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Descrizione, notizie ed eventi sul borgo di Pomarance.

LA FESTA DI S. GIOVANNI

ASPETTI DI RELIGIOSITÀ POPOLARE E PRATICHE MAGICO – RITUALI

La devozione popolare in Toscana, al­meno per taluni aspetti, pare affondi le sue radici negli antichi culti romani o ad­dirittura etruschi.

Da queste lontane forme di religiosità, in­fatti, si ipotizza abbia avuto origine la con­cezione, così diffusa, che vede l’interven­to diretto della divinità nei fatti più minuti della vita non solo umana, ma anche in quella della campagna e della natura.

In tale logica si collocano alcuni rituali in uso in molti luoghi del nostro territorio fi­no a pochi decenni fa, che si rivolgono a Santi particolari e che coincidono con le feste collegate al ciclo dell’anno.

Il 24 giugno, festa della natività di San Giovanni Battista, si celebrava nell’anti­chità il solstizio d’estate.

Statuetta di S. Antonio.

La tradizione popolare attribuiva alla “guazza” di San Giovanni poteri magici, tali da rendere le erbe medicinali partico­larmente efficaci. La mattina, prima del levar del sole, ci si recava, solitamente a gruppi, nei luoghi dove cresceva la camo­milla e si raccoglievano fasci di steli fiori­ti dai quali, una volta tornati a casa, veni­vano tagliate le corolle che, essicate, si potevano conservare a lungo e usare, co­me rimedio naturale, in molteplici occa­sioni.

Dalle nostre parti si raccoglieva anche un’erba chiamata “pìlatro”, che veniva conservata in una bottiglia piena d’olio e serviva per curare le bruciature.

Con la “guazza” di San Giovanni c’era l’usanza di bagnarsi i capelli poiché si di­ceva che facesse bene al mal di testa; inoltre, i nati in questo giorno, erano con­siderati “virtuosi”, possedevano cioè una virtù che poteva essere, ad esempio, se­gnare le “storte” alle persone ed agli ani­mali. Chi aveva simili poteri era molto co­nosciuto presso la comunità e veniva chiamato a dare il suo aiuto in ogni mo­mento della giornata, per questo, si rac­conta, portava sempre con sé l’immagi­ne di un santo o una di quelle minuscole statuette, racchiuse in un “bucciolino” di alluminio che raffiguravano Sant’Antonio da Padova.

Abbiamo avuto notizia che, almeno fino ai primi decenni del 1900, in molte case della nostra zona, la sera del 23 giugno le donne ripetevano un rito che, almeno nei ricordi di chi ce ne ha parlato, non aveva un significato particolare, “si face­va perché si era sempre fatto”: si pren­deva una bottiglia di quelle di allora, con una grossa pancia, il collo lungo ed il tap­po di vetro, la si riempiva d’acqua fino al collo e si versava dentro un chiaro d’uo­vo. La notte si lasciava fuori della finestra e la mattina dopo, come per miracolo, dentro l’acqua si vedeva una barca, la barca di San Giovanni.

Non sempre e non a tutte riusciva di ot­tenere l’effetto sperato anche perché, ol­tre alla benedizione di San Giovanni, oc­correva essere dotate di “mani buone”. Un’altra usanza riguardava le ragazze innamorate ed era una specie di prova della verità che ci fa pensare al detto, molto dif­fuso tra le persone non più giovani, “San Giovanni non vuole nè scherzi nè ingan­ni”: coloro che desideravano sapere se il loro innamorato era sincero oppure no, coglievano un fiore di cardo, lo “strina­vano” leggermente con un fiammifero e li lasciavano per tutta la notte di San Gio­vanni fuori dalla finestra. La mattina do­po, se il fiore era ritornato bello, il giova­notto diceva la verità, se invece era sciu­pato era segno di bugie.

Cardo selvatico.

Un’altra tradizione legata alla festa di San Giovanni, mantenuta viva dai contadini fi­no all’awento dei trattori, è quella di “bru­ciare la mosca”. In questo periodo, con l’inizio della stagione calda, il bestiame usato nel duro lavoro dei campi, improv­visamente “si ammoscava”, cominciava a saltare e, anche se aggiogato, scappa­va nella macchia.

Tale comportamento era imputato alla presenza di una mosca “cattiva”, vero tormento per i buoi e pericolo di danni in­genti per i contadini che, ogni volta, ri­schiavano l’incolumità del loro bestiame il quale, fuggendo, poteva azzopparsi e ferirsi, anche in modo grave.

Per scongiurare questa specie di calamità naturale, la vigilia di San Giovanni, “al sotto di sole”, si accendeva un fuoco con una fascina di frasche, con lo scopo sim­bolico di “bruciare la mosca”.

Il luogo prescelto era lo spazio davanti al­la stalla o, comunque, un posto ben visi­bile dai poderi vicini, poiché il rito era an­che un’occasione per affermare i legami comunitari sfuggendo, per un momento, alla condizione di isolamento che carat­terizzava la vita di molte famiglie conta­dine.

Laura e Silvano

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

LA PROCESSIONE BELLA

Questa Associazione, nel proposito di allargare le iniziative a scopo turistico e con l’intento di richiamare nel nostro pae­se un numero sempre maggiore di visi­tatori, ha programmato, nell’occasione della Pasqua 1988, di riproporre per la se­ra del Venerdì santo la storica processio­ne denominata “PROCESSIONE BELLA”.

Palazzo Biondi-Bartolini in occasione della Processione Bella.

Richiesti i dovuti permessi alla Parrocchia ed al Vescovado, si sono presi i contatti con le varie associazioni interessate: la Corale Pomarancina, il Corpo Filarmoni­co “G. Puccini”, la Confraternita della Mi­sericordia, il Comitato Parrocchiale, l’As­sociazione Sportiva Amici del Cavallo (A.S.A.C.), i rappresentanti le quattro Contrade per mettere insieme il tutto e far sì che questa manifestazione tradiziona­le ritorni a vivere.

Questa manifestazione di carattere reli­gioso venne effettuata l’ultima volta qua­rantanni fa per volere del Proposto Mons. Luigi PAOLI.

Da ricerche intraprese per l’allestimento di tale iniziativa, risulta che venne effet­tuata per la prima volta nell’anno 1860. La sua preparazione, sotto la guida dell’allora parroco Mons. Ferdinando MAR­CHETTI, venne curata dai componenti il Consiglio della Confraternita Misericordia e, con l’iniziativa dell’allora Governatore Conte Florestano de Larderei, furono pre­si a noleggio i costumi presso la Ditta Ric­cardo MONTAGNI, vestiarista teatrale di Livorno, fornitore di vestiario da compar­se e attori (come risulta da nota esisten­te): ‘‘per la Processione di Gesù Morto, al costume antico romano, si noleggiano n° 16 abiti per cavalleria e n° 12 per l’in­fanteria”. Da ulteriori documentazioni ri­sulta pure che chi desiderava, tra i com­ponenti la Confraternita, “munturarsi” per tale occasione, doveva prenotarsi e versare la somma di lire 10.

L’importo occorso per questo noleggio sembrò essere gravoso e per la succes­siva Processione, che come stabilito do­veva effettuarsi triennalmente, si ha una delibera di Consiglio firmata dal De Lar­derei e di cui riportiamo il testo: “Signori, a rendere più decorosa la Pro­cessione di Gesù Morto, si è usato da va­rio tempo raccogliere le oblazioni dai fe­deli per procurarne abiti e armature di co­stume romano. Il nolo però di queste co­se medesime, a cui torna conto di acqui­stare o fare gli uni e gli altri. È in questo intendimento che i sottoscritti deputati aprono la sottoscrizione seguente, dichia­rando che gli abiti e armature fatte, resta­no di assoluta proprietà della Misericor­dia del nostro paese per servire allo sco­po predetto e ad altri usi paesani occor­rendo. Così, questa offerta deve compen­diare quelle di molti anni, (segue l’elen­co con le somme versate).’’

Arrivati alla data del 1863 troviamo molti foglietti con elenchi vari di stoffe, botto­ni, velluti, filo, ecc. così da renderci con­to che i costumi (tutt’oggi esistenti) furo­no fatti a Pomarance, e ciò lo dimostra una specie di ricevuta così compilata: n°14 bustini fatti alla Giudea in teletta ar­gento L. 56,00 al comandante in teletta oro L. 8,00 per tagliatura e infelpatura di 16 manti L.2,00 per 32 nappe per detti manti L. 2,50 Altri documenti dimostrano l’acquisto di cartone per la costruzione degli elmi ro­mani e di questi, come anche degli scu­
di, sembra esserne esecutore certo Giu­seppe RIGHI.

Riguardo al Miserere che veniva cantato processionando, troviamo che fu scritto appositamente, in stile Gregoriano, dal sacerdote MATTEO COFERATI, studia­to per quattro voci dispari (miste). La stampa fu a cura e spese del Volterrano Grand’Ufficiale Prof. Carissimo TRAFELI. Quest’anno come dicevo, la nostra Asso­ciazione intende far rivivere per una se­rata la vecchia tradizione, e a tal scopo si è rivolta alle associazioni nominate, le quali hanno già risposto assicurando la loro disponibilità e l’aiuto richiesto.

Centurione Romano impersonato da MARIANO TANI

La PROCESSIONE BELLA, oltre all’im­pegno di tutte le persone che si dispone­vano processionando in varie vesti, con­sisteva anche negli addobbi particolari che venivano usati per tale ricorrenza. Per ampliare in qualche modo la flebile luce dei rari lampioni a petrolio posti lun­go le vie del paese, venivano collocati al­le finestre delle abitazioni, svariati lam­pioncini di vetro attaccati a delle raggere in ferro e alimentati da olio e stoppino, (la numerosità dei lampioncini era in parte dovuta all’annata delle olive e conseguen­temente alla produzione olearia). Parte­cipava all’illuminazione tutta la cittadinan­za ma in maggior parte, a motivo delle possibilità, erano numerosi nella Via Ron­calli (detta Via dei Signori poiché vi era­no i palazzi di tutti i proprietari terrieri). Questa illuminazione comportava molto lavoro di preparazione e l’installazione dei lampioni aveva inizio almeno una settima­na prima per dar modo che fosse tutto pronto per la data stabilita, e si faceva a gara per avere la illuminazione più bella. È curioso citare il numero dei lampioni collocati nella Via Roncalli per renderci conto della paziente opera di preparazio­ne; i dati si riferiscono alla Pasqua del 1879 e sono stati ricavati dal diario del Maestro LESSI di cui se ne riporta il testo: Palazzo de Larderei 272 lampioni 1160 lumi

Palazzo Bicocchi 213 lampioni 1120 lumi Palazzo Ghilli (oggi Ricci) 107 lampioni 580 lumi

Palazzo Baldini (oggi Galli Tassi) 180 lam­pioni

Complessivamente solo nella Via Roncalli si aveva una luminosità composta da 772 lampioni e da circa 3500 lumi. A questi vanno aggiunti tutti gli altri alle finestre del Palazzo Biondi Bartolini e di cui non se ne fa nome, inoltre il Palazzo Gardini e tutta la Piazza De Larderei compresi i ter­razzi presso la Porta Volterrana, che mes­si tutti insieme destavano la loro sugge­stione all’ingresso del vecchio Poma­rance.

Sappiamo per notizie ricavate che que­sta manifestazione coinvolgeva in un mo­do o nell’altro, credenti e non, la maggior parte dei pomarancini che con i costumi dell’epoca doveva rappresentare i vari personaggi.

Sin dai primi giorni dell’anno iniziavano i preparativi, sia per la scelta dei perso­naggi, sia per la corporatura adatta alla taglia della veste da indossare. Si ricer­cavano i vari uomini atti ai servizi per le portantine, per il baldacchini, per i maz­zieri ed altri scopi.

Venivano effettuate nel campo del Piazzone le prove con i cavalli per abituarli al frastuono della banda ed all’andirivieni della gente. Anche le sembianze delle persone venivano contraffatte da folte barbe che si lasciavano crescere nelle ul­time settimane. Tutti erano coinvolti, allo scopo di far riuscire nel miglior modo pos­sibile questa rievocazione e far figura con tanti spettatori che venivano dai paesi li­mitrofi e da quelli più lontani.

