usufruire dell’acqua pulita.
Arrivavano addirittura all’alba, una dietro l’altra e in poco tempo erano così
tante che vi stavano a contatto di gomito, e non c’entravano e si bisticciavano.
La prima naturalmente era la
Milia, la vecchia contadina, che aveva bollito il bucato la sera prima ed ora
se lo portava addirittura fumante dalla conca. Era molto brava per lavare, la
Milia, e con poco sapone, chè il segreto, diceva lei, stava nel far rimangiare
ai panni la saponata, senza disperderla nell’acqua.
lo, dalla finestra, imparai
tutti i segreti del mestiere e qualche volta mi alzavo presto per andare ad
aiutarla.
Il
compenso era un bell’uovo fresco!!!
IL PIAZZONE
Dietro al paese, dal lato di Nord-Est, c’è un gran piazzale
a forma di triangolo, scavato nella roccia: il Piazzone.
Il lato occidentale è limitato da un alto muro, gli altri
due da imponenti, meravigliosi, secolari ippocastani.
Ai miei tempi, per la festa del patrono, mentre in piazza
si svolgeva la rumorosa fiera destinata alle donne e ai ragazzi, nel Piazzone
si svolgeva quella, non meno rumorosa, del bestiame, destinata agli uomini.
Il ‘Piazzone”: Fiera Bovina nel 1932.
Le bestie, teste e code ornate di nastri e cordicelle
colorate, venivano attentamente osservate, palpate, guardate in bocca,
misurate, pesate, in mezzo a urli, muggiti e ragli.
Ogni tanto qualcuna partiva col nuovo proprietario, finche,
piano piano, il Piazzone si svuotava; restava solo qualche povera “brenna” che
il padrone, deluso, si riportava a casa, mogio, mogio.
Poi vennero i trattori e la fiera del bestiame se ne andò,
come se ne vanno tutte le vecchie cose.
Il Piazzone si trasformò in campo di calcio e risuonò delle urla dei tifosi assiepati lungo il muro di cinta. Alcuni secolari ippocastani furono sacrificati per far posto ad una delle porte da gioco, mentre la parte inferiore del triangolo fu isolata con un filare di cipressi e per metà lastricata ed adibita a pista da ballo e da pattinaggio.
Questa estate sono andata al paese; sono andata a
frescheggiare nel Piazzone, all’ombra degli ippocastani.
Il campo da gioco è stato abbandonato per il nuovo stadio.
Si anima solo per il Palio dei Rioni.
Seduta all’ombra soleggiata e profumata di resina dei
cipressi, o a quella fonda e fresca degli ippocastani, ho trascorso lì molte
ore del mattino.
Silenzio e pace assoluti, incredibili in questo mondo così
rumoroso; aria pura, fresca, leggermente ventilata, profumo di erba, di terre,
di ragia.
Nella strada sottostante non passano più le donne ciarliere
per andare alla fonte e al lavatoio. Una sola ne ho vista; e non portava la
“balla” dei panni in testa e le “mezzine” in mano, ma solo una tinozza di
plastica celeste sotto il braccio.
Il libro è aperto sulle mie ginocchia. E’ un libro di
Cassola e descrive proprio le colline e paesi di questa terra, di questa
Maremma tanto cara al suo cuore come al mio. E i suoi personaggi suscitano in
me il ricordo di altri personaggi lontani, ma stampati vivamente nella memoria.
Ad ogni ora, l’alto campanile della Chiesa scandisce per due volte i suoi
tocchi sonori; gli fanno eco, anch’essi per due volte, quelli più bassi deila
Torre del Marzocco. Forse le cicale friniscono, ma al mio orecchio giunge solo
un leggero fruscio.
Stanotte ha piovuto. Sulla pista, in un punto avvallato,
c’è una bella pozzanghera di acqua piovana.
Giunge un uomo con un bambino.
L’uomo è sui 40 anni; il bambino ne avrà poco più di
quattro; ha con sè la biciclettina a quattro ruote.
L’uomo mi dice di aver avuto il figlio dopo 13 anni di
matrimonio e si vede subito che è un babbo apprensivo, esageratamente
premuroso e timoroso. Gli mette la biciclettina sulla pista dicendo: “Lorenzo,
mi raccomando, piano”.
Il bambino comincia a pedalare nell’asciutto, ma quella
bella pozzetta d’acqua lo attira e vi si avvicina.
“No, Lorenzo,
no, nell’acqua no!” Ma Lorenzo non ubbidisce e vi entra.
“Lorenzo,
piano, ti bagni i piedi!”
Lorenzo non gli dà ascolto e sfreccia nell’acqua alzando ai
lati due creste spumose.
Gli sorrido e lo incito. “Che bellezza eh! Ora sei al mare!
La tua bicicletta si è trasformata in un motoscafo!”
E il babbo: “Lorenzo, piano! Lorenzo, vai all’asciutto!”
E Lorenzo mi guarda e sguazza felice su e giù.
E naturalmente si bagna i piedi!
“Te lo dicevo! Hai visto ti sei bagnato i piedi! Ora ti
porto a casa!”
Ed io: “Sarebbe meglio che gli levasse le scarpe e, mentre
queste asciugano al sole, ce lo facesse giocare a piedi nudi; tanto l’acqua è
calda!”
Per non contraddirmi, il babbo cede.
E Lorenzo entra nell’acqua coi piedini scalzi e vi sguazza
felice, come facevo io nel pelago e nelle pozzanghere del Formicaio!
E mi viene una voglia matta di andare nell’acqua con lui,
ma temo che l’uomo mi prenda per “matta” e mi astengo.
Lorenzo mi guarda felice e riconoscente. Mi son fatta un amico.
E la mattina seguente spero che torni.
Passano le ore; piano piano la pozzanghera si ritira;
Lorenzo non viene nè quel giorno nè i giorni seguenti.
Il babbo lo avrà portato a
giocare altrove, lontano da questa nonna un po’ matta che ha voglia di
sguazzare come lui nelle pozzanghere!
Gli abitanti delle nostre campagne erano in larga misura
accomunati da una visione estremamente concreta della vita, per cui, a monte
di ogni evento, positivo o negativo che fosse, doveva esistere una causa
precisa e controllabile.
Talora credevano che qualcuno nascesse già in possesso di
connotazioni positive o negative, che identificavano in circostanze concrete
o in dati fisici: le donne settimine, nate al settimo mese di gravidanza,
oppure settime dopo sei fratelli, e quelle venute alla luce in particolari giorni
dell’anno, ad esempio per [’Ascensione, erano ritenute in possesso di doti specifiche
per togliere il malocchio e le fatture, segnare “i bachi”, “le storte”, ecc.;
era segno di fortuna, inoltre, il ‘‘nascere vestito o con la camicia” cioè con
il corpo ricoperto da quella sostanza lattiginosa che facilita l’espulsione
del feto al momento del parto (vernice caseosa).
Riguardo a tutto ciò che di negativo poteva accadere
nell’arco dell’esistenza, le cause venivano spesso ricercate nel malocchio,
nelle fatture e nei cosiddetti “spregi ai santi”.
Il malocchio, secondo questa concezione, è un influsso che
proviene propriamente dagli occhi, occhi “mali” cioè cattivi, che può essere
emanato con o senza la volontà del proprietario. A scatenarlo spesso basta una
lode o un’osservazione, per questo se si afferma “Bello questo bambino!” è
rimasta ancora oggi nella tradizione popolare la consuetudine di aggiungere
“Che Dio lo benedica!” a mo’ di parafulmine.
Il malocchio si accerta e si “leva” con
un rito particolare da farsi a lume di candela: in una scodella d’acqua vengono
versate gocce d’olio d’oliva, se l’olio si scompone o scompare, il malocchio
c’è; l’operazione va ripetuta fino a che le gocce decidono di galleggiare
come di norma (come Dio comanda).
Durante il rito si pronuncia una formula che varia da zona a zona, quelle che seguono le abbiamo tratte da una pubblicazione sulla cultura contadina in Toscana, poiché non è stato possibile, data la segretezza dell’argomento, reperirle direttamente da chi ancora oggi ne fa uso.
Gesù Giuseppe e Maria se è il malocchio se ne vada via, io
ti segno,
Dio ti libera,
mi raccomando alla S.S. Trinità che ti ritorni la tua
sanità.
Mi rivolgo a Dio e a tutti i Santi che questo male vada indietro e non avanti,
Dio mio sia se hai il malocchio ti vada via.
io ti segno, Dio ti
libera.
