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Descrizione, notizie ed eventi sul borgo di Pomarance.

“I FALUGI” ARTIGIANI DEL LEGNO

I FALUGI. Falegnami mobilieri a Poma­rance tra ’800 e ’900.

□ Uno dei più antichi mestieri che vengo­no svolti ancora oggi a Pomarance è si­curamente quello di “Falegname”.

Questa attività artigianale, dedicata so­prattutto alla produzione di infissi fatti con l’aiuto di modernissimi macchinari, era nei tempi passati svolta con attrezzi ma­nuali che caratterizzavano le piccole bot­teghe dislocate nel centro storico di Po­marance. Attrezzi come pialle, pialletti, sponderuole, scalpelli, sgorbie od altro erano eseguiti dagli stessi maestri i quali cominciavano l’arte di falegname quasi da bambini stando dietro il “banco” ad eseguire lavori più semplici.

Atività che nella tradizione artigianale ve­niva spesso trasmessa di padre in figlio, come nel caso della famiglia Bonucci di Pomarance, vissuta tra la metà dell’otto­cento e gran parte del nostro secolo. Ancora oggi i vecchi pomarancini ricordano personaggi come Federigo, Vittorio, Lui­gi morti attorno agli anni ’50.

C. Bonucci “II Falugi”

Conosciuti da tutti come i “FALUGI”, questi ereditarono lo pseudonimo dal pa­dre Claudio Bonucci al quale fu attribui­to in memoria di un personaggio volter­rano vissuto nella prima metà dell’otto­cento, il quale amava consigliare la gen­te più umile nei loro problemi od affari senza percepire alcun compenso.

Pare infatti che le origini della famiglia Bo­nucci fossero volterrane e che alcuni membri si fossero stabiliti a Pomarance all’inizio dell’ottocento come falegnami “carrai” al servizio dei signori Bicocchi che possedevano alcune fattorie nella co­munità di Pomarance.

A questi proprietari terrieri infatti furono molto legati da rapporti di lavoro, di sti­ma, di amicizia per intere generazioni e, grazie a loro, alcuni Bonucci ebbero la possibilità di frequentare corsi di studio all’Accademia di Siena e di Firenze.

Le prime notizie della famiglia Bonucci ri­salgono agli ultimi anni del ’700 con cer­to Pellegrino Bonucci che sposando Se­vera Baroncelli dettero luogo a Giusep­pe Bonucci e Luigi Bonucci nato il 4 gen­naio 1803.

Luigi Bonucci si stabilì a Pomarance at­torno al 1830 lavorando come “Carrado­re” presso i Bicocchi nella sua bottega ubicata nei fondi di palazzo Biondi – Mel­lini, accanto alla Porta Orciolina (o al Pe­so) in piazzetta S. Carlo. Sposatosi con Luisa Orzalesi ebbero diversi figli tra cui Claudio Bonucci detto il “Falugi” che nacque il 5 dicembre 1844. Dotato di spic­cata intelligenza fu fatto studiare nelle pri­me classi elementari e contemporanea­mente avviato al mestiere di falegname “carraio” nella bottega di suo padre. Di­plomato ben presto “Fabbricante di Mo­bilio”, come attesta un diploma conser­vato nella sua casa di via Mascagni, que­sti si sposò con la pomarancina Maria Bufalini nel 1864.

Dal loro matrimonio nacquero diversi fi­gli tra cui Carlo nel 1866, Federiga nel 1868, Vittoria nel 1870, Luigi nel 1871, Fe­derigo nel 1873, Vittorio nel 1877, Sofia nel 1879, Anita nel 1882 ed infine Alber­ta Luisa nel 1890.

Negli anni della sua lunga attività artigia­nale Claudio Bonucci “Falugi” realizzò in Pomarance e nelle nostre zone manufat­ti di ottima qualità utilizzando legni loca­li, che sotto le sue abili mani diventava­no robusti infissi, pregiate credenze, ve­trine, mobili da cucina o da camera, che andavano ad arredare sia le case nobi­liari del tempo che le più modeste dei con­tadini.

La lavorazione artistica dei mobili fu in se­guito coadiuvata anche dai suoi figli ma­schi Carlo, Luigi, Federigo e Vittorio ai quali era dato il compito di intagliare le parti decorative dei mobili che necessita­vano di figure animali o floreali e che era­no applicate a specchiere, toilette, arma­di, cassettoni, ecc. Molti di questi model­li in gesso sono ancora conservati nella “Casa dei Falugi” a testimoniare l’ottima qualità dei mobili che venivano eseguiti. La vecchia falegnameria di piazzetta S. Carlo fu, negli ultimi anni dell’800, trasfe­rita in via Mascagni al n° 54 dove negli appartamenti soprastanti andò ad abita­re anche la numerosa famiglia dei Bo­nucci.(1)

La bottega fu corredata di macchinari, al­l’avanguardia per quei tempi, che contri­buirono ad alleviare le notevoli fatiche per piallare o segare grossi tronchi di le­gname.

La sega a nastro, la toupie, la pialla a fi­lo, il tornio ed altri macchinari erano azio­nati prima dell’installazione della corren­te elettrica, da una macchina a vapore che trasmetteva il moto rotatorio alle mac­chine utensili attraverso cinghie di tra­smissione e pulegge collocate sopra un contro solaio in legno che proteggeva e nascondeva tutti i meccanismi dei rinvìi atti ad azionare o meno le macchine uten­sili. Con l’impianto della corrente elettri­ca a pomarance nel 1914 al posto della macchina a vapore fu collocato un moto­re elettrico che, con lo stesso principio azionava le varie macchine utensili. Que­ste macchine operatrici innovative per quei tempi, quando ancora la maggior parte dei falegnami lavorava a mano, era­no spesso utilizzate anche da altri colleghi pomarancini che si facevano segare e portare a misura il legname che in se­guito avrebbero terminato di lavorare nel­le proprie botteghe.

La Famiglia Bonucci

Uno dei primi figli che frequentò la botte­ga di Claudio Bonucci fu Carlo. Dotato di notevole talento artistico, fu fin da ragaz­zo inviato all’Accademia di Belle Arti a Siena per imparare scultura e disegno. Molto scarse sono le notizie storiche di questo valente professionista che, secon­do fonti orali, fu il migliore dei figli del “Fa­lugi” e che, per motivi a noi sconosciuti, lasciò Pomarance nel 1909 per andare ad abitare a Rosignano Marittimo. Tra i suoi più importanti lavori vi è certamente l’in­
carico, da parte del Comune di Pomaran­ce, di assistente ai lavori nella costruzio­ne del campanile parrocchiale (progetta­to dal Bellincioni di Pontedera) nel quale realizzò alcune sculture in tufo.

In una pubblicazione stampata in occa­sione dell’inaugurazione del campanile nel 1898 e curata dal Maestro Angelo Lessi veniva fatto un elogio particolare a Carlo Bonucci il quale “… oltre ad assi­stere ai lavori scolpì lo stemma di Poma­rance, il San Giovanni e la Madonna del Buon Consiglio che si vedono sotto i ter­razzi balaustrati del campanile …”.

La Banda con Federigo Bonucci al centro in bianco.

In questo lavoro furono coinvolti anche gli altri fratelli Bonucci Luigi, Federigo e Vit­torio che “…. lasciata la pialla e preso lo scalpello eseguirono con generale soddi­sfazione i lavori più complicati e difficili…” (2)

Tra i suoi lavori a noi conosciuti è certa­mente il progetto del campanile nuovo at­taccato alla Chiesa di San Cerbone nel Castello di Montecerboli finito di realizza­re nel 1909. Ne è testimonianza una la­pide collocata alla base dello stesso cam­panile che riporta la seguente dicitura: ‘‘Il 15 maggio 1902 fu cominciata la costru­zione di questo campanile che col dena­ro della Compagnia di Conte e l’opera della popolazione di Montecerboli fu fati­cosamente compiuto e inaugurato il 19 di­cembre 1909. Carlo Bonucci di Pomaran­ce disegnò e Luigi Micheletti di Larderello diresse i lavori”.

L’altro figlio secondogenito del Falugi fu Luigi Bonucci che per il suo temperamen­to estroverso fu il solo a lasciare ben pre­sto la bottega del padre per fare lo scul­tore professionista a Firenze. A questo personaggio pomarancino, morto nel 1954, è stata dedicata una monografia nel n° 4 della rivista ‘‘La Comunità di Poma­rance” del 1989 insieme ad una mostra antologica delle sue opere esposte nel Palazzo ex Pretura di Pomarance (Dicem­bre 1989).

Vissuto a Firenze per molti anni e ricono­sciuto come artista fiorentino nelle mostre nazionali, ha lasciato molte sue opere an­che a Pomarance come il Busto del Tabarrini (1911), quello del Dottor Cercignani (1934), i decori in bronzo del Monumen­to ai caduti del Parco della Rimembran­za. Tornato ad abitare a Pomarance nel­la casa paterna di via Mascagni nel 1929, collaborò alla conduzione della falegna­meria eseguendo e scolpendo parti di mo­bili realizzati dai suoi fratelli Federigo e Vittorio, che particolarmente ereditarono lo pseudonimo del padre Claudio quan­do morì nel 1919.