La processione portava questo ordine:

  • Aprivano il corteo funebre 2 cavalli (pos­sibilmente bianchi) “IL SILENZIO’’;
  • seguiva la Croce spoglia affiancata da due lampioni;
  • le insegne della Passione;
  • la Banda paesana che suonava marce funebri alternandosi alla Corale;
  • un drappello di soldati romani di fanteria;
  • il Clero;
  • la statua di Gesù Morto, sotto il baldac­chino nero, ed ai lati i gendarmi in alta uni­forme, ed altri componenti della Miseri­cordia incappucciati in nero, con torcia formata di corde ritorte ed imbevute di re­sina;
  • il gruppo della Corale al canto del Mise­rere;
  • le donne in doppia fila con il sacerdote al centro;
  • la statua della Madonna Addolorata af­fiancata da 8 soldati romani;
  • gli uomini in fila doppia;
  • otto soldati a cavallo ed al lato l’apposi­to palafreniere.
Gruppo Fanteria Romana (Processione Bella anno 1948).

A contenere l’ordine e la disciplina della fila vi erano i mazzieri, che specie nei tratti curvosi, mantenevano la retta sfilata dei processionanti. Tutto ciò sfilava in mez­zo ad una folta folla che in silenzio assi­steva al passaggio per poi accodarsi fino alla Chiesa per la dovuta “baciarella”. La Processione, che come da accordi presi con il Proposto Don Burlacchini se­guirà lo stesso ordine di una volta, sfile­rà nel seguente itinerario stradale: Partendo dalla Chiesa, per Via Mascagni, Piazza de Larderei, Piazza S.Anna, Via Gramsci, Viale Roma, Via della Libertà, Via della Repubblica, Via Mario Bardini, Via Garibaldi, Via Cercignani, aggirando l’abitazione di Spinelli A., Via Indipenden­za, discendendo nuovamente in Via Cer­cignani, per Via Garibaldi, Piazza S.An­na, Piazza de Larderei, Via Roncalli e ri­salendo da Via della Costarella si porte­rà nuovamente in Via Mascagni sino alla Chiesa Parrocchiale.

Dal Parroco Don Piero Burlacchini si ha comunicazione che le consuete oblazio­ni che i fedeli usano lasciare al momento del bacio alle immagini sacre del Gesù e della Madonna, andranno devolute alla ri­strutturazione del Campanile. Vogliamo sperare che questo richiamo sia sentito da tutti, e che sia il Campanile a trarre vantaggi da questa PROCESSIONE BELLA.

Giorgio

NOTE BIBLIOGRAFICHE

Archivio confraternita Misericordia di Po­marance. “RIEVOCAZIONI STORICHE” di Ed­mondo Mazzinghi, da La Comunità di Po­marance Anno VII! n°3 e 4, Agosto 1975.

MOBILI E SUPPELLETTILI DI UN CASOLARE DI CAMPAGNA

Attraverso le memorie di chi, per gran parte della sua vita ha vissuto in un po­dere, abbiamo cercato di ricostruire, an­che se in modo molto parziale, ambienti, abitudini ed usi a testimonianza di un pas­sato che distano dall’oggi solo qualche decennio ma che le grandi trasformazio­ni hanno reso molto più remoti. La maggior parte delle dimore rurali situa­te nelle nostre campagne, in quanto frut­to di un’architettura spontanea, sono na­te senza un progetto e si sono modellate protempore a seconda delle necessità. Gli spazi, specie quelli abitativi, erano or­ganizzati funzionalmente e ruotavano tutti intorno alla cucina, vero cuore della ca­sa, anzi “casa” per antonomasia.

Elemento fondamentale della cucina era il focolare, situato su un piano rialzato e contornato da panche di legno dove ci si sedeva d’inverno per riscaldarsi attorno al fuoco. Queste ultime, all’occorrenza si potevano usare come letti di fortuna quando capitava di ospitare per la notte persone di passaggio, per lo più carbo­nai o venditori ambulanti; in questi casi si poneva sopra ciascuna panca una balla riempita con la paglia detta “rapazzola” , a mo’ di materasso.

Dal camino pendeva una catena con un gancio, anneriti dal fumo, che servivano per appendervi il paiolo di rame o il cal­derotto per l’acqua. Vicino al focolare si trovavano due alari in ferro battuto, la pa­letta, le molle ed un granatino di saggi­na. Appesi alle pareti stavano la casset­ta con il sale e vari treppiedi per arrostire il cibo; sotto alle panche si teneva la le­gna e, una volta usato, vi si riponeva il reggipadelle. Per cucinare si usavano an­che i fornelli a carbone che, in alcuni ca­si, si trovavano incorporati nella struttu­ra del focolare, in altri erano posti su un’altra parete, di solito vicino all’acquaio. Sopra all’acquaio stavano la catinella, la brocca (senza beccuccio) ed il brocco (con il beccuccio) ambedue di rame, que­st’ultimo conteneva l’acqua potabile, quando era vuoto si andava in cantina e si riempiva al coppo di terracotta, ser­vendosi di una tazza e di un imbuto, te­nuti a portata di mano, sul piatto che so­litamente si usava per coprire l’apertura del coppo. Quando anche questo era vuo­to si andava a prendere l’acqua ad una fonte con le “barlette” di legno caricate sulla cavalla. Sotto l’acquaio c’erano il ca­tino per rigovernare, il paiolo, il calderot­to e i secchi con gli scarti di cibo per il maiale e le galline; l’apertura era di soli­to coperta con una tenda. Appesa al mu­ro, al di sopra dell’acquaio vi era la piat­taia dove si riponevano i piatti, i coperchi delle pentole e qualche zuppiera di mo­deste dimensioni. I tegami con i manici venivano appesi ai ganci dell’attaccapanni, mobiletto pensile di minimo ingombro ma di grande funzionalità, dal quale spor­gevano in alto ed in basso due mensole, sulla prima si mettevano le pentole più grandi, capovolte; sulla seconda, che ter­minava con una piccola sponda, si ripo­nevano i bicchieri di tutti i giorni, anch’essi capovolti.

Altro oggetto importantissimo della cuci­na era la madia, essa era usata come pia­no di lavoro per fare il pane inoltre, al suo interno vi si conservava il pane cotto edlievito ricoperto di farina. Nei cassetti si tenevano i fusi, i gomitoli di lana, la tova­glia ed i teli del pane. Nella parte bassa, chiusa da due sportelli, si riponevano, tra le altre cose, i fiaschi con l’olio e l’aceto. Oltre alla madia, in alcuni poderi, si tro­vava anche un cassone dove si conser­vava la farina e tutti quegli utensili che con essa avevano qualche relazione: staccio, capretta (reggistaccio), maccheronaio, ecc.

Incavati all’interno delle spesse mura sitrovavano di frequente delle scaffalature chiuse con tende, che servivano da disensa. Sulle relative tavole si ponevano i fia­schi del vino, il fiasco dell’olio per i lumi, il lume ad olio, il lume a cantino (petrolio) e la lanterna ad olio per la stalla, la bugia ed il lanternino per andare a veglia quan­do non c’era la luna, i barattoli di grano ed orzo tostati, i barattoli di marmellata ed i barattoli di terra con i pomodori sot­to sale, i sacchetti di stoffa con i ceci ed i fagioli, olive e fichi secchi. Per terra sen­za una precisa collocazione si trovava tal­volta una grossa ciotola di legno detta “boriglia” che conteneva la semola, in es­sa, quando era l’ora di coricarsi, le don­ne infilavano le rocche con la lana o il li­no perchè stessero ben dritte.

Dietro la porta d’ingresso si tenevano la granata di saggina e la “cassetta” di le­gno. Al centro della stanza stava il gran­de tavolo e nel senso della lunghezza vi erano una o due panche e qualche seg­giola impagliata.

Gran parte dei pasti quando il tempo lo permetteva, erano consumati all’aperto, in questo caso spesso non si usavano i piatti ma si mangiava direttamente dal te­game e si beveva ad un solo bicchiere o a “garganella” direttamente dal fiasco. Se i pasti erano fatti a casa si apparec­chiava sempre la tavola con la tovaglia bianca di “rinfranto” , si mettevano i cuc­chiai, le forchette, non si usavano invece i coltelli poiché ogni contadino ne aveva uno tascabile.

Dopo la cena le donne facevano le fac­cende e gli uomini andavano a veglia o ricevevano i vegliarini. Durante la veglia gli uomini giocavano a carte e bevevano qualche bicchiere di vino, mentre le don­ne si tenevano occupate filando, facen­do la calza, rammendando, poiché il loro stare con le “mani in mano” sarebbe sta­to motivo di biasimo. Presso alcune famiglie, al sabato sera, le donne, a turno, lavavano e ungevano con il grasso di maiale (sugna) le scarpe di cuoio e di vacchetta di tutti i familiari; e mentre si lavorava e si giocava, talvolta qualcuno raccontava storie e novelle op­pure si parlava del raccolto, delle bestie, di argomenti insomma legati alla vita quo­tidiana.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

LO SGOMBERO – IL LAVATOIO – IL PIAZZONE

La Signora Bibbiani, la già conosciuta protagonista e scrittrice dell’ormai noto libro “IL FORMICAIO”, è stata qualche giorno a Pomarance ospite della sua amica Emma.

Durante il suo soggiorno è venuta a trovarci alla Pro Loco. Abbiamo parlato di argomenti del tempo passato, del suo libro e di altre cose di Pomarance.

In questi giorni ha trovato il tempo per scrivere ancora qualcosa che poi ci ha lasciato insiema ad altro, tracciato precedentemente.

Sono tre racconti che riprendono il discorso dalla fine del suo libro. Il primo parla del trasloco dal Formicaio alla Fonte del Comune, il secondo del Lava­toio pubblico che si trovava presso la
sua nuova abitazione e delle storie accadute tra le donne che frequentava­no questo luogo, il terzo è un racconto su questi ultimi giorni trascorsi a Poma­rance e delle ore di lettura passate nel Piazzone.Certi di far cosa gradita ai nostri letto­ri, proponiamo loro tutti e tre i racconti.

LO SGOMBERO

Gli sgomberi sono avvenimenti molto importanti nella nostra vita, perché segnano le tappe del nostro percorso, tappe che lasciano dietro di sé un certo modo di vita, un certo ambiente, certe amicizie e ci portano in un ambiente tutto diverso, dove diverso sarà il modo di vivere, diverse le amicizie, diverse le esperienze.

Il primo fu per me il più doloroso. Fu il distacco dal Formicaio, dal nostro picco­lo regno dove noi ragazzi eravamo nati e dove avevamo vissuto un’infanzia povera sì ma libera, sana e spensierata.

Fu l’addio al nostro piccolo grande Formicaio coi suoi campi, le sue piante, le sue bestie, la sua casa, la sua Croce.

Come risuonavano tristi le sue stanze vuote!

Vi rimase solo la mucca. E per mamma fu questo l’addio più doloroso poiché l’amava quasi come una perso­na; amore del resto ricambiato, poiché la povera bestia mugghiò dolorosamen­te per giorni e giorni come quando le portavano via il vitellino.

Portò via le nostre povere cose un carro trainato da buoi. All’ultimo viaggio in cima al carro troneggiavano il

trabiccolo e lo scaldaletto! Sotto, in una cesta, c’erano le galline, poiché mamma non aveva voluto separarsi da loro.

E noi dietro, a piedi, tristi, come a un funerale.

Tornammo alla fonte del Comune, a ridosso della collina, dove il sole tra­montava alle tre del pomeriggio, in una vecchia casetta di tre misere stanze, davanti al lavatoio pubblico. Fu un cam­biamento in peggio per tutti, in tutti i sensi. Babbo passò dalla vita contadina, faticosa si ma libera, a quella incerta e dipendente di operaio e mamma dovette andare a mezzo servizio. Perfino le gal­line ci scapitarono, private del vasto pol­laio, dell’aia e dei campi e costrette in un angusto recinto dove non vedevano mai il sole.

La gattina bianca addirittura fuggì: ormai vecchia volle andare a morire al suo Formicaio.