Ben più grave è la fattura in quanto è
definita come “cosa fatta apposta per indurre un male” ed è praticata,
secondo la credenza popolare, da persone nate per fare del male.
Un rimedio, ritenuto sicuro per
annullare una fattura, consisteva nell’impossessarsi di un indumento del supposto
“fattucchiere” e quindi tracciato un cerchio attorno al fornello di cucina,
metterlo a bollire. Si da per certo che, l’autore della fattura, non avrebbe
tardato a bussare all’uscio, scongiurando di interrompere l’operazione,
sentendosi bruciare addosso.
Altra causa di malanni di ogni tipo
erano ritenuti gli “spregi ai santi”. Questo tipo di causa veniva spesso
diagnosticata da un indovino, che ordinava al peccatore di chiedere scusa al
santo offeso, con la speranza di venire ascoltato e perdonato. Oltre ai rimedi
esisteva anche una profilassi, che consisteva nel portare addosso oggetti
benedetti o amuleti.
Uno dei tanti momenti negativi di crisi
e di pericolo è rappresentato dalle malattie. In campagna si aveva rispetto per
la medicina quando riusciva a guarire; se non ci riusciva o quando il medico
non era a disposizione, non si restava con le mani in mano ma ci si affidava ai
rimedi tradizionali.
Bastava che uno dicesse – mi sento male
– gli davano subito l’olio di ricino. Questo era il toccasana per una vasta
gamma di malattie; veniva acquistato in bottiglie da venditori ambulanti, che
periodicamente facevano il giro delle nostre campagne. Allo stesso modo ci si
procuravano le “mignatte”: quando passava il “mignattaio” se ne compravano due
o
tre, si tenevano dentro ad un recipiente di terracotta pieno d’acqua chiuso da
un coperchio forato e si applicavano per curare la polmonite.
Per l’influenza si usava il “pane
lavato” o “acqua panata”: si arrostiva una fetta di pane e si
metteva in un bicchiere pieno d’acqua, quando era ben zuppato si strizzava e
l’acqua, cosi ottenuta, si faceva bere all’ammalato. Lo stesso rimedio si otteneva sostituendo il pane arrostito
con il riso.
Per disinfettare tagli e ferite si
faceva bollire in un cucchiaio d’ottone qualche goccia d’olio ed un po’
d’aceto, quando l’aceto era evaporato si faceva raffreddare l’unguento e si
applicava.
All’inizio dell’estate venivano raccolti
i “borsacchi d’olmo”, il liquido che si trova all’interno veniva usato
anch’esso come disinfettante e cicatrizzante per le ferite.
Si faceva largo uso di erbe medicinali
soprattutto per il “calore” (infiammazione): erba rospa o erba diavola,
camomilla, malva, vetriola, assenzio e salvia (amare come il veleno) e erba del
calore; per il bruciato era conosciuta un’erba particolare, detta appunto
“erba del bruciato” che veniva essicata e fatta bollire nell’olio. Le
“storte” si facevano segnare e si curavano applicando la chiara
d’uovo montata a neve e fasciando con la stoppa. Quando un bimbo aveva i
“bachi” si facevano “segnare” oppure si faceva annusare il
petrolio; si usava anche bollire alcuni spicchi d’aglio e far bere l’acqua. Il
modo più diffuso di curare l’orzaiolo era di “cucirlo”: si andava dalla
persona addetta che infilava un filo bianco o nero nell’ago e, facendo finta
di cucire l’occhio verticalmente ed orizzontalmente, diceva delle preghiere
segrete e faceva il segno della croce.
Negli esempi fin qui citati abbiamo
visto come, nelle nostre campagne, venivano curate alcune comuni malattie, ma
vale la pena citarne altre, proprie della cultura contadina, e non
riconosciute dalla scienza medica. Una è il “dolore”, inteso non come
sintomo, ma come malattia a se stante, simile alla “passione” ed al
“crepacuore”; di ciò ci si poteva ammalare ed anche morire.
Quando qualcuno si ammalava, anche
gravemente, e non si riusciva a trovare una causa precisa, tradizionalmente la
si attribuiva alla “paura”. Si riteneva, infatti, che ha provare un forte
spavento poteva entrare in corpo “la paura”, causando malattie anche molto
gravi.
In conclusione si può dire che nella cultura contadina c’è la volontà di trovare una spiegazione a tutto e a tutto trovare un rimedio, in un continuo barcamenarsi tra religione, scienza e magia.
RISCOPERTE DAGLI ALUNNI DELLA 2a CLASSE ELEMENTARE
Nell’anno scolastico appena concluso, le classi seconde della scuola elementare di Pomarance si sono avventurate in una suggestiva ricerca sul passato: l’origine delle vecchie fonti del paese e gli usi e costumi legati a questi antichi centri di incontro della comunità. I piccoli storici, con la guida delle insegnanti, sono partiti anzitutto dallo studio di fonti scientifiche, quali documenti dell’Archivio Comunale e carte topografiche, utilizzando, inoltre, per gli aspetti antropologico- culturali, anche altri testi, quali “Il Formicaio” della Bibbiani o la stessa pubblicazione “La Comunità di Pomarance”.
Le tre fonti che principalmente sono state studiate sono
quella anticamente detta “di Cannerj”, o volgarmente “la fonte del Comune”,
quella delle “Peschiere” e quella della “Boldrona”, viste sia come
fonti-abbeveratoi, che come lavatoi. In particolare, quest’ultimo punto ha aperto
la strada a gustosi spaccati sulla vita sociale e sulle abitudini, soprattutto
femminili, legate all’uso delle fonti.
Attraverso i ricordi e le interviste fatte dagli alunni alle persone anziane del paese, sono stati ricostruiti i “canti del Lavatoio”, che avevano sia la funzione di alleviare alle donne il tedioso lavoro del bucato, sia quella di diffusione delle conzoni allora in voga, portate nei paesi dai cantastorie, in assenza di radio e televisione. In un apposito giornalino sono state raccolte le “chiacchiere di lavatoio”, sempre secondo le indicazioni fornite dalle anziane donne intervistate, le quali chiacchiere si sono rivelate straordinariamente attuali, avendo per oggetto, come sempre, pettegolezzi, “scandali” o avvenimenti straordinari della comunità.
Il lavoro si è quindi articolato, in prospettiva interdisciplinare, sull’intera attività scolastica, interessando varie discipline, quali la storia, la geografia, la ricerca linguistica, gli studi sociali, l’educazione all’immagine e l’educazione musicale, mentre i materiali prodotti (elaborati, foto, disegni, ecc.) sono stati per le insegnanti anche uno strumento di verifica sia per l’acquisizione delle conoscenze, sia per gli obiettivi di apprendimento che era manifestazioni “Da Maggio a Maggio”, ed ha riscosso vivo interesse e apprezzamento.
Un doveroso
plauso, quindi, alle insegnanti e agli alunni, dei quali sembra giusto
riportare, qui sotto, i nomi, insieme alla riproduzione di uno dei tanti
elaborati.
Nell’alimentazione contadina il pane era il cibo assoluto, il nutrimento per eccellenza. Tutti gli altri cibi si riassumevano in una sola parola “companatico” a ribadire il loro carattere secondario, in quanto non indispensabili e non sempre disponibili.
Questa situazione si è saldamente radicata attraverso i
secoli tanto che, in un mondo ormai regno del “companatico”, il pane rimane per
molti un punto di riferimento dell’alimentazione quotidiana, certo più per
abitudine che per reale bisogno nutritivo.
Di norma nella tradizione contadina il pane si preparava
una volta alla settimana o per meglio dire “ogni otto giorni”.Per una decina di
persone occorreva cuocere circa venti pani alla volta, per lo più rotondi e
del peso di due chili ciascuno. Il giorno precedente si preparava la legna
necessaria per scaldare il forno e alla sera si metteva il lievito a rinvenire
nell’acqua poiché gli otto giorni trascorsi sotto al “monticino” della farina
in un angolo della madia, lo avevano indurito. La mattina seguente di buon’ora
si scaldava l’acqua necessaria nel paiolo di rame, quindi si prelevava dal cassone
la farina occorrente che si stacciava nella madia facendo scorrere lo staccio
su di un piedistallo di legno chiamato “reggistaccio”.
L’acqua calda si stemperava in una pentola
con altra fredda sgorgata dal brocco e la si versava un po’ per volta sulla
farina distesa nella madia cominciando ad impastare attorno al lievito.
