Il XIX° secolo è stato per Pomarance un importante periodo
storico caratterizzato da notevoli trasformazioni urbanistiche nel centro
storico che cambiarono radicalmente l’aspetto medioevale o rinascimentale dei
palazzi appartenuti alle antiche casate nobiliari o borghesi del luogo. Queste
costruzioni ottocentesche procurarono la distruzione di antiche testimonianze
architettoniche creando la nuova immagine di Pomarance che è possibile
osservare percorrendo le vie del centro storico ed in particolar modo via
Roncalli o dei “Signori”.
Palazzo De Larderel
Sui vari palazzi certamente si impone il grandioso edificio di “Palazzo De Larderei”. Attualmente di proprietà comunale ed adibito a sede per l’Ufficio Tecnico e della Comunità Montana della Val di Cecina, fu un tempo la residenza autunnale della nobile famiglia dei De Larderei che lo iniziarono ad opera del “sagace” commerciante Francesco De Larderei su progetto dell’architetto ebanista Magagnini di Livorno. Francesco De Larderei, di origine francese, trapiantatosi a Livorno fin dai primi dell’ottocento, si stabilì nelle nostre zone attorno al 1818 quando fu fondata una società (ved. Chemin – Prat – Lamotte – Larderei) dedita alla estrazione e produzione dell’acido borico contenuto nei “lagoni” di Montecerboli. Lagoni ottenuti a livello dal Comune di Pomarance ed in seguito in concessione perpetua dal Granduca di Toscana. Il “borace”, prodotto richiesto ed esportato in tutto il mondo, permise al conte Francesco, con l’aumento di capitali, di entrare ben presto a far parte della borsa dei Priori del Comune di Pomarance (1833) e di acquistare nel territorio comunale una serie di “unità immobiliari” che, ampliate e ristrutturate, sarebbero andate a formare il grandioso Palazzo – Fattoria De Larderei che ricalca, se pure con un lessico architettonico semplificato, il Palazzo Larderei di Livorno. (1)
L’area in cui doveva essere edificato il
fabbricato era stata individuata dal “Conte di Montecerboli”, fin dai primi
dell’ottocento, all’inizio del paese, nell’antica contrada di borgo tra la
porta Massetana e la Cancelleria comunitativa.
Consultando una mappa catastale del periodo leopoldino (1823) è possibile comprendere quali furono i fabbricati che Francesco De Larderei iniziò a comperare per la realizzazione del grandioso progetto. (fig. 1)
Il primo edificio acquistato fu quello
di proprietà del Cav. Giovanni Falconcini, per arroto del 6 aprile 1832,
(particella catastale 279 – 281 – 282 – 283) a cui si aggiunse due anni più
tardi, per arroto del 18 aprile 1835, l’acquisto della casa di Metani Donato
addossata all’antico baluardo di Porta Massetana (part.
cat. 284). Sempre nello stesso anno venne
acquistata, con arroto del 20 maggio 1835, la casa del Cav. Giuseppe Bardini (part.
cat. 282 – 282 bis – 283 bis).
Sei anni dopo fu acquisita anche l’abitazione di Francesco Funaioli per arroto del 25 maggio 1841, (part. cat. 277 – 278 – 280) insieme ad una cantina dai fratelli Michele e Giuseppe Bicocchi (part. cat. 277 – 278) ed un terreno “sodo lavorativo” dal sig. Beliucci Ermogasto, che era quella porzione di suolo al di fuori delle vecchie mura castellane denominate il “Tribbietto” (2) (part. cat. 279 bis).
Negli stessi anni vennero acquistati dal De Larderei anche
una serie di poderi che andarono a formare una tenuta di “beni rurali” nel
Comune di Pomarance e che permise al Conte Francesco, in base ad un regolamento
catastale del 1829, di fare istanza nel 1843 alle Magistrature di Comune per
essere sgravato dalle stime imponibili sui fabbricati ad uso rurale: (3)
“… con /a volontà del nobil conte Cav. Priore Francesco De Larderei
di Livorno, a possedere come appunto possiede, una tenuta di beni rurali nella
Comunità di Pomarance, ebbe desiderio insieme di corredarla di necessari
comodi per l’agenzia, e di un comodo per abitare nell’autunnali
villeggiature. In pertanto che procede all’aggiusto di vari antichi fabbricati
quali parte al di fuori, parte al di dentro della porta così detta Massetana
della terra di Pomarance, formarano un collegato di muri, capaci insieme, a
soddisfare il di sopra espresso suo desiderio.
E dappoiché tali speciali acquisti furono fatti dopo la stima del nuovo catasto, questi sopra dei catastali registri furono in conto, e faccia del prefato sig. Conte DeLarderei …per un ammontare totale della rendita imponibile di lire 543,97”. (4) Nell’istanza il conte De Larderei dichiarava che tutti quei fabbricati erano stati utilizzati ad uso di fattoria e “… ridotti in fienili, stalle, rimesse, granai, coppai, tinai, magazzini”, in parte come abitazione dell’agente ed inservienti; in parte ad abitazione propria, ‘‘per tempo della villeggiatura”, con un piccolo giardino annesso, dichiarando inoltre che nessuno dei fabbricati riservò per appigionarli o trarne frutto di locazione alcuno …”. Non ci è dato a sapere se “l’aggiusto” dei fabbricati corrisponda all’inizio dei lavori per la realizzazione di Palazzo De Larderei; certo è che la situazione urbanistica di questa area cambiò radicalmente nel giro di una decina di anni (1852 ca.) (fig. 2)
Variazione Catastate 1852 c.a. (FIG. 2).
Venne demolito infatti il baluardo di Porta Massetana e la
casa del Melani; occupata la piccola piazzetta detta “Padella”; abbattuti i
resti delle mura castellane; ampliato il fabbricato centrale (part.
cat. 282) e costruito un giardino al quale si
accedeva anche attraverso un vicolo dalla “via di Borgo” (tra part. 277 e 280).(5)
Il lotto centrale del Palazzo che secondo gli ambiziosi
progetti del De Larderei avrebbe dovuto ricreare lo stesso imponente prospetto
del palazzo di Livorno, già terminato in quegli anni, indusse lo stesso conte
Francesco a proporre alle Magistrature nel 1852 la permuta della Cancelleria in
cambio della ristrutturazione a sue spese del Palazzo Pretorio creando
ambienti idonei per l’Ufficio del Gonfaloniere e del Cancelliere.
Proposta non molto gradita dai Priori del Comune che
avrebbero invece voluto un fabbricato nuovo come risulta da una lettera del
1853 (6):
A di 25 maggio 1853
Pregiatissimo sig. Gonfaloniere sono onorato della
pregiatissima sua in data 20 corrente con la quale V.S. illustrissima si
compiace di parteciparmi la decisione sulla mia proposizione relativa alla Cancelleria
Comunitativa. L’opinione dell’ingegnere nulla mi sorprende, Egli si era già
pronunciato da più di un anno e prima di avere esaminato le mie piante, lo
compatisco per non dire altro.
Al Gent.mo sig. Gonfaloniere dovrà sempre convenire, che
la mia proposizione era vantaggiosissima alla Comune, e che la cattivissima
casa della Cancelleria (veniva distrutta fino ai fondamenti) mi sarebbe
costato tre volte tanto il suo valore reale.
V.S. si compiace ancora propormi di fare costruire una
nuova Cancelleria e di darmi la vecchia per la nuova e mi invita a sottoporre
il mio progetto.
Mi rincresce doverli dire che non posso accettare simile
proposizione, più particolarmente perchè il progetto qualunque fosse, avrebbe
certamente la disgrazia di stare diversi anni nelle mani dell’ingegnere, come
ha fatto il primo, sarà adunque assai meglio che io rinunzi al mio progetto per
non essere ballottato ingiustamente o capricciosamente, quando tutte le mie
mire erano per il vantaggio della Comunità, l’imbellimento del paese, e far
lavorare dei disgraziati senza lavori.
Ho l’onore di dichiararmi rispettosamente…
Dev.mo servitore F. De Larderei
Trascorsi due anni dalla prima richiesta di permuta il
conte De Larderei faceva nuovamente istanza (1855) al Gonfaloniere di Comune
per la cessione della fabbrica di Cancelleria proponendo di pagarla in
contanti con l’aumento del 15% sopra le stime, oppure costruendo una nuova
Cancelleria uguale a quella vecchia dettando però una condizione che, se fosse
stata accettata la seconda proposta egli avrebbe iniziato i lavori nella imminente
primavera e, ”… non solito aggiornare i suoi divisimenti…” pregava le magistrature
a deliberare e risolvere entro il mese di marzo la sua richiesta “… passato
il quale, non sarebbe stato più il caso di mantenerla …”.
La seconda proposta fu ben presto accordata ed i lavori
del palazzo proseguirono di pari passo con quelli della nuova Cancelleria
costruita tra la via Provinciale Massetana e via dei Boschetti. (7) Purtroppo,
la morte del conte Francesco De Larderei non permise di poter vedere ultimato
il suo grande desiderio che fu ben proseguito dal figlio Federigo, con
l’ampliamento dell’ala del palazzo verso Porta Massetana e nella quale venne
creato il bellissimo teatrino privato inaugurato nel 1872.
In quello stesso periodo
vennero acquistati dal figlio Federigo anche la casa con orto già di Cammillo
Fantacci (Part. cat. 273 – 274 – 275) che furono
utilizzate in parte per nuove scuderie (attuale Auditorium). Oggi, percorrendo
via Garibaldi, è possibile vedere la facciata principale di Palazzo De Larderei
nel suo antico splendore dopo il riuscito restauro effettuato nel 1984 ad
opera del Comune di Pomarance e nel quale è evidenziato ancora di più il
grande stemma in cotto della famiglia De Larderei collocato all’interno del timpano
centrale in cui si legge: “Raffaello Agresti fece all’lmpruneta nel 1871”.
Jader Spinelli
NOTE BIBLIOGRAFICHE
Il Teatro abbandonato; “Pomarance: teatri storici” di G. Cruciani Fabozzi 1985; Ed. La Casa USHER
Cfr. “La Porta Orciolina o Massetana” – La Comunità di Pomarance n° 2 e Supplemento al n° 2 1988
Patrimonio rurale nel marzo 1843 di Francesco De Larderei: Podere S. Enrico, pod. S. Federigo, pod. Santa Paolina, pod. S. Filiberto, pod. Pogio Montino, Pod. Poggiamomi, pod. Luogonuovo, “Una costruzione non ultimata in aggiunta alla casa colonica dell’antico podere detto Palagetto..”.
Archivio Storico Comunale Pomarance F. 609.
Il giardino era delimitato da una sontuosa cancellata in ghisa proveniente dalle fonderie di Follonica. Questa fu demolita negli anni quaranta come offerta alla Patria per uso bellico.
Archivio Storico Comunale Pomarance F. 159.
La Cancelleria era costruita dove attualmente sono i “Giardinetti” e l’edicola dei giornali; permutata dalla famiglia Bicocchi, per la cessione dell’attuale palazzo comunale, fu utilizzata come Ospedale fino al 1935 circa. L’edificio fu minato durante la ritirata delle truppe tedeschenel 1945. (vedi Rievocazioni Storiche di Edmondo Mazzinghi – La Comunità di Pomarance 1974).
Il palazzo “Biondi Bartolini’’
situato sulla Piazza De Larderei al numero civico 3, è uno dei più antichi
edifici esistenti nel paese di Pomarance.
Ristrutturato nel modo attuale agli
inizi dell’ottocento appartenne, fin dai primi anni del XVIII secolo, alla
famiglia Biondi che ebbe tra i suoi discendenti Notai, Dottori, Priori e
Gonfalonieri nelle Magistrature del Comune delle Pomarance.
Attualmente conosciuto come il palazzo
“Biondi Bartolini”, fu denominato come tale solo attorno al 1830, quando
un discendente, certo Giuseppe Biondi, sposando Donna Violante Bartolini,
aggiunse al proprio cognome quello della moglie.
L’edificio, collocato al vigente catasto di Pisa con la particella catastale n° 417, può certamente essere considerato di notevole interesse storico per le sue pregevoli opere pittoriche dipinte sulle pareti e nei soffitti delle sale del “piano nobiliare”. Fin dai primi anni dell’ottocento il palazzo, ancora detto dei “Biondi”, era indicato negli antichi chirografi del tempo “lungo la via di Petriccio” che cominciava all’incirca dalla “Porta alla Pieve” (o Portone di Petriccio) e terminava alla “Porta Volterrana”.
Facciata del Palazzo Biondi Bartolini nel 1890
Uno dei più antichi documenti che ci consente
l’individuazione del palazzo è una planimetria del “Catasto Generale della
Toscana” o “Catasto Leopoldino” relativo a Pomarance. La piantina catastale,
conservata nell’Archivio di Stato di Pisa e datata 1823, consente di verificare
l’area occupata dall’immobile ed a questa faremo riferimento nella nostra
trattazione.(1)
Indicato a quel tempo con la particella catastale n° 316 risultava di proprietà del Sig. Giovan Battista Biondi. Proprietà che fu tramandata, di generazione in generazione, fin dall’acquisto (XVIII secolo) di alcuni beni immobili appartenuti a Cristofano Roncalli, discendente della famiglia Roncalli di Pomarance e pronipote del celebre pittore Crostofano Roncalli detto il “Pomarancio” (1552-1626).
Dall’estimo del Comune di Ripomarance
del 1571 risulta che l’immobile, pervenuto in eredità al Dottor Cristofano
Roncalli, apparteneva al suo bisnonno, Giovan Antonio di Francesco Roncalli da
Bergamo, padre del pittore Cristofano Roncalli. La casa, addossata alle
antiche mura castellane del XIII secolo prospicenti la strada di Petriccio,
confinava, come ancora oggi, con la Canonica della Chiesa di San Giovanni
Battista, l’orto della Chiesa e la porta “alla Pieve”; confinazioni importanti
che hanno permesso l’individuazione del fabbricato negli estimi del comune di
“Ripomarance” fin dal XV secolo.
Uno dei documenti attestanti l’appartenenza dell’edificio ai Roncalli risale al primo decennio del ’600. Trattasi di un estratto di contratto di vendita immobiliare pubblicato nel 1969 dal Dott. Giovan Battista Biondi su “La Comunità di Pomarance” e conservato nell’Archivio di Stato di Firenze al protocollo n° 19887, carta 45 v., atto 93, nel quale il notaio del tempo, Ser Guasparri del fu Francesco Maffii, certificava, in data 16 maggio 1616, che “… il Cavaliere Cristofano Roncalli delle Pomarance fu Giovan Antonio fece prendere possesso dei suoi beni in Pomarance, relitti morendo, il di lui fratello Donato”. Tra le varie proprietà compariva anche la casa, oggetto della nostra ricerca, posta nel castello di Ripomarance in luogo detto Petriccio confinante: “… a 1° Via, 2° Beni dell’eredi di Bernardino Roncalli mediante il Portone, 3° Casa della Pieve di San Gio:Battista, 4° Orto della Pieve, a 5° la casa di Bartolomeo Cercignani e se altri confini vi fossero, con le stanze e le botteghe sotto detta casa…”. L’edificio, attaccato come ancora oggi al Portone della Pieve e ricostruito ex novo nel 1884, presentava anticamente due stanze sovrapposte che pervennero ai Roncalli probabilmente da un livello enfiteutico dato dal Comune di Ripomarance.
Le stanze erano di necessaria comunicazione
con l’altra casa di Giovan Antonio Roncalli posta al di là della Porta alla Pieve
in luogo detto “Piazzetta alla Chiesa” (attuale Largo Don Morosini).
La “Lira” o “Estimo” del
Comune di Ripomarance del 1630, con arroti fino al 1708, conferma l’esistenza
di questa unità immobiliare ereditata dai discendenti Roncalli. (2)
La proprietà in quell’anno risulta
infatti alla “posta” di Jacopo, Francesco e Guglielmo figli di Cosimo
Roncalli.
Cosimo infatti era fratello del pittore Cristofano e figlio anche esso di Giovan Antonio Roncalli. La proprietà è così indicata: “… Una casa in detto castello con più botteghe confinata a 10 Via, 2° Pieve, 3° Orto della Pieve, 4° Mura, 5° Bartolomeo Cercignani, 6° Via … stimata lire milleduecentoquarantacinque…”.
Stemma Famiglia Biondi
Alcuni anni più tardi l’appartenenza dell’edificio passò al dottor Guglielmo Roncalli ed al fratello prete Francesco Roncalli. Alla morte di prete Francesco, con testamento del maggio 1683, rogato dal Notaio Gio: Antonio Armaleoni, la proprietà dell’immobile fu ereditata, in data 10 maggio 1696, dal Dottor Cristofano Roncalli, “soldato” (Tenente) Giuseppe Roncalli e prete Lorenzo Roncalli del fu Guglielmo suoi eredi e legittimi nipoti.(3) Nei primi anni del XVIII secolo risulta proprietario deH’immobile confinante con la casa della pieve soltanto il dottor Cristofano Roncalli; suo fratello, il tenente Giuseppe Roncalli, era infatti padrone della casa al di là della “Porta alla Pieve” (eredi attuali della Sig.na Federiga Volpi) così descritta nell’estimo del 1716 (4): “… una casa in Petriccio al portone con pozzo a metà con Teodora Ceccherini, confinata a 1° Via, 2° Via, 3° e 4° detta Teodora Ceccherini, 5° Via, 6° Dottor Cristofano Roncalli sopra il Portone stimata scudi 200…”.
Stemma dei Bartolini
La casa del Dottor Cristofano Roncalli
fu oggetto di compravendita in data 13 gennaio 1728 (ab Incarnazione 1729). Lo
scritto è riportato nell’articolo del Dottor Biondi Giovan Battista già citato.
Il Contratto conservato all’Archivio di
Stato di Firenze (Protocollo n° 23922 pag. 169) certifica che il suddetto
Dottor Cristofano Roncalli aveva lasciato dopo la sua morte molti debiti e che
i suoi creditori erano riusciti a mandare all’asta pubblica tutti i suoi
beni.
Il 10 giugno 1727 (1728) i detti beni
furono acquistati all’incanto dall’unico offerente, Michele di Cerbone di
Michelangelo Vadorini. Dal rogito si apprende che Pietro o Pier Francesco
Biondi (1691-1730), figlio di Giovan Antonio Biondi e Costanza di Domenico di
Sebastiano del Capitano Pietro Paolo Santucci, diretto antenato dei Biondi (e
quindi degli attuali Biondi Bartolini) acquistò dallo stesso Vadorini la casa
oggetto della nostra ricerca e cioè: “… Una casa dai fondamenti a tetto,
luogo detto Petriccio confinata a 1 ° Via, 2° Sig. Luogotenente Giuseppe
Roncalli, 3° la Chiesa arcipretale di San Gio:Battista di detta terra, 4° eredi
del quondam Bartolomeo Cercignani et altri….”.