V. Bibbiani

IL LAVATOIO

Il lavatoio pubblico fu per me come un palco da cui potei assistere a più d’uno spettacolo gratuito, e venire a conoscenza di vita morte e miracoli di tutto il paese, poiché le donne porta­vano al lavatoio non solo i panni spor­chi materiali ma anche gli altri, cioè tutti i petegolezzi, tutti i segreti, tutti gli scandali.

La via della Fonte

Stropicciavano, sbattevano, sciac­quavano, torcevano, e chiacchierava­no, chiacchieravano… mentre l’acqua diventava sempre più sporca e più densa, finché si ricopriva di una coltre di sudicia saponata che le donne cer­cavano di allontanare continuamente dai loro panni.

Una volta, una donna, moralmente vulnerabile, malignò sul conto di un’altra che era dal lato opposto; que­sta naturalmente, replicò; la prima raddoppiò la dose, la seconda passò alle offese, finché tutte e due, rosse dalla rabbia, cominciarono a lanciarsi, a piene mani, quell’acqua limpida e profumata bagnando anche le altre.

Successe il finimondo!!!!

Spesso qualche pezzo di sapone scivolava dalle mani infreddolite delle donne e, siccome il fondo del lavatoio era in pendenza, riprenderlo era un problema. Munite di una mazza, in cima alla quale era legata una vecchia forchetta; povere donne, quanto fru­gavano e quanto imprecavano!

Il lavatoio della Fonte di Cannerj detta del comune

Il lavatoio veniva svuotato e pulito solo una volta o due alla settimana da Mizio, lo spazzino. Veniva giù nel tardo pomeriggio, armato di secchio e ramazza, dava all’ultima donna che si trovava lì il suo fagottino di panni sporchi perché glieli lavasse (era vedovo), mentre la vasca lentamente si svuotava. Infine vi entrava dentro per pulirla, recuperando fazzoletti, cal­zini, fibbie e bottoni e quei benedetti pezzi di sapone che erano diventati morbidi come pappa e* che regalava alla donna che gli aveva lavato i panni.

Durante la notte, lentamente, il lavatoio si riempiva.

La mattina dopo, le donne facevano a gara ad alzarsi presto per poter usu­fruire dell’acqua pulita. Arrivavano addirittura all’alba, una dietro l’altra e in poco tempo erano così tante che vi stavano a contatto di gomito, e non c’entravano e si bisticciavano.

La prima naturalmente era la Milia, la vecchia contadina, che aveva bollito il bucato la sera prima ed ora se lo porta­va addirittura fumante dalla conca. Era molto brava per lavare, la Milia, e con poco sapone, chè il segreto, diceva lei, stava nel far rimangiare ai panni la saponata, senza disperderla nell’acqua.

lo, dalla finestra, imparai tutti i segreti del mestiere e qualche volta mi alzavo presto per andare ad aiutarla.

Il compenso era un bell’uovo fresco!!!

IL PIAZZONE

Dietro al paese, dal lato di Nord-Est, c’è un gran piazzale a forma di triangolo, scavato nella roccia: il Piazzone.

Il lato occidentale è limitato da un alto muro, gli altri due da imponenti, meravi­gliosi, secolari ippocastani.

Ai miei tempi, per la festa del patrono, mentre in piazza si svolgeva la rumorosa fiera destinata alle donne e ai ragazzi, nel Piazzone si svolgeva quella, non meno rumorosa, del bestiame, destinata agli uomini.

Il ‘Piazzone”: Fiera Bovina nel 1932.

Le bestie, teste e code ornate di nastri e cordicelle colorate, venivano attenta­mente osservate, palpate, guardate in bocca, misurate, pesate, in mezzo a urli, muggiti e ragli.

Ogni tanto qualcuna partiva col nuovo proprietario, finche, piano piano, il Piaz­zone si svuotava; restava solo qualche povera “brenna” che il padrone, deluso, si riportava a casa, mogio, mogio.

Poi vennero i trattori e la fiera del bestiame se ne andò, come se ne vanno tutte le vecchie cose.

Il Piazzone si trasformò in campo di calcio e risuonò delle urla dei tifosi assie­pati lungo il muro di cinta. Alcuni secolari ippocastani furono sacrificati per far posto ad una delle porte da gioco, men­tre la parte inferiore del triangolo fu isola­ta con un filare di cipressi e per metà lastricata ed adibita a pista da ballo e da pattinaggio.

Questa estate sono andata al paese; sono andata a frescheggiare nel Piazzo­ne, all’ombra degli ippocastani.

Il campo da gioco è stato abbandonato per il nuovo stadio. Si anima solo per il Palio dei Rioni.

Seduta all’ombra soleggiata e profu­mata di resina dei cipressi, o a quella fonda e fresca degli ippocastani, ho tra­scorso lì molte ore del mattino.

Silenzio e pace assoluti, incredibili in questo mondo così rumoroso; aria pura, fresca, leggermente ventilata, profumo di erba, di terre, di ragia.

Nella strada sottostante non passano più le donne ciarliere per andare alla fonte e al lavatoio. Una sola ne ho vista; e non portava la “balla” dei panni in testa e le “mezzine” in mano, ma solo una tinozza di plastica celeste sotto il braccio.

Il libro è aperto sulle mie ginocchia. E’ un libro di Cassola e descrive proprio le colline e paesi di questa terra, di questa Maremma tanto cara al suo cuore come al mio. E i suoi personaggi suscitano in me il ricordo di altri personaggi lontani, ma stampati vivamente nella memoria. Ad ogni ora, l’alto campanile della Chiesa scandisce per due volte i suoi tocchi sonori; gli fanno eco, anch’essi per due volte, quelli più bassi deila Torre del Mar­zocco. Forse le cicale friniscono, ma al mio orecchio giunge solo un leggero fru­scio.

Stanotte ha piovuto. Sulla pista, in un punto avvallato, c’è una bella pozzanghe­ra di acqua piovana.

Giunge un uomo con un bambino.

L’uomo è sui 40 anni; il bambino ne avrà poco più di quattro; ha con sè la biciclettina a quattro ruote.

L’uomo mi dice di aver avuto il figlio dopo 13 anni di matrimonio e si vede subito che è un babbo apprensivo, esa­geratamente premuroso e timoroso. Gli mette la biciclettina sulla pista dicendo: “Lorenzo, mi raccomando, piano”.

Il bambino comincia a pedalare nell’asciutto, ma quella bella pozzetta d’acqua lo attira e vi si avvicina.

“No, Lorenzo, no, nell’acqua no!” Ma Lorenzo non ubbidisce e vi entra.

“Lorenzo, piano, ti bagni i piedi!”

Lorenzo non gli dà ascolto e sfreccia nell’acqua alzando ai lati due creste spu­mose.

Gli sorrido e lo incito. “Che bellezza eh! Ora sei al mare! La tua bicicletta si è trasformata in un motoscafo!”

E il babbo: “Lorenzo, piano! Lorenzo, vai all’asciutto!”

E Lorenzo mi guarda e sguazza felice su e giù.

E naturalmente si bagna i piedi!

“Te lo dicevo! Hai visto ti sei bagnato i piedi! Ora ti porto a casa!”

Ed io: “Sarebbe meglio che gli levasse le scarpe e, mentre queste asciugano al sole, ce lo facesse giocare a piedi nudi; tanto l’acqua è calda!”

Per non contraddirmi, il babbo cede.

E Lorenzo entra nell’acqua coi piedini scalzi e vi sguazza felice, come facevo io nel pelago e nelle pozzanghere del For­micaio!

E mi viene una voglia matta di andare nell’acqua con lui, ma temo che l’uomo mi prenda per “matta” e mi astengo.

Lorenzo mi guarda felice e riconoscen­te. Mi son fatta un amico.

E la mattina seguente spero che torni.

Passano le ore; piano piano la pozzan­ghera si ritira; Lorenzo non viene nè quel giorno nè i giorni seguenti.

Il babbo lo avrà portato a giocare altro­ve, lontano da questa nonna un po’ matta che ha voglia di sguazzare come lui nelle pozzanghere!

V. Bibbiani

MALANNI, CURE E RIMEDI

NELLA CULTURA CONTADINA

Gli abitanti delle nostre campagne era­no in larga misura accomunati da una vi­sione estremamente concreta della vita, per cui, a monte di ogni evento, positivo o negativo che fosse, doveva esistere una causa precisa e controllabile.

Talora credevano che qualcuno nasces­se già in possesso di connotazioni posi­tive o negative, che identificavano in cir­costanze concrete o in dati fisici: le don­ne settimine, nate al settimo mese di gra­vidanza, oppure settime dopo sei fratelli, e quelle venute alla luce in particolari gior­ni dell’anno, ad esempio per [’Ascensio­ne, erano ritenute in possesso di doti spe­cifiche per togliere il malocchio e le fat­ture, segnare “i bachi”, “le storte”, ecc.; era segno di fortuna, inoltre, il ‘‘nascere vestito o con la camicia” cioè con il cor­po ricoperto da quella sostanza lattigino­sa che facilita l’espulsione del feto al mo­mento del parto (vernice caseosa).

Riguardo a tutto ciò che di negativo po­teva accadere nell’arco dell’esistenza, le cause venivano spesso ricercate nel ma­locchio, nelle fatture e nei cosiddetti “spregi ai santi”.

Il malocchio, secondo questa concezio­ne, è un influsso che proviene propria­mente dagli occhi, occhi “mali” cioè cat­tivi, che può essere emanato con o sen­za la volontà del proprietario. A scatenarlo spesso basta una lode o un’osservazio­ne, per questo se si afferma “Bello que­sto bambino!” è rimasta ancora oggi nella tradizione popolare la consuetudine di ag­giungere “Che Dio lo benedica!” a mo’ di parafulmine.

Il malocchio si accerta e si “leva” con un rito particolare da farsi a lume di cande­la: in una scodella d’acqua vengono ver­sate gocce d’olio d’oliva, se l’olio si scom­pone o scompare, il malocchio c’è; l’ope­razione va ripetuta fino a che le gocce de­cidono di galleggiare come di norma (co­me Dio comanda).

Durante il rito si pronuncia una formula che varia da zona a zona, quelle che se­guono le abbiamo tratte da una pubblica­zione sulla cultura contadina in Toscana, poiché non è stato possibile, data la segretezza dell’argomento, reperirle diret­tamente da chi ancora oggi ne fa uso.

Gesù Giuseppe e Maria se è il malocchio se ne vada via, io ti segno,

Dio ti libera,

mi raccomando alla S.S. Trinità che ti ritorni la tua sanità.

Mi rivolgo a Dio e a tutti i Santi che questo male vada indietro e non avanti,

Dio mio sia se hai il malocchio ti vada via.

io ti segno, Dio ti libera.

Ben più grave è la fattura in quanto è de­finita come “cosa fatta apposta per indur­re un male” ed è praticata, secondo la credenza popolare, da persone nate per fare del male.

Un rimedio, ritenuto sicuro per annullare una fattura, consisteva nell’impossessarsi di un indumento del supposto “fattucchie­re” e quindi tracciato un cerchio attorno al fornello di cucina, metterlo a bollire. Si da per certo che, l’autore della fattura, non avrebbe tardato a bussare all’uscio, scongiurando di interrompere l’operazio­ne, sentendosi bruciare addosso.

Altra causa di malanni di ogni tipo erano ritenuti gli “spregi ai santi”. Questo tipo di causa veniva spesso diagnosticata da un indovino, che ordinava al peccatore di chiedere scusa al santo offeso, con la speranza di venire ascoltato e perdonato. Oltre ai rimedi esisteva anche una profi­lassi, che consisteva nel portare addos­so oggetti benedetti o amuleti.

Uno dei tanti momenti negativi di crisi e di pericolo è rappresentato dalle malattie. In campagna si aveva rispetto per la me­dicina quando riusciva a guarire; se non ci riusciva o quando il medico non era a disposizione, non si restava con le mani in mano ma ci si affidava ai rimedi tradi­zionali.