Lavorando con le mani si continuava ad amalgamare l’impasto fino a che, ottenuta la necessaria consistenza, si procedeva a staccare da esso le forme dosate a vista che venivano ulteriormente lavorate una ad una sulla “spianatoia” e poi deposte su una tavola di legno ricoperta da un telo spolverizzato di farina. Tra una forma e l’altra si faceva una piega ondulata al telo quindi si posava l’orlo di un bicchiere su ogni pane lasciando un’impronta che si riteneva favorisse la lievitazione. A questo punto si copriva il tutto con un lembo del telo lasciato ciondoloni; se faceva freddo si usava anche una coperta di lana e si provvedeva a riscaldare l’ambiente con un braciere posto sotto la tavola. Quando le forme cominciavano a lievitare si procedeva a scaldare il forno. Si bruciavano più o meno rapidamente alcune fascine di legna fine finché le lastre laterali accennavano a un colore biancastro, a questo punto si mandava la brace tutta da un lato usando una pertica e si spazzava il forno con lo “spazzolo”, infine si faceva “cascare la bronza” cioè si verificava la temperatura del forno introducendovi alcuni rametti di frasca: quando le foglie non annerivano voleva dire che era il momento giusto per infornare il pane.
Sollevando il telo si rovesciavano le
forme una ad una su di una mestola e da questa sulla pala poggiata vicino alla
bocca del forno, quindi si deponevano all’interno del forno disponendole di
rigiro a cominciare dal punto più lontano dalla brace; in questo modo si
bilanciava il calore per la cottura.
Quando in casa c’era una donna che aveva da
partorire si faceva un panino per prevedere il sesso del nascituro: se si
spaccava, si diceva sarebbe stata una femmina, se rimaneva intero si prevedeva
la nascita di un maschio.
Dopo circa mezz’ora si apriva il forno e
si rovesciavano velocemente tutti i pani per farli cuocere da entrambi i lati;
un’ora era di solito sufficiente per completare la cottura.
A questo punto si estraevano i pani dal
forno con la stessa pala usata per infornarli e con lo spazzolino di saggina
si toglievano la cenere, la farina ed i pezzetti di carbone rimasti
eventualmente attaccati alla crosta, quindi si disponevano ritti sulla tavola
appoggiati gli uni agli altri e, una volta raffreddati, si riponevano nella
madia.
Quasi sempre si sfruttava il calore del
forno per altre necessità: cuocere la schiaccia, le mele, fare le bruciate,
seccare i fichi, ecc.
Fra i riti
collegati col pane c’era l’idea di non rovesciarlo sul tavolino “sennò” si diceva
“un fa mai buio” intendendo il buio come momento di riposo dopo una lunga
giornata di lavoro, le parole di questo canto toscano ci paiono, a questo proposito,
particolarmente significative:
Tramonta sole per l’amor di Dio ché se un sei stracco te so’ stracco io Tramonta sole per l’amor dé Santi, chè se un sei stracco te n’hai stracchi tanti!
“Levate le lenzuola, oggi si fa il bucato.” Con queste parole la massaia dava il via ad una operazione che, solitamente, impegnava le donne di casa per più giorni. Per prima cosa si provvedeva a bagnare i panni sporchi, quindi si sistemava, in un angolo della cucina, un “troppolo” di legno e su di esso si collocava la conca di terracotta; questa aveva, presso il fondo, un foro nel quale si inseriva il bucciolo o cannello, un pezzo di canna appositamente svuotato che, fasciato di stoppa, era infilato a forza nel foro e chiuso all’esterno con un tappo di sughero. Sul fondo della conca, inclinato a proteggere il foro di uscita, si poneva un testo “poco buono”, magari senza manico, poi si disponeva la biancheria, tenendo presente il principio di porre via via, dal basso verso l’alto, i panni sempre più sporchi. Così, cominciando dal fondo, l’ordine era, in genere, il seguente: prima le lenzuola, poi le federe, quindi le mutande, le camicie da donna e ancora asciugamani, asciughini e tovaglie e, infine, altri eventuali panni bianchi.
Su di essi veniva sistemato il “cenerone”, un telo di balla, sopra al quale si versavano tre o quattro secchi di cenere del focarile; molte volte, per aumentare la capienza della conca e per sostenere il “cenerone” si inserivano, fra la biancheria e le pareti interne, una serie di “schiappe” di legno che sporgevano, anche notevolmente, dal bordo superiore della conca. Intanto si scaldava l’acqua, in un paiolo grande, e la si versava sulla cenere: dapprima tiepida, poi sempre più calda ma non a bollore; quando cominciava ad uscire dal cannello essa veniva raccolta,
riscaldata sempre di più e versata nuovamente
nella conca.
Questa operazione veniva ripetuta più
volte, finché l’acqua estratta dal fondo era ormai calda ed aveva assunto una
colorazione tra il giallo ed il marrone chiaro: ciò significava che il ranno
era pronto; allora lo si faceva bollire e, dopo aver inserito il tappo di
sughero nel cannello, si versava nuovamente nella conca. Ora non restava che
coprire la cenere, ripiegando su di essa le estremità del telo, e lasciar
riposare il bucato fino all’indomani. La mattina seguente si recuperava tutto
il ranno dalla conca e lo si raccoglieva in secchi per riutilizzarlo; con una
paletta si provvedeva a raccogliere la cenere quindi, dopo aver tolto il
cenerono, si prendevano i panni, si ponevano nella “paniere” di vimini o nei
graticci e si andavano a lavare ai lavatoi, dove venivano spazzolati,
sciacquati e strizzati accuratamente. Con cura venivano stesi ad un filo teso
fra piante o pali in un posto soleggiato e ventilato oppure sopra ai cespugli
e, in estate, direttamente sull’erba; se tirava vento, i capi tesi sopra ai
cespugli venivano fermati legandone alcuni lembi ai rametti.
Il ranno
raccolto era usato per lavare i panni colorati, gli indumenti di lana ed era
efficace, dato l’alto contenuto di carbonato di potassio, magnesio, calcio e
silice, anche come detersivo per rigovernare e togliere l’unto dai tegami; molte
donne, inoltre, lo usavano per lavarsi i capelli.
Come ormai risaputo, nel Medioevo, non
vi era in Italia città, castello o villaggio ove non fossero fondati sodalizi
che, sia per culto sia per pietà o misericordia, univano persone (fratelli)
che, volontariamente e per impulso di carità, portavano soccorso agli
ammalati, ai morenti, agli appestati. La loro opera, a seconda dei casi di
malattia consisteva sia nelle cure che alla meno peggio potevano essere
prodigate, sia nel trasporto in ospedale o al lazzaretto per mezzo della “ZANA”
(specie di portantina a forma di gerla, ricoperta in tela, da portarsi a
tracolla e atta allo scopo). In altri casi, quelli irrimediabili, “I FRATELLI”
si prodigavano per il funerale ed il seppellimento.
Trasporto dell’ infermo con “ZANA”.
Le origini delle Misericordie Toscane risalgono
intorno al XIII e XIV secolo, quando le varie associazioni di arti e mestieri,
dietro esempio del Comune di Firenze,
1615 dette inizio, a sue proprie spese, ai lavori per una Cappella nei pressi
del baluardo sulla destra di Via della Costarella, all ’interno della cinta
muraria del castello.
La nuova istituzione fu detta “VENERABILE
CONFRATERNITA DEL SS. SACRAMENTO E DELLA CARITÀ”; iniziò il suo operato e si
distinse ben presto in varie occasioni.
Purtroppo in base al Decreto del 21 marzo
1785 il Granduca Pietro Leopoldo di Lorena, tutte queste benevole organizzazioni
furono soppresse con indignazione e sgomento della popolazione.
Soppresso il Decreto, dopo l’Editto Leopoldino, ripresero le attività di volontariato con varie opere di beneficenza. Anche Pomarance vide nuovamente riformarsi “l’opera assistenziale” soprattutto per volontà del Dr. NICOLA VALCHIEROTTI, avevano affermata la loro vita di azione. Così ovunque si intensificavano queste Compagnie, e Associazioni con un proprio regolamento ed un singolo Statuto appositamente studiato per le caratteristiche del luogo in cui nascevano.