I due fratelli Federigo e Vittorio infatti con­tinuarono il mestiere del padre realizzan­do una infinità di manufatti che ancor og­gi, a distanza di 50 o 70 anni, vengono indicati con lo stesso pseudonimo di ‘‘Fa­lugi”. È il caso di una poltrona conserva­ta a Milano dai signori Frediani che vie­ne ancora oggi chiamata la ‘‘poltrona dei Falugi”.

Tra i vari lavori eseguiti da questi artigia­ni a nostra conoscenza sono certo da ri­cordare il portone del Municipio di Poma­rance oppure quello della Chiesa Parroc­chiale nel quale sono scolpiti il San Gio­vanni e la Madonna. AH’interno della stes­sa chiesa furono eseguite anche le pan­che laterali e la balaustra dell’Altare Mag­giore.

Di pregevole valore sono le scrivanie del Sindaco e del Segretario Comunale rea­lizzate nel periodo fascista e nelle quali si denotano pregevoli intagli. Del 1925 è sicuramente un tavolo in noce eseguito per la famiglia Bicocchi e custodito nel­l’omonimo palazzo di via Roncalli. Di que­sto esemplare è conservata fra i docu­menti dei Bonucci una fotografia del ta­volo in cui sono intagliati gli stemmi di fa­miglia dei Bicocchi. La committenza del lavoro è certificata anche da una ricevu­ta di pagamento conservata nel costituen­do ‘‘Museo Bicocchi” firmata Vittorio Bo­nucci Falugi.

Per l’avviamento della caldaia a vapore, che serviva per azionare le macchine utensili della falegnameria prima dell’in­stallazione del motore elettrico, necessi­tava la patente di caldaista che detene­va solamente Federigo Bonucci il quale durante i periodi estivi partecipava anche alle campagne di trebbiatura del grano conducendo le grosse ‘‘Caldaie a vapo­re” costruite dall’artigiano locale Angio­lo Pineschi.(3)

Sempre pronto all’iniziativa imprenditoria­le attorno al 1925 formò una società per la produzione e vendita di gesso con il Po­destà del tempo Onorato Biondi.

Fin dal 1891 i due fratelli Vittorio e Fede­rigo alternarono il loro mestiere di fale­gname con quello di Fotografi Dilettanti, fotografando immagini di Pomarance, personaggi e vedute panoramiche dei monumenti più importanti della zona che riproducevano in cartoline postali. Ne è testimonianza una cartolina datata 28 lu­glio 1900 in cui è fotografata la Rocca di Sillano di quel periodo ed in cui è impres­so il marchio di fabbrica ‘‘Fratelli Bonuc­ci Fotografi Dilettanti”.(4) Questi utilizza­rono per questa attività due macchine a soffietto con il sistema di impressionatura a lastra di vetro; una corredata di ca­valletto in legno, l’altra portatile e databi­le intorno al 1902.

Grandi appassionati di musica fin da gio­vani fecero parte della Società Filarmo­nica di Pomarance denominata l’indipen­dente, diretta per molti anni dal maestro Giovanni Chimera di Crema.

Intaglio per Specchiera.

Federigo suonava il “Genis” mentre Vit­torio il Trombone. Spesso partecipavano insieme al collega falegname Pini Ranieri (maestro di musica e costruttore di man­dolini) all’accompagnamento musicale del cinema muto che veniva proietato a Pomarance fin dal 1914 nei fondi della ca­sa di Baldeschi Ernesto in via Roncalli (At­tuale casa di Aroldo Pineschi).

Da fonti orali riportatemi dal novantenne Aroldo Pineschi, sembra che i due fratel­li Bonucci, amanti della fotografia e del cinema fossero stati i promotori nel con­vincere gli accademici del Teatro dei Co­raggiosi ad impiantarvi la macchina da proiezione per il cinema muto. Negli an­ni venti infatti iniziarono le proiezioni che furono affidate all’esperto Federigo Bo­nucci.

Una iniziativa certamente conveniente per l’Accademia dei Coraggiosi che vide aumentare considerevolmente il numero degli spettatori domenicali a discapito del­l’altro cinema del Baldeschi che, da buon burlone, lo aveva denominato: “CINEMA, VITA BREVE, MORTE SICURA”.(6) Federigo Bonucci rimase celibe e morì il 23 settembre 1945. Suo fratello Vittorio, sposato con Maria Molesti di Peccioli, do­po la morte del fratello assunse come ap­prendista il sedicenne Paolo Bocci al qua­le insegnò gran parte delle sue esperien­ze di falegname sino al 1953 quando si spense all’età di 76 anni.

Erede del patrimonio Bonucci rimase la sorella Alberta Luisa Bonucci sposata con il falegname carraio Carlo Pineschi. La fa­legnameria fu data in affitto dal 1954 al­l’artigiano falegname Unitario Garfagnini detto la “Gatta” che la tenne aperta fi­no alla sua morte avvenuta nel 1987.(7)

Jader Spinelli

NOTE

  1. Fonti orali affermano che la “Casa dei Falugi” di via Mascagni insieme alla bottega fos­se stata ceduta dai Bicocchi in cambio di la­vori di falegnameria che gli stessi Bonucci ave­vano eseguito per le Fattorie Bicocchi. La ca­sa infatti era pervenuta ad Emilio Bicocchi in dote a sua moglie Paolina Ghilli il cui padre era proprietario della Fattoria di Lanciaia ed anche del Palazzo ex Ricci.
  2. Festeggiamento e Inaugurazione del Cam­panile di Pomarance 1898.
  3. Le caldaie a vapore costruite dall’artigiano Angiolo Pineschi erano realizzate nella sua of­ficina in via della Cella (attuale Via Bardini) sot­to la casa di proprietà di Umberto Buzzichelli.
  4. La cartolina è conservata nella collezione privata di Umberto Rossi a Montecerboli.
  5. Le macchine fotografiche sono attualmen­te di proprietà di Bartoli Gerardo che le acqui­stò dagli eredi Bonucci nel 1956.
  6. Un ringraziamento sincero vada a Giovan­ni Danzini, Aroldo Pineschi e Paolo Bocci per le notizie orali fornitemi sui Falugi. Una espres­sione di gratitudine vada inoltre a Giovanni Ba­roni che mi è stato vicino nella consultazione dei documenti Bonucci e nella esecuzione di riproduzioni fotografiche.
  7. Dopo la morte di Alberta Luisa Bonucci la casa dei Falugi fu ereditata da sua sorella So­fia che si era sposata a Milano nel 1910 con certo Prato Alfredo. Alla morte di questi il pa­trimonio Bonucci passò alla loro figlia Gianni­na Prato sposata nel 1940 con lo scrittore e critico d’arte Giuseppe Zanella. Alla morte di questi la proprietà è pervenuta al loro figlio, l’in­gegnere Marco Zanella, sposato con M.G. Moschini da cui sono nati Daniele ed Andrea ai quali va il mio più sincero ringraziamento per avermi dato la possibilità di consultare i docu­menti di famiglia in modo da poter lasciare ai posteri una traccia sulla attività artigianale di questa importante famiglia pomarancina.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

PAMPURIO L’ALABASTRAIO

La pensione, un riposo meritato dopo una vita intera dedicata più o meno inten­samente ad una attività, viene istantaneamente a troncare i rapporti con i propri colleghi e con gli ambienti ormai familia­ri, che per anni, sono stati parte integran­te di ogni singolo, operaio o impiegato che fosse.

Dopo un arrivederci con tanto di rinfresco e di strette di mano, ci si trova a cambiar vita e a fare nuove amicizie, magari si ri­trovano vecchi compagni di scuola, che da anni non si vedevano più e si ricreano nuove abitudini.

Per non andare a braccetto dell’ozio, che è padre del vizio, si cerca in un modo o in un altro di rendersi ancora utili, con qualsiasi mezzo, con le più banali inizia­tive, magari rispolverando mestieri prati­cati in gioventù, ma rivisti con l’esperien­za dell’anziano, ci si dedica perché me­glio scorra il tempo e per soddisfazioni proprie, per hobby, si dice in parole mo­derne.

Opere realizzate al tornio e a mano.

Abbiamo parlato di hobbisti già altre vol­te su questa Rivista, oggi presentiamo “PAMPURIO”, non quello dei fumetti del CORRIERINO DEI PICCOLI degli anni trenta, ma di un Pampurio adulto, messo a riposo dalle Ferrovie dello Stato sin dal 1975. Pampurio, nella sua botteghetta sotto casa, costruita sul terreno dell’ex tenditoio del Docciarello, attiguo al Par­co della Rimembranza, in una morbida nebbiolina, ha ripreso il suo lavoro di gio­

ventù “L’ALABASTRAIO”.