Bastava che uno dicesse – mi sento ma­le – gli davano subito l’olio di ricino. Que­sto era il toccasana per una vasta gam­ma di malattie; veniva acquistato in bot­tiglie da venditori ambulanti, che periodi­camente facevano il giro delle nostre campagne. Allo stesso modo ci si procu­ravano le “mignatte”: quando passava il “mignattaio” se ne compravano due o
tre, si tenevano dentro ad un recipiente di terracotta pieno d’acqua chiuso da un coperchio forato e si applicavano per cu­rare la polmonite.

Per l’influenza si usava il “pane lavato” o “acqua panata”: si arrostiva una fetta di pane e si metteva in un bicchiere pie­no d’acqua, quando era ben zuppato si strizzava e l’acqua, cosi ottenuta, si fa­ceva bere all’ammalato. Lo stesso rime­dio si otteneva sostituendo il pane arro­stito con il riso.

Per disinfettare tagli e ferite si faceva bol­lire in un cucchiaio d’ottone qualche goc­cia d’olio ed un po’ d’aceto, quando l’a­ceto era evaporato si faceva raffreddare l’unguento e si applicava.

All’inizio dell’estate venivano raccolti i “borsacchi d’olmo”, il liquido che si tro­va all’interno veniva usato anch’esso co­me disinfettante e cicatrizzante per le fe­rite.

Si faceva largo uso di erbe medicinali so­prattutto per il “calore” (infiammazione): erba rospa o erba diavola, camomilla, malva, vetriola, assenzio e salvia (amare come il veleno) e erba del calore; per il bruciato era conosciuta un’erba partico­lare, detta appunto “erba del bruciato” che veniva essicata e fatta bollire nell’olio. Le “storte” si facevano segnare e si cu­ravano applicando la chiara d’uovo mon­tata a neve e fasciando con la stoppa. Quando un bimbo aveva i “bachi” si fa­cevano “segnare” oppure si faceva an­nusare il petrolio; si usava anche bollire alcuni spicchi d’aglio e far bere l’acqua. Il modo più diffuso di curare l’orzaiolo era di “cucirlo”: si andava dalla persona ad­detta che infilava un filo bianco o nero nel­l’ago e, facendo finta di cucire l’occhio verticalmente ed orizzontalmente, diceva delle preghiere segrete e faceva il segno della croce.

Negli esempi fin qui citati abbiamo visto come, nelle nostre campagne, venivano curate alcune comuni malattie, ma vale la pena citarne altre, proprie della cultu­ra contadina, e non riconosciute dalla scienza medica. Una è il “dolore”, inte­so non come sintomo, ma come malattia a se stante, simile alla “passione” ed al “crepacuore”; di ciò ci si poteva amma­lare ed anche morire.

Quando qualcuno si ammalava, anche gravemente, e non si riusciva a trovare una causa precisa, tradizionalmente la si attribuiva alla “paura”. Si riteneva, infatti, che ha provare un forte spavento poteva entrare in corpo “la paura”, causando malattie anche molto gravi.

In conclusione si può dire che nella cul­tura contadina c’è la volontà di trovare una spiegazione a tutto e a tutto trovare un rimedio, in un continuo barcamenarsi tra religione, scienza e magia.

LAURA e SILVANO

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

LE FONTI DEL PAESE

RISCOPERTE DAGLI ALUNNI DELLA 2a CLASSE ELEMENTARE

Nell’anno scolastico appena concluso, le classi seconde della scuola elementa­re di Pomarance si sono avventurate in una suggestiva ricerca sul passato: l’ori­gine delle vecchie fonti del paese e gli usi e costumi legati a questi antichi centri di incontro della comunità. I piccoli storici, con la guida delle insegnanti, sono parti­ti anzitutto dallo studio di fonti scientifi­che, quali documenti dell’Archivio Comu­nale e carte topografiche, utilizzando, inoltre, per gli aspetti antropologico- culturali, anche altri testi, quali “Il Formi­caio” della Bibbiani o la stessa pubblica­zione “La Comunità di Pomarance”.

Le tre fonti che principalmente sono sta­te studiate sono quella anticamente det­ta “di Cannerj”, o volgarmente “la fonte del Comune”, quella delle “Peschiere” e quella della “Boldrona”, viste sia come fonti-abbeveratoi, che come lavatoi. In particolare, quest’ultimo punto ha aper­to la strada a gustosi spaccati sulla vita sociale e sulle abitudini, soprattutto fem­minili, legate all’uso delle fonti.

Attraverso i ricordi e le interviste fatte da­gli alunni alle persone anziane del pae­se, sono stati ricostruiti i “canti del Lava­toio”, che avevano sia la funzione di al­leviare alle donne il tedioso lavoro del bu­cato, sia quella di diffusione delle conzoni allora in voga, portate nei paesi dai can­tastorie, in assenza di radio e televisione. In un apposito giornalino sono state rac­colte le “chiacchiere di lavatoio”, sempre secondo le indicazioni fornite dalle anzia­ne donne intervistate, le quali chiacchie­re si sono rivelate straordinariamente at­tuali, avendo per oggetto, come sempre, pettegolezzi, “scandali” o avvenimenti straordinari della comunità.

Il lavoro si è quindi articolato, in prospet­tiva interdisciplinare, sull’intera attività scolastica, interessando varie discipline, quali la storia, la geografia, la ricerca lin­guistica, gli studi sociali, l’educazione al­l’immagine e l’educazione musicale, mentre i materiali prodotti (elaborati, fo­to, disegni, ecc.) sono stati per le inse­gnanti anche uno strumento di verifica sia per l’acquisizione delle conoscenze, sia per gli obiettivi di apprendimento che era manifestazioni “Da Maggio a Maggio”, ed ha riscosso vivo interesse e apprez­zamento.

Un doveroso plauso, quindi, alle inse­gnanti e agli alunni, dei quali sembra giu­sto riportare, qui sotto, i nomi, insieme al­la riproduzione di uno dei tanti elaborati.

Dott.ssa Stefania Ragoni

INSEGNANTI: Gonnelli Giovanna, Fidan­zi Mila, Cipriani Lorita.

ALUNNI: Antonelli Alessandro, Bargelli Maurizio, Antonelli Francesco, Cheli Ru­ben, Cigni Fabrizio, Costagli Giovanni, De Lellis Roberto, Farru Andrea, Maggi Lui­gi, Fontanelli Michele, Picci Alberto, Geppi Filippo, Pierella David, Patrocchi Gre­gorio, Valentini Diego, Rossi Roberto, Ca­ciagli Linda, Spinelli Cristian, Cucini Va­lentina, Altamura Martina, Fedeli Giada, Genuardo Eleonora, Garaffi Monica, Nan­ni Maddalena, Porri Martina, Tozzini Ele­na, Scatena Fiorella.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

IL PANE

LA PREPARAZIONE NELLA TRADIZIONE CONTADINA

Nell’alimentazione contadina il pane era il cibo assoluto, il nutrimento per ec­cellenza. Tutti gli altri cibi si riassumeva­no in una sola parola “companatico” a ribadire il loro carattere secondario, in quanto non indispensabili e non sempre disponibili.

Questa situazione si è saldamente radi­cata attraverso i secoli tanto che, in un mondo ormai regno del “companatico”, il pane rimane per molti un punto di rife­rimento dell’alimentazione quotidiana, certo più per abitudine che per reale bi­sogno nutritivo.

Di norma nella tradizione contadina il pa­ne si preparava una volta alla settimana o per meglio dire “ogni otto giorni”.Per una decina di persone occorreva cuoce­re circa venti pani alla volta, per lo più ro­tondi e del peso di due chili ciascuno. Il giorno precedente si preparava la legna necessaria per scaldare il forno e alla sera si metteva il lievito a rinvenire nell’acqua poiché gli otto giorni trascorsi sotto al “monticino” della farina in un angolo del­la madia, lo avevano indurito. La mattina seguente di buon’ora si scaldava l’acqua necessaria nel paiolo di rame, quindi si prelevava dal cassone la farina occorren­te che si stacciava nella madia facendo scorrere lo staccio su di un piedistallo di legno chiamato “reggistaccio”.

L’acqua calda si stemperava in una pen­tola con altra fredda sgorgata dal brocco e la si versava un po’ per volta sulla fari­na distesa nella madia cominciando ad impastare attorno al lievito.

Lavorando con le mani si continuava ad amalgamare l’impasto fino a che, ottenu­ta la necessaria consistenza, si procede­va a staccare da esso le forme dosate a vista che venivano ulteriormente lavora­te una ad una sulla “spianatoia” e poi de­poste su una tavola di legno ricoperta da un telo spolverizzato di farina. Tra una for­ma e l’altra si faceva una piega ondulata al telo quindi si posava l’orlo di un bicchie­re su ogni pane lasciando un’impronta che si riteneva favorisse la lievitazione. A questo punto si copriva il tutto con un lembo del telo lasciato ciondoloni; se fa­ceva freddo si usava anche una coperta di lana e si provvedeva a riscaldare l’am­biente con un braciere posto sotto la ta­vola. Quando le forme cominciavano a lie­vitare si procedeva a scaldare il forno. Si bruciavano più o meno rapidamente al­cune fascine di legna fine finché le lastre laterali accennavano a un colore bianca­stro, a questo punto si mandava la brace tutta da un lato usando una pertica e si spazzava il forno con lo “spazzolo”, infi­ne si faceva “cascare la bronza” cioè si verificava la temperatura del forno intro­ducendovi alcuni rametti di frasca: quan­do le foglie non annerivano voleva dire che era il momento giusto per infornare il pane.

Sollevando il telo si rovesciavano le for­me una ad una su di una mestola e da questa sulla pala poggiata vicino alla boc­ca del forno, quindi si deponevano all’in­terno del forno disponendole di rigiro a co­minciare dal punto più lontano dalla bra­ce; in questo modo si bilanciava il calore per la cottura.

Quando in casa c’era una donna che ave­va da partorire si faceva un panino per prevedere il sesso del nascituro: se si spaccava, si diceva sarebbe stata una femmina, se rimaneva intero si prevede­va la nascita di un maschio.

Dopo circa mezz’ora si apriva il forno e si rovesciavano velocemente tutti i pani per farli cuocere da entrambi i lati; un’o­ra era di solito sufficiente per completa­re la cottura.

A questo punto si estraevano i pani dal forno con la stessa pala usata per infor­narli e con lo spazzolino di saggina si to­glievano la cenere, la farina ed i pezzetti di carbone rimasti eventualmente attac­cati alla crosta, quindi si disponevano ritti sulla tavola appoggiati gli uni agli altri e, una volta raffreddati, si riponevano nella madia.

Quasi sempre si sfruttava il calore del for­no per altre necessità: cuocere la schiac­cia, le mele, fare le bruciate, seccare i fi­chi, ecc.

Fra i riti collegati col pane c’era l’idea di non rovesciarlo sul tavolino “sennò” si di­ceva “un fa mai buio” intendendo il buio come momento di riposo dopo una lun­ga giornata di lavoro, le parole di questo canto toscano ci paiono, a questo propo­sito, particolarmente significative:

Tramonta sole per l’amor di Dio
ché se un sei stracco te so’ stracco io
Tramonta sole per l’amor dé Santi,
chè se un sei stracco te n’hai stracchi
tanti!

Laura

IL BUCATO

“Levate le lenzuola, oggi si fa il buca­to.” Con queste parole la massaia dava il via ad una operazione che, solitamen­te, impegnava le donne di casa per più giorni. Per prima cosa si provvedeva a ba­gnare i panni sporchi, quindi si sistema­va, in un angolo della cucina, un “troppolo” di legno e su di esso si collocava la conca di terracotta; questa aveva, pres­so il fondo, un foro nel quale si inseriva il bucciolo o cannello, un pezzo di canna appositamente svuotato che, fasciato di stoppa, era infilato a forza nel foro e chiu­so all’esterno con un tappo di sughero. Sul fondo della conca, inclinato a proteg­gere il foro di uscita, si poneva un testo “poco buono”, magari senza manico, poi si disponeva la biancheria, tenendo pre­sente il principio di porre via via, dal bas­so verso l’alto, i panni sempre più sporchi. Così, cominciando dal fondo, l’ordine era, in genere, il seguente: prima le lenzuola, poi le federe, quindi le mutande, le cami­cie da donna e ancora asciugamani, asciughini e tovaglie e, infine, altri even­tuali panni bianchi.