La parte dispositiva del contratto si chiudeva con la seguente clausola: “… il medesimo sig. Pietro Francesco Biondi ha promesso e si è obbligato di lasciar godere e possedere al sig. Luogotenente Giuseppe Roncalli le due stanze di detta casa che sono poste sopra le camere contigue al Portone (di Petriccio), sua vita durante…”.(5)
Nell’estimo del 1716, con arroti fino al 1805 e conservato
nell’Archivio della Biblioteca Guarnacci di Volterra, la suddetta proprietà è
così indicata: “… Una casa in Petriccio a 1 ° Via, 2° Tenente Giuseppe
Roncalli, 3° Casa ed orto della Chiesa, 4° Pasquino Borghetti, 5° Via …
stimata scudi 150…”.(6)
In calce è riportata la seguente annotazione: “…a di. 22
giugno 1729; viene detta casa dalla posta di Michele di Cerbone Vadorini, in
questo a carta 346, per compra fattane dal sig. Biondi Pietro Francesco per
medesimo prezzo di scudi 100; per rogito di Giovan Pietro Biondi (notaio) del
di 13 giugno 1728; visto e reso accomodato dal sig. Cancelliere Torquato
Mannaioni…”.
Planimetria catastale del 1823. (Catasto Leopoldino). Palazzo “Biondi” indicato alla particella catastale n° 316
La casa aveva un nuovo confinante,
Pasquino Borghetti, che altro non era che il marito di Maria Cammilla
Cercignani figlia del “quondam” Bartolomeo. Questi infatti possedeva una casa
con più stanze con cantina e telaio sotto, in Petriccio confinata a 1° Via, 2°
dott. Cristofano Roncalli, 3° orto della Chiesa, 4° mura castellane, 5° e 6° Simone Cercignani
del valore di 50 scudi…”.(7)
Dal 22 giugno 1729 i Biondi furono gli unici proprietari
di questo immobile. La suddetta famiglia, che è annotata nell’estimo del
Comune di Pomarance fin dal XVII secolo, risultava proprietaria di diversi
beni nella corte di Ripomarance. Secondo lo storico Don Socrate Isolani pare
che essa provenisse dal “Castello della Pietra” nei pressi di San Gimignano
e che alcuni suoi membri si fossero stabiliti
attorno al XVI secolo nel piccolo castello di San Dalmazio. Giovanni di Giovan
Pietro Biondi (1604-1697), annotato nell’estimo del Comune di Pomarance
risulta proveniente infatti da San Dalmazio.(8)
Questi aveva comprato, in data 6 ottobre 1675, a Pomarance
tutti i beni appartenuti ad Agnolo Sorbi ed a suo fratello Bastiano tra cui
una casa posta in Petriccio confinante con lo “Spedale” di San Giovanni. Le
proprietà risultano successivamente essere poste a carico di suo figlio
Giovanni Antonio (1670-1730).
Il di lui figlio, Pietro Francesco Biondi (1671-1730) fu
l’autore dell’acquisto dell’antico palazzo appartenuto ai Roncalli che, come
già descritto, fu comprato all’asta dai Vadorini e poi successivamente
rivenduto al Biondi nel 1728 (1729).
Il dottor Pietro Francesco Biondi sposandosi con … dette la nascita a tre figli: Pompeo, Francesco (Michelangelo) e Giuseppe (Maria). Rimasti orfani in tenera età, per la precoce morte del padre, ereditarono tutti i beni del nonno Giovan Antonio per atto di testamento datato 22 agosto 1734; alla presenza del sig. Tenente Pier Giuseppe Biondi, uno dei tutori e provveditori. Tra i vari possedimenti risulta anche la casa confinante con la Chiesa, oggetto della nostra indagine. In data 13 agosto 1743 venne cancellato dalla “posta” dei beni dei fratelli Biondi il sig. Pompeo “… stante la divisione e cessione fatta a detti fratelli, come appare per contratto rogato dal Notaio Antonio Nicola Tabarrini…”.(9)
I due fratelli, Francesco e Giuseppe, rimasti
unici proprietari della casa posta lungo la via di Petriccio accanto alla porta
“alla Pieve”, nel 1760 ricomprarono una piccola stanza “posta nello stasso
palazzo di loro dimora”, che era stata venduta molti anni prima a certo Giovan
Maria Funaioli per scudi 10.
La riacquisizione della suddetta stanza ad opera di Giuseppe e Francesco Biondi è confermata oltre che nell’estimo del XVIII secolo, anche da un contratto conservato nell’archivio privato della famiglia Biondi Bartolini.(IO) Dal rogito si apprende quanto segue: “…adì 30 maggio 1760 … Qualmente dal già Sig. Pietro Francesco Biondi delle Pomarance fu venduta una stanza a terreno a Francesco e Andrea, fratelli e figli del già Giovan Maria Funaioli di detto luogo … qual stanza è contigua alla casa di proprietà di abitazione di detto signor venditore; luogo detto Petriccio, confinante a 1° Via, 2° Signori Biondi, 3° Portone detto di Petriccio … come per contratto rogato dal Dott. Bernardino Cercignani … ed avendo adesso convenuto e stabilito che il detto padrone di detta stanza, rilasci e conceda la suddetta stanza alli Signori Francesco e Giuseppe Biondi del prefato Sig. Pietro Francesco Biondi…”.
In un documento successivo del 1779,
tratto daH’Archivio Storico di Pomarance, la suddetta casa viene citata come
appartenente allo stesso Giuseppe Biondi, gonfaloniere in quegli anni nel
Comune delle Pomarance. In una descrizione di “Strade e Fabbriche della
Comunità di Pomarance” dello stesso anno infatti, si annotava che dalla via di
Petriccio si staccava una piccola via denominata “Dietro il canto”, la quale
iniziava: “dalla cantonata del Sig. Giuseppe Biondi a mano dritta, et a
sinistra dalla casa del Sig. Cancelliere Incontri, con direzione levante…”.(11)
Nello stesso anno i due fratelli Biondi facevano istanza al Comune delle Pomarance per poter sbassare una torre delle vecchie mura castellane che impediva luce necessaria alla loro abitazione: “… di poi letta un’istanza dei Sig.ri Dottori Giuseppe e fratello (Francesco) Biondi colla quale domandano di poter sbassare alcune parti di braccia della torre esistente lungo le mura castellane, luogo detto il Tavone, per acquistare l’aria della casa di loro abitazione… Deliberarono perciò di quanto spetta, ed è facoltà del Magistrato loro, accordarsi il mandato stesso… ‘>(12)
Una sala del piano nobiliare con decorazioni e pitture murali
È ipotizzabile che la suddetta torre posta in località
Tavone, altro non fosse che la torre circolare (attualmente conosciuta come
“dei Biondi Bartolini”) ubicata nel giardino degli stessi Biondi Bartolini dietro
Via dei Fossi.
Un’altra notizia storica del palazzo risale al 1783, quando
il sig. Giuseppe Biondi faceva domanda al comune delle Pomarance che: “… gli
fosse accordata licenza di fare tre paloni per l’ingresso ad una bottega da
esso fatta ai pié della casa di sua abitazione, quale rimane troppo alta dal
piano della strada…”.(13)
Attorno al 1785 il fratello Francesco Biondi lasciava la
casa paterna per formarne una propria. Il 15 settembre infatti faceva domanda
alle Magistrature del Comune di Pomarance “… di assere ammesso al
godimento dei Priori della Comunità così come ha goduto e gode la sua casa
paterna del Gonfalonierato, e Operaio per formare distinta famiglia dagli altri
suoi fratelli (Giuseppe e Pompeo)”.(14) Francesco Biondi si stabilì con la
propria famiglia nel palazzo posto sulla via di “Borgo” (oggi Roncalli) nel
palazzo attualmente conosciuto come “dei Ricci”. Nella divisione patrimoniale
dei tre fratelli anche il “prete” Pompeo fu liquidato con una retta annuale sul
capitale di famiglia; rimase unico possessore dell’immobile il Dottor Giuseppe
che morì nell’anno 1799. Con voltura n° 11 e n° 30 dello stesso anno ed una
voltura (n° 9) del 1803 la proprietà della casa posta “in Petriccio” e
confinante con la casa ed orto della chiesa, fu ereditata dai suoi tre figli;
Dottor Giovan Battista (1756-1826), Tommaso ed Isidoro.(15)
La tutela del patrimonio fu affidata al fratello maggiore
Giovan Battista Biondi che fu anche il promotore della ristrutturazione del
palazzo “Biondi”, così come ci è pervenuto oggi.
La notizia è del 24 maggio 1800; trattasi di una istanza presentata al Comune delle Pomarance dal Dottor Capitano Giovan Battista Biondi ”… colla quale domanda accordarseli la facoltà di poter porre l’antenne (paloni per impalcature) o quanto altro occorra nella necessità in cui si trova di dover rifondare le muraglie di sua abitazione posta in Petriccio e domanda di poter occupare lungo le muraglie di essa casa un terzo di suolo di strada e piazzetta di Petriccio col pagare alla comunità l’occorrente…”.(16)
La conferma di questa ristrutturazione
agli albori dell’ottocento è data anche da un documento conservato
nell’archivio Biondi Bartolini che tratta di una ricevuta di pagamento ad una
“maestranza” originaria di Firenze e lavorante in Pomarance: “… Adì 9
settembre 1802… lo Pasquale Bitossi ho ricevuto dal Sig. Capitano Giovan
Battista Biondi la somma di lire 80 tanti sono per opere fatte in sua casa, e
mi chiamo contento e soddisfatto in tutto per lire ottanta…”.
La riedificazione comportò anche l’ampliamento dell’edificio al di là delle vecchie mura castellane, sul versante dell’orto della chiesa di Pomarance. “Suolo canonicale” concesso a livello enfiteutico alla famiglia Biondi, dal parroco Saverio Pandolfini che consentì l’allineamento dell’edificio stesso verso la proprietà dell’orto della famiglia Biondi. Questa notizia è certificata da un atto di divisione patrimoniale del 1804 tra i fratelli Biondi e conservato nell’archivio di famiglia: “… essendo che fino dall’anno 1804 l’illustrissimo Vicario, Dottor Tommaso Biondi del già sig. Giuseppe (Antonio) Biondi di Pomarance, entrasse in determinazione di provvedere alla divisione del patrimonio sostante e i beni che riteneva in comune gli III.mi signori, Capitano Giovan Battista e Isidoro di detto già Sig. Giuseppe Antonio Biondi di detto luogo, di lui fratelli, ad essi pervenuti in eredità paterna e materna, quanto per eredità del defunto Sig. Dottor Francesco Biondi comune zio…”.
Nella descrizione dei beni in divisione è annotata anche: “… la casa di abitazione di loro stessi dividendi, posta in detta terra di Pomarance nella contrada di Petriccio, assieme colla nuova aggiunta eretta sul suolo ortale della chiesa di detto luogo con tutte le sue adiacenze e pertinenze…”.(17)
Anche se non sono stati ritrovati documenti concernenti il contratto di livello enfiteutico per l’occupazione del suolo ortale della chiesa, la stessa concessione enfiteutica è testimoniata in una relazione della metà del XIX secolo sulle proprietà dei Biondi Bartolini nel quale l’edificio è descritto: ”… composto di tre piani da terra a tetto il tutto per la più gran parte di libera proprietà, ma per piccola parte “livello” della Propositura di Pomarance
In quegli anni vennero dipinte e decorate le stanze ed i
soffitti del “piano nobiliare” in cui furono raffigurati, in stile Imperiale,
vedute paesaggistiche di notevoli dimensioni tra le quali è di notevole interesse
un paesaggio del castello di Pomarance (fine XVIII secolo) visto dalla zona di
Piuvico o Cappella di San Carlino.(18) Giovan Battista ed Isidoro, rimasti
unici proprietari del patrimonio di famiglia, in data 30 novembre 1813
addivennero ad una nuova divisione dei loro beni tra cui figuravano alcuni
possedimenti ereditati dallo zio paterno, Francesco Biondi.
Nell’atto notarile conservato tra i documenti di famiglia Biondi Bartolini è indicata anche “… la metà della casa di abitazione degli antedetti condividendi posta nella terra di Pomarance, contrada di Petriccio, confinata a 10 strada pubblica, 2° Bartolomeo Fedeli, 3° casa canonicale, 4° orto annesso a detta casa canonicale, 5° stanze dell’Opera, 6° Annibaie Vadorini con orto e casa e torna a detta via, dentro qual confini restano compresi il terrazzo ed orto uniti a detta casa dei condividendi che vien formata dalle fabbriche urbane descritte in faccia dei medesimi condividendi a carta 198 e 296 di detto estimo di Pomarance, stimata scudi 1000; qui per metà scudi 500…”.
Successivamente la casa
pervenne al Capitano Giovan Battista Biondi che morì nel 1826. Questi lasciò
eredi dei propri possedimenti i suoi tre figli: Giuseppe, Pietro e Jacopo che
risultano proprietari, al Catasto Generale della Toscana (1830), deH’immobile
posto in Petriccio e descritto alla particella catastale n° 316 e 315 (cioè
abitazione e orto).
In una successiva divisione patrimoniale
tra gli stessi fratelli Biondi, figli di Giovan Battista, le proprietà
pervennero (30 aprile 1837) al fratello maggiore Giuseppe; gli altri, Jacopo e
Pietro furono liquidati con una cospicua somma di danaro (8000 scudi ciascuno)
ed una rendita annuale sui fruttati di interesse sul capitale di famiglia.
Jacopo si trasferì a Montalcino dedicandosi alla sua tenuta vinicola e producendo
il famoso “Brunello di Montalcino”.
L’avvocato Pietro sposando Domira Vadolini dette luogo al ramo dei Biondi da cui discendono il dottor P.G. Biondi ed i suoi figli, Notaio Giovan Battista e Andrea Biondi della Sdriscia.
Il dottor Giuseppe Biondi sposando nel
1830 Donna Violante Bartolini, del Gonfaloniere Bartolino Bartolini e
Guglielma Tabarrini, con decreto del 26 febbraio 1830, aggiunse al proprio
cognome quello della moglie dal quale è derivata l’attuale famiglia “Biondi
Bartolini”, proprietari ancora oggi dell’ornonimo palazzo
situato in Piazza de Larderei.
Alla morte del dottor Giuseppe Biondi Bartolini, avvenuta nel 1863, gli succedettero nella tenuta del patrimonio immobiliare i suoi figli Bartolino e Giovanni.
Particolare del Castello di Pomarance agli inizi del XIX see. dipinto sulla parete della sala al piano nobiliare.
In quell’anno infatti, e precisamente il 22 maggio, fu stilata una relazione dettagliata del “patrimonio” Biondi Bartolini, dell’Ing. Lorenzo Chiostri che è ben conservata nell’archivio di famiglia. Nel manoscritto di stima dei beni Biondi Bartolini è descritto con minuzia il “palazzo nobiliare” dai fondi al tetto, il valore degli arredi che adornavano le varie stanze: “… Patrimonio lasciato dal Nobil Uomo dott. Giuseppe Biondi Bartolini al 22 maggio 1863… Un palazzo con orto annesso situato in comunità di Pomarance eprecisamente nel paese di tal nome in corrispondenza della nuova Piazza de Larderei, e della via maestra che ne fa, seguito procedendo verso il centro del paese, composto di tre piani da terra a tetto, il tutto per la più gran parte di libera proprietà, ma per piccola parte livello della propositura di Pomarance; di superficie tutto compreso orto e palazzo, braccia 1457 equivalente a mq. 496 e così confinato: a 1 ° Piazza de Lardarel, 2° Via, un tempo detta di Petriccio, 3° Via Mascagni, 4°, 5°, 6°, 7°, 8°, Propositura di Pomarance con fabbricato ed orto, 9°, 10°, 11°, 12°, 13°, Sig. Vadorini Giuseppe con orto e casa. Annesso a detto palazzo sta una terrazza a livello del terzo piano, costruita sopra un’antica porta del paese, il cui arco da un lato appoggia al palazzo Biondi Bartolini e dall’altro alla casa dei fratelli Bongi… Il piano terreno del suddetto palazzo è composto, come appresso: una piccola bottega con unico ingresso dall’esterno, un corridoio corrispondente alla porta principale di ingresso… Il descritto palazzo offre stabilità nelle sue mura, comodità nelle sue stanze ed eleganza specialmente in quelle del primo piano… Fra queste meritano speciale considerazione la sala ed il salotto da ricevere per le belle pittura che adornano le pareti; ma il pavimento a smalto lustrato e figurato a disegno con pietra di vari colori che presenta la sala, accrescono alla sala stessa un pregio, che la parifica alle sale dei palazzi signorili delle città… Le finestre del piano terreno sono guarnite di inferriate esternamente e di serramento a due imposte di cristalli e scurini internamente. Quelle del piano superiore sono provvedute d’imposte a cristalli e scurini e di persiane; quelle del primo piano a tetto hanno semplicemente le imposte a cristalli e scurini… Al piantario del nuovo estimo della Comunità di Pomarance il suddetto palazzo con orto è figurato dalle particelle n° 315 e 316 della sezione C accese a conto di Biondi Bartolini Bartolino e Giovanni del dottor Giuseppe…”.
Stato attuale del Palazzo Biondi Bartolini indicato alla particella n° 417
Nella relazione dettagliata è annotato
che manca il documento del livello corrisposto alla Canonica per l’occupazione
del suolo destinato alTampliamento dell’edificio avvenuto agli inizi
dell’ottocento e che comportava una spesa annua di lire 45,20.
Nel periodo tra il 1863 ed il 1868
Bartolino e Giovanni ampliarono i possedimenti immobiliari nelle immediate
adiacenze della loro abitazione. Infatti in una relazione sul “patrimonio attivo
e passivo” dei fratelli Bartolini e Giovanni del 22 maggio 1863, confrontato
con quello del 10 novembre 1868 risulta, nella voce “acquisti di immobili” un
pagamento a Giuseppe Vadorini per “vitalizio di lui casa”, di lire 552. Egli
infatti cedette i propri possedimenti (particelle 315 e 314 del Catasto
Leopoldino) in cambio di una rendita vitalizia. Nell’acquisto come si può osservare
dalla planimetria catastale (1823-1898) era compresa anche la torre cilindrica
o “baluardo” detta del “Tavo- ne” ed un appezzamento di terreno lungo la via
“dei Fossi”.(19)
Dopo la
morte del cavalier Bartolino
Biondi Bartolini avvenuta il 28 giugno 1900 le proprietà rurali nonché la casa
paterna pervennero, con testamento registrato a Volterra il 20 dicembre 1900,
al fratello Giovanni Biondi Bartolini (1838-1904). Da questi, per discendenza
diretta fu ereditata dal di lui figlio Giulio (1877-1918) dal quale sono
pervenute all’attuale Giovanni Biondi Bartolini.
Jader Spinelli
NOTE:
Archivio di Stato di Pisa; Planimetria catastale della Toscana (Catasto Leopoldino); Ufficio fiumi e fossi: Comunità di Pomarance Sez. C n° 2; Scala 1: 1250; 6 maggio 1823.
Archivio Storico Comunale di Pomarance F. 430 (estimo 1630) c. 115 r.