Anche Pomarance si organizzò
per questo Istituto Benevolo, e così, per volere del Sacerdote CESARE GIOVANNI
SANTUCCI, (nipote dell’illustre nostro concittadino Antonio il Cosmografo)
nell’anno
Chiesa della Misericordia.
medico condotto, uomo di singolare pietà, il quale aveva adottata come sua seconda patria la nostra terra. La sua iniziativa si concretizzò rapidamente in una efficiente organizzazione condotta dal medesimo e da altri volenterosi. Durante il triennio della sua carica a Governatore, egli si prodigò per la ricostituzione della Confraternita e per l’ampliamento dell’Oratorio. Per merito suo la vecchia Cappella, di proprietà della sig.ra Anna Fantacci ved. Marchionneschi, in data 24 aprile 1844, con atto di donazione , passò alla Confraternita e fu così possibile dar inizio aH’ampliamento con le oblazioni dei più benefattori.
Con meraviglioso slancio i cittadini di ogni classe si
iscrissero a questa nuova fratellanza prestando la propria opera materiale e
morale. Compilati i relativi capitoli, approvati con Regia Sanzione del 3
gennaio 1845, la Misericordia cominciò subito il suo regolare funzionamento.
Nonostante l’encomiabile impegno dei benefattori non si
riusciva a far fronte a tutte le richieste che si moltiplicavano, così che tre
anni passarono in ritmo crescente di lavoro e di soccorsi. Il mandato di
questo benemerito fondatore era terminato, il suo operato aveva superato ogni
aspettativa e la promessa fatta all’atto della costituzione lo aveva impegnato
al massimo. L’avvio a questa opera era stato eccellente, ma alla scadenza del
primo triennio, il Valchierotti non si presentò alle elezioni volendo
lasciare ad altri volenterosi la libertà di continuare. Regola
ri elezioni videro suo successore il Cav. ADRIANO DE LARDEREL, uomo temprato
nell’esercizio della vita, che aveva dato segno del suo impegno e del suo affetto
per la nostra terra sia con intelletto industriale che religioso (vedi
costruzione caldaie Addane ed interessamento per la istituzione della
Processione Bella a Pomarance). Per dieci anni questo signore attese con
lodevole cura alla benemerita opera che si affermò sempre più. Il maggiore
contributo di umanità si rivelò durante l’epidemia colerica che nell’anno 1855
infestò il pomarancino, e fu ancora più evidente la efficienza dell’organizzazione
e la serietà con cui essa veniva gestita.
Il cav. Adriano de Larderei cessò di vivere alla giovane
età di 35 anni, lasciando rimpianto e cordoglio in tutti quanti lo conobbero.
Con lo stesso zelo e la medesima tenacia seppe ben
imitarlo il di lui fratello conte FEDERIGO DE LARDEREL, il quale si curò
dell’ampliamento di questa Confraternita della SS. Carità facendo in modo di
porla sempre più in vista.
Venne creato anche un abito a mo’ di divisa, a sembianza
di quello già usato dalla istituzione fiorentina: una lunga tunica nera con la
cintola a forma di rosario, un medaglione a giustacuore con l’emblema delle
misericordie e, per mantenere l’anonimato a chi lo indossava, un cappuccio
nero (detto “BUFFO” ) con solo due fori corrispondenti agli occhi. Chi vestiva
questo lugubre indumento non doveva far
sapere all’assistito chi era stato il benefattore, dimodoché non si sentisse
verso di lui debitore nell’eventuale guarigione. A completamento di questa
vestizione era previsto un cappello in feltro a larga tesa che serviva a
proteggere il portantino in caso di pioggia. Se la stagione era mite veniva
tenuto sulla spalla tramite il cordone del sottogola.
Sempre per interessamento del conte Federigo,
si trasformò di nuovo la Chiesetta che venne abbellita con marmi ed ebbe una
nuova pavimentazione. Questa chiesa era già stata consacrata a San Carlo
Borromeo, che ne è patrono, e che conseguentemente dette nome anche alla
piazzetta antistante l’ingresso.
Anche una portantina per il soccorso
agli ammalati fu acquistata, sostituendo la barella a stanghe. Era una
“LETTIGA” su ruote e per alleviare le scosse delle impervie strade aveva le
balestre in modo da ammortizzare gli urti.
Sempre nuove
migliorie per ogni tipo di bisogno venivano usate. Ed anche per i trasporti
funebri venne costruito un carro chiuso con predisposto il posto per il
cocchiere, in modo da poter trasportare il cofano funebre sino all’ultima
dimora. L’ultimo cocchiere, che per anni si impegnò a questa triste cura fu
Dante Spinelli più conosciuto come Dante dell’ortolano che, ad ogni tocco della
campana, era
Campanile della Misericordia.
pronto ad avviarsi con il suo
cavallo ad attaccare il mezzo tenuto presso la sede, e da lì dirigersi presso
l’abitazione dell’estinto. I meno giovani ricorderanno quest’uomo, che sino
all’avvento del mezzo motorizzato, ha scollettato tutti a S. Bastiano.
Per il richiamo dei portantini, in occasione dei funerali,
era usata la campana della Misericordia, posta sul campanile della Chiesa
Parrocchiale (vedi articolo sul n. 3/88 di questa Rivista) che con dei tocchi
particolari avvertiva: se il defunto era uomo, se era donna, se abitava in campagna,
se abitava in paese, se era iscritto alla Misericordia oppure no.
Nel corso degli anni vi è stato un susseguirsi di nomi, di
volenterosi, che con fede e spontanea carità si sono prodigati in questo
misericordioso lavoro.
Trasporto di infermo con “Portantina a stanghe”.
È doveroso ricordare anche i
Governatori, che con lo stesso spirito hanno continuato a dirigere l’istituto
cercando di ampliarlo, ammodernandone le attrezzature per aggiornarsi con
l’evolversi dei tempi. Dopo i due De Larderei, seguì il N. H. Giovanni Biondi
Bartolini che lasciò l’impegno al Cav. Michele Bicocchi e che, conseguentemente,
fu sostituito dal Dr. Giovanni Biondi Bartolini sino ad arrivare ai nostri
tempi con il Sig. Dell’Omo Augusto. A conferma delle notizie più lontane abbiamo
presso la Chiesa della Misericordia delle lapidi che ricordano questi uomini
fino al fondatore iniziale, il Sacerdote SANTUCCI, che con una scritta latina
è così ricordato:
Questo Sacro Edificio
dedicato a Dio alia Divina Madre e aS. Carlo Borromeo Cardinale di Milano, lo innalzò dalle
fondamenta, a proprie spese, prete Cesare di Giovan Matteo di Antonio Santucci,
l’anno di nostra salute 1644.
Nella sacrestia vi è una Acquasantiera a
muro, in marmo, con inciso lo stemma dei Santucci. Inoltre possiamo vedere la
lapide che onora il “secondo fondatore” il dottor Valchierotti, e poi quelle
dei due De Larderei. Le cinque lapidi in marmo scandiscono il tempo come un
libro e oltre ad arricchire la chiesa sono memori degli avvenimenti e
dell’opera di queste degne persone.
La chiesa della misericordia non ha molte
opere di valore, se non un’immagine della Madonna di Montenero dipinta su
specchio, sul retro, nella tavola di sostegno vi è una scritta a penna ed
inchiostro “Il Cavalier Adriano de
Larderei, fratello Governatore, donò alla Compagnia della R.R. Misericordia il
5 settembre 1852”. Sopra il tabernacolo dell’altare vi è un quadro rirpoducente
la Madonna Addolorata alla cui base possiamo leggere “MATER AMABILIS”. Alla pietà ed al merito di Girolamo Bettoni e
di donna Flaminia Covoni nata dei principi Chigi. (Giò Batta Cecchi incisore
dona e consacra, Firenze 1810). Sembra che questo quadro sia stato donato alla
Confraternita dal conte Federigo de Larderei.
L’insieme della chiesa, più volte rimaneggiata,
si presenta assai bene ai fedeli che numerosi vi affluiscono nel mese di novembre
per la Messa Vespertina officiata a nome dei defunti iscritti alla Misericordia
e deceduti nell’annata in corso. Ad avvertire di questa funzione religiosa è
compito delle due campanine poste sulla cella campanaria del piccolo campanile.
Il suono scandito da queste è datato dalla fusione di queste; una porta la data
solamente in numeri romani MLXXX (1530), e l’altra, A.D. MDCCCXV (Anno del
Signore 1815).
Documenti custoditi presso l’archivio
della Confraternita accertano molte di queste notizie e tra le principali vi
è quella del
la Affiliazione alla Confederazione delle Misericordie d’Italia avvenuta
nell’anno 1874.