Su di essi veniva sistemato il “cenerone”, un telo di balla, sopra al quale si versa­vano tre o quattro secchi di cenere del focarile; molte volte, per aumentare la ca­pienza della conca e per sostenere il “ce­nerone” si inserivano, fra la biancheria e le pareti interne, una serie di “schiappe” di legno che sporgevano, anche notevol­mente, dal bordo superiore della conca. Intanto si scaldava l’acqua, in un paiolo grande, e la si versava sulla cenere: dap­prima tiepida, poi sempre più calda ma non a bollore; quando cominciava ad uscire dal cannello essa veniva raccolta,

riscaldata sempre di più e versata nuo­vamente nella conca.

Questa operazione veniva ripetuta più volte, finché l’acqua estratta dal fondo era ormai calda ed aveva assunto una colo­razione tra il giallo ed il marrone chiaro: ciò significava che il ranno era pronto; al­lora lo si faceva bollire e, dopo aver inse­rito il tappo di sughero nel cannello, si ver­sava nuovamente nella conca. Ora non restava che coprire la cenere, ripiegan­do su di essa le estremità del telo, e la­sciar riposare il bucato fino all’indomani. La mattina seguente si recuperava tutto il ranno dalla conca e lo si raccoglieva in secchi per riutilizzarlo; con una paletta si provvedeva a raccogliere la cenere quin­di, dopo aver tolto il cenerono, si prende­vano i panni, si ponevano nella “panie­re” di vimini o nei graticci e si andavano a lavare ai lavatoi, dove venivano spaz­zolati, sciacquati e strizzati accuratamen­te. Con cura venivano stesi ad un filo te­so fra piante o pali in un posto soleggia­to e ventilato oppure sopra ai cespugli e, in estate, direttamente sull’erba; se tira­va vento, i capi tesi sopra ai cespugli ve­nivano fermati legandone alcuni lembi ai rametti.

Il ranno raccolto era usato per lavare i panni colorati, gli indumenti di lana ed era efficace, dato l’alto contenuto di carbonato di potassio, magnesio, calcio e silice, anche come detersivo per rigo­vernare e togliere l’unto dai tegami; mol­te donne, inoltre, lo usavano per lavarsi i capelli.

Laura

LA NOSTRA CONFRATERNITA DELLA MISERICORDIA

ORIGINE E RIEVOCAZIONE STORICA

Come ormai risaputo, nel Medioevo, non vi era in Italia città, castello o villag­gio ove non fossero fondati sodalizi che, sia per culto sia per pietà o misericordia, univano persone (fratelli) che, volontaria­mente e per impulso di carità, portavano soccorso agli ammalati, ai morenti, agli appestati. La loro opera, a seconda dei casi di malattia consisteva sia nelle cure che alla meno peggio potevano essere prodigate, sia nel trasporto in ospedale o al lazzaretto per mezzo della “ZANA” (specie di portantina a forma di gerla, ri­coperta in tela, da portarsi a tracolla e atta allo scopo). In altri casi, quelli irrimedia­bili, “I FRATELLI” si prodigavano per il funerale ed il seppellimento.

Trasporto dell’ infermo con “ZANA”.

Le origini delle Misericordie Toscane ri­salgono intorno al XIII e XIV secolo, quan­do le varie associazioni di arti e mestieri, dietro esempio del Comune di Firenze,
1615 dette inizio, a sue proprie spese, ai lavori per una Cappella nei pressi del ba­luardo sulla destra di Via della Costarel­la, all ’interno della cinta muraria del ca­stello.

La nuova istituzione fu detta “VENERA­BILE CONFRATERNITA DEL SS. SA­CRAMENTO E DELLA CARITÀ”; iniziò il suo operato e si distinse ben presto in va­rie occasioni.

Purtroppo in base al Decreto del 21 mar­zo 1785 il Granduca Pietro Leopoldo di Lorena, tutte queste benevole organizza­zioni furono soppresse con indignazione e sgomento della popolazione.

Soppresso il Decreto, dopo l’Editto Leopoldino, ripresero le attività di volontariato con varie opere di beneficenza. Anche Pomarance vide nuovamente riformarsi “l’opera assistenziale” soprattutto per vo­lontà del Dr. NICOLA VALCHIEROTTI, avevano affermata la loro vita di azione. Così ovunque si intensificavano queste Compagnie, e Associazioni con un pro­prio regolamento ed un singolo Statuto appositamente studiato per le caratteristi­che del luogo in cui nascevano.

Anche Pomarance si organizzò per que­sto Istituto Benevolo, e così, per volere del Sacerdote CESARE GIOVANNI SAN­TUCCI, (nipote dell’illustre nostro concit­tadino Antonio il Cosmografo) nell’anno

Chiesa della Misericordia.

medico condotto, uomo di singolare pie­tà, il quale aveva adottata come sua se­conda patria la nostra terra. La sua ini­ziativa si concretizzò rapidamente in una efficiente organizzazione condotta dal medesimo e da altri volenterosi. Durante il triennio della sua carica a Governato­re, egli si prodigò per la ricostituzione del­la Confraternita e per l’ampliamento dell’Oratorio. Per merito suo la vecchia Cap­pella, di proprietà della sig.ra Anna Fantacci ved. Marchionneschi, in data 24 aprile 1844, con atto di donazione , pas­sò alla Confraternita e fu così possibile dar inizio aH’ampliamento con le oblazioni dei più benefattori.

Con meraviglioso slancio i cittadini di ogni classe si iscrissero a questa nuova fratel­lanza prestando la propria opera materia­le e morale. Compilati i relativi capitoli, ap­provati con Regia Sanzione del 3 gennaio 1845, la Misericordia cominciò subito il suo regolare funzionamento.

Nonostante l’encomiabile impegno dei benefattori non si riusciva a far fronte a tutte le richieste che si moltiplicavano, co­sì che tre anni passarono in ritmo cre­scente di lavoro e di soccorsi. Il mandato di questo benemerito fondatore era ter­minato, il suo operato aveva superato ogni aspettativa e la promessa fatta all’at­to della costituzione lo aveva impegnato al massimo. L’avvio a questa opera era stato eccellente, ma alla scadenza del pri­mo triennio, il Valchierotti non si presen­tò alle elezioni volendo lasciare ad altri vo­lenterosi la libertà di continuare. Regola­
ri elezioni videro suo successore il Cav. ADRIANO DE LARDEREL, uomo tempra­to nell’esercizio della vita, che aveva da­to segno del suo impegno e del suo af­fetto per la nostra terra sia con intelletto industriale che religioso (vedi costruzio­ne caldaie Addane ed interessamento per la istituzione della Processione Bella a Pomarance). Per dieci anni questo signo­re attese con lodevole cura alla beneme­rita opera che si affermò sempre più. Il maggiore contributo di umanità si rivelò durante l’epidemia colerica che nell’an­no 1855 infestò il pomarancino, e fu an­cora più evidente la efficienza dell’orga­nizzazione e la serietà con cui essa veni­va gestita.

Il cav. Adriano de Larderei cessò di vive­re alla giovane età di 35 anni, lasciando rimpianto e cordoglio in tutti quanti lo co­nobbero.

Con lo stesso zelo e la medesima tena­cia seppe ben imitarlo il di lui fratello con­te FEDERIGO DE LARDEREL, il quale si curò dell’ampliamento di questa Confra­ternita della SS. Carità facendo in modo di porla sempre più in vista.

Venne creato anche un abito a mo’ di di­visa, a sembianza di quello già usato dalla istituzione fiorentina: una lunga tunica ne­ra con la cintola a forma di rosario, un me­daglione a giustacuore con l’emblema delle misericordie e, per mantenere l’a­nonimato a chi lo indossava, un cappuc­cio nero (detto “BUFFO” ) con solo due fori corrispondenti agli occhi. Chi vestiva questo lugubre indumento non doveva far
sapere all’assistito chi era stato il bene­fattore, dimodoché non si sentisse verso di lui debitore nell’eventuale guarigione. A completamento di questa vestizione era previsto un cappello in feltro a larga tesa che serviva a proteggere il portantino in caso di pioggia. Se la stagione era mite veniva tenuto sulla spalla tramite il cor­done del sottogola.

Sempre per interessamento del conte Fe­derigo, si trasformò di nuovo la Chieset­ta che venne abbellita con marmi ed eb­be una nuova pavimentazione. Questa chiesa era già stata consacrata a San Carlo Borromeo, che ne è patrono, e che conseguentemente dette nome anche al­la piazzetta antistante l’ingresso.

Anche una portantina per il soccorso agli ammalati fu acquistata, sostituendo la ba­rella a stanghe. Era una “LETTIGA” su ruote e per alleviare le scosse delle im­pervie strade aveva le balestre in modo da ammortizzare gli urti.

Sempre nuove migliorie per ogni tipo di bisogno venivano usate. Ed anche per i trasporti funebri venne costruito un car­ro chiuso con predisposto il posto per il cocchiere, in modo da poter trasportare il cofano funebre sino all’ultima dimora. L’ultimo cocchiere, che per anni si impe­gnò a questa triste cura fu Dante Spinelli più conosciuto come Dante dell’ortolano che, ad ogni tocco della campana, era

Campanile della Misericordia.

pronto ad avviarsi con il suo cavallo ad attaccare il mezzo tenuto presso la sede, e da lì dirigersi presso l’abitazione dell’e­stinto. I meno giovani ricorderanno que­st’uomo, che sino all’avvento del mezzo motorizzato, ha scollettato tutti a S. Ba­stiano.

Per il richiamo dei portantini, in occasio­ne dei funerali, era usata la campana del­la Misericordia, posta sul campanile del­la Chiesa Parrocchiale (vedi articolo sul n. 3/88 di questa Rivista) che con dei toc­chi particolari avvertiva: se il defunto era uomo, se era donna, se abitava in cam­pagna, se abitava in paese, se era iscrit­to alla Misericordia oppure no.

Nel corso degli anni vi è stato un susse­guirsi di nomi, di volenterosi, che con fe­de e spontanea carità si sono prodigati in questo misericordioso lavoro.

Trasporto di infermo con “Portantina a stanghe”.

È doveroso ricordare anche i Governato­ri, che con lo stesso spirito hanno conti­nuato a dirigere l’istituto cercando di am­pliarlo, ammodernandone le attrezzature per aggiornarsi con l’evolversi dei tempi. Dopo i due De Larderei, seguì il N. H. Gio­vanni Biondi Bartolini che lasciò l’impe­gno al Cav. Michele Bicocchi e che, con­seguentemente, fu sostituito dal Dr. Gio­vanni Biondi Bartolini sino ad arrivare ai nostri tempi con il Sig. Dell’Omo Augusto. A conferma delle notizie più lontane ab­biamo presso la Chiesa della Misericor­dia delle lapidi che ricordano questi uo­mini fino al fondatore iniziale, il Sacerdo­te SANTUCCI, che con una scritta latina è così ricordato:

Questo Sacro Edificio dedicato a Dio alia Divina Madre e aS. Carlo Borromeo Cardinale di Milano, lo innalzò dalle fondamenta, a proprie spese, prete Cesare di Giovan Matteo di Antonio Santucci, l’anno di nostra salute 1644.

Nella sacrestia vi è una Acquasantiera a muro, in marmo, con inciso lo stemma dei Santucci. Inoltre possiamo vedere la la­pide che onora il “secondo fondatore” il dottor Valchierotti, e poi quelle dei due De Larderei. Le cinque lapidi in marmo scan­discono il tempo come un libro e oltre ad arricchire la chiesa sono memori degli av­venimenti e dell’opera di queste degne persone.

La chiesa della misericordia non ha mol­te opere di valore, se non un’immagine della Madonna di Montenero dipinta su specchio, sul retro, nella tavola di soste­gno vi è una scritta a penna ed inchiostro “Il Cavalier Adriano de Larderei, fratello Governatore, donò alla Compagnia della R.R. Misericordia il 5 settembre 1852”. Sopra il tabernacolo dell’altare vi è un quadro rirpoducente la Madonna Addo­lorata alla cui base possiamo leggere “MATER AMABILIS”. Alla pietà ed al me­rito di Girolamo Bettoni e di donna Fla­minia Covoni nata dei principi Chigi. (Giò Batta Cecchi incisore dona e consacra, Firenze 1810). Sembra che questo qua­dro sia stato donato alla Confraternita dal conte Federigo de Larderei.