L’alabastraio di quei tempi, con attrezzi forgiati appositamente per specifici lavo­ri. Un sistema di lavoro manuale, antiqua­to, che solo la passione e l’illusione di sentirsi ancor giovane può ridare il via a questi mezzi sorpassati dalle tecniche moderne, dai torni copiativi, dai pantografi e da altri sistemi computerizzati.

Pampurio, con “RAMPINO” (sorta di at­trezzo arcato, atto a svuotare a tazza un pezzo di alabastro), riesce con maestria a dar forma al pezzo ruotante piazzato sulla coppaia del tornio, ad un vaso, ad una fruttiera o ad un’anfora. Sugli scaf­fali, prospicenti il banchetto di lavoro, pez­zi incompiuti, carichi di polvere rinvecchiata, non più bianca, ma ingiallita dal tempo, stanno lì come campioni a mez­za tiratura a far corona all’ambiente sa­turo di pulviscolo. Un cappellaccio in te­sta a far si che i capelli canuti non si im­bianchino ancor di più, un grembiule che copra gli spruzzi stillati dal tornio, una ma­scherina antipolvere sistemata alla boc­ca da un elastico mezzo imporrito, è tut­to l’abbigliamento necessario per tale im­piego.

Attorno al banchetto variate sorte di ar­nesi: seghetti, raspe, rampini di varie for­me, punte da trapano, scuffie multiformi, collanti, colori artefatti e quant’altro pos­sa servire allo scopo.

Una lampada schermata da un lato, a mo’ di paraluce per non offendere la vista e una finestrella con dei piccoli vetri semi­sommersi di polvere da sembrare nevo­si, diffondono una opaca visibilità, da cui emerge il lavoro che mani rudi nel tatto, ma delicate nel servire, portano a termi­ne in candide forme elaborate.

Lavoro al tornio

Rivolgendo la parola a quest’uomo, che nel giro degli alabastrai è conosciuto co­me PAMPURIO (in realtà il suo nome è Libero), abbiamo da lui risposte precise riguardo agli attrezzi usati, ai modi di la­voro, alle specie di alabastro usato, alla cottura, alla tinteggiatura e lucidatura, ed un sistema che “LUI” solamente Lui usa al mondo d’oggi.

Inoltre, a mo’ di scaramanzia, tiene a di­re come fosse un motto: “Diamo credibi­lità all’alabastro”, l’alabastro che dalle no­stre locali cave è riuscito sempre con il suo marchio a passare i confini, le fron­tiere e gli oceani per farsi conoscere in tutto il mondo.

Giorgio

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

LA FESTA DI S. GIOVANNI

ASPETTI DI RELIGIOSITÀ POPOLARE E PRATICHE MAGICO – RITUALI

La devozione popolare in Toscana, al­meno per taluni aspetti, pare affondi le sue radici negli antichi culti romani o ad­dirittura etruschi.

Da queste lontane forme di religiosità, in­fatti, si ipotizza abbia avuto origine la con­cezione, così diffusa, che vede l’interven­to diretto della divinità nei fatti più minuti della vita non solo umana, ma anche in quella della campagna e della natura.

In tale logica si collocano alcuni rituali in uso in molti luoghi del nostro territorio fi­no a pochi decenni fa, che si rivolgono a Santi particolari e che coincidono con le feste collegate al ciclo dell’anno.

Il 24 giugno, festa della natività di San Giovanni Battista, si celebrava nell’anti­chità il solstizio d’estate.

Statuetta di S. Antonio.

La tradizione popolare attribuiva alla “guazza” di San Giovanni poteri magici, tali da rendere le erbe medicinali partico­larmente efficaci. La mattina, prima del levar del sole, ci si recava, solitamente a gruppi, nei luoghi dove cresceva la camo­milla e si raccoglievano fasci di steli fiori­ti dai quali, una volta tornati a casa, veni­vano tagliate le corolle che, essicate, si potevano conservare a lungo e usare, co­me rimedio naturale, in molteplici occa­sioni.

Dalle nostre parti si raccoglieva anche un’erba chiamata “pìlatro”, che veniva conservata in una bottiglia piena d’olio e serviva per curare le bruciature.

Con la “guazza” di San Giovanni c’era l’usanza di bagnarsi i capelli poiché si di­ceva che facesse bene al mal di testa; inoltre, i nati in questo giorno, erano con­siderati “virtuosi”, possedevano cioè una virtù che poteva essere, ad esempio, se­gnare le “storte” alle persone ed agli ani­mali. Chi aveva simili poteri era molto co­nosciuto presso la comunità e veniva chiamato a dare il suo aiuto in ogni mo­mento della giornata, per questo, si rac­conta, portava sempre con sé l’immagi­ne di un santo o una di quelle minuscole statuette, racchiuse in un “bucciolino” di alluminio che raffiguravano Sant’Antonio da Padova.

Abbiamo avuto notizia che, almeno fino ai primi decenni del 1900, in molte case della nostra zona, la sera del 23 giugno le donne ripetevano un rito che, almeno nei ricordi di chi ce ne ha parlato, non aveva un significato particolare, “si face­va perché si era sempre fatto”: si pren­deva una bottiglia di quelle di allora, con una grossa pancia, il collo lungo ed il tap­po di vetro, la si riempiva d’acqua fino al collo e si versava dentro un chiaro d’uo­vo. La notte si lasciava fuori della finestra e la mattina dopo, come per miracolo, dentro l’acqua si vedeva una barca, la barca di San Giovanni.

Non sempre e non a tutte riusciva di ot­tenere l’effetto sperato anche perché, ol­tre alla benedizione di San Giovanni, oc­correva essere dotate di “mani buone”. Un’altra usanza riguardava le ragazze innamorate ed era una specie di prova della verità che ci fa pensare al detto, molto dif­fuso tra le persone non più giovani, “San Giovanni non vuole nè scherzi nè ingan­ni”: coloro che desideravano sapere se il loro innamorato era sincero oppure no, coglievano un fiore di cardo, lo “strina­vano” leggermente con un fiammifero e li lasciavano per tutta la notte di San Gio­vanni fuori dalla finestra. La mattina do­po, se il fiore era ritornato bello, il giova­notto diceva la verità, se invece era sciu­pato era segno di bugie.

Cardo selvatico.

Un’altra tradizione legata alla festa di San Giovanni, mantenuta viva dai contadini fi­no all’awento dei trattori, è quella di “bru­ciare la mosca”. In questo periodo, con l’inizio della stagione calda, il bestiame usato nel duro lavoro dei campi, improv­visamente “si ammoscava”, cominciava a saltare e, anche se aggiogato, scappa­va nella macchia.

Tale comportamento era imputato alla presenza di una mosca “cattiva”, vero tormento per i buoi e pericolo di danni in­genti per i contadini che, ogni volta, ri­schiavano l’incolumità del loro bestiame il quale, fuggendo, poteva azzopparsi e ferirsi, anche in modo grave.

Per scongiurare questa specie di calamità naturale, la vigilia di San Giovanni, “al sotto di sole”, si accendeva un fuoco con una fascina di frasche, con lo scopo sim­bolico di “bruciare la mosca”.

Il luogo prescelto era lo spazio davanti al­la stalla o, comunque, un posto ben visi­bile dai poderi vicini, poiché il rito era an­che un’occasione per affermare i legami comunitari sfuggendo, per un momento, alla condizione di isolamento che carat­terizzava la vita di molte famiglie conta­dine.

Laura e Silvano

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

LA PROCESSIONE BELLA

Questa Associazione, nel proposito di allargare le iniziative a scopo turistico e con l’intento di richiamare nel nostro pae­se un numero sempre maggiore di visi­tatori, ha programmato, nell’occasione della Pasqua 1988, di riproporre per la se­ra del Venerdì santo la storica processio­ne denominata “PROCESSIONE BELLA”.

Palazzo Biondi-Bartolini in occasione della Processione Bella.

Richiesti i dovuti permessi alla Parrocchia ed al Vescovado, si sono presi i contatti con le varie associazioni interessate: la Corale Pomarancina, il Corpo Filarmoni­co “G. Puccini”, la Confraternita della Mi­sericordia, il Comitato Parrocchiale, l’As­sociazione Sportiva Amici del Cavallo (A.S.A.C.), i rappresentanti le quattro Contrade per mettere insieme il tutto e far sì che questa manifestazione tradiziona­le ritorni a vivere.

Questa manifestazione di carattere reli­gioso venne effettuata l’ultima volta qua­rantanni fa per volere del Proposto Mons. Luigi PAOLI.