Archivio Storico Comunale di Pomarance F. 430 (estimo 1630) c. 289 v.
Archivio Storico Comunale di Pomarance F. 432 (estimo 1716) c. 2 r.
Dott. Giovan Battista
Biondi: “La famiglia Roncalli a Pomarance” in La Comunità di Pomarance 1969.
Biblioteca Guarnacci
Volterra, estimo 1716 c. 198 r.
Biblioteca Guarnacci
Volterra, estimo 1716 c. 206 r.
Archivio Storico
Comunale Pomarance F. 378.
Biblioteca Guarnacci
Volterra; estimo 1716 c. 195 r., v.
Archivio Biondi
Bartolini (non catalogato)
Archivio Storico
Comunale di Pomarance F. 378. Il vicolo “Dietro il Canto”, come è possibile
osservare dalla piantina catastale del 1823, lambiva il palazzo Biondi (attuale
Biondi Bartolini) indicato alla particella catastale 316 e il palazzo del Can.re Incontri (part. 448);
poi del Panicacci, che era quel grande edificio posto nel centro dell’attuale
Piazza de Lardarel. Edificio distrutto a carico e spese del Conte de Larderei
nel 1860 al quale fu dedicata l’omonima piazza.
Archivio Storico
Comunale di Pomarance F. 126 c. 123 v.
Archivio Storico
Comunale di Pomarance F.127 c. 30 v.
Archivio Storico
Comunale di Pomarance F.127 c. 97 r.
Biblioteca Guarnacci
Volterra, estimo 1716 c. 195 r.
Archivio Storico
Comunale di Pomarance F. 130 c. 13 (1800).
Archivio Biondi
Bartolini. Da alcune notizie orali del Sovrintendente ai monumenti P.G.
Biondi, riportatimi dallo storico Don Mario Bocci, pare che durante i lavori
di ristrutturazione dell’edificio, fossero state rinvenute diverse tombe
etrusche anche del periodo arcaico. Ne è testimonianza nelle vicinanze una
tomba a quattro celle sotto la Canonica databile attorno al IV secolo A.C.
Gli affreschi che si
trovano dipinti sui soffitti delle stanze nobiliari e soprattutto le grandi
pitture murali delle sale da ricevimento sono molto simili, per tecnica e
soggetto, a quelle dell’ex Palazzo Ricci, già dei Biondi nel 1800. La parentela
che esisteva tra i proprietari dei due palazzi favorì certamente una commissione
agli stessi decoratori e pittori per gli abbellimenti interni. Il Palazzo ex Ricci,
attualmente di proprietà comunale, fu di proprietà di Francesco Biondi,
fratello di Giuseppe che vi andò ad abitare dopo il 1785 quando formò un
proprio nucleo familiare. Attorno al 1826 questo immobile era assegnato ai
fratelli Giovan Carlo e Luigi Biondi del fu Francesco Biondi. In una delle sale
affrescate di questo palazzo, utilizzata impropriamente come ambulatorio
U.S.L., è impressa una data molto importante per datare l’esecuzione di questi
affreschi e quelli conservati in palazzo Biondi Bartolini. Questa è scritta in
numeri romani sopra un caminetto incassato nel muro e riporta l’anno 1810.
Con la costruzione
della nuova Piazza de Larderei nel 1860, l’immobile dei Biondi Bartolini
accatastato con la particella 316 aveva l’entrata principale indicata al numero
civico 44; secondo il “Registro dei possessori di fabbricati” del 1878 e del
1889 il suo valore era di lire 168, 75.
Il ponte
sul fiume Cecina, o “Ponte di Ferro” come viene chiamato dalle popolazioni
della Val di Cecina, è un nodo stradale molto importante sulla S. S. n° 439 per
i collegamenti tra l’Alta e la Bassa Val di Cecina.
Da quanto abbiamo potuto trovare nell’Archivio Storico Comunale di Pomarance,
la prima notizia sulla esigenza della costruzione di un ponte nel luogo
compreso tra il Piano delle Macie e la collina di Montebono risale al 24 agosto
1786. E’ infatti in questa data che, nel Libro delle Deliberazioni e dei
Partiti, risulta adottato quanto segue:
“Adunati i signori Gonfaloniere e Priori residenti nel Magistrato Comunitativo di Pomarance, Vicariato di Val di Cecina, in legittimo e sufficiente numero di cinque per trattare … OMISSIS…
Di poi fu fatta ostentabile
al Magistrato loro la lettera dell’III. mo Signor Filippo Giobert, colla quale
accompagna diversi quesiti relazionando al memoriale stato fatto sulla
costruzione del Ponte a Cecina … Deliberati deliberandis dissero commettersi
conforme commessero al Sig. Dott. Giuseppe Maria Biondi il replicare a detti
quesiti in quella forma, che crederà convenire, avendo ora per allora già
approvate le repliche e quelle spedirsi al nominato Sig. Filippo e tutto con
loro legittimo partito di voti favorevoli cinque nessuno contrario.
Sig.
Francesco Biondi Gonfa loniere”.
I motivi che inducono alcuni Particolari a perorare la causa della costruzione di un ponte sul fiume Cecina non ci è dato di conoscerli. In quegli anni infatti il traffico non era molto intenso e le persone che viaggiavano con una certa frequenza sulla Via Maremmana detta anche del Cerro Bucato (antico nome della S. S. n° 439) erano i Canovieri del sale delle Comunità dell’Alta Val di Cecina che si recavano al R. Magazzino di Volterra a fare il prelievo, il Procaccia che portava la posta da e per Firenze e Volterra, gli addetti al prelievo della polvere da “botta e da archibuso” presso i magazzini del Bastione di Volterra, i predicatori, gli addetti al trasporto dei malati di una certa gravità all’Ospedale di Volterra e saltuariamente gli uomini di Comune che dovevano sbrigare delle pratiche o a Firenze o a Volterra. Queste persone, a causa del carattere torrentizio del Cecina, specialmente nelle stagioni piovose trovavano un ostacolo pressoché insormontabile nel fiume ingrossato dalla pioggia per cui o attendevano che le acque calassero o ritornavano sui loro passi.
Un’ipotesi
probabile potrebbe essere quella di un suggerimento dato agli uomini del
Comune da una personalità
che
conosceva bene Pomarance ed i rischi di guadare il fiume quando questo era
ingrossato dalla pioggia.
In quegli
anni infatti una alta personalità di origine pomarancina veniva a trascorrere
un periodo di riposo nella casa paterna durante il mese di settembre. Era
questi il Sen. Carlo Alberto Biondi, cugino e fratello dei Biondi che
ricoprivano importanti cariche nel Comune di Pomarance.
Essendo il Biondi Consigliere Intimo Attuale dell’imperatore d’Austria nonché Presidente del Supremo Consiglio di Giustizia della Lombardia, gli uomini del Comune pensarono di poter sfruttare la sua influenza sul Granduca di Toscana che, fra l’altro, era fratello dell’imperatore d’Austria. La cosa però non sortì alcun risultato e del ponte sul Cecina non abbiamo trovato più notizie sino al 18 novembre 1795, data in cui torna a farsi sentire la necessità della costruzione di tale opera. Infatti, come risulta dalla seguente delibera, vennero delegati dal Gonfaloniere Anton Lorenzo Sorbi i signori Biondi e Contugi affinché si recassero a Firenze per fare opera di persuasione presso S. A.R. il Granduca.
Ponte Sospeso a catene sul Fiume Cecina (1902)
“A di 18 novembre 1795
Adunati i signori Gonfaloniere e Priori residenti nel Magistrato Comunitativo di Pomarance in legittimo e sufficiente numero di cinque per trattare servati servandis. Assente il sig. Dott. Giovanni Lenzi sebbene intimato … OMISSIS …
Di poi fu proposta la
necessità della costruzione di un ponte al passo del fiume Cecina divisorio tra
la Comunità di Volterra e quella di Pomarance con riprendere in esame tale
affare a loro volta proposto presso S. A. R. e perciò eseguire
Deliberati deliberandis dissero eleggersi e deputarsi, conforme eleggono e deputano i signori Dott. Giuseppe Maria Biondi e Michele Contugi anco di concerto e con intelligenza alla Comunità di Volterra facciano quelle relazioni e proposizioni che crederanno più convenienti e proficue al pubblico ed alle Comunità comprese nel Dipartimento di Pomarance e di quelle di Volterra e insieme all’interesse medesimo delle Saline addette alla Comunità di Volterra con rilevare il notabile vantaggio ancora che ne ridonderebbe per il pubblico Commercio. E tutto da approvarsi tali proposizioni e relazioni che verranno fatte da ambe le Comunità. E tutto con il legit timo partito di voti favorevoli cinque nessuno contrario.
Anton Lorenzo Sorbi Gonfaloniere.
Nonostante la loro buona volontà i due
delegati non ottennero alcun risultato e del ponte non se ne parlò più per
altri 40 anni circa.
In questo periodo il traffico andava
sempre più aumentando. Erano infatti state attivate le fabbriche di acido
borico in varie località dell’Alta Val di Cecina e quindi il prodotto doveva
essere trasportato in diverse parti d’Italia e all’estero tramite il porto di
Livorno. In Pomarance, proprio a causa deH’aumento di traffico, si resero
necessarie alcune opere come ad esempio l’abbattimento della Porta Maremmana e
l’allargamento del relativo tratto stradale che era divenuto pericoloso sia
per le persone che per gli animali.
Nel
dicembre dell’anno 1832 i componenti il Magistrato della Comunità di Pomarance
presero la seguente decisione:
“Adunati Servati Servandis gli Illustrissimi Signori
Gonfaloniere e Priori componenti il Magistrato della Comunità di Pomarance in
pieno numero di sei per trattare … OMISSIS…
Fatto presente dal loro Sig. Gonfaloniere ed altri Priori
del Magistrato di questa Comune che ricevono continuamente delle lagnanze
dalla popolazione di Pomarance non solo quanto ancora da quelle dei Castelli
e Comunità limitrofe perchè la strada che da Pomarance conduce a Volterra
unica che dia comunicazione alla Capitale, ed alle altre città principali del
Granducato, nel corpo dell’inverno si rende impraticabile ed inutile per essere
mancante di un ponte che cavalchi il fiume Cecina che taglia la strada medesima,
e che ordinariamente in tale stagione abonda talmente di acque che impedisce
assolutamente di essere guadato fino a tanto che almeno non siano quasi del
tutto scolate le di lui acque, le quali rodendo le sponde del proprio letto
guastano continuamente il passo che avanti ad una piena era guadabile ed
obbliga i passeggeri a fare con i loro legni dei lunghi ed incomodi giri sulla
rena e sul letto del fiume per trovare un passo che conduca alla strada
attraversando sopra i terreni dei possidenti adiacenti che reclamano una
servitù si variabile ma che necessariamente vien loro imposta
Considerando Essi III.mi Adunati che effettivamente senza
la costruzione di un ponte sulla Cecina nella stagione d’inverno resta
spessissimo interrotta la comunicazione di questa Comunità ed altre limitrofe e
che tale inconveniente pregiudica moltissimo al Commercio dei Comunisti non
solo quanto al trasporto del Sai Borace, e del Fame che in tanta abbondanza si
estrae dalle miniere esistenti ed aperte in questo territorio
Considerato che la rilevantissima spesa occorrente per la
costruzione di un tal ponte è assolutamente superiore alle forze della loro
Comunità che è aggravatissima per spese di tal natura
Fatte altre considerazioni, e rilievi, e dopo lungo, e
maturo colloquio
Modellino del Ponte Sospeso a catene che si trova nel Museo della Geotermia di Larderello
Deliberati deliberandis commessero
ed incaricarono il loro Signore Gonfaloniere di supplicare l’innata Bontà e
Clemenza deH’Augustissimo Nostro Sovrano a volersi degnare di assicurare una
permanente comunicazione delle città terre e castelli esistenti al di qua della
Cecina col rimanente del Granducato facendo costruire un Ponte al passo così
detto di Pomarance incaricandolo di fare una tal supplica di concerto con i
Signori Gonfalonieri di tutte le altre Comunità interessate, facendo tutti
quei rilievi che crederà opportuni non senza omettere però di avvertire che
questa Comune tanto più è impossibilitata a supplire e concorrere alla spesa del
Ponte da costruirsi in quanto che dopo tal costruzione è indispensabile che la
Comune faccia formare circa tre miglia di nuova strada che dal richiesto ponte
vada ad unirsi con quella oggi esistente; e ciò autenticarono per partito di
voti favorevoli cinque contrario nessuno non rendente il Sig. Gonfaloniere
come sopra indicato
Camillo Tabarrini
Gonfaloniere.
Dovettero ancora trascorrere quasi due anni prima che le popolazioni dell’Alta Val di Cecina vedessero deliberata la costruzione del ponte sul fiume Cecina da parte del Granduca Leopoldo II di Toscana. Infatti, solo agli inizi del 1834, il Granduca ne deliberò la costruzione ed affidò l’incarico e la direzione dei lavori a Francesco Larderel che sin dal 1818 aveva iniziato e sviluppato l’impresa boracifera dei Lagoni di Montecerboli e di altre località per la produzione di Acido Borico e Borace raffinato. Il Larderei chiamò in suo aiuto due ingegneri francesi, Francesco Tarpin e Tanislao Bigot i quali, molto probabilmente realizzarono il progetto del ponte e fecero venire dalla Francia quattro specialisti (due fabbri e due falegnami). Le rimanenti maestranze (contabili, interpreti, maestri muratori, manovali, terrazzieri, barrocciai, ecc.) furono reperite nelle Comunità della Val di Cecina.
I lavori furono iniziati il 18 marzo 1834 e terminarono il 18
giugno 1835.
Al ponte, lungo 75 metri comprese le spallette terminali ed
ubicato nello stesso luogo di quello odierno, fu realizzato in una sola
campata di circa 50 metri sorretta da due sistemi multipli di catene ed
ancorata a otto grandi pilastri in muratura. Le catene a loro volta furono
fissate al piano stradale, costruito con travi di legno ricoperte di terra e
largo 3 metri, mediante due serie di tiranti in ferro che davano al ponte una
ottima compattezza e solidità. Su uno dei pilastri fu installata una lapide,
consevata oggi nel Museo di Larderello insieme ad un modellino in scala del
Ponte sospeso.
Il costo
complessivo dell’opera fu di 285.000 lire fiorentine che, tenuto conto del
rapporto di 1 a 1.000 circa tra il valore d’acquisto della lira fiorentina del
1835 e quello della lira attuale, corrispondono a circa 2 miliardi e 850
milioni attuali.
Il ponte sospeso svolge il proprio servizio con perfezione fino alla notte tra il 6 e 7 settembre 1847 quando, a causa di una piena del fiume, crolla sotto la forza delle acque. Questo crollo mette a disagio tutte le popolazioni dell’Alta Val di Cecina che si rivolgono al Magistrato affinchè venga subito chiesta al Governo Reale la ricostruzione. Il 25 ottobre in una riunione dei componenti il Magistrato della Comunità di Pomarance “… Richiedono che la presente loro deliberazione sia inviata al Regio Trono per l’organo dell’III.mo Sig. Provveditore, affinchè voglia degnarsi di dare le opportune disposizioni aU’effetto che non venga più a lungo ritardata la ricostruzione del piano stradale e porzione della Pila del diroccato Ponte Sospeso per varcare liberamente e con tutta sicurezza il fiume Cecina sulla linea della Strada Provinciale Massetana ed i vettori specialmente dell’Acido Borico possano liberamente trasportarlo alla Piazza di Livorno e procurarsi con tale mezzo il proprio sostentamento e quello delle loro famiglie. Con partito di voti favorevoli 6 e nessuno contrario”.
I
lavori furono iniziati il 18 marzo 1834 e terminarono
il 18 giugno 1835.
Al ponte, lungo 75 metri comprese le spallette terminali ed
ubicato nello stesso luogo di quello odierno, fu realizzato in una sola
campata di circa 50 metri sorretta da due sistemi multipli di catene ed
ancorata a otto grandi pilastri in muratura. Le catene a loro volta furono
fissate al piano stradale, costruito con travi di legno ricoperte di terra e
largo 3 metri, mediante due serie di tiranti in ferro che davano al ponte una
ottima compattezza e solidità. Su uno dei pilastri fu installata una lapide,
consevata oggi nel Museo di Larderello insieme ad un modellino in scala del
Ponte sospeso.
Il costo
complessivo dell’opera fu di 285.000 lire fiorentine che, tenuto conto del
rapporto di 1 a 1.000 circa tra il valore d’acquisto della lira fiorentina del
1835 e quello della lira attuale, corrispondono a circa 2 miliardi e 850
milioni attuali.
Il ponte
sospeso svolge il proprio servizio con perfezione fino alla notte tra il 6 e 7
settembre 1847 quando, a causa di una piena del fiume, crolla sotto la forza
delle acque. Questo crollo mette a disagio tutte le popolazioni dell’Alta Val
di Cecina che si rivolgono al Magistrato affinchè venga subito chiesta al
Governo Reale la ricostruzione.
Il 25 ottobre in una riunione dei
componenti il Magistrato della Comunità di Pomarance “… Richiedono che la presente loro deliberazione sia inviata
al Regio Trono per l’organo dell’III.mo Sig. Provveditore, affinchè voglia
degnarsi di dare le opportune disposizioni aU’effetto che non venga più a lungo
ritardata la ricostruzione del piano stradale e porzione della Pila del
diroccato Ponte Sospeso per varcare liberamente e con tutta sicurezza il fiume
Cecina sulla linea della Strada Provinciale Massetana ed i vettori specialmente
dell’Acido Borico possano liberamente trasportarlo alla Piazza di Livorno e
procurarsi con tale mezzo il proprio sostentamento e quello delle loro
famiglie. Con partito di voti favorevoli 6 e nessuno contrario”.
Pomarance
continua ad espandersi fuori dalle mura e sorgono nuove costruzioni nella zona
del Treppiede e fuori Porta Volterrana.
Il Ponte
sul fiume Cecina viene riconosciuto come opera di basilare importanza per lo
sviluppo economico dell’Alta Val
di Cecina e
quindi il Magistrato Comunitativo viene invitato a pronunciarsi circa il nuovo
modo in cui dovrà essere ricostruito.
Il 3 marzo
1848 giunge al Comune una “ Officiale” della Regia Camera di Pisa riguardante
la ricostruzione del ponte.