L’insieme della chiesa, più volte rimaneg­giata, si presenta assai bene ai fedeli che numerosi vi affluiscono nel mese di no­vembre per la Messa Vespertina officia­ta a nome dei defunti iscritti alla Miseri­cordia e deceduti nell’annata in corso. Ad avvertire di questa funzione religiosa è compito delle due campanine poste sul­la cella campanaria del piccolo campani­le. Il suono scandito da queste è datato dalla fusione di queste; una porta la data solamente in numeri romani MLXXX (1530), e l’altra, A.D. MDCCCXV (Anno del Signore 1815).

Documenti custoditi presso l’archivio del­la Confraternita accertano molte di que­ste notizie e tra le principali vi è quella del­
la Affiliazione alla Confederazione delle Misericordie d’Italia avvenuta nell’anno 1874.

Il nome odierno è: CONFRATERNITA DELLA MISERICORDIA DI POMARAN­CE, con sede sempre in Piazza S. Carlo al numero civico 5, adiacente alla Chie­sa ed al suo patrimonio immobiliare. Oggi questa benemerita è servita da un parco macchine composto da tre ambu­lanze che servono per gli spostamenti, sia di ricovero in ospedale come per bisogni di soccorso stradale od altro incidente. Inoltre due vetture funzionano per gli Han­dicappati ed i dializzati. Unito a queste vetture vi è un carro funebre che comple­ta il nucleo motorizzato.

Nell’ammodernamento delle attrezzature sono state acquistate, a corredo di soc­corso, delle sedie snodate atte al prelie­vo di ammalati residenti in abitazioni do­ve vi sono scalinate.

Ad oggi è in allestimento una nuova am­bulanza montata su vettura Volkswagen e che nel giro di breve tempo andrà a so­stituire quella più vecchia e non più ido­nea e sicura. Il sodalizio che tutt’oggi è assai congruo è costituito da 358 donne e 294 uomini. A questi valenti Governa­tori ed a tutti gli attivi collaboratori che ne­gli anni hanno saputo dare valore e van­to ad una istituzione basata per la mag­gior parte sul volontariato, non rimane che fare le dovute congratulazioni. A quel­li presenti ed a quelli futuri, un augurio per

Interno Chiesa della Misericordia.

Giorgio

saper continuare con lo stesso spirito sia a governare che ad abbisognarsi in ogni occasione. Inoltre un augurio a chi potrà ritrovarsi ai festeggiamenti che ovviamen­te saranno effettuati nell’anno 2015 in oc­casione del quattrocentesimo anno di vita.

NOTE BIBLIOGRAFICHE

  • Archivio Misericordia di Pomarance.
  • LE CONFRATERNITE DI MISERICOR­DIA IN TOSCANA – Ed. Arti Grafiche San Bernardino SIENA 1926 a cura del Comm. Dr. U. Patella.

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.

TEATRO «ACCADEMIA DEI CORAGGIOSI» DI POMARANCE

Analisi storica a cura di: Dott.sse ROBERTA COSTAGLI e GIANNA BUONAMICI

INTRODUZIONE

Molti teatri, costruiti a cavallo fra la fi­ne del settecento e la prima metà dell’ottocento, conservano ancora la memoria e la bellezza del vecchio teatro “all’italia­na”. Infatti, se la parabola storica del lo­ro declinio e dell’abbandono totale si compie nel dopoguerra, non si è esauri­ta ancora la memoria culturale che essi rappresentavano nel tessuto storico ed urbano: sono il segno dello spettacolo del passato, ma anche il segno concreto del luogo proprio di quella particolare rappre­sentazione che era la collettività che si riu­niva.

Per questo non possono apparire solo co­me contenitori vuoti ed inagibili, la cui ul­teriore ed inevitabile fatiscenza non è che la premessa per la definitiva demolizione, poiché anche in tempi come i nostri (in cui non esiste più un luogo assoluto e pri­vilegiato della rappresentazione) se op­portunamente predisposti, possono diventare contenitori specifici per lo spet­tacolo e la cultura di oggi.

Prospetto Teatro dei Coraggiosi (Foto S. DONATI)

Il problema dei teatri inagibili o comun­que da recuperare è un tema per molti versi complesso e stimolante: da un la­to, il valore storico – artistico delle strut­ture e il loro ripristino nell’ambito della po­litica della rivalutazione dei centri storici, dall’altro la funzione socio – culturale del­l’edificio teatrale, inteso come luogo di produzione, di cultura e di crescita civile per la società.

Alla luce di queste considerazioni, peral­tro ampiamente discusse in anni prece­denti e delle quali è dimostrata la validità con i numerosi restauri già conclusi, ab­biamo ritenuto interessante affrontare, co­me lavoro conclusivo degli studi univer­sitari, il tema del restauro e riuso di un teatro quale è quello dell’ex Accademia dei Coraggiosi. Il teatro in questione è col­locato nell’ambito del centro abitato di Po­marance ed ivi sorto a suo tempo, per il manifestarsi di particolari istanze di rin­novamento socio – culturali, con lo sco­po, per lo più, di portare spettacoli musi­cali e di prosa là dove ogni altra forma di svago sarebbe venuta altrimenti a man­care; istanze valide ancora oggi, che un totale ripristino della struttura potrebbe soddisfare.

ACCADEMIA DEI CORAGGIOSI ORGANIZZAZIONE ED ATTIVITÀ

Nel secolo XVIII non vi è cittadina o pae­se in Italia che non abbia la propria Ac­cademia; a Pomarance esisteva l’Accademia dei Coraggiosi fondata il 31 luglio 1790, che al pari delle altre contemplava nel proprio programma la produzione tea­trale. I fondatori dell’Accademia furono: Pietro Biondi, Giuseppe Martini, Giusep­pe Marchionneschi, Luigi Gardini, Paolo Cercignani, Gherardo Bardini Mafferi, Pietro Gardini, Niccola Tabarrini, Giulio Cercignani, Michele Bardini, Camillo Fantacci, Isidoro Biondi, Maria Borroni, Bartolino Bartolini, Giovan Battista Biondi, Carlo Incontri, Tommaso Gardini, Filippo Biondi, Marcello Inghirami, Pier Giusep­pe Biondi, Ottaviano Falconcini e Giovan

Battista Gardini.

Dietro il nome antico ed illustre di “Ac­cademia” si nascondevano istituzioni non sempre permanenti o con propri regola­menti interni che erano però di sovente l’anima culturale dei centri abitati grandi e piccoli. L’istanza di rinnovamento arti­stico e sociale è spesso il motore di que­sti sodalizi che, nel caso dei centri mino­ri rappresentavano la sola opportunità di svago, con la partecipazione ad attività teatrali o l’organizzazione di feste da ballo.

Astrusi, Georgofili, Accalorati, Intronati, Rozzi sono alcuni nomi di accademie esi­stenti in Toscana; appellativi bislacchi ed ironici, forse per segno di vera o falsa mo­destia, che sono il frutto del gusto di quei tempi. Le Accademie avevano anche l’u­sanza di fregiarsi di uno stemma che spesso riportava un motto ispirato dal no­me: nello stemma dei Coraggiosi è rap­presentato un leone rampante con la scritta “Germoglian frutti ai coraggiosi in seno”.

L’assemblea dell’Accademia dei Corag­giosi, aveva il diritto di veto sull’ammis­sione di nuovi componenti, pertanto il passaggio da una “panca” da un acca­demico ad altra persona da lui proposta era sottoposto a votazione. Una volta ac­cettata la proposta, il nuovo accademico era obbligato al pagamento di una quota corrispondente al valore frazionale del teatro e della tassa annua di scudi due. Il numero degli accademici arrivò a ven­ticinque con la costruzione del nuovo tea­tro, mentre dai rendiconti annuali sappia­mo che fino al 1805 erano ventidue e ne­gli anni successivi fino al 1810, ventitré. L’invito alle adunanze avveniva tramite l’invio di un biglietto redatto dal segreta­rio che aveva anche la funzione di redi­gere l’ordine del giorno. Nell’Accademia erano previste anche le cariche di Pre­sidente, Camarlingo e di cinque consiglie­ri, tutti eletti per votazione dall’assemblea. Ogni accademico aveva il diritto di espri­mersi con un solo voto anche se posse­deva più di un “carato”.

I soci si riunivano per decidere sui vari la­vori di restauro occorrenti al loro teatro, sull’assunzione del personale di servizio, l’apertura del teatro e per esprimere un giudizio sulle istanze pervenute da com­pagnie comiche o di musicanti.

Gli accademici, a turno, dovevano fregiar­si della carica di “Deputato d’ispezione al buon ordine” in occasione di rappre­sentazioni comiche ed ogni sera il nome della persona incaricata veniva scritto su un apposito cartello posto all’ingresso del teatro. Inoltre, tra le altre mansioni spettanti agli accademici c’era quella di for­nire olio per i lumi in occasione di feste o rappresentazioni gratuite: all’ingresso dovevano lasciare una “mazzetta d’olio’’ in mano al custode con apposita firma e in caso di maggior consumo supplire con un’altra.

L’Accademia, nel 1829, stabilì alcune re­gole a cui doveva sottostare la compagnia comica in occasione della stagione tea­trale che si svolgeva sempre in autunno: “…un regalo di zecchini dieci a condizio­ne che in essa sala dia venti recite… di ricevere la sala del teatrino e quindi di ri­consegnarla a suo rischio, nel medesimo stato detta sala offrirsi, mobili, scenari… far rispettare le panche esistenti a solo co­modo dei signori accademici e loro fami­glie… che sia a carico della comica com­pagnia la spesa serale (illuminazione e paga al personale di servizio)… che il re­galo di dieci zecchini possa solo ottener­si dalla comica compagnia metà alla me­tà delle recite e l’altra metà alla fine’’.

Nel 1840 in occasione dell’istanza pro­mossa dalla compagnia comica di Otta­viano Novellucci, fu stabilito, inoltre che ogni compagnia comica ”… presentasse l’elenco all’accademico Nobile Giovanni Novellucci… quale se l’approverà, la con­cessione si intenda definitivamente fatta, in contrario si riterrà non fatta” e l’anno seguente il prezzo d’ingresso non oltre­passasse Quattro Grazie.

Ogni accademico aveva la facoltà di or­ganizzare feste da ballo purché si inve­stisse della carica di “Deputato di Ispe­zione” per l’intera serata pubblicando poi il proprio nome sul solito cartello, ma ave­va il diritto di nominare un “Maestro di Sa­la” e di farsi sostituire da un’altro acca­demico.

Nel 1834 fa il suo ingresso nell’Accademia, al posto del cedente Ferdinando Cercignani, il conte Ferdinando De Larderei “…il quale lo accettava e richiedeva es­sere surrugato al cedente in detto posto accademico per godere tutti i favori e sop­portare tutti gli oneri ricevuti dal posto me­desimo”.

L’aspetto economico rappresentava la nota dolente di questa associazione, spesso alcuni accademici sono in ritardo nel pagamento della tassa annuale di due scudi.

Nel 1853, l’Accademia decise di darsi un regolare statuto, a questo proposito fu in­caricato l’accademico Venerando Valchierotti di redigere una proposta nel ter­mine di tre mesi, ma di questo statuto, nella documentazione successiva, non viene più fatta menzione.

Con la decisione di costruire il nuovo tea­tro viene compiuta un’accurata stima di tutti i beni mobili e immobili della socie­tà, stabilendo che ”… i soci accademici che non vogliono concorrere alla costru­zione del nuovo teatro saranno liquidati i loro diritti sociali e cesseranno cosi di far parte dell’Accademia.