Da ricerche intraprese per l’allestimento di tale iniziativa, risulta che venne effet­tuata per la prima volta nell’anno 1860. La sua preparazione, sotto la guida dell’allora parroco Mons. Ferdinando MAR­CHETTI, venne curata dai componenti il Consiglio della Confraternita Misericordia e, con l’iniziativa dell’allora Governatore Conte Florestano de Larderei, furono pre­si a noleggio i costumi presso la Ditta Ric­cardo MONTAGNI, vestiarista teatrale di Livorno, fornitore di vestiario da compar­se e attori (come risulta da nota esisten­te): ‘‘per la Processione di Gesù Morto, al costume antico romano, si noleggiano n° 16 abiti per cavalleria e n° 12 per l’in­fanteria”. Da ulteriori documentazioni ri­sulta pure che chi desiderava, tra i com­ponenti la Confraternita, “munturarsi” per tale occasione, doveva prenotarsi e versare la somma di lire 10.

L’importo occorso per questo noleggio sembrò essere gravoso e per la succes­siva Processione, che come stabilito do­veva effettuarsi triennalmente, si ha una delibera di Consiglio firmata dal De Lar­derei e di cui riportiamo il testo: “Signori, a rendere più decorosa la Pro­cessione di Gesù Morto, si è usato da va­rio tempo raccogliere le oblazioni dai fe­deli per procurarne abiti e armature di co­stume romano. Il nolo però di queste co­se medesime, a cui torna conto di acqui­stare o fare gli uni e gli altri. È in questo intendimento che i sottoscritti deputati aprono la sottoscrizione seguente, dichia­rando che gli abiti e armature fatte, resta­no di assoluta proprietà della Misericor­dia del nostro paese per servire allo sco­po predetto e ad altri usi paesani occor­rendo. Così, questa offerta deve compen­diare quelle di molti anni, (segue l’elen­co con le somme versate).’’

Arrivati alla data del 1863 troviamo molti foglietti con elenchi vari di stoffe, botto­ni, velluti, filo, ecc. così da renderci con­to che i costumi (tutt’oggi esistenti) furo­no fatti a Pomarance, e ciò lo dimostra una specie di ricevuta così compilata: n°14 bustini fatti alla Giudea in teletta ar­gento L. 56,00 al comandante in teletta oro L. 8,00 per tagliatura e infelpatura di 16 manti L.2,00 per 32 nappe per detti manti L. 2,50 Altri documenti dimostrano l’acquisto di cartone per la costruzione degli elmi ro­mani e di questi, come anche degli scu­
di, sembra esserne esecutore certo Giu­seppe RIGHI.

Riguardo al Miserere che veniva cantato processionando, troviamo che fu scritto appositamente, in stile Gregoriano, dal sacerdote MATTEO COFERATI, studia­to per quattro voci dispari (miste). La stampa fu a cura e spese del Volterrano Grand’Ufficiale Prof. Carissimo TRAFELI. Quest’anno come dicevo, la nostra Asso­ciazione intende far rivivere per una se­rata la vecchia tradizione, e a tal scopo si è rivolta alle associazioni nominate, le quali hanno già risposto assicurando la loro disponibilità e l’aiuto richiesto.

Centurione Romano impersonato da MARIANO TANI

La PROCESSIONE BELLA, oltre all’im­pegno di tutte le persone che si dispone­vano processionando in varie vesti, con­sisteva anche negli addobbi particolari che venivano usati per tale ricorrenza. Per ampliare in qualche modo la flebile luce dei rari lampioni a petrolio posti lun­go le vie del paese, venivano collocati al­le finestre delle abitazioni, svariati lam­pioncini di vetro attaccati a delle raggere in ferro e alimentati da olio e stoppino, (la numerosità dei lampioncini era in parte dovuta all’annata delle olive e conseguen­temente alla produzione olearia). Parte­cipava all’illuminazione tutta la cittadinan­za ma in maggior parte, a motivo delle possibilità, erano numerosi nella Via Ron­calli (detta Via dei Signori poiché vi era­no i palazzi di tutti i proprietari terrieri). Questa illuminazione comportava molto lavoro di preparazione e l’installazione dei lampioni aveva inizio almeno una settima­na prima per dar modo che fosse tutto pronto per la data stabilita, e si faceva a gara per avere la illuminazione più bella. È curioso citare il numero dei lampioni collocati nella Via Roncalli per renderci conto della paziente opera di preparazio­ne; i dati si riferiscono alla Pasqua del 1879 e sono stati ricavati dal diario del Maestro LESSI di cui se ne riporta il testo: Palazzo de Larderei 272 lampioni 1160 lumi

Palazzo Bicocchi 213 lampioni 1120 lumi Palazzo Ghilli (oggi Ricci) 107 lampioni 580 lumi

Palazzo Baldini (oggi Galli Tassi) 180 lam­pioni

Complessivamente solo nella Via Roncalli si aveva una luminosità composta da 772 lampioni e da circa 3500 lumi. A questi vanno aggiunti tutti gli altri alle finestre del Palazzo Biondi Bartolini e di cui non se ne fa nome, inoltre il Palazzo Gardini e tutta la Piazza De Larderei compresi i ter­razzi presso la Porta Volterrana, che mes­si tutti insieme destavano la loro sugge­stione all’ingresso del vecchio Poma­rance.

Sappiamo per notizie ricavate che que­sta manifestazione coinvolgeva in un mo­do o nell’altro, credenti e non, la maggior parte dei pomarancini che con i costumi dell’epoca doveva rappresentare i vari personaggi.

Sin dai primi giorni dell’anno iniziavano i preparativi, sia per la scelta dei perso­naggi, sia per la corporatura adatta alla taglia della veste da indossare. Si ricer­cavano i vari uomini atti ai servizi per le portantine, per il baldacchini, per i maz­zieri ed altri scopi.

Venivano effettuate nel campo del Piazzone le prove con i cavalli per abituarli al frastuono della banda ed all’andirivieni della gente. Anche le sembianze delle persone venivano contraffatte da folte barbe che si lasciavano crescere nelle ul­time settimane. Tutti erano coinvolti, allo scopo di far riuscire nel miglior modo pos­sibile questa rievocazione e far figura con tanti spettatori che venivano dai paesi li­mitrofi e da quelli più lontani.

La processione portava questo ordine:

  • Aprivano il corteo funebre 2 cavalli (pos­sibilmente bianchi) “IL SILENZIO’’;
  • seguiva la Croce spoglia affiancata da due lampioni;
  • le insegne della Passione;
  • la Banda paesana che suonava marce funebri alternandosi alla Corale;
  • un drappello di soldati romani di fanteria;
  • il Clero;
  • la statua di Gesù Morto, sotto il baldac­chino nero, ed ai lati i gendarmi in alta uni­forme, ed altri componenti della Miseri­cordia incappucciati in nero, con torcia formata di corde ritorte ed imbevute di re­sina;
  • il gruppo della Corale al canto del Mise­rere;
  • le donne in doppia fila con il sacerdote al centro;
  • la statua della Madonna Addolorata af­fiancata da 8 soldati romani;
  • gli uomini in fila doppia;
  • otto soldati a cavallo ed al lato l’apposi­to palafreniere.
Gruppo Fanteria Romana (Processione Bella anno 1948).

A contenere l’ordine e la disciplina della fila vi erano i mazzieri, che specie nei tratti curvosi, mantenevano la retta sfilata dei processionanti. Tutto ciò sfilava in mez­zo ad una folta folla che in silenzio assi­steva al passaggio per poi accodarsi fino alla Chiesa per la dovuta “baciarella”. La Processione, che come da accordi presi con il Proposto Don Burlacchini se­guirà lo stesso ordine di una volta, sfile­rà nel seguente itinerario stradale: Partendo dalla Chiesa, per Via Mascagni, Piazza de Larderei, Piazza S.Anna, Via Gramsci, Viale Roma, Via della Libertà, Via della Repubblica, Via Mario Bardini, Via Garibaldi, Via Cercignani, aggirando l’abitazione di Spinelli A., Via Indipenden­za, discendendo nuovamente in Via Cer­cignani, per Via Garibaldi, Piazza S.An­na, Piazza de Larderei, Via Roncalli e ri­salendo da Via della Costarella si porte­rà nuovamente in Via Mascagni sino alla Chiesa Parrocchiale.

Dal Parroco Don Piero Burlacchini si ha comunicazione che le consuete oblazio­ni che i fedeli usano lasciare al momento del bacio alle immagini sacre del Gesù e della Madonna, andranno devolute alla ri­strutturazione del Campanile. Vogliamo sperare che questo richiamo sia sentito da tutti, e che sia il Campanile a trarre vantaggi da questa PROCESSIONE BELLA.

Giorgio

NOTE BIBLIOGRAFICHE

Archivio confraternita Misericordia di Po­marance. “RIEVOCAZIONI STORICHE” di Ed­mondo Mazzinghi, da La Comunità di Po­marance Anno VII! n°3 e 4, Agosto 1975.