Il 16 marzo
successivo si riunisce il Magistrato Comunitativo di Pomarance e visto che
nella “Officiale” viene ordinato di ricostruire il ponte a carico delle
Comunità interessate; che anche le Comunità di Massa Marittima e Grosseto
traggono vantaggio dal transito sulla Strada Provinciale Massetana che
attraversa le Terre di Pomarance poiché, ora che il ponte è interrotto,
devono percorrere la via più lunga dell’Emilia; e che la precedente costruzione
era stata eseguita secondo le prescrizioni della “Sovrana Resoluzione” del 19
giugno 1835; deliberano di “essere pronti a
contribuire la quota che per la richiesta loro occorrente alla ricostruzione
del Ponte sul Fiume Cecina gli può spettare pagabili secondo le proprie forze
amministrative; e domandano che a questa spesa siano chiamate non solo tutte
quelle Comunità che sono comprese nel circondario castellabile del tratto di
strada ove ricorre il Ponte da ricostruirsi, ma tutte le altre ancora che
risentono in generale un interesse nel sicuro transito del Fiume Cecina
E frattanto rendono le più sentite grazie a S. A. S. Reale /Amatissimo Sovrano Leopoldo II per la fatta dichiarazione di far contribuire a questa spesa la Reale Azienda del Sale con un discreto contributo
Lapide posta sul pilone del Ponte di Ferro (Museo Larderello)
E tutto quanto sopra con Partito di voti Favorevoli 7 e nessuno contrario Donato Metani Gonfaloniere”.
Le difficoltà per le vetture e i viandanti
continuano ed il 22 aprile 1848 due passeggeri rischiano di affogare a causa di
una piena. Il 6 maggio successivo, in seguito ad una “Officiale” del Prefetto
del Circondario di Pisa che rende noto agli Amministratori del Comune il
Progetto dell’ispettore delle Acque e delle Strade del Compartimento
Fiorentino per la ricostruzione del Ponte, il Magistrato si riunisce per
deliberare in quale modo e luogo si debba ricostruire il Ponte.
Esaminati i
progetti presentati dall’ispettore delle Acque e delle Strade del
Compartimento Fiorentino, Sig. Maurizio Zannetti, in uno dei quali si prevede
di ricostruire il Ponte Sospeso con catene di ferro nello stesso luogo e nello
stesso modo del precedente con una spesa preventiva di lire 115.750,95 e
nell’altro di ricostruirlo ex novo a tre arcate presso il podere Cerreto di
fronte alle Vecchie Saline di San Lorenzo con una spesa preventiva di lire
196.471,69, viene dato il seguente parere:
“Dichiarano che sono di parere doversi ricostruire il Ponte
sul Fiume Cecina nel sito ove era già quello diruto
E che debba essere della qualità dei Ponti Sospesi con
catene di Ferro
Con partito di voti Favorevoli 6 nessuno contrario.
E tanto più confermano il proposto progetto in quanto che
sono nella Lusinga che il Signor Cavaliere Conte de Larderei
possa nella peggiore ipotesi assumerne la costruzione con
la somma di lire Centomila
E tutto ratificarono e
confermarono con Partito di voti Favorevoli 6 e nessun contrario”
Il 1848 è l’anno in cui tutta l’Italia è
scossa dalle agitazioni democratiche ed anche a Firenze si scatenano lotte
rivoluzionarie. Il Granduca fugge e ritorna alcuni mesi più tardi scortato
dagli Austriaci che lo reinsediano sul Trono.
Fino al 1852 si discute su come
ricostruire il Ponte sul Cecina e, poiché la spesa è notevole, ci si domanda
se sia meglio sfruttare le parti del vecchio Ponte di Ferro o ricostruirlo ex
novo in pietra.
Il 25 agosto 1852 il Consiglio Comunale
delibera quanto segue:
“Informato il Consiglio Comunale da alcuni residenti,
che dalla Direzione d’Acqua e Strade era stata data commissione allo Ingegnere
Distrettuale di fare un progetto per la ricostruzione di un Ponte Sospeso sul
Fiume Cecina al passo della già esistente Strada Provinciale Massetana detta
del Cerro Bucato
Visto Tart. 52 lettera A della L.C. de! 20 novembre 1849 in
ordine al quale i Consigli Comunali possono emettere Deliberazioni sui progetti
di spese da eseguirsi a spese del Comune o col suo concorso
Attesoché alla spesa della ri costruzione del Ponte di che
si tratta fra le altre Comuni deve concorrervi anche quella di Pomarance da
Loro Amministrata
Attesoché la ricostruzione del Ponte sulla Cecina che
interessa la comunicazione di questa Provincia è necessario che offra una
permanente stabilità
Attesoché sebbene a prima
vista sembri conveniente per risparmio di spesa il ricostruire il detto Ponte
di Ferro traendo profitto dal materiale tuttora esistente, pur nonostante
resterebbe da esaminarsi se la minore spesa che potrebbe occorrere per la
ricostruzione del Ponte Sospeso predetto fosse da preferirsi alla maggiore
spesa che occorrerebbe per la nuova costruzione di un ponte di pietra a fronte
della instabilità dell’uno colla stabilità dell’altro, ed a fronte ancora della
continua manutenzione e forte spesa che abbisogna pel primo, e della minore che
occorre per il secondo; per questi motivi e nel solo desiderio di vedere una
volta ricostruito il ponte di che si tratta, e per quanto si può nel più
stabil modo, il Consiglio osa pregare il Sig. Prefetto a volersi compiacere
d’incaricare l’ingegnere di Distretto, o l’ingegnere in capo del Compartimento
a fare gli studi necessari per conoscere la spesa occorrente, onde costruire
nel luogo suindicato un ponte di materiale con la massima economia, valutando e
confrontando tutto considerato, se avvi maggior convenienza stante la
specialità dalle circostanze a rifare un ponte di ferro simile a quello che
rovinò, o a sostituirne uno di materiali vendendo il ferro che tuttora esiste,
con partito di voti favorevoli 16 nessun contrario”.
Veniva quindi richiesto un nuovo progetto
che doveva essere affidato o ailing. Distrettuale o all’lng. Capo del
Compartimento.
Passò quasi un anno ed il 2 luglio 1853
giungeva una “Officiale” dalla Prefettura di Pisa che richiamava il Consiglio
Comunale ad emettere una delibera per approvare il nuovo progetto di
ricostruzione del Ponte diruto.
Il Consiglio Comunale, riunitosi il 18
luglio successivo, deliberava:
“A di 18 luglio 1853
Letta la Officiale della Prefettura di Pisa del dì 2 luglio
andante, colla quale mentre accompagnava la perizia compilata dall’lng. in
Capo Sig. Ridolfo Castinelli relativa alla ricostruzione del diruto ponte a
catene di ferro sul fiume Cecina al passo della Strada Provinciale Massetana,
venivano Essi Signori adunati richiamati ad emettere su tal proposito la opportuna
deliberazione;
Udito che la ricostruzione del Ponte che sopra sull’antico
sistema e precisa ubicazione del primo profittando della vecchia fiancata alla
sponda destra del fiume e dei ferramenti ed altri materiali raccolti dopo la
rovina vi occorreva la spesa di L. 58.000;
Attesoché ricostruendo il ponte a catene di ferro oltre a
ristabilirsi sicuro e permanente il passo della Cecina viene anche a
commettersi una spesa assai minore di quella che sarebbe occorsa per la
costruzione sul fiume medesimo di un ponte di materiale;
Attesoché niun dubbio può a senso loro elevarsi sulla
utilità e vantaggio che a causa di questo ponte tornano a risentire nuovamente
tutte quelle pubbliche Amministrazioni che contribuirono per la primitiva
costruzione del ponte ridetto, cosicché repartendo tra esse nel modo tracciato
dall’art. 2 Venerabile Legge del 21 agosto 1843 la presagita somma di L.
58.000, la quota spettante alla Loro Comunità sarà sempre minore di quella da
essa corrisposta nella sua prima costruzione.
Deliberati deliberandis, approvarono e approvano per
quanto loro può spettare il progetto stato compilato dal predetto Sig. Ing. in
Capo Cav. Ridolfo Castelletti fino dal dì 27 gennaio anno corrente, e
convennero che la Comunità di Pomarance concorra nel modo sopraindicato alla
ricostruzione del ponte surriferito, e frattanto attese le limitate finanze di
essa e per non elevare di troppo l’annua imposta domandano al Governo un
sussidio, o l’anticipazione almeno delle somme occorrenti per la esecuzione del
lavoro da rimborsarsi dalle Comuni interessate a modiche annue rate, lusingandosi
Essi Signori adunati, che saranno secondati i loro desideri in vista della
utilità grande che è per risentire la I. R. Amministrazione delle Saline col trasporto della legna
che in gran parte transiteranno sul ponte in progetto.
E tutto quanto sopra ratificarono, con partito di voti 15
favorevoli contrario nessuno.
Dr. Giuseppe Biondi Bartolini
Gonfaloniere”.
Il 28
gennaio 1854 giunge la tanto sospirata approvazione con cui si autorizza la
ricostruzione del ponte, ed il 3 aprile successivo viene deliberato:
“A dì 3 aprile 1854
Letta la Officiale del Compartimento Pisano del 28 gennaio
anno corrente colla quale rende noto che S.A.I.R. con veneratissimo Rescritto
comunicato dal Ministero
dell’interno con dispaccio del 28 gennaio detto, mentre si era degnata approvare la ricostruzione del Ponte di Ferro sul Fiume Cecina, aveva altresì ordinato che la spesa relativa stata presagita in L. 58.000 pagar dovesse per un terzo a carico del Regio Erario e per gli altri due terzi a carico delle Comunità collettabili della seconda e terza Sezione della Strada Provinciale Massetana, e che le suddette Comunità che sono Volterra, Montecatini, Pomarance e Castelnuovo erano autorizzate a prendere a mutuo la somma necessaria per far fronte al contributo dimissibile in rate annuali in proporzione delle loro risorse, e che la quota di contributo spettante alle Comunità suddette principiasse a decorrere nel futuro anno 1855.
Se ne chiamarono intesi e notificati con Partito di voti
quattro favorevoli.
Dr. Giuseppe Biondi Bartolini
Gonfaloniere “
La ricostruzione del Ponte Sospeso a
catene di ferro pose termine ai disagi delle popolazioni e di coloro i quali,
dovendo trasportare il Borace e l’Acido Borico da Larderello a Livorno e la
legna dai boschi di Berignone a Saline, erano costretti a guadare il fiume con
non pochi rischi da affrontare.
Il Ponte di Ferro Sospeso svolse il
proprio servizio sino al maggio 1922 quando a causa della evoluzione tecnica
dei mezzi di trasporto non venne più ritenuto idoneo. Infatti si era passati
dai barrocci trainati dai cavalli alle automobili ed ai camions. Questi
ultimi erano molto più pesanti e larghi dei barrocci per cui non essendo le
caratteristiche costruttive del ponte idonee a sopportare tali carichi, fu
decisa la sua demolizione e la sua sostituzione con un nuovo ponte in cemento.
La
demolizione avvenne il 25 maggio 1922 a 87 anni dalla costruzione.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
LA COMUNITÀ’ DI POMARANCE – Rievocazioni Storiche di E. Mazzinghi – Anni 19 – 19
ARCHIVIO STORICO COMUNALE – Deliberazioni e Partiti della Comunità di Pomarance – Filze 127, 129, 137, 141, 148, 150.
BIBLIOTECA MUSEO DELLA GEOTERMIA LARDERELLO – Trattati di Domenico Cioni 1785- 1835.
R. NASINI – I soffioni e i lagoni della Toscana e la industria boracifera – Ed. 1930
Fin dalla più remota antichità protostorica il Volterrano
è sempre stato conosciuto come un territorio ricco di risorse naturali e, come
tale, continuamente frequentato e lungamente investigato col preciso scopo di
ricercarne e coltivarne gli svariati giacimenti minerari, di sfruttarne le
diffuse acque minerali e terapeutiche o, più semplicemente, per tentare di comprendere,
studiare e descrivere i suggestivi e inconsueti fenomeni naturali (soffioni,
bulicami, putizze , lagoni ecc.) che in esso si riscontrano.
La storia economica legata allo sfruttamento medievale
delle risorse minerarie del Volterrano – specialmente per quanto riguarda lo
zolfo, l’allume e il vetriolo – è stata, com’è noto, ampiamente ricostruita e
documentata da Fiumi (1) il quale ha così permesso di valutare e di determinare
con maggior precisione il ruolo fondamentale svolto dall’estrazione e dal
commercio di queste materie prime (alle quali bisogna aggiungere il salgemma)
nell’economia della zona durante tutto il Medioevo.
Le numerosissime evidenze naturalistiche e minerarie del Volterrano hanno quindi sempre esercitato indiscutibili e rilevanti motivi d’interesse sia, ovviamente, in vista di un loro potenziale sfruttamento economico (2) , sia, ed è ciò che qui ci interessa, sotto l’aspetto della descrizione e dell’enumerazione fenomenologica delle più svariate manifestazioni e produzioni naturali.
A testimonianza di questo aspetto
documentario-memorialistico sull’area in esame sta tutta la serie di relazioni
redatte .sempre più frequentemente a partire dalla metà del Quattrocento, da
viaggiatori, storici, geografi, ufficiali e naturalisti allo scopo di
evidenziare, illustrare e valorizzare questo non comune patrimonio di risorse
e nel preciso intento sia di incoraggiarne o svilupparne lo sfruttamento sia
di indicare, emblematicamente, le vestigia e le
tracce delle più antiche attività a tale fine intraprese.
A quanto risulta, la prima di queste relazioni (a noi purtroppo non pervenuta) fu compilata dall’artista volterrano Zaccaria Zacchi (1474-1544) che “descrisse tutto quello che gli venne osservato, non tanto dei residui e artefatti della bella Antichità, quanto ancora le produzioni naturali più ragguardevoli, come acque minerali, miniere, pietre ecc. Il P. Leandro Alberti e il P.Giovannelli hanno veduto questa descrizione manoscritta e ne hanno pubblicato un miserabile compendio, dal quale si viene in cognizione che essa doveva esser bellissima e di somma importanza. Ella non è giammai pubblicata colle stampe, anziché non si sa più dov’ella sia’’ (3). Purtroppo, tutte le ricerche svolte a più riprese nel corso del tempo per rintracciare il documento (a Volterra, a Firenze, a Bologna) sono sempre risultate vane (4), facendo così temere seriamente che esso debba ormai considerarsi, salvo imprevisti, irrimediabilmente perduto. E non si tratta certo di una perdita da poco se pensiamo, per contrasto, che gli analoghi scritti successivi di Leandro Alberti (5) e di Mario Giovannelli (6) parvero al Targioni Tozzetti solo “un miserabile compendio” di quel prezioso originale. In realtà la descrizione data da Leandro Alberti del territorio volterrano, benché forzatamente sintetica (in quanto inserita in un’opera di carattere generale sull’Italia) possiede un duplice motivo di interesse poiché oltre al suo intrinseco valore documentario può forse permetterci di immaginare, seppure a grandi linee, quale doveva essere lo schema di base che ordinava lo scritto di Zaccaria Zacchi: inizialmente la Descrittione di tutta Italia (1550) illustra, procedendo in senso orario, gli immediati dintorni di Volterra (Montebradoni, Portone, Ulimeto, Monte Nero, Monte Voltraio) per poi dirigere l’attenzione verso i borghi sparsi nel territorio a Sud della città, il più ricco di risorse minerarie e di produzioni naturali (Saline, Pomarance, Libbiano, Monterufoli, Montecerboli, Castelnuovo, Leccia, i vari Bagni, Monterotondo, Lustignano). Da qui in avanti, però, la decrizione perde un ordine logico preciso, una direzione di marcia chiara e preordinata; si passa infatti da Spicchiaiola a Silano a S.Dalmazio per poi tornare indietro verso Casole d’Elsa, Mazzolla e Roncolla. Di tutti luoghi citati vengono menzionate le peculiarità naturalistiche o minerarie dedicando solo brevissimi accenni alle attività estrattive eventualmente in atto o alle tracce dei lavori antichi. In altre parole siamo di fronte ad una panoramica del territorio realmente “a volo d’uccello“ che però serve, nonostante tutto, a “fotografare11 quali erano lo stato delle conoscenze sulle produzioni naturali del Volterrano e la situazione del loro sfruttamento alla metà del Cinquecento.
Carta mineraria schematica del territorio volterrano alla metà del Seicento
Ad arricchire il quadro di queste descrizioni cinquecentesche contribuisce poi un altro documento, stavolta manoscritto: si tratta di una relazione stilata nel 1580 dal Capitano Giovanni Rondinelli e diretta al Granduca di Toscana Francesco de’ Medici (7). In questo rapporto, dopo un’introduzione di carattere storico-geografico relativa a Volterra, dopo aver trattato brevemente della situazione idrica del capoluogo e del territorio e dopo aver descritto le possenti mura volterrane, l’Autore passa ad illustrare la condizione attuale (numero dei fuochi,situazione economica, caratteri produttivi peculiari) dei vari borghi del circondario. È a questo punto che Rondinelli inizia la vera e propria enumerazione delle varie “doti, virtù e ricchezze” del territorio volterrano applicando a tale scopo uno schema tematico- gerarchico che da questo momento in poi è stato spesso adottato da quanti si sono occupati in seguito della questione e che è strutturato in base al seguente criterio ordinatore: miniere d’oro, miniere d’argento, miniere di rame, calcedoni e diaspri, travertini e marmi (broccatelli), sale, allume, vetriolo, zolfi gialli e neri, bagni e lagoni.
Dopo questi due casi, il Cinquecento fornisce la sua ultima trattazione illustrativa del Volterrano con l’ottavo libro della Storia dell’antichissima città di Volterra del volterrano Lodovico Falconcini (1524-1602). In quest’opera, scritta in latino nel 1589 e stampata (tradotta con testo originale a fronte) solamente nel 1876 (8), l’Autore passa tra l’altro in rassegna tutte le località rilevanti sotto l’aspetto storico e naturalistico riportando osservazioni e notizie di grande interesse e offrendo talora al lettore preziose annotazioni e particolari del tutto inediti, come nel caso, ad esempio, delle miniere di Montecastelli e di Querceto o dei Bagni di S.Michele delle Formiche presso Montecerboli.Per comodità del lettore diamo di seguito l’elenco delle località illustrate dal Falconcini ,avendo cura di evidenziare graficamente in corsivo quelle su cui si soffermò maggiormente l’attenzione dell’Autore: Monte Nero, Cozzano, Pignano, Berignone, Pomarance, S.Michele delle Formiche, Montecerboli, Morba, Castelnuovo, Sasso, Lustignano, Leccia, Serrazzano, Libbiano, Micciano, Monterufoli, Montegemoli, Querceto, Montecastelli, Silano, S.Dalmazio, Radicondoli, Montecatini, Buriano, Miemo.
Per quanto riguarda il secolo successivo preferiamo
sorvolare sulla già citata Cronistoria di Mario Giovannelli, pubblicata
nel 1613, in quanto altro non può essere considerata che una copia piuttosto
fedele della già ricordata descrizione di Leandro Alberti.
Ricerca di vene metallifere nel Medioevo (da G. Agricola – De Re Metallica – Basilea, 1556)
In verità, sebbene la storia mineraria del Volterrano durante il Seicento non sia molto conosciuta, appare chiaro, come vedremo, che le attività estrattive e commerciali legate alle risorse del sottosuolo dovevano stagnare ancora nello stato di crisi e di abbandono in cui erano venute a trovarsi sempre più nel corso del secolo precedente. Dal 1472 agli ultimi decenni del ’500 la società e l’economia del Volterrano subirono infatti una profonda trasformazione dovuta, tra l’altro, sia alla forzata integrazione politicoistituzionale nello stato fiorentino che alla prolungata fase di progressiva specializzazione che dalla fine del Quattrocento sembra caratterizzare l’economia toscana.