Gli anni che seguirono videro l’Accademia sempre più impegnata e strettamen­te connessa al teatro e alle manifestazioni che vi si svolgevano. Tra i vari regolamen­ti pubblicati, c’è quello riguardante le “Stanze Accademiche” grazie al quale è possibile dedurre quanto questa associa­zione andasse sempre più assomiglian­do ad un circolo ricreativo per signori be­nestanti e poco rimanesse dell’attivismo letterario e filosofico che contraddistinse le accademie nei decenni trascorsi. Il re­golamento prevedeva due occasioni di in­contro: i “trattenimenti ordinari” rappre­sentati da adunanze o giochi e le “feste da ballo”: A queste stanze erano ammes­si anche non accademici stante la previa approvazione dell’assemblea ed era sta­bilito che fossero aperte “…a trattenimen­to del giuoco, nel carnevale tre giorni di ciascuna settimana, cioè martedì, giove­dì e domenica, nell’autunno, e inverno fi­no al giovedì della Settimana Santa e la domenica di ciascuna settimana e più le feste di intero precetto”. Mentre chi desiserava giocare doveva pagare “una te­nue tassa a forma della tariffa nelle mani del custode…” il quale dava poi il dena­ro al Camarlingo. Grazie anche a questi incassi serali, la società faceva fronte al­le numerose spese necessarie per man­tenere in piena efficenza un siffatto edifi­cio.

Nella generale revisione degli statuti che viene promossa alla fine dell’ottocento, c’è la proposta di abrogare due articoli che garantivano l’uguaglianza tra i vari accademici. Questo causò l’indignazione di un vecchio accademico, “unico super­stite dei compilatori dello statuto” che for­temente si oppose a questo provvedimen­to così antidemocratico.

  1. citati articoli (10 e 15) assegnavano un voto per ogni accademico senza distinzio­ne del numero di palchi posseduto; la pro­posta riformatrice, al contrario, prevede­va un voto per ogni palco di proprietà, ne­gando così “…l’uguaglianza sociale, del­l’amministrazione e del valore del voto de­liberativo… cioè il predominio della mino­ranza…”. La volontà dei proponenti era quella di risolvere il ricorrente problema del mancato numero legale nelle adunan­ze: un assenteismo che dimostra una già viva disaffezione nei confronti dell’Accademia.

Siamo ormai agli inizi del Novecento ed è tempo di mutamenti sociali, la pressio­ne che viene dagli strati sociali più pove­ri della popolazione verso l’Accademia si fa sempre più forte, come testimonia una lettera datata 15 settembre 1900 i cui fir­matari in rappresentanza della “popola­zione meno abbiente, nata e cresciuta a Pomarance”, chiedevano che il teatro fosse aperto a chiunque desideri parte­cipare…”: Questa possibilità, in futuro, non potè più essere negata infrangendo in parte quell’alone di distinzione cultu­rale e sociale di cui erano investiti gli ac­cademici.

IL VECCHIO TEATRO DEI CORAGGIOSI

  1. “Dizionario Geografico, fisico, storico della Toscana” del Repetti riferisce del­l’esistenza di “…un piccolo teatro di pro­prietà di Un’Accademia dei Terrazzani che rimonta verso il XIII”. Con molta pro­babilità si tratta dello stesso teatro dive­nuto poi nel luglio del 1730, di proprietà dell’Accademia dei Coraggiosi in quanto la prima delibera in ordine cronologico, ancora oggi esistente, del 31 Ottobre 1791, rivela la necessità di alcuni lavori “per ben ridurre la stanza della loro Ac­cademia”. Un ulteriore conferma che la “Stanza” ha svolto in passato funzione di spazio teatrale si ha con la successiva deliberazione del 9 Novembre dello stes­so anno, dove in un passo recita: “lo in­frascritto, essendo stato onorato dai illu­strissimi Soci della Stanza che serviva ad uso di teatro posto nella terra di Poma­rance, a voler unirmi con Essi in società, ridurla nuovamente ad uso di teatro e di sala da ballo…”.

La “sala delle comiche” si trovava a fian­co del palazzo Pretorio, con ingresso dal­la piazzetta del Tribunale, nel centro antico, all’interno delle mura castellane: Po­sta al primo piano sopra un portico dove si apriva l’ingresso aveva il soffitto a vol­ta affrescato, il palcoscenico, un “salot­to” ed una stanza di deposito detta delle “panche”.

Nel 1794 furono realizzate opere di rifa­cimento e dipinti nuovi scenari da un cer­to Antonio Niccolini in cambio di una gra­tifica di venti lire, vennero anche acqui­state diciasette panche in funzione di un riutilizzo dell’ambiente come sala da bal­lo. Inoltre è di questi anni l’apertura di una porta che metteva in comunicazione di­retta il teatro col Palazzo Pretorio.

Il trascorrere degli anni, in questo caso tre, tra la fase propositiva e l’attuazione dei lavori di restauro è un tema ricorren­te nella vita di questo teatro conseguen­temente alla mancanza di risorse finan­ziarie dell’Accademia.

Per un lungo periodo vi saranno interventi diretti esclusivamente all’interno del tea­tro, o meglio alla sala, poiché le attenzio­ni di miglioramento formale ignorano, co­me dettava la consuetudine interventi al­l’esterno.

Per “trarre un profitto” fu istituito nel 1798 “… il diritto d’esercitar Bottega d’acqua- cedratosa nel salotto annesso alla sala, in occorrenza di spettacoli teatrali e di fe­ste da ballo…” offrendo l’incarico di te­nere questo esercizio al migliore offeren­te. Inizia così il processo di articolazione del luogo teatro: alla vecchia sala comi­ca si è aggiunto un primitivo bar che an­cora mantiene la funzione di foyerguardaroba.

Nel 1803 viene decisa la costruzione so­pra il salotto, di una stanza ad uso dei co­mici che comporterà l’alzamento del tet­to, affidando i lavori agli impresari Raz­zagli e Bellucci. Le due finistre in faccia­ta (sopra e sotto) fu stabilito essere uguali a quelle adiacenti in costruzione. Si de­duce, pertanto, che tali lavori sono con­temporanei ad altri che si vanno facendo nel blocco di case a fianco del teatro.

Tre anni dopo, l’Accademia inaugurerà i nuovi lavori con una rappresentazione co­mica della compagnia Gatteschi di Vol­terra.

Col 1834 inizia una lunga stagione di ten­tativi falliti da parte degli accademici di avere un teatro più grande in stile con i tempi nuovi. Il presidente propose di far visitare lo stabile e sala del teatrino a Lo­reto Magri, aiuto ingegnere della Comu­nità di Pomarance, dandogli commissio­ne di redigere un progetto d’ampliamen­to riguardante la sala e il palcoscenico. Se ciò non fosse stato possibile, il sud­detto ingegnere doveva progettare un nuovo teatro con ventiquattro palchetti e con il doppio di grandezza della sala at­tuale per uso di platea. Ma è del 14 Otto­bre 1836 una nota di spesa redatta da Giuseppe Bianciardi per un generale re­stauro del teatro di cui annotiamo ‘‘…ri­quadratura della nuova sala, del salotto caffè e rifatto il boccascena nuovo…”. Nonostante i lavori di restauro intrapresi l’anno precedente, è sempre forte l’esi­genza di costruire un nuovo teatro, come in questi tempi già se ne andavano co­struendo nelle città e nei centri minori, co­me la vicina Volterra, Piombino, Pontedera, e Buti. Del resto la fine del settecento ha segnato la definitiva rottura col passa­to, una nuova sensibilità architettonica ali­menta il dibattito sulla progettazione dei teatri e i venti innovatori che spirano dal­le grandi città irretiscono le menti più sen­sibili anche di terre lontane.

Questo clima aleggiava anche negli am­bienti culturali di Pomarance e traspare dai toni enfatici di entusiastica adunan­za del 1 ottobre 1837 “…Dietro la vostra ragione e io, tutti rendiamo fatto il teatro, pensare dunque che l’incertezza nega, e la risolutezza afferma che ben ci conven­ne il nome di Coraggiosi, come ci conver­rà quello di ben affetti al vostro paese…”. Accantonata l’idea di un nuovo teatro, nel 1842 viene dato incarico all’ingegnier Ric­ci di preparare un progetto di restauro per l’attuale teatro, ma tale progetto verrà re­spinto.

Sempre quell’anno viene stabilito di inol­trare una supplica al Regio Trono per la sua approvazione alla costruzione di un nuovo teatro, facendosi promotore dell’i­niziativa il conte Francesco De Larderei. Negli anni successivi il vecchio teatro fu ripetutamente sottoposto a restauri e mo­difiche, ma il Municipio di Pomarance, nell’occasione di dover trattare della rifor­ma delle scuole Comunali, si propose di fare acquisto del teatro di Pomarance e sue stanze annesse, era il 31 dicembre 1860.

Questa iniziativa decretò la fine del vec­chio teatro dei Coraggiosi e, finalmente, l’avvio del nuovo, in quanto con la cospi­cua somma realizzata dalla vendita fu at­tuato un concreto piano finanziario.

La stima di parte, del teatro, fu affidata all’architetto Magagnini di Livorno, men­tre il municipio incaricò l’ingegner Gae­tano Niccoli. La relazione del Niccoli do­cumenta lo stato e consistenza del vec­chio teatro dei Coraggiosi che dopo se­coli di vita, il 25 febbraio 1861 era così composto: ingresso sulla piazzetta del tri­bunale, scala in pietra che portava alla, “Sala”, a destra del pianerottolo di sbar­co la “Stanza delle Panche” trasforma­ta col tempo in salotto guardaroba, la “stanza del caffè” ed infine il palcosce­nico con annessa una stanza irregolare dalla quale si accedeva in una soffitta ad uso degli attori per mezzo di una scala. Le stanze accademiche furono acquista­te dal Municipio per lire tremilaseicentoquarantacinque e sessanta centesimi.

DELIBERA RIGUARDANTE LA COSTRUZIONE DEL NUOVO TEATRO

La lettera del 31 dicembre 1860 inviata dal municipio di Pomarance all’Accademia dei Coraggiosi fu letta nell’adunan­za del 14 gennaio 1861 e in quel giorno venne finalmente deliberata, non solo la costruzione di un nuovo teatro, ma anche le modalità di attuazione del medesimo: due accademici stilarono la bozza di un programma in undici punti comprenden­te tra gli altri la spesa economica previ­sta, il denaro che ogni accademico dove­va versare, l’assegnazione dei palchetti e la formazione di una commissione in­caricata di seguire i lavori di costruzione. Il teatro doveva essere costruito fuori del­la porta Volterrana davanti alla casa del sig. Fantacci su disegno dell’architetto Ferdinando Magagnini.

ESCURSUS STOIRICO DELLE VICENDE COSTRUTTIVE

La costruzione del nuovo teatro prese l’avvio il primo marzo 1861 su terreno di proprietà in parte dell’accademico Giu­seppe Bicocchi e in parte dell’accademi­co Carlo Tabarrini; i quali poi vendettero all’Accademia: il primo braccia quadre millecentosettantasette ossiano ari quat­tro e deciari ottantaquattro, il secondo braccia quadre ottocentodieci, ossiano ari

due, centiari settantacinque e deciari no­vanta.

Il permesso del Comune per la costruzio­ne di detto teatro è datato 26 settembre 1861, mentre la richiesta del medesimo risale solo al 9 giugno 1861: appare evi­dente che si trattava di pura formalità, non solo perché i lavori erano già iniziati da diversi mesi, ma anche per gli accordi già stipulati tra il Comune e l’Accademia in seguito alla vendita del suo vecchio tea­tro.

Il finanziamento dei lavori di costruzione avvenne anche tramite alcuni prestiti con­tratti con persone benestanti della zona, in quanto il ricavato della suddetta ven­dita era insufficiente e fu liquidato in più anni.

Il “Giornale dei lavori” in particolare ed altra documentazione ancora oggi dispo­nibile, costituiscono l’ossatura portante di questa analisi sulle vicende costruttive inerenti l’edificazione del nuovo teatro dei Coraggiosi.

Il giornale prende avvio col Marzo 1861 documentando le fasi iniziali fatte di pic­cone, mine, calcina, carrette con materia­le di risulta e di tante giornate di lavoro per preparare le fondamenta.

Il teatro poggia su un banco di roccia tu­facea che fu spianata sia facendo brilla­re mine che utilizzando dei “ferri per bat­tere il masso”.