MOBILI E SUPPELLETTILI DI UN CASOLARE DI CAMPAGNA

Attraverso le memorie di chi, per gran parte della sua vita ha vissuto in un po­dere, abbiamo cercato di ricostruire, an­che se in modo molto parziale, ambienti, abitudini ed usi a testimonianza di un pas­sato che distano dall’oggi solo qualche decennio ma che le grandi trasformazio­ni hanno reso molto più remoti. La maggior parte delle dimore rurali situa­te nelle nostre campagne, in quanto frut­to di un’architettura spontanea, sono na­te senza un progetto e si sono modellate protempore a seconda delle necessità. Gli spazi, specie quelli abitativi, erano or­ganizzati funzionalmente e ruotavano tutti intorno alla cucina, vero cuore della ca­sa, anzi “casa” per antonomasia.

Elemento fondamentale della cucina era il focolare, situato su un piano rialzato e contornato da panche di legno dove ci si sedeva d’inverno per riscaldarsi attorno al fuoco. Queste ultime, all’occorrenza si potevano usare come letti di fortuna quando capitava di ospitare per la notte persone di passaggio, per lo più carbo­nai o venditori ambulanti; in questi casi si poneva sopra ciascuna panca una balla riempita con la paglia detta “rapazzola” , a mo’ di materasso.

Dal camino pendeva una catena con un gancio, anneriti dal fumo, che servivano per appendervi il paiolo di rame o il cal­derotto per l’acqua. Vicino al focolare si trovavano due alari in ferro battuto, la pa­letta, le molle ed un granatino di saggi­na. Appesi alle pareti stavano la casset­ta con il sale e vari treppiedi per arrostire il cibo; sotto alle panche si teneva la le­gna e, una volta usato, vi si riponeva il reggipadelle. Per cucinare si usavano an­che i fornelli a carbone che, in alcuni ca­si, si trovavano incorporati nella struttu­ra del focolare, in altri erano posti su un’altra parete, di solito vicino all’acquaio. Sopra all’acquaio stavano la catinella, la brocca (senza beccuccio) ed il brocco (con il beccuccio) ambedue di rame, que­st’ultimo conteneva l’acqua potabile, quando era vuoto si andava in cantina e si riempiva al coppo di terracotta, ser­vendosi di una tazza e di un imbuto, te­nuti a portata di mano, sul piatto che so­litamente si usava per coprire l’apertura del coppo. Quando anche questo era vuo­to si andava a prendere l’acqua ad una fonte con le “barlette” di legno caricate sulla cavalla. Sotto l’acquaio c’erano il ca­tino per rigovernare, il paiolo, il calderot­to e i secchi con gli scarti di cibo per il maiale e le galline; l’apertura era di soli­to coperta con una tenda. Appesa al mu­ro, al di sopra dell’acquaio vi era la piat­taia dove si riponevano i piatti, i coperchi delle pentole e qualche zuppiera di mo­deste dimensioni. I tegami con i manici venivano appesi ai ganci dell’attaccapanni, mobiletto pensile di minimo ingombro ma di grande funzionalità, dal quale spor­gevano in alto ed in basso due mensole, sulla prima si mettevano le pentole più grandi, capovolte; sulla seconda, che ter­minava con una piccola sponda, si ripo­nevano i bicchieri di tutti i giorni, anch’essi capovolti.

Altro oggetto importantissimo della cuci­na era la madia, essa era usata come pia­no di lavoro per fare il pane inoltre, al suo interno vi si conservava il pane cotto edlievito ricoperto di farina. Nei cassetti si tenevano i fusi, i gomitoli di lana, la tova­glia ed i teli del pane. Nella parte bassa, chiusa da due sportelli, si riponevano, tra le altre cose, i fiaschi con l’olio e l’aceto. Oltre alla madia, in alcuni poderi, si tro­vava anche un cassone dove si conser­vava la farina e tutti quegli utensili che con essa avevano qualche relazione: staccio, capretta (reggistaccio), maccheronaio, ecc.

Incavati all’interno delle spesse mura sitrovavano di frequente delle scaffalature chiuse con tende, che servivano da disensa. Sulle relative tavole si ponevano i fia­schi del vino, il fiasco dell’olio per i lumi, il lume ad olio, il lume a cantino (petrolio) e la lanterna ad olio per la stalla, la bugia ed il lanternino per andare a veglia quan­do non c’era la luna, i barattoli di grano ed orzo tostati, i barattoli di marmellata ed i barattoli di terra con i pomodori sot­to sale, i sacchetti di stoffa con i ceci ed i fagioli, olive e fichi secchi. Per terra sen­za una precisa collocazione si trovava tal­volta una grossa ciotola di legno detta “boriglia” che conteneva la semola, in es­sa, quando era l’ora di coricarsi, le don­ne infilavano le rocche con la lana o il li­no perchè stessero ben dritte.

Dietro la porta d’ingresso si tenevano la granata di saggina e la “cassetta” di le­gno. Al centro della stanza stava il gran­de tavolo e nel senso della lunghezza vi erano una o due panche e qualche seg­giola impagliata.

Gran parte dei pasti quando il tempo lo permetteva, erano consumati all’aperto, in questo caso spesso non si usavano i piatti ma si mangiava direttamente dal te­game e si beveva ad un solo bicchiere o a “garganella” direttamente dal fiasco. Se i pasti erano fatti a casa si apparec­chiava sempre la tavola con la tovaglia bianca di “rinfranto” , si mettevano i cuc­chiai, le forchette, non si usavano invece i coltelli poiché ogni contadino ne aveva uno tascabile.

Dopo la cena le donne facevano le fac­cende e gli uomini andavano a veglia o ricevevano i vegliarini. Durante la veglia gli uomini giocavano a carte e bevevano qualche bicchiere di vino, mentre le don­ne si tenevano occupate filando, facen­do la calza, rammendando, poiché il loro stare con le “mani in mano” sarebbe sta­to motivo di biasimo. Presso alcune famiglie, al sabato sera, le donne, a turno, lavavano e ungevano con il grasso di maiale (sugna) le scarpe di cuoio e di vacchetta di tutti i familiari; e mentre si lavorava e si giocava, talvolta qualcuno raccontava storie e novelle op­pure si parlava del raccolto, delle bestie, di argomenti insomma legati alla vita quo­tidiana.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

LO SGOMBERO – IL LAVATOIO – IL PIAZZONE

La Signora Bibbiani, la già conosciuta protagonista e scrittrice dell’ormai noto libro “IL FORMICAIO”, è stata qualche giorno a Pomarance ospite della sua amica Emma.

Durante il suo soggiorno è venuta a trovarci alla Pro Loco. Abbiamo parlato di argomenti del tempo passato, del suo libro e di altre cose di Pomarance.

In questi giorni ha trovato il tempo per scrivere ancora qualcosa che poi ci ha lasciato insiema ad altro, tracciato precedentemente.

Sono tre racconti che riprendono il discorso dalla fine del suo libro. Il primo parla del trasloco dal Formicaio alla Fonte del Comune, il secondo del Lava­toio pubblico che si trovava presso la
sua nuova abitazione e delle storie accadute tra le donne che frequentava­no questo luogo, il terzo è un racconto su questi ultimi giorni trascorsi a Poma­rance e delle ore di lettura passate nel Piazzone.Certi di far cosa gradita ai nostri letto­ri, proponiamo loro tutti e tre i racconti.

LO SGOMBERO

Gli sgomberi sono avvenimenti molto importanti nella nostra vita, perché segnano le tappe del nostro percorso, tappe che lasciano dietro di sé un certo modo di vita, un certo ambiente, certe amicizie e ci portano in un ambiente tutto diverso, dove diverso sarà il modo di vivere, diverse le amicizie, diverse le esperienze.

Il primo fu per me il più doloroso. Fu il distacco dal Formicaio, dal nostro picco­lo regno dove noi ragazzi eravamo nati e dove avevamo vissuto un’infanzia povera sì ma libera, sana e spensierata.

Fu l’addio al nostro piccolo grande Formicaio coi suoi campi, le sue piante, le sue bestie, la sua casa, la sua Croce.

Come risuonavano tristi le sue stanze vuote!

Vi rimase solo la mucca. E per mamma fu questo l’addio più doloroso poiché l’amava quasi come una perso­na; amore del resto ricambiato, poiché la povera bestia mugghiò dolorosamen­te per giorni e giorni come quando le portavano via il vitellino.

Portò via le nostre povere cose un carro trainato da buoi. All’ultimo viaggio in cima al carro troneggiavano il

trabiccolo e lo scaldaletto! Sotto, in una cesta, c’erano le galline, poiché mamma non aveva voluto separarsi da loro.

E noi dietro, a piedi, tristi, come a un funerale.

Tornammo alla fonte del Comune, a ridosso della collina, dove il sole tra­montava alle tre del pomeriggio, in una vecchia casetta di tre misere stanze, davanti al lavatoio pubblico. Fu un cam­biamento in peggio per tutti, in tutti i sensi. Babbo passò dalla vita contadina, faticosa si ma libera, a quella incerta e dipendente di operaio e mamma dovette andare a mezzo servizio. Perfino le gal­line ci scapitarono, private del vasto pol­laio, dell’aia e dei campi e costrette in un angusto recinto dove non vedevano mai il sole.