Il nome odierno è: CONFRATERNITA DELLA MISERICORDIA DI
POMARANCE, con sede sempre in Piazza S. Carlo al numero civico 5, adiacente
alla Chiesa ed al suo patrimonio immobiliare. Oggi questa benemerita è servita
da un parco macchine composto da tre ambulanze che servono per gli
spostamenti, sia di ricovero in ospedale come per bisogni di soccorso stradale
od altro incidente. Inoltre due vetture funzionano per gli Handicappati ed i
dializzati. Unito a queste vetture vi è un carro funebre che completa il
nucleo motorizzato.
Nell’ammodernamento
delle attrezzature sono state acquistate, a
corredo di soccorso, delle sedie snodate atte al prelievo di ammalati
residenti in abitazioni dove vi sono scalinate.
Ad oggi è in allestimento una nuova ambulanza montata su
vettura Volkswagen e che nel giro di breve tempo andrà a sostituire quella più
vecchia e non più idonea e sicura. Il sodalizio che tutt’oggi è assai congruo
è costituito da 358 donne e 294 uomini. A questi valenti Governatori ed a
tutti gli attivi collaboratori che negli anni hanno saputo dare valore e vanto
ad una istituzione basata per la maggior parte sul volontariato, non rimane
che fare le dovute congratulazioni. A quelli presenti ed a quelli futuri, un
augurio per
Interno Chiesa della Misericordia.
Giorgio
saper continuare con lo stesso
spirito sia a governare che ad abbisognarsi in ogni occasione. Inoltre un
augurio a chi potrà ritrovarsi ai festeggiamenti che ovviamente saranno
effettuati nell’anno 2015 in occasione del quattrocentesimo anno di vita.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
Archivio Misericordia
di Pomarance.
LE CONFRATERNITE DI
MISERICORDIA IN TOSCANA – Ed. Arti Grafiche San Bernardino SIENA 1926 a cura
del Comm. Dr. U. Patella.
Analisi storica a cura di: Dott.sse ROBERTA COSTAGLI e GIANNA BUONAMICI
INTRODUZIONE
Molti teatri, costruiti a cavallo fra la fine del settecento e la prima metà dell’ottocento, conservano ancora la memoria e la bellezza del vecchio teatro “all’italiana”. Infatti, se la parabola storica del loro declinio e dell’abbandono totale si compie nel dopoguerra, non si è esaurita ancora la memoria culturale che essi rappresentavano nel tessuto storico ed urbano: sono il segno dello spettacolo del passato, ma anche il segno concreto del luogo proprio di quella particolare rappresentazione che era la collettività che si riuniva.
Per questo non possono apparire solo come contenitori vuoti ed inagibili, la cui ulteriore ed inevitabile fatiscenza non è che la premessa per la definitiva demolizione, poiché anche in tempi come i nostri (in cui non esiste più un luogo assoluto e privilegiato della rappresentazione) se opportunamente predisposti, possono diventare contenitori specifici per lo spettacolo e la cultura di oggi.
Prospetto Teatro dei Coraggiosi (Foto S. DONATI)
Il problema dei teatri inagibili o comunque da recuperare
è un tema per molti versi complesso e stimolante: da un lato, il valore
storico – artistico delle strutture e il loro ripristino nell’ambito della politica
della rivalutazione dei centri storici, dall’altro la funzione socio –
culturale dell’edificio teatrale, inteso come luogo di produzione, di cultura
e di crescita civile per la società.
Alla luce di queste considerazioni, peraltro ampiamente discusse in anni precedenti e delle quali è dimostrata la validità con i numerosi restauri già conclusi, abbiamo ritenuto interessante affrontare, come lavoro conclusivo degli studi universitari, il tema del restauro e riuso di un teatro quale è quello dell’ex Accademia dei Coraggiosi. Il teatro in questione è collocato nell’ambito del centro abitato di Pomarance ed ivi sorto a suo tempo, per il manifestarsi di particolari istanze di rinnovamento socio – culturali, con lo scopo, per lo più, di portare spettacoli musicali e di prosa là dove ogni altra forma di svago sarebbe venuta altrimenti a mancare; istanze valide ancora oggi, che un totale ripristino della struttura potrebbe soddisfare.
ACCADEMIA
DEI CORAGGIOSI ORGANIZZAZIONE ED ATTIVITÀ
Nel secolo XVIII non vi è cittadina o paese in Italia che non abbia la propria Accademia; a Pomarance esisteva l’Accademia dei Coraggiosi fondata il 31 luglio 1790, che al pari delle altre contemplava nel proprio programma la produzione teatrale. I fondatori dell’Accademia furono: Pietro Biondi, Giuseppe Martini, Giuseppe Marchionneschi, Luigi Gardini, Paolo Cercignani, Gherardo Bardini Mafferi, Pietro Gardini, Niccola Tabarrini, Giulio Cercignani, Michele Bardini, Camillo Fantacci, Isidoro Biondi, Maria Borroni, Bartolino Bartolini, Giovan Battista Biondi, Carlo Incontri, Tommaso Gardini, Filippo Biondi, Marcello Inghirami, Pier Giuseppe Biondi, Ottaviano Falconcini e Giovan
Battista Gardini.
Dietro il nome antico ed illustre di “Accademia”
si nascondevano istituzioni non sempre permanenti o con propri regolamenti
interni che erano però di sovente l’anima culturale dei centri abitati grandi e
piccoli. L’istanza di rinnovamento artistico e sociale è spesso il motore di
questi sodalizi che, nel caso dei centri minori rappresentavano la sola
opportunità di svago, con la partecipazione ad attività teatrali o
l’organizzazione di feste da ballo.
Astrusi, Georgofili, Accalorati,
Intronati, Rozzi sono alcuni nomi di accademie esistenti in Toscana;
appellativi bislacchi ed ironici, forse per segno di vera o falsa modestia,
che sono il frutto del gusto di quei tempi. Le Accademie avevano anche l’usanza
di fregiarsi di uno stemma che spesso riportava un motto ispirato dal nome:
nello stemma dei Coraggiosi è rappresentato un leone rampante con la scritta
“Germoglian frutti ai coraggiosi in seno”.
L’assemblea dell’Accademia dei Coraggiosi,
aveva il diritto di veto sull’ammissione di nuovi componenti, pertanto il
passaggio da una “panca” da un accademico ad altra persona da lui proposta era
sottoposto a votazione. Una volta accettata la proposta, il nuovo accademico
era obbligato al pagamento di una quota corrispondente al valore frazionale del
teatro e della tassa annua di scudi due. Il numero degli accademici arrivò a
venticinque con la costruzione del nuovo teatro, mentre dai rendiconti
annuali sappiamo che fino al 1805 erano ventidue e negli anni successivi fino
al 1810, ventitré. L’invito alle adunanze avveniva tramite l’invio di un
biglietto redatto dal segretario che aveva anche la funzione di redigere
l’ordine del giorno. Nell’Accademia erano previste anche le cariche di Presidente,
Camarlingo e di cinque consiglieri, tutti eletti per votazione dall’assemblea.
Ogni accademico aveva il diritto di esprimersi con un solo voto anche se possedeva
più di un “carato”.
I soci si riunivano per decidere sui
vari lavori di restauro occorrenti al loro teatro, sull’assunzione del
personale di servizio, l’apertura del teatro e per esprimere un giudizio sulle
istanze pervenute da compagnie comiche o di musicanti.
Gli accademici, a turno, dovevano fregiarsi della carica di “Deputato d’ispezione al buon ordine” in occasione di rappresentazioni comiche ed ogni sera il nome della persona incaricata veniva scritto su un apposito cartello posto all’ingresso del teatro. Inoltre, tra le altre mansioni spettanti agli accademici c’era quella di fornire olio per i lumi in occasione di feste o rappresentazioni gratuite: all’ingresso dovevano lasciare una “mazzetta d’olio’’ in mano al custode con apposita firma e in caso di maggior consumo supplire con un’altra.
L’Accademia, nel 1829, stabilì alcune regole a cui doveva
sottostare la compagnia comica in occasione della stagione teatrale che si
svolgeva sempre in autunno: “…un regalo di zecchini dieci a condizione che
in essa sala dia venti recite… di
ricevere la sala del teatrino e quindi di riconsegnarla a suo rischio, nel
medesimo stato detta sala offrirsi, mobili, scenari… far rispettare le panche
esistenti a solo comodo dei signori accademici e loro famiglie… che sia a
carico della comica compagnia la spesa serale (illuminazione e paga al
personale di servizio)… che il regalo di dieci zecchini possa solo ottenersi
dalla comica compagnia metà alla metà delle recite e l’altra metà alla fine’’.