Fino agli inizi di Luglio si continuò a la­vorare sul “masso” per preparare gli sbancamenti necessari su cui poggiare i muri portanti. Dopodiché si iniziarono a tirare su i muri e come nella logica dei tempi, i materiali da costruzione venne­ro reperiti sul mercato locale, in luoghi nelle vicinanze di Pomarance. I mattoni, mattoncini e quadricci provenivano dalla vicina fornace del Gabbro, mentre a Poggiamonti era situata la cava da cui pro­venivano le bozze grandi per le “canto­nate” e le piccole per la muratura mista delle pareti esterne.

Al 14 Luglio risale il primo pagamento per la fornitura di scalini di pietra, in questo caso dodici, da parte di una persona del luogo, un certo Garfagnini Luigi e con ca­denza di circa venti giorni verrà effettua­to il saldo di altre forniture: la prima an­cora di dodici e le altre di ventiquattro. Considerando che per la buona gestione di un cantiere il materiale viene fatto ar­rivare in un periodo di poco precedente al suo utilizzo, il saldo degli scalini di pie­tra fa supporre il tempo occorso per la realizzazione delle strutture verticali e dei solai dei tre ordini.

I solai hanno struttura portante in legno, composta di travi e travicelli reperiti sul mercato di diverse località: Lajatico, Gab­bro, Castelnuovo e Livorno. Due fatture della ditta di legname “Aghib e Rocah” di Livorno documentano che ne inviaro­no un grosso quantitativo a Pomarance, ordinato da Ferdinando Magagnini e pa­gato dal conte Federigo De Larderei, il quale fu successivamente rimborsato dal Camarlingo Carlo Tabarrini. In quel tem­po per la fornitura di legname eccedente i cinque metri, era uso ricorrere al mer­cato esterno e la scelta di Livorno è da attribuire al progettista, appunto livorne­se e forse anche, per la comodità nei pa­gamenti, alla presenza in detta città di un accademico illustre come il De Larderei. Sempre in questo periodo e precisamente l’undici agosto, iniziarono i lavori di co­struzione della facciata ripulendo lo scas­so fatto nel “masso” e ponendo poi nel­le fondamenta “una memoria scritta in carta pecora, con custodia in piombo ed una moneta d’oro Romana”.

Con la costruzione delle strutture verticali, dei solai e delle volte prese l’avvio l’ope­ra di copertura della fabbrica che fu pro­babilmente ultimata verso la fine di no­vembre, poiché è registrato il pagamen­to di una merenda con la quale si festeg­gia, “come è di costruirne” questa occa­sione.

Conclusa questa fase ne iniziò una altret­tanto lunga, quella di completamento e ri­finitura. Il 16 marzo 1862 venne stilata una perizia sui lavori ancora mancanti e di conseguenza una stima del denaro ne­cessario per portare a compimento l’o­pera.

La costruzione del plafone (che copre la platea) fu affidata, a nota, a maestranze già operanti come il falegname Ferdinan­do Funaioli e il capo muratore Giovanni Mazzinghi. La progettazione del mecca­nismo degli scenari venne chiesto inizial­mente al macchinista del teatro La Per­gola di Firenze,ingegnere Cenovitti che però fu scartato, in quanto ritenuto trop­po costoso. Così anche questo incarico venne affidato al falegname Funaioli, il quale aveva “in altro teatro attentamen­te esaminato tali meccanismi”. Nel me­se di agosto 1862 sono annotati diversi pagamenti per l’acquisto di doccioni, ma anche l’ultima fornitura di pianelle, mez­zane e tegole per completare il pavimen­to e la copertura della soffitta, stavolta provenienti dalla fornace Larderei di Lucoli; dopodiché sono i piccoli lavori di ri­finitura e d’arredo a comparire sempre più frequentemente, del resto il giorno dell’i­naugurazione era ormai prossimo.

Con il 12 ottobre 1862, giorno dell’inau­gurazione, non si concluse il ciclo dei la­vori ed acquisti per il nuovo teatro; il “gior­nale” tra gli altri, riporterà ancora: l’ac­quisto di alcune porte, di gran parte del­l’arredo, la posa in opera dell’infissi in le­gno, la scala in legno che porta alla gra­ticciata, la lucidatura dello stucco della sa­la, la riquadratura dei palchetti ed altri pic­coli lavori di rifinitura.

La pittura dell’interno dei palchetti fu sta­bilito di realizzarla con “colore andante” e semplice riquadratura realizzata da en­trambi i pittori pisani chiamati ad opera­re in questo teatro, Riccardo Torricini e Giuseppe Martini; il trattamento a stucco lucido fu realizzato dal solo Martini, che era appunto “maestro di stucco lucido”, in cinque giornate di lavoro. Il pittore Tor­ricini ebbe un ruolo più importante, di ma­no sua sono le pitture del foyer, dell’atrio d’ingresso, delle stanze accademiche e il riattamento degli scenari del vecchio teatro; in quanto alla pittura della volta della sala non è sicura l’attribuzione al Torricini, in quanto l’uso di determinati co­lori farebbe supporre una sua più tarda realizzazione.

Il penultimo pagamento, il 31 gennaio 1868, riguarda il “casotto del Biglietti­naio” costruito da Ferdinando Funaioli già incaricato di tutti i lavori di falegnameria del nuovo teatro.

Il giorno 18 ottobre 1868 il “giornale dei lavori” chiude i valori totali di alcuni ma­teriali e denaro impiegati nella costruzio­ne del Teatro dei Coraggiosi. La chiusu­ra del giornale, non significò ovviamen­te, la fine dei lavori all’edificio teatrale, sia per la complessità del medesimo che im­pone continue riparazioni, sia per gli adat­tamenti e le trasformazioni conseguenti il pratico utilizzo o l’evoluzione tecnolo­gica che si impone col trascorrere degli anni.

Se i lavori di costruzione si possono con­siderare conclusi, così non è stato per gli arredi e gli abbellimenti che sono prose­guiti ancora per lunghi anni. Nelle nicchie poste nell’atrio d’ingresso solo con l’ini­zio del 1884 vi trovarono collocazione i primi busti di marmo e questo anche gra­zie all’iniziativa di un giovane studente dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, Ezio Ceccarelli di Campiglia Marittima che si prestò più per gloria che per de­naro.

Il 23 settembre del 1886 un professioni­sta di Volterra Luigi Guarnieri, stilò una “relazione sullo stato del teatro di Poma­rance” dichiarando, dopo una breve de­scrizione dell’edificio riguardante in par­ticolare le strutture portanti ed il “siste­ma antincendio”, che “l’insieme del tea­tro è in perfetta regola e nulla vi è da te­mere in rapporto alla statica” e prose­guendo poi con alcuni suggerimenti per “l’ordine e la sicurezza pubblica”. Se dal punto di vista statico il teatro non presen­tava irregolarità, diversamente era per gli
infissi e per le superfici esterne dei vari ambienti che presentavano altresì un de­grado già avanzato. Pertanto, l’anno do­po, fu deciso un grande restauro di cui ri­mane a testimonianza il “rendiconto del­le spese e delle entrate” per restauri oc­corsi al teatro di Pomarance l’anno 1888. In occasione di tali lavori l’accademico Florestano De Larderei, il 4 ottobre, chie­se ed ottenne dal corpo accademico “di far rimuovere con tutte le cautele oppor­tune, la parete di divisione” tra i due pal­chi di sua proprietà (il n° 11 e 12 del pri­mo ordine).

Negli anni che seguirono si registrarono solo lavori di manutenzione ordinaria fi­no ad arrivare al 1914, anno in cui furo­no realizzate alcune opere per improvvi­sare un cinema. I lavori per l’impianto del cinematografo riguardarono soprattutto il palco reale che fu adattato a cabina di proiezione, smontando l’apparato deco­rativo e foderando la porta di banda sta­gnata.

L’anno seguente fu installata l’illumina­zione elettrica in sostituzione di quella a petrolio, limitatamente agli spazi ad uso pubblico, con un’unica eccezione del “sa­lotto accademico”.

Gli interventi successivi saranno incentra­ti per la trasformazione del teatro in cine­ma, soprattutto dettati da ragioni di “Bot­teghino” visti i buoni incassi di quegli ul­timi anni. Così il 4 aprile 1959, per aumen­tare il numero dei posti a sedere, fu deci­so l’arretramento dello schermo e l’abbat­timento del palcoscenico con i suoi came­rini sottostanti ormai inutilizzati da lungo tempo.

Il mese successivo iniziarono i lavori di ampliamento della platea affidati alla dit­ta Moretti di Pomarance, su progetto dell’ing. arch. Beliucci di Ponsacco.

DESCRIZIONE DEL NUOVO TEATRO

Il teatro sorge fuori della porta Volterra­na, sulla via provinciale, lungo la direttri­ce di crescita del paese.

All’esterno l’edificio è abbellito da una facciata in pietra tufacea, articolata in due parti: la parte inferiore “a bugnato” con le tre porte d’accesso sormontate da un doppio cornicione, mentre quella superio­re, coronata da un cornicione più “impor­tante”, ha un ordine di tre finestroni e si distingue per un diverso trattamento del­l’apparato murario.

Il teatro, al suo interno, è strutturato in quarantaquattro palchi divisi in tre ordi­ni, distribuiti lungo una pianta a ferro di cavallo.

Dalla porta centrale di facciata si accede ad un atrio di ingresso, ampiamente de­corato. In questo spazio, dal lato sinistro si può accedere al caffè, che è a contat­to diretto con la strada, infatti per molti an­ni svolse la sua funzione anche nei gior­ni di chiusura del teatro. La biglietteria è posta alla destra dell’atrio d’ingresso, anch’essa ha l’accesso diretto dalla strada. Dall’atrio si passa successivamente al foyer e da questo superati pochi scalini, si entra nella platea.

Due vani scala, simmetricamente dispo­sti alle due estremità del foyer, distribui­scono il pubblico ai tre ordini dei palchi. Al secondo ordine sono collocate le stan­ze accademiche, sono stanze ampie e molto luminose grazie ai grandi finestro­ni che si aprono sulla facciata principale del teatro.

Sostanzialmente il teatro riflette l’imma­gine di allora e risulta facile immaginare i giorni luminosi dei primi anni di attività, l’eleganza del pubblico e il rumoroso chiacchericcio che precede sempre una rappresentazione teatrale, magari con un tono più alto per il clima di entusiastica scoperta di un pubblico non ancora av­vezzo a simili occasioni di ritrovo, lo stes­so che forse ancora oggi si respira in oc­casione delle grandi prime.

SPETTACOLI E MANIFESTAZIONI AL TEATRO DEI CORAGGIOSI

L’attività del Teatro dei Coraggiosi è sud­divisa in due periodi: il primo prende av­vio con la stagione inaugurale di prosa dell’autunno 1862 per concludersi con i bombardamenti tedeschi del 1944, che segnano anche l’inizio del secondo perio­do caratterizzato dal lento declinio delle attività del teatro.

La prima stagione teatrale aprì con rap­presentazioni della “Compagnia comica Gagliardi e Antinori”, e per la sera d’inau­gurazione del teatro portarono in scena la commedia “Suor Teresa”.

Il contratto con le varie Compagnie avve­niva per mezzo di istanze presentate dalle stesse all’Accademia, oppure attraverso l’agente teatrale o su sollecitudine di qual­che amico di accademici che aveva assi­stito alle rappresentazioni di una certa compagnia. Comunque la scelta ricade­va sempre su compagnie conosciute o per le quali qualche personalità stimata garantiva per loro.

NOTE BIBLIOGRAFICHE

REPETTI, Dizionario Geografico, fisico, sto­rico della Toscana, Firenze, 1841, vol. IV.

E. MAZZINGHI, Rievocazioni Storiche di Po­marance, in «Rivista Comunità di Pomarance».

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FONTI DI ARCHIVIO

ARCHIVIO STORICO COMUNALE DI POMA­RANCE:

  • Miscellanea Anni 1839-1866 filza n° 397.
  • Atti Magistrati 1860-1861 filza n° 199.

ARCHIVIO DELL’ACCADEMIA DEI CORAG­GIOSI

(non ordinato)

Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.