La gattina bianca addirittura fuggì: ormai vecchia volle andare a morire al suo Formicaio.

V. Bibbiani

IL LAVATOIO

Il lavatoio pubblico fu per me come un palco da cui potei assistere a più d’uno spettacolo gratuito, e venire a conoscenza di vita morte e miracoli di tutto il paese, poiché le donne porta­vano al lavatoio non solo i panni spor­chi materiali ma anche gli altri, cioè tutti i petegolezzi, tutti i segreti, tutti gli scandali.

La via della Fonte

Stropicciavano, sbattevano, sciac­quavano, torcevano, e chiacchierava­no, chiacchieravano… mentre l’acqua diventava sempre più sporca e più densa, finché si ricopriva di una coltre di sudicia saponata che le donne cer­cavano di allontanare continuamente dai loro panni.

Una volta, una donna, moralmente vulnerabile, malignò sul conto di un’altra che era dal lato opposto; que­sta naturalmente, replicò; la prima raddoppiò la dose, la seconda passò alle offese, finché tutte e due, rosse dalla rabbia, cominciarono a lanciarsi, a piene mani, quell’acqua limpida e profumata bagnando anche le altre.

Successe il finimondo!!!!

Spesso qualche pezzo di sapone scivolava dalle mani infreddolite delle donne e, siccome il fondo del lavatoio era in pendenza, riprenderlo era un problema. Munite di una mazza, in cima alla quale era legata una vecchia forchetta; povere donne, quanto fru­gavano e quanto imprecavano!

Il lavatoio della Fonte di Cannerj detta del comune

Il lavatoio veniva svuotato e pulito solo una volta o due alla settimana da Mizio, lo spazzino. Veniva giù nel tardo pomeriggio, armato di secchio e ramazza, dava all’ultima donna che si trovava lì il suo fagottino di panni sporchi perché glieli lavasse (era vedovo), mentre la vasca lentamente si svuotava. Infine vi entrava dentro per pulirla, recuperando fazzoletti, cal­zini, fibbie e bottoni e quei benedetti pezzi di sapone che erano diventati morbidi come pappa e* che regalava alla donna che gli aveva lavato i panni.

Durante la notte, lentamente, il lavatoio si riempiva.

La mattina dopo, le donne facevano a gara ad alzarsi presto per poter usu­fruire dell’acqua pulita. Arrivavano addirittura all’alba, una dietro l’altra e in poco tempo erano così tante che vi stavano a contatto di gomito, e non c’entravano e si bisticciavano.

La prima naturalmente era la Milia, la vecchia contadina, che aveva bollito il bucato la sera prima ed ora se lo porta­va addirittura fumante dalla conca. Era molto brava per lavare, la Milia, e con poco sapone, chè il segreto, diceva lei, stava nel far rimangiare ai panni la saponata, senza disperderla nell’acqua.

lo, dalla finestra, imparai tutti i segreti del mestiere e qualche volta mi alzavo presto per andare ad aiutarla.

Il compenso era un bell’uovo fresco!!!

IL PIAZZONE

Dietro al paese, dal lato di Nord-Est, c’è un gran piazzale a forma di triangolo, scavato nella roccia: il Piazzone.

Il lato occidentale è limitato da un alto muro, gli altri due da imponenti, meravi­gliosi, secolari ippocastani.

Ai miei tempi, per la festa del patrono, mentre in piazza si svolgeva la rumorosa fiera destinata alle donne e ai ragazzi, nel Piazzone si svolgeva quella, non meno rumorosa, del bestiame, destinata agli uomini.

Il ‘Piazzone”: Fiera Bovina nel 1932.

Le bestie, teste e code ornate di nastri e cordicelle colorate, venivano attenta­mente osservate, palpate, guardate in bocca, misurate, pesate, in mezzo a urli, muggiti e ragli.

Ogni tanto qualcuna partiva col nuovo proprietario, finche, piano piano, il Piaz­zone si svuotava; restava solo qualche povera “brenna” che il padrone, deluso, si riportava a casa, mogio, mogio.

Poi vennero i trattori e la fiera del bestiame se ne andò, come se ne vanno tutte le vecchie cose.

Il Piazzone si trasformò in campo di calcio e risuonò delle urla dei tifosi assie­pati lungo il muro di cinta. Alcuni secolari ippocastani furono sacrificati per far posto ad una delle porte da gioco, men­tre la parte inferiore del triangolo fu isola­ta con un filare di cipressi e per metà lastricata ed adibita a pista da ballo e da pattinaggio.

Questa estate sono andata al paese; sono andata a frescheggiare nel Piazzo­ne, all’ombra degli ippocastani.

Il campo da gioco è stato abbandonato per il nuovo stadio. Si anima solo per il Palio dei Rioni.

Seduta all’ombra soleggiata e profu­mata di resina dei cipressi, o a quella fonda e fresca degli ippocastani, ho tra­scorso lì molte ore del mattino.

Silenzio e pace assoluti, incredibili in questo mondo così rumoroso; aria pura, fresca, leggermente ventilata, profumo di erba, di terre, di ragia.

Nella strada sottostante non passano più le donne ciarliere per andare alla fonte e al lavatoio. Una sola ne ho vista; e non portava la “balla” dei panni in testa e le “mezzine” in mano, ma solo una tinozza di plastica celeste sotto il braccio.

Il libro è aperto sulle mie ginocchia. E’ un libro di Cassola e descrive proprio le colline e paesi di questa terra, di questa Maremma tanto cara al suo cuore come al mio. E i suoi personaggi suscitano in me il ricordo di altri personaggi lontani, ma stampati vivamente nella memoria. Ad ogni ora, l’alto campanile della Chiesa scandisce per due volte i suoi tocchi sonori; gli fanno eco, anch’essi per due volte, quelli più bassi deila Torre del Mar­zocco. Forse le cicale friniscono, ma al mio orecchio giunge solo un leggero fru­scio.

Stanotte ha piovuto. Sulla pista, in un punto avvallato, c’è una bella pozzanghe­ra di acqua piovana.

Giunge un uomo con un bambino.

L’uomo è sui 40 anni; il bambino ne avrà poco più di quattro; ha con sè la biciclettina a quattro ruote.

L’uomo mi dice di aver avuto il figlio dopo 13 anni di matrimonio e si vede subito che è un babbo apprensivo, esa­geratamente premuroso e timoroso. Gli mette la biciclettina sulla pista dicendo: “Lorenzo, mi raccomando, piano”.

Il bambino comincia a pedalare nell’asciutto, ma quella bella pozzetta d’acqua lo attira e vi si avvicina.

“No, Lorenzo, no, nell’acqua no!” Ma Lorenzo non ubbidisce e vi entra.

“Lorenzo, piano, ti bagni i piedi!”

Lorenzo non gli dà ascolto e sfreccia nell’acqua alzando ai lati due creste spu­mose.

Gli sorrido e lo incito. “Che bellezza eh! Ora sei al mare! La tua bicicletta si è trasformata in un motoscafo!”

E il babbo: “Lorenzo, piano! Lorenzo, vai all’asciutto!”

E Lorenzo mi guarda e sguazza felice su e giù.

E naturalmente si bagna i piedi!

“Te lo dicevo! Hai visto ti sei bagnato i piedi! Ora ti porto a casa!”

Ed io: “Sarebbe meglio che gli levasse le scarpe e, mentre queste asciugano al sole, ce lo facesse giocare a piedi nudi; tanto l’acqua è calda!”

Per non contraddirmi, il babbo cede.

E Lorenzo entra nell’acqua coi piedini scalzi e vi sguazza felice, come facevo io nel pelago e nelle pozzanghere del For­micaio!

E mi viene una voglia matta di andare nell’acqua con lui, ma temo che l’uomo mi prenda per “matta” e mi astengo.

Lorenzo mi guarda felice e riconoscen­te. Mi son fatta un amico.

E la mattina seguente spero che torni.

Passano le ore; piano piano la pozzan­ghera si ritira; Lorenzo non viene nè quel giorno nè i giorni seguenti.

Il babbo lo avrà portato a giocare altro­ve, lontano da questa nonna un po’ matta che ha voglia di sguazzare come lui nelle pozzanghere!

V. Bibbiani

MALANNI, CURE E RIMEDI

NELLA CULTURA CONTADINA

Gli abitanti delle nostre campagne era­no in larga misura accomunati da una vi­sione estremamente concreta della vita, per cui, a monte di ogni evento, positivo o negativo che fosse, doveva esistere una causa precisa e controllabile.

Talora credevano che qualcuno nasces­se già in possesso di connotazioni posi­tive o negative, che identificavano in cir­costanze concrete o in dati fisici: le don­ne settimine, nate al settimo mese di gra­vidanza, oppure settime dopo sei fratelli, e quelle venute alla luce in particolari gior­ni dell’anno, ad esempio per [’Ascensio­ne, erano ritenute in possesso di doti spe­cifiche per togliere il malocchio e le fat­ture, segnare “i bachi”, “le storte”, ecc.; era segno di fortuna, inoltre, il ‘‘nascere vestito o con la camicia” cioè con il cor­po ricoperto da quella sostanza lattigino­sa che facilita l’espulsione del feto al mo­mento del parto (vernice caseosa).