Per quanto ci riguarda direttamente, queste nuove
condizioni economico-sociali di necesario riassestamento dei vari settori
produttivi segnarono il marcato declino delle attività connesse allo
sfruttamento delle risorse minerarie del Volterrano: il commercio dei prodotti
minerari del territorio (nella fattispecie il vetriolo e lo zolfo) venne
meno, la scoperta dell’allume si rivelò illusoria, mentre l’unica eccezione di
tutto rilievo in questo caso di generale abbandono fu rappresentata dall’estrazione
del salgemma la cui “industria1‘ conobbe un’interessante continuità
produttiva. A questa generalizzata crisi delle attività minerarie della zona
si accompagnò inoltre una decisa accentuazione del carattere agricolo
dell’economia volterrana e una decisa espansione delle grandi proprietà
terriere. (9)
Nel settore minerario questa generale linea di tendenza
negativa si protrasse anche nel Seicento, periodo durante il quale la forte
contrazione subita dai settori estrattivi (e alla quale certo non fu estranea
la terribile pestilenza del 1630) condusse al conseguente ristagno generalizzato
o, nella maggior parte dei casi, addirittura alla completa cessazione di questi
generi di attività economiche.
Per quanto riguarda ad esempio l’estrazione del rame sappiamo che sia le celeberi miniere di Montecatini Val di Cecina che quelle di Montecastelli dopo il 1630 cessarono la propria attività fino al 1636 quando uno sfortunato tentativo di ripresa dei lavori attuato a Montecatini determinò la chiusura di entrambe le miniere per tutto il secolo. Analogamente, è noto che anche le meno importanti “ramiere” di Montecerboli restarono abbandonate durante tutto il Seicento e che, nella zona, analogo destino toccò pure a tutti i giacimenti fino ad allora più o meno sfruttati di minerali metalliferi. Fortunatamente ad aiutare lo storico e l’economista nello studio e nella ricostruzione di questo aspetto della realtà economica locale seicentesca, esiste presso la Biblioteca Guarnacci di Volterra una relazione manoscritta (10) compilata intorno alla metà del Seicento dal volterrano Raffaello Maffei (1605-1673), Provveditore dei sali e della Fortezza (11). Si tratta di una descrizione abbastanza accurata, e per certi versi originale e dettagliata, relativa alle cose notevoli del Volterrano, alle ricchezze del suo sottosuolo e alle antiche vestigia, ancora visibili, che dallo sfruttamento di quelle notevoli risorse avevano tratto origine.
Dal punto di vista morfologico il mano
scritto si compone di un fascicolo di 13 carte numerate; il testo è incompiuto
e dalle note apposte successivamente sul foglio di guardia che contiene il
fascicolo si rileva che lo scritto era diretto a un religioso. Circa la
datazione essa è sicuramente posteriore al 1625, anno di pubblicazione del De
Mineralibus del volterrano Giovanni Guidi, di cui si trova preciso
riferimento nel testo.
L’argomento della relazione è
chiaramente espresso nel titolo conferitogli in seguito: Discorso sopra i
residui d’antichità di Volterra. Bagni e acque termali. Saline e acque salse.
Minerali, e risulta così ripartito:
antichità volterrane:
cc. 1r – 4r;
bagni e acque termali:
cc. 4v – 8v;
saline e acque salse:
cc. 8v – 10v;
minerali: cc. 10v – 13v (incompiuto).
Per quanto riguarda l’aspetto che qui ci
interessa fermeremo pertanto l’attenzione sull’ultima parte,
intitolata,.appunto, De i Minerali; essa risulta infatti molto interessante
sia perché tra le varie sezioni del Discorso del Maffei è senza dubbio la meno conosciuta e la meno citata sia perché
rispetto alle altre relazioni (precedenti, coeve o anche successive) di
analogo argomento appare in alcuni casi più precisa, più dettagliata e più
informata, quindi per noi più utile.
In particolare i punti di
novità e di originalità che vi si riscontrano si possono così riassumere:
la notizia, citata poi da Fiumi (12), che immediatamente sotto la rupe su cui sorge il castello di Fosini, ovvero lungo il Botro Ripenti o Riponti (un piccolo tributario del Pavone) si ebbero anticamente escavazioni di oro. Anche se quasi certamente si trattò di galena argentifera (o meglio, di tetraedrite) tutto ciò appare confermato dal fatto che all’epoca del Maffei le tracce di quell’attività erano ancora riconoscibili sul terreno e che un pezzetto di quel minerale “purgato dal fuoco” era stato lì rinvenuto pochi anni prima. In questo caso, a differenza di quanto accade quasi inevitabilmente in questo genere di relazioni, il Maffei offre un’informazione topograficamente precisa su un lavoro minerario fino ad allora trascurato dai cronisti;
la testimonianza di antichi lavori intrapresi presso il Monte S.Croce dove analoghe escavazioni di oro e di argento, sebbene citate di sfuggita, appaiono qui finalmente segnalate. La notizia è interessante poiché in precedenza questa località non veniva di solito menzionata nelle trattazioni del genere, sebbene fosse noto che in passato vi erano state svolte ricerche ed attività estrattive (13). Dal Maffei giunge dunque la conferma dell’antichità dei lavori e la testimonianza che ai suoi tempi la “cava” era in attività;
la suggestiva e prolungata descrizione incentrata sulla riscoperta delle miniere di rame presso Prata, in luogo detto allora Piano di Siedi;
la conferma che durante il Seicento le miniere di rame attivate nel secolo precedente presso Montecerboli, in luogo detto le Maltagliate, versavano nel più completo stato di abbandono(14);
la segnalazione di antiche ricerche di rame intraprese sul Poggio di M/emo(15);
la notizia dell’esistenza di una miniera di piombo presso Montecerboli in luogo detto Botro a Tracolle, dove erano ancora visibili i resti dell’edificio ad essa attiguo e dove si riscontravano abbondanti testimonianze che almeno la prima fusione del minerale doveva avvenire sul luogo;
una brevissima ma preziosa illustrazione qualitativa delle cave di vetriolo presso Libbiano (in luoghi detti La Giunca e Tigugnano) e la segnalazione di analoghi lavori condotti a Porciniano (16) e alla Striscia (17).
la generale conferma che alla metà del ’600, tranne le poche eccezioni legate all’estrazione del vetriolo (a Monterotondo M.mo e alla Striscia) e alla produzione del salgemma, l’attività mineraria nel Volterrano versava nel più completo abbandono e che l’estrazione e il commercio dei minerali metallici erano praticamente fermi.
Una miniera del Cinquecento (da G. Agricola – De Re Metallica – Basilea, 1556)
Per tutti questi motivi
riteniamo opportuno proporre all’attenzione e alla conoscenza dei lettori
questo breve documento che aiuta in qualche modo a far luce su un aspetto
molto importante ma non completamente conosciuto della storia economica del
Volterrano durante il XVII secolo e che contribuisce, nel suo piccolo, a far
meglio comprendere l’evoluzione storica e topografica delle attività
estrattive legate ad alcune risorse minerarie del nostro territorio.
Angelo MARRUCCI
R. MAFFEI – Discorso
sopra i residui d’antichità di Volterra.
Bagni e acque termali.
Saline e acque salse. Minerali, metà sec.XVII. Volterra, Biblioteca Guarnacci, Ms.5819 (Lll.5.2)
De
i Minerali
Ma per dar principio a i Minerali stimo
che havendo la P.V. per benignità sua dato piena fede alla mia relazione
dell’acque termali che si trovano in questo contorno e sapendo essa molto bene
che le qualità peregrine delle quali quest’acque son dotate non d’altronde pervengano loro che da luoghi sotteranei
per i quali esse vanno scorrendo prima di venire alla luce, sarà (credo io)
senz’altro persuasa che i medesimi luoghi siano ripieni di quelle cose che son atte a contribuire le virtù che di quell’acque si
raccontano, e perché queste sono ordinariamente minerali e mezze minerali ne
seguirà in necessaria conseguenza che il paese sia abondantemente ripieno di
miniere.
E non solamente la ragione ci persuade quanto io le dico, ma le autorità d’infiniti scrittori ce ne fan certi, le quali tutte tralasciando come a Lei molto ben note, mi basterà addurre come men vulgata l’autorità di Gio. Guidi nel principio della sua Mineralogia Legale in queste parole: nulla Urbs, nullave ditio, ne dum huius Provin- ciae, sed totius etiam Italiae, tot tantisque regalibus naturae, ac Dei Optimi Maximi donis abundet, quemadmodum territorium Urbis Volaterrarum constat. Nam praeter Salinarum numerum, et facunditatem adsunt Auri, Argenti, Lapillorum, adsunt AEris, adsunt Aluminis, Sulphuris, Vitreoli, Ferri, Plumbi, Stamni et aliorum fere omnium Mineralium, ita peremnes venae, ut nullus in hac ditione mons emineat, nullus quamvis humilis coll is appareat, qui non aliquam metallicam Venam in sinu eius contineat, atque abscondat (*)•
Ma è superfluo affaticarsi con le ragioni e con le autorità
di provare quello che si vede chiaro dall’evidenza del fatto poiché di tutte le
sopradette cose l’esperienza ci ammaestra e l’occhio ne è oculato testimonio.
E per dar principio dalle miniere dell’argento e dell’oro dico che se bene non sono state queste ne tempi moderni esercitate, tuttavia e dalle scritture e dalle tradizioni e dalle vestigie di quegli edifizi e dalle cave si viene in cognizione che nel Monte della Nera vicino alla Città tre miglia vi è la vena dell’oro. Similmente in un Monte vicino al Castello di Querceto vicino a qui nove miglia ve n’è un altra vena e si vede esserci stato cavato.Nella Contea di Fosini di questa Diocesi non solo si vede esserci una simil cava in luogo che si chiama Botro Ripenti, ma poch’anni sono un contadino del luogo s’abbatté a trovarne un pezzetto purgato dal fuoco, il che dà chiaro indizio esser già la detta cava stata esercitata. Ma più chiare se ne vedono le vestigie nel territorio di Gerfalco di questo Vescovado, dove in un Monte detto di S.Croce vi sono di presente diverse buche donde si cava la miniera dell’oro e dell’argento, ed io ho veduto alcuni istrumenti antichi di locazioni fatte di beni di questo luogo da i Vescovi di Volterra cum Aurifodinis et Argentifodinis. Né solo delle cave predette trovo riscontri molto chiari, na apparisce in uno istrumento del 13 di settembre 1277 che Messer Tolomeo Tolomei rinunzia a Messer Ranieri Vescovo di Volterra le cave d’Argento di Montieri; anzi che nel 1257 si trova che il Vescovo Galgano II, come dice il Giovannelli, concede a Guido Tolomei licenza di batter moneta nel Comune di Montieri. Apparisce ancora un indulto di Carlo IV Imperatore dato in Pisa (s’io non ho male inetso) sotto il dì 22 maggio 1355 dove esenta Filippo Vescovo di Volterra dal pagamento di 60 marche d’Argento per esser mancate le miniere di Montieri, mediante la peste e la guerra. Queste cave d’Argento in Montieri furono molto famose e furono ritrovate da alcuni de Tolomei Gentil huomini Senesi l’anno 1175 nel tempo apunto che viveva S.Galgano e tuttavia si vedono dette cave et il paese all’intorno pieno di loppe e ceneracci. Ma più cospicue sono le cave del Rame delle quali la più moderna è quella di M.Catini fatta aprire et esercitare fino l’anno 1580 dalla felice memoria del Gran Duca Francesco e poi tralasciata alla sua morte per essersi gl’altri Principi successori più applicati ad altre gloriose imprese. Questa miniera s’estende per lungo tratto sotto le radici d’alti Monti per la schena de quali si vedono molte buche che servivano per l’esalazione de fiati e vi sono diverse caverne più basse per le quali si dava l’esito all’acque. Ma la cava reale ha un ampia bocca in hoggi tutta ripiena d’acqua poiché si può credere che gl’esiti per i quali si smaltisca siano otturati.
Nel territorio di Monte Rotondo di questa Diocesi vi sono pozzi molto spessi e di quivi ancora fu già cavato il Rame vedendovisi gran quantità di loppe e di Marcassite con segni evidenti della miniera.
Ma sopramodo meravigliose sono le cave del rame nel
territorio di Prata anch’egli sottoposto in spirituale a questo Vescovo,
ma in temporale territorio senese, dove nel luogo che si chiama piano di
Sierli sono quelle famose miniere dette Porta di ferro dalle quali
si cavava il Rame con un poco d’Argento e da persona che l’ha riconosciute
d’ordine del Serenissimo principe Mattias mi vie
referto che entrato egli con sei huomini per li Cavi Reali e per gl’altri
minori e camminando per le viscere della terra e talvolta andando carpone e
passando molti pericoli d’animali sotterranei e d’acque freddissime e correnti,
videro esserci quasi un labirinto di strade e stradelle che dura quasi due miglia
senza però potere andare in ogni luogo perché molti viali sono ricoperti dalle
rovine. Trovorono ivi la miniera del rame con i suoi filoni e più di 300 pozzi
i quali vanno a ferire i Cavi ma per lo più guasti e rovinati et i Cavi
medesimi sono grandissimi stanzoni e di vastezza così mostruosa che sarebbe
incredibile il dire la loro vastità. Sono ancora le cave del Rame vicino al
Castello di Monte Cerbero et a i lagoni grandi de i quali ho fatto menzione
et il luogo si dice le Maltagliate. Quivi oltre alla bocca della Cava
si vedono diversi pozzi per l’esito dell’aria, onde si conosce essere state per
lungo tempo esercitate et a i nostri tempi hanno quei paesani trovati sotto
terra grossi pani di Rame lavorato et uno tra gl’altri ne venderono più di
venti scudi.
A Miemo luogo parimente di questo territorio in un
poggio che si dice il poggio di Miemo sono pur anche le Cave del Rame e
tuttavia vi si trovano da quei del luogo dei pezzetti di Rame purgato siche si
vede essere state ancor’queste alcune volte esercitate.
Il Piombo trovo essere stato cavato in due luoghi: l’uno a Monte
Cerbero luogo detto il botro a Tracolle, e trovo essere stata
questa miniera esercitata dalla famiglia de Broccardi circa l’anno 1560, ma in
hoggi l’edifizio è rovinato e solo se ne vedono le vestigie e quivi
all’intorno quantità di ceneracci; l’altro è nel Comune di Monte Rotondo,
ma di questo ne ho poca cognizione.
Delle Cave del ferro non ho notizia se non d’una nel Comune
di Castel Nuovo a canto al fiume Pavone, ma non son ben certificato se quivi fusse la miniera o seppure la
portassero d’altrove a quocere perché quei Paesani non ne mostrano vestigia.
Si vede ben chiaro che quivi era il forno
dove il ferro si purgava vedendovisi all’intorno quantità grande di loppe e di
purgami.
Vengo adesso alle Cave deH’Allume delle quali una ne è
vicina ai sopradetto luogo ove ho detto che si purgava il ferro e
vi si vedono tuttavia quattro fornelli murati per servizio
d’essa fabrica d’Allume et ivi contiguo in un picciolo monticello vi son molte buche profonde donde si cavava la terra alluminosa,
e queste Cave furono esercitate dalla famiglia de Pallini di Castel Nuovo circa
l’anno 1570.
Nel Comune del Sasso
vi sono quelle Cave d’Allume memorabili per haver dato causa alla guerra di Volterra et alla perdita della
sua libertà l’anno 1472. Erano queste fertilissime vedendovisi grandissimi
residui di fornelli e d’habitazioni e molti monacelli di terra colata.
A Monte Rotondo vi è
una bella Cava d’Allume la quale fu dismessa quando Ariadeno Barbarossa famoso
Console Turco prese a infestare i nostri mari perché allora restò interrotto
l’esito della mercanzia, tanto più essendo occorse in quei tempi le guerre di
Siena mediante le quali hebbero queste miniere l’ultimo tracollo. Parimente in
detto territorio vi è un altra bella miniera d’Allume dove il Botro della
Dirutta mette nel fiume Risecco da una parte del Monte Leo
luogo detto la Maionica, e questa cava fu esercitata lungo tempo, ma
poi tralasciata per interesse delle Cave della Tolfa nello stato della Chiesa.
Pagina manoscritto di R. Maffei
Non meno è abondante questo territorio di Vetriolo perché una miniera se ne trova nel Comune del Sasso vicino al Castello un quarto di miglio, ma in hoggi le buche sono ripiene e più non s’esercitano. Nel Comune di Libbiano v’erano due cave di Vetriolo: l’una si dice la Giunca, e vi si vedono ancora i fondamenti dell’edifizio e due profondissime buche dalle quali si cavava la terra; l’altra pure in detto Comune chiamata le Cave di Tigugnano, e di questa ho una memoria nella quale si dice che queste cave fossero molto migliori che quelle dette di sopra della Giunca perché in queste l’acqua non dava impedimento e la terra era migliore facendovisi il Vetriolo senza ferro oltre all’essere il paese più comodo per la terra e per le legna e la terra medesima più feconda di miniera questa che quella.
A Monte Rotondo vi sono due Cave di Vetriolo le quali si sono esercitate a i tempi nostri et anco in parte s’esercitano al presente da i Baldassarrini di quel luogo; l’una per essere assai attaccata all’allume et al solfo fa molta feccia, ma col fuoco si purga e se ne fa buon Vetriolo. L’altra pure in detto Comune luogo detto il Lago partecipa anche essa un poco di solfo; cavasi in terra e non in Marcassita et è stimato questo Vetriolo molto buono per la tinta della seta perché è dolce al pari d’ogn’altro.
A Serrazzano ancora
sono simili Cave ma non s’ha memoria quando sono state esercitate.
A Porcignano villa cinque miglia di qui lontano ve ne sono cave molto buone le quali à tempi nostri sono state esercitate da Gentil huomini di questa Città ma poi tralasciate perché la fertitilità e la bontà di quelle della Sdriscia l’ha superate. Queste dunque della Sdriscia che sono nel Vescovado di Volterra ma nel Contado di Firenze sono le più famose et esercitate e che tuttavia s’esercitano con frutto et utile grande, e se bene da parecchi anni indietro erano in disastro furono.poi mediante l’industria e la diligenza de Sig.ri Attavanti di Firenze rimesase in stato florido nel quale si mantengono ancora con fabricare quantità grande di Vetriolo.
Havendo io
de sali parlato altra volta restami solamente a dire circa la miniera di
zolfo. Di questo se ne trovano di due sorte cioè il nero et il giallo. Il nero
non è punto inferiore al giallo nelle sue qualità et di questo se ne trova
assai nel contado di Libbiano et in particolare in una possessione che
si chiama Fonte Bagni et si trova in miniera pura che per lo più ha
poco bisogno d’esser purgata dal fuoco. Furono queste miniere di zolfo
esercitate già dalla famiglia de Guidi di questa Città i quali ne traevano buon
profitto, ma in hoggi…
NOTE BIBLIOGRAFICHE
E.FIUMI – L’utilizzazione
dei lagoni boraciferi della Toscana nell’industria medievale. Firenze,
Dott. Carlo Cya, 1943.