Nel 1840 in occasione dell’istanza promossa dalla
compagnia comica di Ottaviano Novellucci, fu stabilito, inoltre che ogni
compagnia comica ”… presentasse l’elenco all’accademico Nobile Giovanni
Novellucci… quale se l’approverà, la concessione si intenda definitivamente
fatta, in contrario si riterrà non fatta” e l’anno seguente il prezzo
d’ingresso non oltrepassasse Quattro Grazie.
Ogni accademico aveva la facoltà di organizzare feste da
ballo purché si investisse della carica di “Deputato di Ispezione” per
l’intera serata pubblicando poi il proprio nome sul solito cartello, ma aveva
il diritto di nominare un “Maestro di Sala” e di farsi sostituire da un’altro
accademico.
Nel 1834 fa il suo ingresso nell’Accademia, al posto del cedente Ferdinando Cercignani, il conte Ferdinando De Larderei “…il quale lo accettava e richiedeva essere surrugato al cedente in detto posto accademico per godere tutti i favori e sopportare tutti gli oneri ricevuti dal posto medesimo”.
L’aspetto economico rappresentava la nota dolente di questa
associazione, spesso alcuni accademici sono in ritardo nel pagamento della
tassa annuale di due scudi.
Nel 1853, l’Accademia decise di darsi un regolare statuto, a questo proposito fu incaricato l’accademico Venerando Valchierotti di redigere una proposta nel termine di tre mesi, ma di questo statuto, nella documentazione successiva, non viene più fatta menzione.
Con la decisione di costruire il nuovo teatro viene
compiuta un’accurata stima di tutti i beni mobili e immobili della società,
stabilendo che ”… i soci accademici che non vogliono concorrere alla costruzione
del nuovo teatro saranno liquidati i loro diritti sociali e cesseranno cosi di
far parte dell’Accademia.
Gli anni che seguirono videro l’Accademia sempre più impegnata e strettamente connessa al teatro e alle manifestazioni che vi si svolgevano. Tra i vari regolamenti pubblicati, c’è quello riguardante le “Stanze Accademiche” grazie al quale è possibile dedurre quanto questa associazione andasse sempre più assomigliando ad un circolo ricreativo per signori benestanti e poco rimanesse dell’attivismo letterario e filosofico che contraddistinse le accademie nei decenni trascorsi. Il regolamento prevedeva due occasioni di incontro: i “trattenimenti ordinari” rappresentati da adunanze o giochi e le “feste da ballo”: A queste stanze erano ammessi anche non accademici stante la previa approvazione dell’assemblea ed era stabilito che fossero aperte “…a trattenimento del giuoco, nel carnevale tre giorni di ciascuna settimana, cioè martedì, giovedì e domenica, nell’autunno, e inverno fino al giovedì della Settimana Santa e la domenica di ciascuna settimana e più le feste di intero precetto”. Mentre chi desiserava giocare doveva pagare “una tenue tassa a forma della tariffa nelle mani del custode…” il quale dava poi il denaro al Camarlingo. Grazie anche a questi incassi serali, la società faceva fronte alle numerose spese necessarie per mantenere in piena efficenza un siffatto edificio.
Nella generale revisione degli statuti che viene promossa
alla fine dell’ottocento, c’è la proposta di abrogare due articoli che
garantivano l’uguaglianza tra i vari accademici. Questo causò l’indignazione di
un vecchio accademico, “unico superstite dei compilatori dello statuto” che
fortemente si oppose a questo provvedimento così antidemocratico.
citati articoli (10 e 15) assegnavano un voto per ogni accademico senza distinzione del numero di palchi posseduto; la proposta riformatrice, al contrario, prevedeva un voto per ogni palco di proprietà, negando così “…l’uguaglianza sociale, dell’amministrazione e del valore del voto deliberativo… cioè il predominio della minoranza…”. La volontà dei proponenti era quella di risolvere il ricorrente problema del mancato numero legale nelle adunanze: un assenteismo che dimostra una già viva disaffezione nei confronti dell’Accademia.
Siamo ormai agli inizi del
Novecento ed è tempo di mutamenti sociali, la pressione che viene dagli strati
sociali più poveri della popolazione verso l’Accademia si fa sempre più forte,
come testimonia una lettera datata 15 settembre 1900 i cui firmatari in
rappresentanza della “popolazione meno abbiente, nata e cresciuta a
Pomarance”, chiedevano che il teatro fosse aperto a chiunque desideri partecipare…”:
Questa possibilità, in futuro, non potè più essere negata infrangendo in parte
quell’alone di distinzione culturale e sociale di cui erano investiti gli accademici.
IL VECCHIO TEATRO DEI
CORAGGIOSI
“Dizionario
Geografico, fisico, storico della Toscana” del Repetti riferisce dell’esistenza
di “…un piccolo teatro di proprietà di Un’Accademia dei Terrazzani che
rimonta verso il XIII”. Con molta probabilità si tratta dello stesso teatro
divenuto poi nel luglio del 1730, di proprietà dell’Accademia dei Coraggiosi
in quanto la prima delibera in ordine cronologico, ancora oggi esistente, del
31 Ottobre 1791, rivela la necessità di alcuni lavori “per ben ridurre la
stanza della loro Accademia”. Un ulteriore conferma che la “Stanza” ha svolto
in passato funzione di spazio teatrale si ha con la successiva deliberazione
del 9 Novembre dello stesso anno, dove in un passo recita: “lo infrascritto,
essendo stato onorato dai illustrissimi Soci della Stanza che serviva ad uso
di teatro posto nella terra di Pomarance, a voler unirmi con Essi in società,
ridurla nuovamente ad uso di teatro e di sala da ballo…”.
La “sala delle comiche” si trovava a fianco del palazzo Pretorio, con ingresso dalla piazzetta del Tribunale, nel centro antico, all’interno delle mura castellane: Posta al primo piano sopra un portico dove si apriva l’ingresso aveva il soffitto a volta affrescato, il palcoscenico, un “salotto” ed una stanza di deposito detta delle “panche”.
Nel 1794 furono realizzate opere di rifacimento e dipinti
nuovi scenari da un certo Antonio Niccolini in cambio di una gratifica di
venti lire, vennero anche acquistate diciasette panche in funzione di un riutilizzo
dell’ambiente come sala da ballo. Inoltre è di questi anni l’apertura di una
porta che metteva in comunicazione diretta il teatro col Palazzo Pretorio.
Il trascorrere degli anni, in questo caso tre, tra la fase
propositiva e l’attuazione dei lavori di restauro è un tema ricorrente nella
vita di questo teatro conseguentemente alla mancanza di risorse finanziarie
dell’Accademia.
Per un lungo periodo vi saranno interventi diretti
esclusivamente all’interno del teatro, o meglio alla sala, poiché le attenzioni
di miglioramento formale ignorano, come dettava la consuetudine interventi all’esterno.
Per “trarre un profitto” fu istituito nel 1798 “… il diritto d’esercitar Bottega d’acqua- cedratosa nel salotto annesso alla sala, in occorrenza di spettacoli teatrali e di feste da ballo…” offrendo l’incarico di tenere questo esercizio al migliore offerente. Inizia così il processo di articolazione del luogo teatro: alla vecchia sala comica si è aggiunto un primitivo bar che ancora mantiene la funzione di foyerguardaroba.
Nel 1803 viene decisa la costruzione sopra il salotto, di
una stanza ad uso dei comici che comporterà l’alzamento del tetto, affidando
i lavori agli impresari Razzagli e Bellucci. Le due finistre in facciata
(sopra e sotto) fu stabilito essere uguali a quelle adiacenti in costruzione.
Si deduce, pertanto, che tali lavori sono contemporanei ad altri che si vanno
facendo nel blocco di case a fianco del teatro.
Tre anni dopo, l’Accademia inaugurerà i nuovi lavori con una
rappresentazione comica della compagnia Gatteschi di Volterra.
Col 1834 inizia una lunga stagione di tentativi falliti da parte degli accademici di avere un teatro più grande in stile con i tempi nuovi. Il presidente propose di far visitare lo stabile e sala del teatrino a Loreto Magri, aiuto ingegnere della Comunità di Pomarance, dandogli commissione di redigere un progetto d’ampliamento riguardante la sala e il palcoscenico. Se ciò non fosse stato possibile, il suddetto ingegnere doveva progettare un nuovo teatro con ventiquattro palchetti e con il doppio di grandezza della sala attuale per uso di platea. Ma è del 14 Ottobre 1836 una nota di spesa redatta da Giuseppe Bianciardi per un generale restauro del teatro di cui annotiamo ‘‘…riquadratura della nuova sala, del salotto caffè e rifatto il boccascena nuovo…”. Nonostante i lavori di restauro intrapresi l’anno precedente, è sempre forte l’esigenza di costruire un nuovo teatro, come in questi tempi già se ne andavano costruendo nelle città e nei centri minori, come la vicina Volterra, Piombino, Pontedera, e Buti. Del resto la fine del settecento ha segnato la definitiva rottura col passato, una nuova sensibilità architettonica alimenta il dibattito sulla progettazione dei teatri e i venti innovatori che spirano dalle grandi città irretiscono le menti più sensibili anche di terre lontane.