Riguardo a tutto ciò che di negativo po­teva accadere nell’arco dell’esistenza, le cause venivano spesso ricercate nel ma­locchio, nelle fatture e nei cosiddetti “spregi ai santi”.

Il malocchio, secondo questa concezio­ne, è un influsso che proviene propria­mente dagli occhi, occhi “mali” cioè cat­tivi, che può essere emanato con o sen­za la volontà del proprietario. A scatenarlo spesso basta una lode o un’osservazio­ne, per questo se si afferma “Bello que­sto bambino!” è rimasta ancora oggi nella tradizione popolare la consuetudine di ag­giungere “Che Dio lo benedica!” a mo’ di parafulmine.

Il malocchio si accerta e si “leva” con un rito particolare da farsi a lume di cande­la: in una scodella d’acqua vengono ver­sate gocce d’olio d’oliva, se l’olio si scom­pone o scompare, il malocchio c’è; l’ope­razione va ripetuta fino a che le gocce de­cidono di galleggiare come di norma (co­me Dio comanda).

Durante il rito si pronuncia una formula che varia da zona a zona, quelle che se­guono le abbiamo tratte da una pubblica­zione sulla cultura contadina in Toscana, poiché non è stato possibile, data la segretezza dell’argomento, reperirle diret­tamente da chi ancora oggi ne fa uso.

Gesù Giuseppe e Maria se è il malocchio se ne vada via, io ti segno,

Dio ti libera,

mi raccomando alla S.S. Trinità che ti ritorni la tua sanità.

Mi rivolgo a Dio e a tutti i Santi che questo male vada indietro e non avanti,

Dio mio sia se hai il malocchio ti vada via.

io ti segno, Dio ti libera.

Ben più grave è la fattura in quanto è de­finita come “cosa fatta apposta per indur­re un male” ed è praticata, secondo la credenza popolare, da persone nate per fare del male.

Un rimedio, ritenuto sicuro per annullare una fattura, consisteva nell’impossessarsi di un indumento del supposto “fattucchie­re” e quindi tracciato un cerchio attorno al fornello di cucina, metterlo a bollire. Si da per certo che, l’autore della fattura, non avrebbe tardato a bussare all’uscio, scongiurando di interrompere l’operazio­ne, sentendosi bruciare addosso.

Altra causa di malanni di ogni tipo erano ritenuti gli “spregi ai santi”. Questo tipo di causa veniva spesso diagnosticata da un indovino, che ordinava al peccatore di chiedere scusa al santo offeso, con la speranza di venire ascoltato e perdonato. Oltre ai rimedi esisteva anche una profi­lassi, che consisteva nel portare addos­so oggetti benedetti o amuleti.

Uno dei tanti momenti negativi di crisi e di pericolo è rappresentato dalle malattie. In campagna si aveva rispetto per la me­dicina quando riusciva a guarire; se non ci riusciva o quando il medico non era a disposizione, non si restava con le mani in mano ma ci si affidava ai rimedi tradi­zionali.

Bastava che uno dicesse – mi sento ma­le – gli davano subito l’olio di ricino. Que­sto era il toccasana per una vasta gam­ma di malattie; veniva acquistato in bot­tiglie da venditori ambulanti, che periodi­camente facevano il giro delle nostre campagne. Allo stesso modo ci si procu­ravano le “mignatte”: quando passava il “mignattaio” se ne compravano due o
tre, si tenevano dentro ad un recipiente di terracotta pieno d’acqua chiuso da un coperchio forato e si applicavano per cu­rare la polmonite.

Per l’influenza si usava il “pane lavato” o “acqua panata”: si arrostiva una fetta di pane e si metteva in un bicchiere pie­no d’acqua, quando era ben zuppato si strizzava e l’acqua, cosi ottenuta, si fa­ceva bere all’ammalato. Lo stesso rime­dio si otteneva sostituendo il pane arro­stito con il riso.

Per disinfettare tagli e ferite si faceva bol­lire in un cucchiaio d’ottone qualche goc­cia d’olio ed un po’ d’aceto, quando l’a­ceto era evaporato si faceva raffreddare l’unguento e si applicava.

All’inizio dell’estate venivano raccolti i “borsacchi d’olmo”, il liquido che si tro­va all’interno veniva usato anch’esso co­me disinfettante e cicatrizzante per le fe­rite.

Si faceva largo uso di erbe medicinali so­prattutto per il “calore” (infiammazione): erba rospa o erba diavola, camomilla, malva, vetriola, assenzio e salvia (amare come il veleno) e erba del calore; per il bruciato era conosciuta un’erba partico­lare, detta appunto “erba del bruciato” che veniva essicata e fatta bollire nell’olio. Le “storte” si facevano segnare e si cu­ravano applicando la chiara d’uovo mon­tata a neve e fasciando con la stoppa. Quando un bimbo aveva i “bachi” si fa­cevano “segnare” oppure si faceva an­nusare il petrolio; si usava anche bollire alcuni spicchi d’aglio e far bere l’acqua. Il modo più diffuso di curare l’orzaiolo era di “cucirlo”: si andava dalla persona ad­detta che infilava un filo bianco o nero nel­l’ago e, facendo finta di cucire l’occhio verticalmente ed orizzontalmente, diceva delle preghiere segrete e faceva il segno della croce.

Negli esempi fin qui citati abbiamo visto come, nelle nostre campagne, venivano curate alcune comuni malattie, ma vale la pena citarne altre, proprie della cultu­ra contadina, e non riconosciute dalla scienza medica. Una è il “dolore”, inte­so non come sintomo, ma come malattia a se stante, simile alla “passione” ed al “crepacuore”; di ciò ci si poteva amma­lare ed anche morire.

Quando qualcuno si ammalava, anche gravemente, e non si riusciva a trovare una causa precisa, tradizionalmente la si attribuiva alla “paura”. Si riteneva, infatti, che ha provare un forte spavento poteva entrare in corpo “la paura”, causando malattie anche molto gravi.

In conclusione si può dire che nella cul­tura contadina c’è la volontà di trovare una spiegazione a tutto e a tutto trovare un rimedio, in un continuo barcamenarsi tra religione, scienza e magia.

LAURA e SILVANO

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

LE FONTI DEL PAESE

RISCOPERTE DAGLI ALUNNI DELLA 2a CLASSE ELEMENTARE

Nell’anno scolastico appena concluso, le classi seconde della scuola elementa­re di Pomarance si sono avventurate in una suggestiva ricerca sul passato: l’ori­gine delle vecchie fonti del paese e gli usi e costumi legati a questi antichi centri di incontro della comunità. I piccoli storici, con la guida delle insegnanti, sono parti­ti anzitutto dallo studio di fonti scientifi­che, quali documenti dell’Archivio Comu­nale e carte topografiche, utilizzando, inoltre, per gli aspetti antropologico- culturali, anche altri testi, quali “Il Formi­caio” della Bibbiani o la stessa pubblica­zione “La Comunità di Pomarance”.

Le tre fonti che principalmente sono sta­te studiate sono quella anticamente det­ta “di Cannerj”, o volgarmente “la fonte del Comune”, quella delle “Peschiere” e quella della “Boldrona”, viste sia come fonti-abbeveratoi, che come lavatoi. In particolare, quest’ultimo punto ha aper­to la strada a gustosi spaccati sulla vita sociale e sulle abitudini, soprattutto fem­minili, legate all’uso delle fonti.

Attraverso i ricordi e le interviste fatte da­gli alunni alle persone anziane del pae­se, sono stati ricostruiti i “canti del Lava­toio”, che avevano sia la funzione di al­leviare alle donne il tedioso lavoro del bu­cato, sia quella di diffusione delle conzoni allora in voga, portate nei paesi dai can­tastorie, in assenza di radio e televisione. In un apposito giornalino sono state rac­colte le “chiacchiere di lavatoio”, sempre secondo le indicazioni fornite dalle anzia­ne donne intervistate, le quali chiacchie­re si sono rivelate straordinariamente at­tuali, avendo per oggetto, come sempre, pettegolezzi, “scandali” o avvenimenti straordinari della comunità.

Il lavoro si è quindi articolato, in prospet­tiva interdisciplinare, sull’intera attività scolastica, interessando varie discipline, quali la storia, la geografia, la ricerca lin­guistica, gli studi sociali, l’educazione al­l’immagine e l’educazione musicale, mentre i materiali prodotti (elaborati, fo­to, disegni, ecc.) sono stati per le inse­gnanti anche uno strumento di verifica sia per l’acquisizione delle conoscenze, sia per gli obiettivi di apprendimento che era manifestazioni “Da Maggio a Maggio”, ed ha riscosso vivo interesse e apprez­zamento.