Cfr. anche A.MENICONI
– Studi antichi e recenti sulle miniere medievali in Toscana: alcune considerazioni,
in: “Ricerche Storiche”, anno XIV, n.1, gennaio-aprile 1984, pp.203-226.
G.TARGIONI TOZZETTI – Relazioni
d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana. 2.ed., Firenze,
Stamperia Granducale, t.lll, 1769, p.104.
Cfr. in proposito
R.S.MAFFEI – Di Zaccaria Zacchi pittore e scultore volterrano (1474-1544).
Volterra, Sborgi, 1905, p.17.
L.ALBERTI – Descrittione
di tutta Italia. In Bologna, per Anseimo Giaccarelli, 1550 (territorio
volterrano: cc. 49r-51v).
M.GIOVANNELLI – Cronistoria
dell’antichità e nobiltà di Volterra. In Pisa, appresso Giouanni Fontani,
1613 (territorio volterrano: pp. 59-67).
Descrizione
dell’antica e nobile città di Volterra fatta da Giovanni Rondinelli Capitano
l’anno 1580. Volterra, Biblioteca
Guarnacci, Ms.8467 (LXII.7.16).
L.FALCONCINI – Storia
dell’antichissima città di Volterra. Scritta latinamente da Lodovico
Falconcini e voltata in italiano dal Sac.Berardo Berardi.
Firenze- Volterra, Sborgi, 1876 (territorio
volterrano: pp.539-597).
cfr. A.K.ISAACS – Volterra nel Cinquecento: alcune prospettive di
ricerca, in: “Bollettino storico pisano”, anno LVIII, 1989, pp.189-205.
R.MAFFEI – Discorso sopra i residui d’antichità di Volterra.
Bagni e acque termali. Saline e acque salse. Minerali, metà sec. XVII.
Volterra. Biblioteca Guarnacci, Ms.5819 (Lll.5.2).
Per la vita e le opere
del Provveditore Raffaello Maffei cfr.
R.S.MAFFEI – Vita di Raffaello Maffei. In: Storia volterrana del Provv. Raffaello Maffei, a cura di Annibaie Cinci. Volterra, Sborgi, 1887, pp.
VII-LX.
E.FIUMI, op. cit.,
p.71.
Cfr. B.LOTTI – Descrizione
geologico-mineraria dei dintorni di Massa Marittima in Toscana. Mem. Descr.
Carta Geol. d’lt.,vol.VIII, Roma, 1893, pp.114-115 e id. – Geologia della Toscana. Mem. Descr. Carta Geol. d’lt.,
vol. XIII, Roma, 1910, pp.334-335.
Cfr. in proposito
A.MARRÙCCI – Le miniere di rame del Podere ‘‘La Corte”, in: “La
Comunità di Pomarance”, anno III, 1989, n.2, pp.10-13.
Si veda anche M.BOCCI
– Curiosità storicominerarie del circondario di Volterra, in:
“Volterra”, anno VI, n.12, dicembre 1967, pp.20-22.
Cfr. in proposito
G.BATISTINI – / vetrioli nelle zone del volterrano, in: “Rassegna
Volterrana”, LXIII-LIV, 1987-1988, pp.3-19.
Sulle cave della
Striscia si veda G. TARGIONI TOZZETTI, op. cit., pp.112-117 e
S.ISOLANI – Storia politica e religiosa dell’antica comunità di Montigno- so
Valdelsa. Volterra, Tip. Carnieri, 1919, pp.120-123. *) I.GUIDI – De
Mineralibus. Venetiis, apud Thomam Ballionum, MDCXXV, p.1
Se vi ha
paese, che offra copia e varietà di minerali, egli è senza dubbio nella nostra
Italia questa prediletta Toscana… È noto che fin dalla più remota antichità
qui da noi si cavavano miniere… e di quest’arte antichissima restano le vestigia nei
pertugi delle montagne…’’.(1)
Non è certo questa la sede per evidenziare
ancora una volta il ruolo svolto dalle risorse minerarie (nella fattispecie
sali e metalli) nella storia economica della Toscana medievale; una
regione in cui il sottosuolo si presentava particolarmente ricco di minerali
utili in giacimenti di rilevante interesse economico e la cui storia mineraria
risulta per noi tanto più interessante se consideriamo che in quest’area “se
ne togli qualche argentiera e ferriera di Lunigiana e Garfagnana, e qualche
altra nell’alta Valle delTArno, su le terre dei Conti Guidi, tennero innanzi
tutto la palma i territori di Volterra e Massa- Populonia…”.(2)
La conoscenza di questo aspetto della
storia economica toscana vanta infatti studi fondamentali e illuminanti come
quelli di VOLPE e di FIUMI,(3) anche se manca tuttavia un’opera di
ricostruzione complessiva delle operazioni intraprese, delle relazioni con la
metallurgia coeva, delle attività economiche indotte. Fortunatamente però
negli ultimi anni questo contesto di studi è andato suscitando sempre più
l’interesse dei ricercatori, arricchendosi così di nuovi lavori tesi ad aggiungere
nuove tessere a questo complesso mosaico.(4)
Per quanto riguarda il territorio di Montecastelli, la sua grande attrattiva economica fin dall’antichità è stata rappresentata dalla notevole presenza di “vene di oro, argento e rame”(5) nella valle del Pavone: la costituzione geologica, le evidenze mineralogiche, la documentazione storico-archivistica e, non ultime, le vestigia esterne e la grande estensione dei lavori intrapresi sul fondo della stretta e profonda gola posta fra Montecastelli e Rocca Sillana, rappresentano una sicura testimonianza dell’importante ruolo avuto da questa zona nella storia mineraria della Val di Cecina. In quest’area le ricerche e le escavazioni effettivamente documentate rimontano infatti, a quanto sembra, alla fine del sec. XII – inizio del sec. XIII, ovvero al periodo in cui il Vescovo di Volterra Ildebrando Pannocchieschi “ebbe libertà e comodità di ricoltivare lungo il fiume Pavone le miniere di rame, piombo argentifero e forse oro ”.(6) Successivamente, sappiamo che uno dei Vescovi di Volterra, proprietari di queste miniere, le dette in affitto agli Incontri di Siena “con patto che d’ogni dieci libbre d’Argento che cavassero, gliene dovessero dare una da mettersi sotto il conio’’.{7) Esse poi appaiono ricordate nei documenti d’archivio dell’inizio del Trecento come “argenterie et a u ri fodin is ”,(8) comparendo cioè genericamente negli atti comunitativi al pari degli altri beni conosciuti e ormai certi sui quali veniva esercitata giurisdizione nel territorio di Montecastelli. Tuttavia, come fatto giustamente osservare da FIUMI, “più che la prova di un’attività escavatrice in atto, potrebbe ritenersi che gli strumenti registrati nelle carte di comunità alludessero a stabilire un diritto in potenza; ma è certo che nel corso dei secoli si ritrovano in quei luoghi segni di sfruttamento precedente e vestigia. Ciò è specialmente evidente per le cave di Montecastelli...”.(9) A conferma infatti dell’attività di queste miniere nel corso del XIV secolo sta ad esempio la notizia che nel 1352 il Vescovo di Volterra Filippo Beiforti affittò a tre montierini “due cave di argento e rame o altro metallo poste nel territorio di Montecastelli sopra il fiume Pavone fra Silano e Montecatelli” a condizione che essi dessero a lui o ai suoi successori “la ventiquattresima parte di ogni metallo scavato’ ’.(10)
Anche Lodovico FALCONCINI, nel corso del Cinquecento,
ricorda queste miniere di argento e rame “feracissime di detti metalli’’,
ubicate precisamente “presso la riva del torrente Pavone, nella quale sono
state trovate anche oggi delle piscine in cui si lavava la gleba d’argento… ”
e riporta di avere appreso che “perdue volte vi è stato cavato argento e rame per molti anni
continui ogni volta, da duecento anni in qua ad istanza del Vescovo di
Volterra allora signore di quelle miniere. Il luogo poi ov’esse si trovano
appellasi Montepelato o Monte dell’Oro”.
Nel 1580, inoltre il Capitano Giovanni RONDINELLI accenna telegraficamente all’esistenza di queste miniere senza specificare se esse si trovassero allora in attività.(1 2) In realtà nel corso del Quattrocento e, soprattutto, del Cinquecento le operazioni minerarie in questa zona dovettero inarrestabilmente declinare svolgendosi prima in modo saltuario e occasionale per poi cessare del tutto fino al 1584, quando Bernardo Giorgi, ministro economo delle miniere del Granducato, in una lettera diretta al Granduca di Toscana descrisse le consistenti potenzialità minerarie della zona, perorando con entusiasmo la pronta riattivazione dei lavori: “… sotto braccia 11 si trova della miniera assai e di miglior qualità che la prima che si manda di saggio… e la miniera va per filoni e non a noccioli come quella di Montecatini ed io ci ho grande speranza’ ’.(13)
Ho ritenuto opportuno proporre questa lunga introduzione
proprio per mostrare come tutte le fonti storiche note in materia facciano
riferimento unicamente alle miniere poste nella valle del Pavone, indiscutibilmente
le più ricche e fertili di questa terra, e trascurino invece, se si eccettuano
le generiche attestazioni di diritti “in potenza’’, tutte le altre
analoghe (ma forse allora sconosciute) evidenze minerarie della zona.
Tuttavia alcuni documenti conservati nella Biblioteca
Guarnacci di Volterra e finora inediti(14) consentono oggi di ampliare, anche
se pur di poco, le conoscenze relative alla storia mineraria della terra di
Montecastelli, allargando il campo d’indagine a un’area finora mai citata in
letteratura, ovvero quella delle pendici orientali del paese digradanti verso
la valle del Cecina.
La filza 57 dell’Archivio Maffei contiene infatti tre documenti del 1605 e una mappa
presumibilmente coeva relativi alla scoperta di una nuova “cava” di rame
in località Casa delle Pàstine.
A un’esame sommario i tre documenti sembrano testimonianze
rese fra il 19 e il 20 febbraio 1605 a un processo istituito per dirimere la
controversa causa sull’effettiva paternità della scoperta, e, come detto,
assumono particolare rilievo perché per la prima volta l’area d’interesse
minerario si situa fuori della valle del Pavone; essi permettono pertanto di arricchire
la topografia storica delle escavazioni minerarie e dei tentativi operati
nella zona di Montecastelli.
Esaminiamo dapprima i tre
documenti:
Addi 19 di febraio 1605
tassi fede per me Bastiano di Sisto Ghilli da Monte Castelli come la verità è che sotto il dì 8 del presente mese volevamo andare a Firenze Marco di Giovan Paulo
Pieralli e io venne Domenico di Matteo Bernardi di detto loco et disse che voleva che noi portassi dua o vi ero tre pezuol
di miniera di rame alla galleria la quale dette al sopra detto Marcho che la portase et andando detto Marcho et lo Bastiano sopra detto.
Insieme permisino a
Pogibonsi et lo Bastiano andai innanzi et arrivando detto Marcho il di dieci
stante mi disse avere portato detta miniera alla galleria di S.A.S. et che non
aveva trovato il provveditore ma che si bene vi voleva tornare per la risposta
et per fede del vero lo Bastiano soprascritto o schritto di mia propria mano.
Adì 20 di febraio 1605
Fede per me Piero di
Giusto d’Agusti no dal Bagnano Contado di Firenze come la verità è che! giorno
di Carnovale prossimo passato fui chiamato da Domenico di Matteo Bernardi da
Monte Castelli, a lavorare alla Cava del Fame del luogo detto alle Pastine
insieme et in compagnia di Mario di Luca lavorante in detto luogho, et in
mentre che lavoravamo detto Domenico disse a me Piero mentre che cavava
l’acqua per poter lavorare, disse Piero domanda Mario chi trovò detto filone,
et detto Mario disse Domenico et di più mi disse zappa qui, et in poche zappate
trovammo il segno, et allora detto Piero disse harete cento scudetti, et
lavorammo insino a notte, et cavammo della miniera, et la presi addosso, et
la pesammo in casa di Messer Domenico
et fu libbre trenta et di tanto dico essere la verità, et per fede dico a
preghato me Antonio Cial… Prete di Monte Castelli, che a nome suo facci da
fede, perché le disse non sapere scrivere et tutto o fatto alla prese ntia del
li infrascritti testimoni lo Bastiano di Sisto Ghilli fui presente quando detto
Piero fece detta fede al sopra detto Domenico et disse essere la verità di
quanto di sopra si contiene et in fede di mia propria mano o scritto lo
Giovani Diacomo di Baco fui presente quato di sopra se rito in fede scrisi.
Adì 20 di febraio 1605Comparse avanti me Cosimo fu Provveditore di Volterra Michelangelo di Santi da Cerbaiola del Vicariato di Monti Castelli e disse che la miniera che si è scoperta nei beni di detto Santi suo Padre luogo detto le Pastine, la prima che si è scoperta fumo dua oprai che vi messino a far della legna, cioè Santi di Carlotto e Baldassarre che ne trovonno circa libbre 30, che l’hebbe Domenico fabro, e Mario di Luca lavoratori a Cerbaiola scoperse la vena della Cava in detto luogo, e me ne ha scoperto in un altro luogo acanto alla Casa dell’Aia e fra tutti dua questi luoghi ne ha cavata all’Aia 60 libbre e più il detto Mario ne ha cavata fra tutti i luoghi circa 200 libbre e tutta la hauta Domenico fabro, che la pagata parsi soldi 4 la libbra et disse che detto Domenico li ha volsuti dare uno scudo acciò dica che l’habbi trovata detto Domenico.
Se vi ha
paese, che offra copia e varietà di minerali, egli è senza dubbio nella nostra
Italia questa prediletta Toscana… È noto che fin dalla più remota antichità
qui da noi si cavavano miniere… e di quest’arte antichissima restano le vestigia nei
pertugi delle montagne…’’.(1)
Non è certo questa la sede per evidenziare ancora una volta il ruolo svolto dalle risorse minerarie (nella fattispecie sali e metalli) nella storia economica della Toscana medievale; una regione in cui il sottosuolo si presentava particolarmente ricco di minerali utili in giacimenti di rilevante interesse economico e la cui storia mineraria risulta per noi tanto più interessante se consideriamo che in quest’area “se ne togli qualche argentiera e ferriera di Lunigiana e Garfagnana, e qualche altra nell’alta Valle delTArno, su le terre dei Conti Guidi, tennero innanzi tutto la palma i territori di Volterra e Massa Populonia…”.(2)
La conoscenza di questo aspetto della
storia economica toscana vanta infatti studi fondamentali e illuminanti come
quelli di VOLPE e di FIUMI,(3) anche se manca tuttavia un’opera di
ricostruzione complessiva delle operazioni intraprese, delle relazioni con la
metallurgia coeva, delle attività economiche indotte. Fortunatamente però
negli ultimi anni questo contesto di studi è andato suscitando sempre più
l’interesse dei ricercatori, arricchendosi così di nuovi lavori tesi ad aggiungere
nuove tessere a questo complesso mosaico.(4)
Per quanto riguarda il territorio di Montecastelli, la sua grande attrattiva economica fin dall’antichità è stata rappresentata dalla notevole presenza di “vene di oro, argento e rame”(5) nella valle del Pavone: la costituzione geologica, le evidenze mineralogiche, la documentazione storico-archivistica e, non ultime, le vestigia esterne e la grande estensione dei lavori intrapresi sul fondo della stretta e profonda gola posta fra Montecastelli e Rocca Sillana, rappresentano una sicura testimonianza dell’importante ruolo avuto da questa zona nella storia mineraria della Val di Cecina. In quest’area le ricerche e le escavazioni effettivamente documentate rimontano infatti, a quanto sembra, alla fine del sec. XII – inizio del sec. XIII, ovvero al periodo in cui il Vescovo di Volterra Ildebrando Pannocchieschi “ebbe libertà e comodità di ricoltivare lungo il fiume Pavone le miniere di rame, piombo argentifero e forse oro ”.(6) Successivamente, sappiamo che uno dei Vescovi di Volterra, proprietari di queste miniere, le dette in affitto agli Incontri di Siena “con patto che d’ogni dieci libbre d’Argento che cavassero, gliene dovessero dare una da mettersi sotto il conio’’.{7) Esse poi appaiono ricordate nei documenti d’archivio dell’inizio del Trecento come “argenterie et a u ri fodin is ”,(8) comparendo cioè genericamente negli atti comunitativi al pari degli altri beni conosciuti e ormai certi sui quali veniva esercitata giurisdizione nel territorio di Montecastelli. Tuttavia, come fatto giustamente osservare da FIUMI, “più che la prova di un’attività escavatrice in atto, potrebbe ritenersi che gli strumenti registrati nelle carte di comunità alludessero a stabilire un diritto in potenza; ma è certo che nel corso dei secoli si ritrovano in quei luoghi segni di sfruttamento precedente e vestigia. Ciò è specialmente evidente per le cave di Montecastelli...”.(9) A conferma infatti dell’attività di queste miniere nel corso del XIV secolo sta ad esempio la notizia che nel 1352 il Vescovo di Volterra Filippo Beiforti affittò a tre montierini “due cave di argento e rame o altro metallo poste nel territorio di Montecastelli sopra il fiume Pavone fra Silano e Montecatelli” a condizione che essi dessero a lui o ai suoi successori “la ventiquattresima parte di ogni metallo scavato’ ’.(10)
Anche Lodovico FALCONCINI, nel corso del Cinquecento,
ricorda queste miniere di argento e rame “feracissime di detti metalli’’,
ubicate precisamente “presso la riva del torrente Pavone, nella quale sono
state trovate anche oggi delle piscine in cui si lavava la gleba d’argento… ”
e riporta di avere appreso che “perdue volte vi è stato cavato argento e rame per molti anni
continui ogni volta, da duecento anni in qua ad istanza del Vescovo di
Volterra allora signore di quelle miniere. Il luogo poi ov’esse si trovano
appellasi Montepelato o Monte dell’Oro”.
Nel 1580, inoltre il Capitano Giovanni RONDINELLI accenna telegraficamente all’esistenza di queste miniere senza specificare se esse si trovassero allora in attività.(1 2) In realtà nel corso del Quattrocento e, soprattutto, del Cinquecento le operazioni minerarie in questa zona dovettero inarrestabilmente declinare svolgendosi prima in modo saltuario e occasionale per poi cessare del tutto fino al 1584, quando Bernardo Giorgi, ministro economo delle miniere del Granducato, in una lettera diretta al Granduca di Toscana descrisse le consistenti potenzialità minerarie della zona, perorando con entusiasmo la pronta riattivazione dei lavori: “… sotto braccia 11 si trova della miniera assai e di miglior qualità che la prima che si manda di saggio… e la miniera va per filoni e non a noccioli come quella di Montecatini ed io ci ho grande speranza’ ’.(13)
Ho ritenuto opportuno proporre questa lunga introduzione
proprio per mostrare come tutte le fonti storiche note in materia facciano
riferimento unicamente alle miniere poste nella valle del Pavone, indiscutibilmente
le più ricche e fertili di questa terra, e trascurino invece, se si eccettuano
le generiche attestazioni di diritti “in potenza’’, tutte le altre
analoghe (ma forse allora sconosciute) evidenze minerarie della zona.