Questo clima aleggiava anche negli ambienti culturali di
Pomarance e traspare dai toni enfatici di entusiastica adunanza del 1 ottobre
1837 “…Dietro la vostra ragione e io, tutti rendiamo fatto il teatro, pensare
dunque che l’incertezza nega, e la risolutezza afferma che ben ci convenne il
nome di Coraggiosi, come ci converrà quello di ben affetti al vostro
paese…”. Accantonata l’idea di un nuovo teatro, nel 1842 viene dato incarico
all’ingegnier Ricci di preparare un progetto di restauro per l’attuale teatro,
ma tale progetto verrà respinto.
Sempre quell’anno viene stabilito di inoltrare una
supplica al Regio Trono per la sua approvazione alla costruzione di un nuovo
teatro, facendosi promotore dell’iniziativa il conte Francesco De Larderei.
Negli anni successivi il vecchio teatro fu ripetutamente sottoposto a restauri
e modifiche, ma il Municipio di Pomarance, nell’occasione di dover trattare
della riforma delle scuole Comunali, si propose di fare acquisto del teatro di
Pomarance e sue stanze annesse, era il 31 dicembre 1860.
Questa iniziativa decretò la fine del vecchio teatro dei
Coraggiosi e, finalmente, l’avvio del nuovo, in quanto con la cospicua somma
realizzata dalla vendita fu attuato un concreto piano finanziario.
La stima di parte, del teatro, fu affidata all’architetto Magagnini di Livorno, mentre il municipio incaricò l’ingegner Gaetano Niccoli. La relazione del Niccoli documenta lo stato e consistenza del vecchio teatro dei Coraggiosi che dopo secoli di vita, il 25 febbraio 1861 era così composto: ingresso sulla piazzetta del tribunale, scala in pietra che portava alla, “Sala”, a destra del pianerottolo di sbarco la “Stanza delle Panche” trasformata col tempo in salotto guardaroba, la “stanza del caffè” ed infine il palcoscenico con annessa una stanza irregolare dalla quale si accedeva in una soffitta ad uso degli attori per mezzo di una scala. Le stanze accademiche furono acquistate dal Municipio per lire tremilaseicentoquarantacinque e sessanta centesimi.
DELIBERA
RIGUARDANTE LA COSTRUZIONE DEL NUOVO TEATRO
La lettera del 31 dicembre 1860 inviata dal municipio di Pomarance all’Accademia dei Coraggiosi fu letta nell’adunanza del 14 gennaio 1861 e in quel giorno venne finalmente deliberata, non solo la costruzione di un nuovo teatro, ma anche le modalità di attuazione del medesimo: due accademici stilarono la bozza di un programma in undici punti comprendente tra gli altri la spesa economica prevista, il denaro che ogni accademico doveva versare, l’assegnazione dei palchetti e la formazione di una commissione incaricata di seguire i lavori di costruzione. Il teatro doveva essere costruito fuori della porta Volterrana davanti alla casa del sig. Fantacci su disegno dell’architetto Ferdinando Magagnini.
ESCURSUS STOIRICO DELLE VICENDE
COSTRUTTIVE
La costruzione del nuovo
teatro prese l’avvio il primo marzo 1861 su terreno di proprietà in parte
dell’accademico Giuseppe Bicocchi e in parte dell’accademico Carlo Tabarrini;
i quali poi vendettero all’Accademia: il primo braccia quadre
millecentosettantasette ossiano ari quattro e deciari ottantaquattro, il
secondo braccia quadre ottocentodieci, ossiano ari
due, centiari settantacinque e deciari novanta.
Il permesso del Comune per la costruzione di detto teatro
è datato 26 settembre 1861, mentre la richiesta del medesimo risale solo al 9
giugno 1861: appare evidente che si trattava di pura formalità, non solo
perché i lavori erano già iniziati da diversi mesi, ma anche per gli accordi
già stipulati tra il Comune e l’Accademia in seguito alla vendita del suo
vecchio teatro.
Il finanziamento dei lavori di costruzione avvenne anche
tramite alcuni prestiti contratti con persone benestanti della zona, in quanto
il ricavato della suddetta vendita era insufficiente e fu liquidato in più
anni.
Il “Giornale dei lavori” in particolare ed altra
documentazione ancora oggi disponibile, costituiscono l’ossatura portante di
questa analisi sulle vicende costruttive inerenti l’edificazione del nuovo
teatro dei Coraggiosi.
Il giornale prende avvio col Marzo 1861 documentando le
fasi iniziali fatte di piccone, mine, calcina, carrette con materiale di risulta
e di tante giornate di lavoro per preparare le fondamenta.
Il teatro poggia su un banco di roccia tufacea che fu
spianata sia facendo brillare mine che utilizzando dei “ferri per battere il
masso”.
Fino agli inizi di Luglio si continuò a lavorare sul “masso” per preparare gli sbancamenti necessari su cui poggiare i muri portanti. Dopodiché si iniziarono a tirare su i muri e come nella logica dei tempi, i materiali da costruzione vennero reperiti sul mercato locale, in luoghi nelle vicinanze di Pomarance. I mattoni, mattoncini e quadricci provenivano dalla vicina fornace del Gabbro, mentre a Poggiamonti era situata la cava da cui provenivano le bozze grandi per le “cantonate” e le piccole per la muratura mista delle pareti esterne.
Al 14 Luglio risale il primo pagamento per la fornitura di
scalini di pietra, in questo caso dodici, da parte di una persona del luogo, un
certo Garfagnini Luigi e con cadenza di circa venti giorni verrà effettuato
il saldo di altre forniture: la prima ancora di dodici e le altre di
ventiquattro. Considerando che per la buona gestione di un cantiere il
materiale viene fatto arrivare in un periodo di poco precedente al suo
utilizzo, il saldo degli scalini di pietra fa supporre il tempo occorso per la
realizzazione delle strutture verticali e dei solai dei tre ordini.
I solai hanno struttura portante in legno, composta di
travi e travicelli reperiti sul mercato di diverse località: Lajatico, Gabbro,
Castelnuovo e Livorno. Due fatture della ditta di legname “Aghib e Rocah” di
Livorno documentano che ne inviarono un grosso quantitativo a Pomarance,
ordinato da Ferdinando Magagnini e pagato dal conte Federigo De Larderei, il
quale fu successivamente rimborsato dal Camarlingo Carlo Tabarrini. In quel tempo
per la fornitura di legname eccedente i cinque metri, era uso ricorrere al mercato
esterno e la scelta di Livorno è da attribuire al progettista, appunto livornese
e forse anche, per la comodità nei pagamenti, alla presenza in detta città di
un accademico illustre come il De Larderei. Sempre in questo periodo e
precisamente l’undici agosto, iniziarono i lavori di costruzione della
facciata ripulendo lo scasso fatto nel “masso” e ponendo poi nelle fondamenta
“una memoria scritta in carta pecora, con custodia in piombo ed una moneta
d’oro Romana”.
Con la costruzione delle strutture verticali, dei solai e
delle volte prese l’avvio l’opera di copertura della fabbrica che fu probabilmente
ultimata verso la fine di novembre, poiché è registrato il pagamento di una
merenda con la quale si festeggia, “come è di costruirne” questa occasione.
Conclusa questa fase ne iniziò una altrettanto lunga,
quella di completamento e rifinitura. Il 16 marzo 1862 venne stilata una
perizia sui lavori ancora mancanti e di conseguenza una stima del denaro necessario
per portare a compimento l’opera.
La costruzione del plafone (che copre la platea) fu affidata, a nota, a maestranze già operanti come il falegname Ferdinando Funaioli e il capo muratore Giovanni Mazzinghi. La progettazione del meccanismo degli scenari venne chiesto inizialmente al macchinista del teatro La Pergola di Firenze,ingegnere Cenovitti che però fu scartato, in quanto ritenuto troppo costoso. Così anche questo incarico venne affidato al falegname Funaioli, il quale aveva “in altro teatro attentamente esaminato tali meccanismi”. Nel mese di agosto 1862 sono annotati diversi pagamenti per l’acquisto di doccioni, ma anche l’ultima fornitura di pianelle, mezzane e tegole per completare il pavimento e la copertura della soffitta, stavolta provenienti dalla fornace Larderei di Lucoli; dopodiché sono i piccoli lavori di rifinitura e d’arredo a comparire sempre più frequentemente, del resto il giorno dell’inaugurazione era ormai prossimo.