Un doveroso plauso, quindi, alle inse­gnanti e agli alunni, dei quali sembra giu­sto riportare, qui sotto, i nomi, insieme al­la riproduzione di uno dei tanti elaborati.

Dott.ssa Stefania Ragoni

INSEGNANTI: Gonnelli Giovanna, Fidan­zi Mila, Cipriani Lorita.

ALUNNI: Antonelli Alessandro, Bargelli Maurizio, Antonelli Francesco, Cheli Ru­ben, Cigni Fabrizio, Costagli Giovanni, De Lellis Roberto, Farru Andrea, Maggi Lui­gi, Fontanelli Michele, Picci Alberto, Geppi Filippo, Pierella David, Patrocchi Gre­gorio, Valentini Diego, Rossi Roberto, Ca­ciagli Linda, Spinelli Cristian, Cucini Va­lentina, Altamura Martina, Fedeli Giada, Genuardo Eleonora, Garaffi Monica, Nan­ni Maddalena, Porri Martina, Tozzini Ele­na, Scatena Fiorella.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

IL PANE

LA PREPARAZIONE NELLA TRADIZIONE CONTADINA

Nell’alimentazione contadina il pane era il cibo assoluto, il nutrimento per ec­cellenza. Tutti gli altri cibi si riassumeva­no in una sola parola “companatico” a ribadire il loro carattere secondario, in quanto non indispensabili e non sempre disponibili.

Questa situazione si è saldamente radi­cata attraverso i secoli tanto che, in un mondo ormai regno del “companatico”, il pane rimane per molti un punto di rife­rimento dell’alimentazione quotidiana, certo più per abitudine che per reale bi­sogno nutritivo.

Di norma nella tradizione contadina il pa­ne si preparava una volta alla settimana o per meglio dire “ogni otto giorni”.Per una decina di persone occorreva cuoce­re circa venti pani alla volta, per lo più ro­tondi e del peso di due chili ciascuno. Il giorno precedente si preparava la legna necessaria per scaldare il forno e alla sera si metteva il lievito a rinvenire nell’acqua poiché gli otto giorni trascorsi sotto al “monticino” della farina in un angolo del­la madia, lo avevano indurito. La mattina seguente di buon’ora si scaldava l’acqua necessaria nel paiolo di rame, quindi si prelevava dal cassone la farina occorren­te che si stacciava nella madia facendo scorrere lo staccio su di un piedistallo di legno chiamato “reggistaccio”.

L’acqua calda si stemperava in una pen­tola con altra fredda sgorgata dal brocco e la si versava un po’ per volta sulla fari­na distesa nella madia cominciando ad impastare attorno al lievito.

Lavorando con le mani si continuava ad amalgamare l’impasto fino a che, ottenu­ta la necessaria consistenza, si procede­va a staccare da esso le forme dosate a vista che venivano ulteriormente lavora­te una ad una sulla “spianatoia” e poi de­poste su una tavola di legno ricoperta da un telo spolverizzato di farina. Tra una for­ma e l’altra si faceva una piega ondulata al telo quindi si posava l’orlo di un bicchie­re su ogni pane lasciando un’impronta che si riteneva favorisse la lievitazione. A questo punto si copriva il tutto con un lembo del telo lasciato ciondoloni; se fa­ceva freddo si usava anche una coperta di lana e si provvedeva a riscaldare l’am­biente con un braciere posto sotto la ta­vola. Quando le forme cominciavano a lie­vitare si procedeva a scaldare il forno. Si bruciavano più o meno rapidamente al­cune fascine di legna fine finché le lastre laterali accennavano a un colore bianca­stro, a questo punto si mandava la brace tutta da un lato usando una pertica e si spazzava il forno con lo “spazzolo”, infi­ne si faceva “cascare la bronza” cioè si verificava la temperatura del forno intro­ducendovi alcuni rametti di frasca: quan­do le foglie non annerivano voleva dire che era il momento giusto per infornare il pane.

Sollevando il telo si rovesciavano le for­me una ad una su di una mestola e da questa sulla pala poggiata vicino alla boc­ca del forno, quindi si deponevano all’in­terno del forno disponendole di rigiro a co­minciare dal punto più lontano dalla bra­ce; in questo modo si bilanciava il calore per la cottura.

Quando in casa c’era una donna che ave­va da partorire si faceva un panino per prevedere il sesso del nascituro: se si spaccava, si diceva sarebbe stata una femmina, se rimaneva intero si prevede­va la nascita di un maschio.

Dopo circa mezz’ora si apriva il forno e si rovesciavano velocemente tutti i pani per farli cuocere da entrambi i lati; un’o­ra era di solito sufficiente per completa­re la cottura.

A questo punto si estraevano i pani dal forno con la stessa pala usata per infor­narli e con lo spazzolino di saggina si to­glievano la cenere, la farina ed i pezzetti di carbone rimasti eventualmente attac­cati alla crosta, quindi si disponevano ritti sulla tavola appoggiati gli uni agli altri e, una volta raffreddati, si riponevano nella madia.

Quasi sempre si sfruttava il calore del for­no per altre necessità: cuocere la schiac­cia, le mele, fare le bruciate, seccare i fi­chi, ecc.

Fra i riti collegati col pane c’era l’idea di non rovesciarlo sul tavolino “sennò” si di­ceva “un fa mai buio” intendendo il buio come momento di riposo dopo una lun­ga giornata di lavoro, le parole di questo canto toscano ci paiono, a questo propo­sito, particolarmente significative:

Tramonta sole per l’amor di Dio
ché se un sei stracco te so’ stracco io
Tramonta sole per l’amor dé Santi,
chè se un sei stracco te n’hai stracchi
tanti!

Laura

IL BUCATO

“Levate le lenzuola, oggi si fa il buca­to.” Con queste parole la massaia dava il via ad una operazione che, solitamen­te, impegnava le donne di casa per più giorni. Per prima cosa si provvedeva a ba­gnare i panni sporchi, quindi si sistema­va, in un angolo della cucina, un “troppolo” di legno e su di esso si collocava la conca di terracotta; questa aveva, pres­so il fondo, un foro nel quale si inseriva il bucciolo o cannello, un pezzo di canna appositamente svuotato che, fasciato di stoppa, era infilato a forza nel foro e chiu­so all’esterno con un tappo di sughero. Sul fondo della conca, inclinato a proteg­gere il foro di uscita, si poneva un testo “poco buono”, magari senza manico, poi si disponeva la biancheria, tenendo pre­sente il principio di porre via via, dal bas­so verso l’alto, i panni sempre più sporchi. Così, cominciando dal fondo, l’ordine era, in genere, il seguente: prima le lenzuola, poi le federe, quindi le mutande, le cami­cie da donna e ancora asciugamani, asciughini e tovaglie e, infine, altri even­tuali panni bianchi.

Su di essi veniva sistemato il “cenerone”, un telo di balla, sopra al quale si versa­vano tre o quattro secchi di cenere del focarile; molte volte, per aumentare la ca­pienza della conca e per sostenere il “ce­nerone” si inserivano, fra la biancheria e le pareti interne, una serie di “schiappe” di legno che sporgevano, anche notevol­mente, dal bordo superiore della conca. Intanto si scaldava l’acqua, in un paiolo grande, e la si versava sulla cenere: dap­prima tiepida, poi sempre più calda ma non a bollore; quando cominciava ad uscire dal cannello essa veniva raccolta,

riscaldata sempre di più e versata nuo­vamente nella conca.

Questa operazione veniva ripetuta più volte, finché l’acqua estratta dal fondo era ormai calda ed aveva assunto una colo­razione tra il giallo ed il marrone chiaro: ciò significava che il ranno era pronto; al­lora lo si faceva bollire e, dopo aver inse­rito il tappo di sughero nel cannello, si ver­sava nuovamente nella conca. Ora non restava che coprire la cenere, ripiegan­do su di essa le estremità del telo, e la­sciar riposare il bucato fino all’indomani. La mattina seguente si recuperava tutto il ranno dalla conca e lo si raccoglieva in secchi per riutilizzarlo; con una paletta si provvedeva a raccogliere la cenere quin­di, dopo aver tolto il cenerono, si prende­vano i panni, si ponevano nella “panie­re” di vimini o nei graticci e si andavano a lavare ai lavatoi, dove venivano spaz­zolati, sciacquati e strizzati accuratamen­te. Con cura venivano stesi ad un filo te­so fra piante o pali in un posto soleggia­to e ventilato oppure sopra ai cespugli e, in estate, direttamente sull’erba; se tira­va vento, i capi tesi sopra ai cespugli ve­nivano fermati legandone alcuni lembi ai rametti.

Il ranno raccolto era usato per lavare i panni colorati, gli indumenti di lana ed era efficace, dato l’alto contenuto di carbonato di potassio, magnesio, calcio e silice, anche come detersivo per rigo­vernare e togliere l’unto dai tegami; mol­te donne, inoltre, lo usavano per lavarsi i capelli.

Laura