Tuttavia alcuni documenti conservati nella Biblioteca
Guarnacci di Volterra e finora inediti(14) consentono oggi di ampliare, anche
se pur di poco, le conoscenze relative alla storia mineraria della terra di
Montecastelli, allargando il campo d’indagine a un’area finora mai citata in
letteratura, ovvero quella delle pendici orientali del paese digradanti verso
la valle del Cecina.
La filza 57 dell’Archivio Maffei contiene infatti tre documenti del 1605 e una mappa
presumibilmente coeva relativi alla scoperta di una nuova “cava” di rame
in località Casa delle Pàstine.
A un’esame sommario i tre documenti sembrano testimonianze
rese fra il 19 e il 20 febbraio 1605 a un processo istituito per dirimere la
controversa causa sull’effettiva paternità della scoperta, e, come detto,
assumono particolare rilievo perché per la prima volta l’area d’interesse
minerario si situa fuori della valle del Pavone; essi permettono pertanto di arricchire
la topografia storica delle escavazioni minerarie e dei tentativi operati
nella zona di Montecastelli.
Esaminiamo dapprima i tre
documenti:
Addi 19 di febraio 1605
tassi fede per me Bastiano di Sisto Ghilli da Monte Castelli come la verità è che sotto il dì 8 del presente mese volevamo andare a Firenze Marco di Giovan Pauol
Pieralli e io venne Domenico di Matteo Bernardi di detto loco et disse che voleva che noi portassi dua o vi ero tre pezuo
di miniera di rame alla galleria la quale dette al sopra detto Marcho che la portase et andando detto Marcho et lo Bastiano sopra detto.
Insieme permisino a
Pogibonsi et lo Bastiano andai innanzi et arrivando detto Marcho il di dieci
stante mi disse avere portato detta miniera alla galleria di S.A.S. et che non
aveva trovato il provveditore ma che si bene vi voleva tornare per la risposta
et per fede del vero lo Bastiano soprascritto o schritto di mia propria mano.
Adì 20 di febraio 1605
Fede per me Piero di
Giusto d’Agusti no dal Bagnano Contado di Firenze come la verità è che! giorno
di Carnovale prossimo passato fui chiamato da Domenico di Matteo Bernardi da
Monte Castelli, a lavorare alla Cava del Fame del luogo detto alle Pastine
insieme et in compagnia di Mario di Luca lavorante in detto luogho, et in
mentre che lavoravamo detto Domenico disse a me Piero mentre che cavava
l’acqua per poter lavorare, disse Piero domanda Mario chi trovò detto filone,
et detto Mario disse Domenico et di più mi disse zappa qui, et in poche zappate
trovammo il segno, et allora detto Piero disse harete cento scudetti, et
lavorammo insino a notte, et cavammo della miniera, et la presi addosso, et
la pesammo in casa di Messer Domenico
et fu libbre trenta et di tanto dico essere la verità, et per fede dico a
preghato me Antonio Cial… Prete di Monte Castelli, che a nome suo facci da
fede, perché le disse non sapere scrivere et tutto o fatto alla prese ntia del
li infrascritti testimoni lo Bastiano di Sisto Ghilli fui presente quando detto
Piero fece detta fede al sopra detto Domenico et disse essere la verità di
quanto di sopra si contiene et in fede di mia propria mano o scritto lo
Giovani Diacomo di Baco fui presente quato di sopra se rito in fede scrisi.
Adì 20 di febraio 1605Comparse avanti me Cosimo fu Provveditore di Volterra Michelangelo di Santi da Cerbaiola del Vicariato di Monti Castelli e disse che la miniera che si è scoperta nei beni di detto Santi suo Padre luogo detto le Pastine, la prima che si è scoperta fumo dua oprai che vi messino a far della legna, cioè Santi di Carlotto e Baldassarre che ne trovonno circa libbre 30, che l’hebbe Domenico fabro, e Mario di Luca lavoratori a Cerbaiola scoperse la vena della Cava in detto luogo, e me ne ha scoperto in un altro luogo acanto alla Casa dell’Aia e fra tutti dua questi luoghi ne ha cavata all’Aia 60 libbre e più il detto Mario ne ha cavata fra tutti i luoghi circa 200 libbre e tutta la hauta Domenico fabro, che la pagata parsi soldi 4 la libbra et disse che detto Domenico li ha volsuti dare uno scudo acciò dica che l’habbi trovata detto Domenico.
Mappa del Borgo di Montecastelli del Seicento
Come si può notare, anche se la vicenda appare intricata,
assai chiara risulta invece la ben ferma e determinata posizione di Domenico
di Matteo Bernardi di Montecastelli, intenzionato ad aggiudicarsi con ogni
mezzo la scoperta del nuovo giacimento che doveva fargli presagire chissà
quali speranze di ricchezza.
Dell’esito di questa vicenda non abbiamo notizie, ma
certamente l’escavazione della nuova vena di minerale non ebbe alcun seguito
di rilievo visto che le sue tracce documentarie si perdono e che anche le
estese e attente ricerche intraprese in tutta l’area nel corso dell’ottocento e
nella prima metà di questo secolo non ne hanno dato alcun riscontro.
Particolarmente importante per ricostruire topograficamente la zona agli inizi del Seicento risulta però la mappa allegata ai documenti: in essa appare chiaramente descritto il borgo di Montecastelli con la sua possente torre a base quadrata e le due porte contrapposte a Bucignano e a Gabbro, elementi questi che permettono di orientare la carta e di posizionare nelle sue linee generali il nuovo giacimento. Dai pressi della porta a Gabbro si dipartiva la strada per Volterra che potrebbe forse corrispondere oggi alla strada che, diretta da Montecastelli a Cerbaiola, finisce poi in Bocca di Pavone: da qui essa andava probabilmente a congiungersi con l’antica Via Maremmana nel suo tratto di fondovalle fra Volterra e Pomarance. Per quanto riguarda l’esatta identificazione topografica della Casa delle Pàstine essa è resa difficile dal fatto che questo toponimo risulta oggi pressoché sconosciuto agli abitanti di Montecastelli. Occorre pertanto procedere all’interpretazione diretta della pianta avendo cura di tenere ben presenti sia le caratteristiche strutturali dell’area in questione sia le condizioni geominerarie (presenza di masse o lembi di ofioliti, esistenza di faglie o contatti ecc.) compatibili con la presenza di mineralizzazioni di rame.(15) Ebbene, in base a tali criteri e coerentemente aH’orientamento degli elementi pianimetrici raffigurati nel disegno, la zona descritta dovrebbe coincidere con quella oggi compresa fra i Poderi Casina e Catro e C. Suveretine (o Sugheretino), ovvero un’area in cui compaiono affioramenti di ofioliti (serpentina e gabbro) e contatti (anche per faglia) sia tra le stesse “pietre verdi’’ che tra queste e le altre formazioni geologiche.
In realtà il terzo documento parla anche
di un altro luogo in cui fu rinvenuta “la vena della cava”, e cioè “acanto
Casa dell’Aia’’, ma anche questo toponimo risulta oggi di difficile
identificazione in quanto, oltretutto, non figura neppure sulla mappa.
Per l’interpretazione delle distanze
riportate nel disegno basti sapere che un braccio corrispondeva a circa 60
centimetri. Per meglio collocare storicamente questa vicenda diremo che in quel
periodo i lavori alla “cava vecchia’’ del Pavone, nonostante le grandi
speranze lasciate intravedere da Bernardo Giorgi, dovevano languire o essere
del tutto fermi visto che, tranne un infelice tentativo attuato nel 1636, gli
sforzi dei Medici per riattivare le due importanti miniere di Montecatini Val
di Cecina e di Montecastelli risultarono nulli e “sino al 1751 ni uno pensò
né a MonteCastelli né a Montecatini’’.(16) Appare pertanto più che
comprensibile, in questo periodo di contrazione, di ristagno o addirittura di
abbandono delle attività minerarie nella zona, l’invio di alcuni campioni di
minerale del nuovo giacimento alla “galleria di Sua Altezza Serenissima’’
con lo scopo e la speranza di poter vedere confermati il valore e l’importanza
della scoperta e di poter quindi suscitare una nuova ripresa delle ricerche e
un fruttuoso interessamento economico alla coltivazione del filone. Si
trattava in pratica di veder sancita e dischiusa tutta una serie di preziose
possibilità economiche.
Come si può
comprendere, anche per quanto riguarda il caso appena illustrato si tratta di
una piccola testimonianza che riemerge dal passato, una piccola tessera da
aggiungere al mosaico: pochi dati che però possono contribuire ad accrescere
le conoscenze sulla microstoria economica e sociale di Montecastelli, una terra
che appariva ricca di ambiti metalli e il cui sottosuolo, assieme alle diffuse
mineralizzazioni, sembrava fornire alterne ma convincenti prospettive alle
attività minerarie, accendendo così a più riprese, nel corso dei secoli, le
più rosee speranze di ricchezza.(17)
Angelo MARRUCC1
NOTE BIBLIOGRAFICHE
G. D’ACHIARDI – Mineralogia
della Toscana. Pisa, 1872-73. p.1.
G. VOLPE – Montieri:
costituzione politica, struttura sociale, attività economica d’una terra
mineraria toscana nel secolo XIII. In: Maremma, anno I (1924),
fase. 1, p. 29.
E. FIUMI – L’utilizzazione
dei lagoni boraciferi della Toscana nell’industria medievale.
Firenze, Dott. Carlo Cya, 1943.
Cfr. ad es. A.
MENICONI – Studi antichi e recenti sulle miniere medievali in Toscana: alcune
considerazioni. In: Ricerche Storiche, anno XIV, n.1 gennaio-aprile
1984. pp. 49-56.
G. VOLPE – op. cit.,
p. 31.
M. BOCCI – Montecastelli
Valdicecina. In: TAraldo, anno XLII, n. 25, 25 giugno 1972, p. 4.
G. TARGIONI-TOZZETTI –
Relazioni d’al- cuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana. Firenze,
Stamperia Granducale, 1769-74, t. VII, p. 392.
A.S.C.V. – Filza S
nera 1 c.127r: Il documento reca la data 19 settembre 1301: esso va quindi
postdatato rispetto al 1285, come riportato da Fiumi (cfr. nota 3, p. 71).
E. FIUMI – op. cit. p.
71.
M. CAVALLINI – Notizie
e spogli d’archivio. In: Rassegna Volterrana, anno I (1924), fase.
Il, p. 84.
L. FALCONCINI – Storia
dell’antichissima città di Volterra. Volterra, Sborgi, 1876, pp. 583-585.
Il toponimo Monte dell’Oro è tuttora presente nella denominazione locale
del profondo e scosceso canalone che sovrasta l’antica miniera di
Montecastelli detto, appunto, Vallone (o Borro) di Pietralloro.
B.G.V. – Ms. 8467 (LXII.7.16) – Descrizione dell’antica e nobile
città di Volterra fatta da Giovanni Rondinelli Capitano nel 1580, c.5r.
C. RIDOLFI – D’alcune
miniere della Maremma. Cenni storico-economici per servire all’eccitamento
dell’industria che si occupa di trarne profitto. In: Giornale Agrario
Toscano, n. 24 (1832), tomo VI, p. 495.
B.G.V. – Archivio Maffei, filza 57: si tratta di un opuscolo costituito dalla mappa
ripiegata e dalle tre lettere; la mappa reca sul dorso: scritture della
Cava di Rame.
Cfr. la Carta
archeologica dell’alta Val di Cecina alla scala 1:25.000 in: A. LAZZAROT-
TO, R. MAZZANTI – Geologia dell’alta Val di Cecina. Boll. Soc. Geol. It., 95(6),
1976, pp. 1365-1487.
C. RIDOLFI – Op. cit.
p. 495.
Evidenti limiti di spazio e di opportunità m’impediscono di occuparmi in questa sede della storia della più celebre e antica miniera di Montecastelli, se non per brevi cenni relativi al periodo tardo-medievale. In realtà la coltivazione di questa miniera assunse il maggiore sviluppo nel corso dell’ottocento dando luogo a vestigia e lavori sotterranei di grande interesse per l’archeologia industriale del nostro territorio. Su tutta questa storia intendo tuttavia tornare più a lungo in altra occasione col necessario e prezioso apporto di planimetrie e dati tecnici e col contributo di un’adeguata trattazione.
Questo fattore, è ovvio, impose ulteriori costi dovuti alla realizzazione in loco di un impianto di arricchimento a cui va aggiunta la mancanza di adeguate vie di comunicazione in sostituzione dei pochi e malagevoli sentieri che, allora come oggi, si spingevano in questa zona morfologicamente assai impervia. A questi motivi bisogna poi sommare, a quanto sembra, la difficoltà incontrata nell’eduzione delle acque dai livelli più profondi della miniera (impostati, come si è detto, al di sotto del livello del Pavone) e dovuta, pare, alla scarsità e all’inadeguatezzadei macchinari impiegati a tale scopo.(59) In ultimo, ma con effetti forse realmente determinanti, è da menzionare l’inaspettata limitatezza del campo minerario di proprietà della Società proprio dalla parte in cui il giacimento si era mostrato più ricco. La legislazione mineraria allora vigente (emanata con Motu proprio dal Granduca Pietro Leopoldo nel 1788) riconosceva infatti ai proprietari del suolo anche la proprietà del sottosuolo: proprio per tale ragione pare che la cosiddetta Società di Monte Catini non fosse allora in grado di acquistare altri lotti di terreni per allargare la propria concessione data l’esosità e la riottosità a vendere da parte dei proprietari dei suoli confinanti.(60) Tutta questa serie di ostacoli ci può quindi aiutare a comprendere meglio le ragioni della chiusura sappiamo che i fabbricati furono affittati per essere utilizzati come mulini.(61)
Dopo la morte di Sloane, la proprietà della miniera di Montecastelli passò
interamente al Conte Boutourline (parte per l’eredità Sloane e parte in affitto)(62) che la mantenne fino al 1879, anno
della propria morte. Accadde così che i suoi eredi, desiderosi di ritirarsi in
Russia “liquidarono il patrimonio ed esposero in vendita, in via privata la
miniera di Montecastelli” che fu acquistata dai fiorentini comm.Vittorio
Finzi e cav.Giacomo Pimpinelli “allo scopo di tentare nuovamente l’industria
del lavaggio”. (63)
I due nuovi proprietari iniziarono
subito animati dalle migliori intenzioni, tant’è che nel 1885 a studiare la
situazione geomineraria del giacimento si recò addirittura Bernardino Lotti,
uno dei maggiori geologi dell’epoca, che redasse nello stesso anno uno studio
geologico dettagliato della zona(64). poi accompagnato e completato da una
nuova indagine nel 1890.(65)
Per quanto riguarda l’andamento che
ebbero i lavori durante il periodo 1885-1891 sono di prezioso ausilio le Relazioni
sul Servizio Minerario^), un periodico che ci permette di seguire di anno
in anno la situazione della miniera. Grazie a questo strumento è possibile
compilare la seguente cronologia:
– “venne riaperta
la miniera di rame che era chiusa da vari anni’
– “di ben piccolo
momento fu la produzione di Montecastelli”
– compare tra le
minere esplorate “che non diedero produzioni di momento”
– figura tra le
miniere in cui “gli esploratori, ovvero coloro che hanno il diritto di
esplorarle e scavarle, accolgono qualche lavorante per pochi giorni con lo
scopo di mantenere quel medesimo diritto in conformità dei contratti stipulati
coi proprietari del terreno”
– è compresa tra le
miniere produttive “comunque la sua produzione sia insignificante
finora”
– è elencata fra le
ricerche di minerali di rame, ma si segnala che “fu sospesa ogni nuova
indagine e non si fa ora che mantenere i lavori, in attesa di trovare qualche
buona combinazione finanziaria che dia nuovo impulso a quelle ricerche”
– le ricerche
risultano sospese per tutto l’anno.
In realtà gli entusiasmi iniziali di
Finzi e Pimpinelli si raffreddarono assai presto: Lotti stesso nel 1890
ricorda la “costanza senza pari’ e i “notevoli sacrifizi’ con cui
i due proprietari proseguivano i lavori da cinque anni, anche se solo allora il
filone cuprifero, pur sempre interessantissimo sotto l’aspetto scientifico,
sembrava mostrare finalmente “una certa importanza anche dal lato
industriale”.(67)
In questo periodo, abbandonati definitivamente i lavori intrapresi precedentemente ai livelli più bassi della miniera, fu riaperta interamente la Galleria Isabella; quindi, una volta intercettato il filone nel cuore del monte, fu seguito con una nuova galleria, detta Galleria Rodolfo, che raggiunse il limite orientale del filone.(68) Le esplorazioni condotte in quest’area videro poi l’apertura di due nuovi livelli superiori di gallerie da cui furono spinte varie traverse di ricerca. Le esplorazioni sotterranee ripresero anche nell’area di più antica coltivazione di Grotta Mugnaioli, dove la galleria principale fu spinta fino a 90 m. e dove la Galleria Vittorio, situata 13 m. più in alto rispetto alla precedente, avanzò per circa 40 metri. Poco più in alto ancora fu spinta una nuova galleria che incontrò “vene bellissime d’erubescite compattai’(Q9) e fu inoltre eseguita tutta una serie di saggi superficiali lungo l’affioramento del filone “che mostrossi dovunque più o meno mineralizzato”.(70) Di queste ricerche le più interessanti furono senza dubbio quella impostate nel Botro di Fungaiola, poco più a Sud della Grotta Mugnaioli(71 ) e al Pianetto, ovvero a una distanza orizzontale di circa 700 m. dalla Grotta Mugnaioli e circa 200 m. più in alto, dove il minerale (prevalentemente calcopirite) fu rinvenuto in noduli da 3 ad 8 cm. di diametro.(72) Tuttavia, nonostante tutti questi lavori avessero fornito localmente risultati di qualche interesse, le ricerche si dimostrararono complessivamente scoraggianti, tanto da far apparire l’iniziativa intrapresa come assolutamente antieconomica.
Dopo il 1891 i riferimenti alla miniera di Montecastelli nella pubblicistica ufficiale scompaiono e gli affari dei due imprenditori fiorentini presero una piega talmente negativa che da parte loro non vi fu più certo il modo, la possibilità o l’interesse di riprendere in considerazione le esplorazioni minerarie a Montecastelli.