Con il 12 ottobre 1862, giorno dell’inaugurazione, non si
concluse il ciclo dei lavori ed acquisti per il nuovo teatro; il “giornale”
tra gli altri, riporterà ancora: l’acquisto di alcune porte, di gran parte dell’arredo,
la posa in opera dell’infissi in legno, la scala in legno che porta alla graticciata,
la lucidatura dello stucco della sala, la riquadratura dei palchetti ed altri
piccoli lavori di rifinitura.
La pittura dell’interno dei palchetti fu stabilito di
realizzarla con “colore andante” e semplice riquadratura realizzata da entrambi
i pittori pisani chiamati ad operare in questo teatro, Riccardo Torricini e
Giuseppe Martini; il trattamento a stucco lucido fu realizzato dal solo
Martini, che era appunto “maestro di stucco lucido”, in cinque giornate di lavoro.
Il pittore Torricini ebbe un ruolo più importante, di mano sua sono le
pitture del foyer, dell’atrio d’ingresso, delle stanze accademiche e il
riattamento degli scenari del vecchio teatro; in quanto alla pittura della
volta della sala non è sicura l’attribuzione al Torricini, in quanto l’uso di
determinati colori farebbe supporre una sua più tarda realizzazione.
Il penultimo pagamento, il 31 gennaio 1868, riguarda il “casotto del Bigliettinaio” costruito da Ferdinando Funaioli già incaricato di tutti i lavori di falegnameria del nuovo teatro.
Il giorno 18 ottobre 1868 il “giornale dei lavori” chiude i
valori totali di alcuni materiali e denaro impiegati nella costruzione del
Teatro dei Coraggiosi. La chiusura del giornale, non significò ovviamente, la
fine dei lavori all’edificio teatrale, sia per la complessità del medesimo che
impone continue riparazioni, sia per gli adattamenti e le trasformazioni
conseguenti il pratico utilizzo o l’evoluzione tecnologica che si impone col
trascorrere degli anni.
Se i lavori di costruzione si possono considerare
conclusi, così non è stato per gli arredi e gli abbellimenti che sono proseguiti
ancora per lunghi anni. Nelle nicchie poste nell’atrio d’ingresso solo con
l’inizio del 1884 vi trovarono collocazione i primi busti di marmo e questo
anche grazie all’iniziativa di un giovane studente dell’Accademia di Belle
Arti di Firenze, Ezio Ceccarelli di Campiglia Marittima che si prestò più per
gloria che per denaro.
Il 23 settembre del 1886 un professionista di Volterra
Luigi Guarnieri, stilò una “relazione sullo stato del teatro di Pomarance”
dichiarando, dopo una breve descrizione dell’edificio riguardante in particolare
le strutture portanti ed il “sistema antincendio”, che “l’insieme del teatro è
in perfetta regola e nulla vi è da temere in rapporto alla statica” e proseguendo
poi con alcuni suggerimenti per “l’ordine e la sicurezza pubblica”. Se dal
punto di vista statico il teatro non presentava irregolarità, diversamente era
per gli
infissi e per le superfici esterne dei vari ambienti che presentavano altresì
un degrado già avanzato. Pertanto, l’anno dopo, fu deciso un grande restauro
di cui rimane a testimonianza il “rendiconto delle spese e delle entrate” per
restauri occorsi al teatro di Pomarance l’anno 1888. In occasione di tali
lavori l’accademico Florestano De Larderei, il 4 ottobre, chiese ed ottenne
dal corpo accademico “di far rimuovere con tutte le cautele opportune, la
parete di divisione” tra i due palchi di sua proprietà (il n° 11 e 12 del primo
ordine).
Negli anni che seguirono si registrarono solo lavori di
manutenzione ordinaria fino ad arrivare al 1914, anno in cui furono
realizzate alcune opere per improvvisare un cinema. I lavori per l’impianto
del cinematografo riguardarono soprattutto il palco reale che fu adattato a
cabina di proiezione, smontando l’apparato decorativo e foderando la porta di
banda stagnata.
L’anno seguente fu installata l’illuminazione elettrica in
sostituzione di quella a petrolio, limitatamente agli spazi ad uso pubblico,
con un’unica eccezione del “salotto accademico”.
Gli interventi successivi saranno incentrati per la
trasformazione del teatro in cinema, soprattutto dettati da ragioni di “Botteghino”
visti i buoni incassi di quegli ultimi anni. Così il 4 aprile 1959, per aumentare
il numero dei posti a sedere, fu deciso l’arretramento dello schermo e l’abbattimento
del palcoscenico con i suoi camerini sottostanti ormai inutilizzati da lungo
tempo.
Il mese successivo iniziarono i lavori di ampliamento della platea affidati alla ditta Moretti di Pomarance, su progetto dell’ing. arch. Beliucci di Ponsacco.
DESCRIZIONE DEL NUOVO TEATRO
Il teatro sorge fuori della porta Volterrana, sulla via
provinciale, lungo la direttrice di crescita del paese.
All’esterno l’edificio è abbellito da una facciata in
pietra tufacea, articolata in due parti: la parte inferiore “a bugnato” con le
tre porte d’accesso sormontate da un doppio cornicione, mentre quella superiore,
coronata da un cornicione più “importante”, ha un ordine di tre finestroni e
si distingue per un diverso trattamento dell’apparato murario.
Il teatro, al suo interno, è strutturato in quarantaquattro
palchi divisi in tre ordini, distribuiti lungo una pianta a ferro di cavallo.
Dalla porta centrale di facciata si accede ad un atrio di ingresso, ampiamente decorato. In questo spazio, dal lato sinistro si può accedere al caffè, che è a contatto diretto con la strada, infatti per molti anni svolse la sua funzione anche nei giorni di chiusura del teatro. La biglietteria è posta alla destra dell’atrio d’ingresso, anch’essa ha l’accesso diretto dalla strada. Dall’atrio si passa successivamente al foyer e da questo superati pochi scalini, si entra nella platea.
Due vani scala, simmetricamente disposti alle due estremità del foyer, distribuiscono il pubblico ai tre ordini dei palchi. Al secondo ordine sono collocate le stanze accademiche, sono stanze ampie e molto luminose grazie ai grandi finestroni che si aprono sulla facciata principale del teatro.
Sostanzialmente
il teatro riflette l’immagine di allora e risulta facile immaginare i giorni
luminosi dei primi anni di attività, l’eleganza del pubblico e il rumoroso
chiacchericcio che precede sempre una rappresentazione teatrale, magari con un
tono più alto per il clima di entusiastica scoperta di un pubblico non ancora
avvezzo a simili occasioni di ritrovo, lo stesso che forse ancora oggi si
respira in occasione delle grandi prime.
SPETTACOLI E
MANIFESTAZIONI AL TEATRO DEI CORAGGIOSI
L’attività del Teatro dei Coraggiosi è
suddivisa in due periodi: il primo prende avvio con la stagione inaugurale di
prosa dell’autunno 1862 per concludersi con i bombardamenti tedeschi del 1944,
che segnano anche l’inizio del secondo periodo caratterizzato dal lento
declinio delle attività del teatro.
La prima stagione teatrale aprì con rappresentazioni
della “Compagnia comica Gagliardi e Antinori”, e per la sera d’inaugurazione
del teatro portarono in scena la commedia “Suor Teresa”.
Il contratto
con le varie Compagnie avveniva per mezzo di istanze presentate dalle stesse
all’Accademia, oppure attraverso l’agente teatrale o su sollecitudine di qualche
amico di accademici che aveva assistito alle rappresentazioni di una certa
compagnia. Comunque la scelta ricadeva sempre su compagnie conosciute o per le
quali qualche personalità stimata garantiva per loro.
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«Spazio e Società», n° 50/1990, pp. 67-80.
FONTI DI ARCHIVIO
ARCHIVIO
STORICO COMUNALE DI POMARANCE:
Miscellanea Anni 1839-1866
filza n° 397.
Atti Magistrati 1860-1861
filza n° 199.
ARCHIVIO
DELL’ACCADEMIA DEI CORAGGIOSI
(non ordinato)
Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.
La Storia Continua
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