Nel primo decennio del Novecento la miniera risulta dunque completamente abbandonata finché il 20 agosto 1914, in seguito al fallimento di Finzi e Pimpinelli, essa fu acquistata dal conte francese Carlo De Germiny, già proprietario della tenuta del Palagetto nei pressi di Pomarance. Tuttavia, una volta aggiudicatosi la proprietà del suolo e del sottosuolo dell’area minerariadi Montecastelli, il De Germiny non provvide a far intraprendere lavori di alcun genere. Si giunse così al 1927, quando entrò in vigore la nuova legislazione mineraria (R.D. 1443 del 29/7/1927) che avocava allo Stato il diritto di concedere l’esercizio delle attività estrattive a singoli privati o società. In quello stesso periodo il regime di autarchia economica vigente nel paese aveva imposto una riconsiderazione complessiva delle risorse minerarie nazionali spingendo all’esplorazione e allo sfruttamento di nuovi giacimenti o, quando possibile, alla riattivazione di vecchie miniere abbandonate. Nel contesto di una più ampia ricognizione dei depositi cupriferi italiani, nel 1927 si recò pertanto sul posto l ing.Emilio Cortese che, trovato il sito completamente abbandonato, la Galleria Isabella di fatto impraticabile, dopo aver eseguito vari saggi (uno dei quali presso il Pod. la Casina) e analizzato infine un campione di minerale (da cui fu rilevato un tenore in rame del 46,5%, cioè eccezionalmente ricco), dichiarò esplicitamente e con grande detrminazione “l’alta convenienza” e l’assoluta necessità di riaprire quanto prima la miniera: “…/ sottosuoli appartengono ad un conte francese che, opportunamente consigliato da un parente italiano, dicesi abbia dichiarato a tempo di volervi lavorare. Ma altrettanto fondato è il supposto che non vi abbia fatto alcun lavoro in tempo utile. Pertanto, se questo proprietario del sottosuolo, entro il periodo fissato dalla nuova legge mineraria (art.59) non avrà dichiarato di voler lavorare seriamente e dopo tale dichiarazione non vi lavorerà intensamente, sarà il caso di togliergli ogni diritto e spingere altri a riaprire questa promettentissima miniera” .(73)
Spronato da tale minaccia, nel 1928 il De Germiny si decise a inoltrare domanda per ottenere il rilascio della necessaria concessione di ricerca al Corpo dell Minieredi Firenze che nel 1929 inviò sul posto ring.Attilio Monticelo per verificare l’effettiva proprietà mineraria denunciata dal richiedente e per constatare lo stato della miniera. In quell’occasione la galleria di scolo fu rinvenuta impraticabile, mentre a Grotta Mugnaioli non fu riscontrata traccia del filone e la galleria d’accesso ai lavori sotterranei fu trovata murata; in uno dei fabbricati (probabilmente un magazzino) fu infine rinvenuta circa una tonnellata di minerale di rame (soprattutto calcopirite e bornite) in noduli, già classificato e concentrato per il lavaggio e non utilizzato per l’estrema difficoltà del trasporto.(74). La concessione per l’area posta sulla destra del Pavone fu comunque accordata al De Germiny che la mantenne perii periodo 1928-1932. Intanto, nel corso del 1928, Caterina Serafini e il marito Alessandro Rosini, residenti a S.Miniato, ottennero il permesso di ricerca per l’area antistante la vecchia miniera di Montecastelli, ovvero per la zona situata sulla sinistra del Pavone, convenzionalmente denominata “Rocca Sillana”.(75) Il corso del Pavone rappresentava il confine con la concessione affidata a De Germiny.
I due assegnatari intendevano esplorare
la prosecuzione del filone di gabbro cuprifero che, affiorante con grande
potenza nella Grotta Mugnaioli, attraversava poi il Pavone e risaliva oltre la
sponda sinistra del torrente perdendosi su per le pendici del rilievo di Rocca
Sillana per riapparire infine (messo in luce da una frana prrovocata da un
terremoto) sull’altro lato dello stesso monte che declina verso il T.Possera,
ovvero presso il Pod.Gorghe, tra Querciatella e Barbiano, lungo la strada per
S.Dalmazio, raggiungendo così la lunghezza complessiva di oltre 1.700
metri.(76)
L’area antistante la Grotta Mugnaioli era
stata parzialmente esplorata a partire dal 1850(77), ma con lavori di scarso
rilievo e saggi di breve sviluppo. Nel 1929 la Serafini (intestataria del
permesso) fece pertanto aprire sul luogo una galleria ad un’altezza di circa
2,50 m. sul letto del Pavone in magra che fu diretta verso Ovest. Questo nuovo
saggio dopo circa 80 m. di sviluppo, incontrò una vecchia galleria di ricerca
che fu seguita per circa 12 m. constatando la presenza di ciottoli di bornite.(78) Nel 1930 fu poi attaccata un’altra galleria con
ingresso adiacente alla prima: essa fu diretta verso Sud incontrando vene di
calcopirite e di bornite spesse fino a
un decimetro. Alla fine del 1930 i lavori avevano prodotto circa 1001.
Pianta delle ricerche di “Grotta Mugnaioli” e di Pocca Sillana (F. Federici, 1941)
di minerale cuprifero in ganga serpentinosa (201.
dalla prima galleria, 801. dalla seconda), con un tenore approssimativo del 12%
in rame, che giaceva inutilizzato nei pressi delle gallerie non essendo ancora
stato trasferito via per mancanza di mezzi di trasporto e di vie di
comunicazione idonee, non esistendo che sentieri praticabili da bestie da
soma(79); i detriti estratti venivano invece scaricati direttamente nel letto
del Pavone. In tutto questo periodo i lavori furono svolti unicamente da due
operai coadiuvati dal sorvegliante Luigi Gazzarri.(80) Nonostante questi limiti
oggettivi, i lavori in questo permesso proseguirono fino all’estate del 1931
per poi cessare del tutto, probabilmente per l’impoverirsi della mineralizzazione.
Ciò nondimeno, anche se durante la stessa estate la coppia Serafini- Rosini
provvide a far trasportare via a basto quasi tutte le 1001. di minerale
estratto fino ad allora(81) e ad abbandonare completamente la ricerca, essa
rinnovò il permesso relativo all’area di Rocca Sillana fino al 1940.
L’inizio degli anni Trenta non vide così altre esplorazioni nella zona, in quanto anche il De Germiny nel 1932 rinunciò al suo permesso non avendo assolutamente intrapreso lavori di alcun genere nella sua concessione. Fu tuttavia una sospensione di breve durata in quanto la crescente necessità di minerale della nazione connessa al peso e agli obblighi imposti da una prolungata fase di autarchia economica spinse altri gruppi di imprenditori e di società a valutare di nuovo le potenzialità minerarie dei dintorni di Montecastelli. Dal 1936 cominciarono dunque a susseguirsi nuove richieste di permessi di ricerca: tra le varie iniziative di questa fase la più significativa e importante resta quella intrapresa, a partire inizialmente dal 1936 e poi ufficialmente dal 1940, dalla ditta rag.Giuseppe Boldi & C. di Goito (Mn) con la denominazione “Cerbaiola”.(82) Il tecnico incaricato dall’assegnatario per le ricerche nella zona fu l’ing.Federico Federici che nel luglio 1941 redasse una relazione geologico-mineraria sul giacimento e sulle esplorazioni eseguite di grande accuratezza e precisione, descrivendo analiticamente l’esatta disposizione e lo stato attuale di tutti i lavori più antichi riconosciuti sul terreno e indicando esattamente i lavori di ricerca già eseguiti o progettati.(83) La relazione tecnica era inoltre accompagnata da una planimetria in scala 1:5.000 dell’area esplorata e da una pianta in scala 1:1.000 di tutti i lavori sotterranei eseguiti in prossimità del Pavone (“vecchia miniera di Montecastelli” e “Rocca Sillana”). Ebbene, da questi documenti si evince chiaramente che oltre ai lavori già noti (e precedentemente menzionati) era stata eseguita in passato tutta una serie di saggi minori; infatti:
nel Vallone di Pietralloro, a Sud-Est dei fabbricati della miniera e a quota 310, fu riaperta una galleria (Z) profonda 30 metri;
a quota 540 fu rinvenuto ostruito lo scavo in discenderia del Pianetto, ma furono riscontrate tracce di minerale nelle discariche circostanti;
sul versante Est del monte, seguendo il filone, a quota 530 in località Pietre Bianche tu rilevata l’esistenza di un altro scavo in discenderia (C);
una galleria fu riconosciuta a quota 450 presso le case’Galleri” e altre due gallerie furono rilevate a circa quota 500 sulla strada fra Cerbaiola e Montecastelli, in località “Manfarda”.
A queste esplorazioni bisogna aggiungere inoltre la presenza di un’ulteriore galleria posta quasi a mezza costa nel fosso del Pod. le Òapanne(84) e la notizia che a Est di Montecastelli, presso la Casina “fu fatto un pozzo, non molto profondo”, che attraversando lo spessore dei gabbri; arrivò alle formazioni sedimentarie (marne e calcari) trovando “del ricco minerale di rame’.(85)
Planimetria schematica degli edifici della miniera.
Alla relazione tecnica di Federici fu allegata anche una carta geoelettrico-mineraria alla scala 1:2.000 in cui comparivano i risultati di un apposito rilevamento eseguito in data 5 novembre 1936 dal Servizio Ricerche geofisiche ing.A.Zabelli di Roma che confermava sostanzialmente la corretta ubicazione dei vecchi lavori. Successivamente, a ulteriore dimostrazione delle notevoli prospettive di successo dell’iniziativa di Boldi, al Corpo delle Miniere di Firenze fu inoltrata addirittura una relazione compilata dal rabdomante veronese Ettore Olivieri (che faceva parte dell’associazione di Boldi) basata sui rilevamenti da lui eseguiti nell’area di ricerca dal 21 marzo al 4 aprile 1941 .(86) Concordemente, poi, a quanto già sostenuto da altri in passato(87) fu prospettata anche la realizzazione di una teleferica lunga circa 2.300 m. che, dopo aver risalito i rilievi sulla sinistra del Pavone, avrebbe dovuto trasportare il minerale (già arricchito in loco in un apposito impianto di flottazione) sulla strada per S.Dalmazio.(88) Ma purtroppo anche il programma di ricerca e di riattivazione della ditta Boldi, ostacolato tra l’altro dagli eventi bellici e dalle difficoltà economiche di un paese stremato dalla guerra, naufragò e nel 1944 la concessione fu abbandonata.
Nell’Immediato dopoguerra fu la volta della S.A.R.E.M. (Soc. Anonima Ricerche Escavazioni Minerarie) con sede in Livorno che già nel 1941 si era mostrata interessata alla zona e che il 22/1/1947 chiese e ottenne il permesso di ricerca per minerali di rame e lignite nell’area convenzionalmente denominata “Montecastelli”. Esaurito però il biennio disponibile anche questa società non fece seguire alcuna domanda di rinnovo del permesso: scarsi i mezzi impiegati, poco fruttuose le ricerche, troppo impegnativa un’eventuale riattivazione.(89)
Dopo questo breve interludio la zona in
esame divenne dal 1958 al 1960 oggetto di ricerche per minerali di rame e
solfuri misti da parte dell’I.M.S.A. (Industria Mineraria Società per Azioni)
con sede a Roma che mise in programma un nuovo studio geominerario di
dettaglio e la riapertura di tutte le gallerie e i pozzi onde ispezionare il
giacimento messo in vista dai vecchi lavori al fine di poter stabilire
l’eventuale strategia mineraria e la politica economica da adottare.(90) Anche
in questo caso l’esito fu deludente e allo scadere del consueto biennio di
concessione il permesso non fu rinnovato.
Per i dieci anni successivi nessuno s’interessò più della miniera di Montecastelli finché a partire dal 1972(91) la zona rientrò in un ampio programma di ricerca intrapreso dalla SOLMINE s.p.a. (appartenente alla Montecatini-Edison s.p.a.) e finalizzato allo studio sistematico delle ofioliti e delle mineralizzazioni ad esse associate in base alle ultime teorie sulla genesi delle “rocce verdi” che limitavano l’interesse minerario alle formazioni diabasiche utilizzando i diaspri come rocce-guida; l’associazione diabase-diaspri infatti avrebbe dovuto indicare le condizioni ambientali originarie favorevoli alla messa in posto di convogli mineralizzati (mineralizzazioni primarie) a solfuri misti.
La SOLMINE
mantenne i diritti di ricerca fino al 5 settembre 1979, quando fece pervenire
un’esplicita istanza di rinuncia motivata da “un aftievolimento
dell’interesse minerario del comprensorio di Montecastelli”.(92) Nel
periodo di vigenza del permesso la zona fu comunque oggetto di un’indagine
geostatica sulle formazioni ofiolitiche e sulle mineralizzazioni associate
nonché di studi sulle possibilità di recupero di alcuni metalli dalle stesse
rocce mediante processi idrometallurgici in sito.(93)
Dopo questo lungo viaggio attraverso tre
millenni di storia mineraria siamo così giunti ai giorni nostri, ovvero a
un’epoca in cui conoscenze geologioche più approfondite e tecniche d’indagine
geomineraria più raffinate, hanno purtroppo condotto (unitamente alla mutate
condizioni economiche della nazione e congiuntamente alla sua diversa politica
mineraria) all’amara conclusione che “le speranze di trovare nei terreni
ofiolitici della Toscana un deposito cuprifero d’indiscutibile valore
industriale devono considerarsi del tutto perdute”(94), determinando
così per questa miniera, come per tutti gli altri analoghi giacimenti toscani,
il definitivo abbandono.
Ciò tuttavia non riduce in alcun modo il
notevole ruolo svolto nella storia economica e sociale di Montecastelli
dall’esistenza di importanti mineralizzazioni metallifere nei suoi immediati
dintorni: una presenzacostante che ha accompaganato, talora condizionandola, la
vita di questa piccola comunità della Maremma volterrana dalle sue origini ad
oggi tanto da rappresentare a buon diritto la caratteristica principale del
luogo e tale da alimentare a più riprese nel corso dei secoli le più illusorie
ed ottimistiche prospettive di un’autentica ricchezza di metallo.
Illusioni e speranze mai sopite a cui il nome di
Montecastelli resterà sempre indissolubilmente legato.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
Corpo delle Miniere,
Distretto di Firenze, Permessi e concessioni, Prov. di Pisa – permessi non
accordati: G.PEROTTO – Relazione geologico-mineraria sull’area domandata in
permissione denominata “Monte Castelli” e programma dei lavori che
s’intendono svolgere. Dattiloscritto inedito non datato, p.3;
Ibidem
B.LOTTI – Sul
giacimento ofiolitico di Rocca Sillana. in: “Boll. R. Com. Geol. It.”,
voi.7, 1876, p.292;
A.SCHNEIDER
– La miniera cuprifera di Montecatini (Val
di Cecina). Firenze, Tip. G.Barbèra, 1890, p. 15;
B.LOTTI – Sul
giacimento cuprifero cit., p.84;
cfr. nota 49;
B.LOTTI – Ulteriori
notizie sul giacimento cuprifero di Montecastelli in provincia di Pisa, in:
“Boll. R. Com. Geol. It.”, XXI,
1890, pp. 15-17;
Relazioni (già Rivista) del Servizio Minerario e statistica delle
industrie estrattive. Roma. Corpo delle Miniere, dal 1878;
B.LOTTI – Ulteriori
notizie cit., p. 15;
Ibidem;
Idem, p.17:
Ibidem;
cfr. B.LOTTI – Geologia
della Toscana, cit., p. 258;
B. LOTTI – Ulteriori
notizie cit., p.17;
E.CORTESE ■ Giacimenti
cupriferi italiani, in: ‘Nuovi annali dell’agricoltura del Ministero
dell’Economia Nazionale”, 1927, p. 483;
Corpo dell Miniere, cit., Pisa III 59 –
“Montecastelli”: A.MONTICOLO – Verbale di sopraluogo alla miniera cuprifera
di Montecastelli. dattiloscritto inedito datato 16 marzo 1929:
Corpo dell Miniere,
cit., Pisa II 8, “Rocca Sillana – Barbiano”;
cfr. B.LOTTI – I
depositi dei minerali metalliferi. Roma, ediz. de “L’Industria
Mineraria”, 1928, p.67:
cfr. nota 51 p 65:
Relazioni sul
Servizio Minerario cit., 1929, p.130:
cfr. nota 75:
A.MONTICOLO – Rapporto sulla ricerca di rame “Rocca Sillana’’. Visita del 23
ottobre 1930, mano scritto inedito:
Ibidem;
Idem, A.MONTICOLO – Rapporto
sulla visita del 3 ottobre 1931 alla ricerca “Rocca Sillana”,
manoscritto inedito:
Corpo dell Miniere,
cit., Pisa 45/25 “Cerbaiola”: permesso accordato in data 5/10/1940;
Idem. F.FEDERICI – Relazione
geologico mineraria sul giacimento cuprifero di Montecastelli Pisano e sui
lavori di esplorazione eseguiti, dattiloscritto datato 1 luglio 1941,6
cfr. U GELLI &
G.GIORGI – La miniera de!pavone cit., p.26.
E.CORTESE – Giacimenti
cupriferi cit., p.482;
cfr. nota 82;
Cfr. A.MONTICOLO alle
note 74 e 81: cfr. inoltre L.GERBELLA ■ Il problema del rame cit.,
p.287;
cfr. nota 83. p.5:
Corpo delle Miniere,
cit., Pisa 45/104 “Montecastelli”;
Corpo dell Miniere,
cit., Pisa 45/146 “Montecastelli”;
Corpo dell Miniere,
cit., Pisa 45/192 “Monte Castelli”:
Ibidem;
Ibidem:
G.CAROBBI &
F.RODOLICO ■ I minerali della Toscana. Saggio di mineralogia regionale.
Firenze, Olschki. 1976, p.46.
ERRATA CORRIGE
Nella prima parte di questo articolo sono state omesse o
ridotte alcune note. Scusandocene coi lettori provvediamo a riprodurle nella
loro completezza.
cfr. P.FABBRI – Montecastelli: un comune medioevale della maremma volterrana, in: “Volterra”, a. X, n. 7 8, luglio- agosto 1971, p.16; per un esame completo degli aspetti socioeconomici della zona durante questo periodo si veda comunque P.FABBRI – Vita e società di un Comune rurale della Maremma volterrana nella prima metà del XV secolo: Monte- castelli. Tesi di laurea. Univ. degli Studi di Firenze, Facoltà di Magistero, a.a. 1969-70, 2 voli, e G.PAMPALÓNI – Vita, società e organizzazione di tre castelli della Maremma volterrana alla fine de! Trecento e nei primi decenni del successivo Quattrocento, in: Studi in onore di Eugenio Duprè Theseider, Roma, Bulzoni, 1974, pp. 747-783, in cui sono studiati i comuni rurali di Sillano, Montecastelli e Canneto:
cfr. L. ALBERTI – Descrittione di tutta Italia. In Bologna, per Anseimo Giaccarelli, 1550. cc. 47-52;
cfr. B.G.V.. ms. 8467 (LXII.7.16): Descrizione dell’antica e nobile città di Volterra fatta da Giovanni Rondinelli Capitano l’anno 1580, c. 5r. La trascrizione integrale del documento si può leggere oggi in: A.MARRUCCI – Imago Mundi. Opere geografiche e cartografiche della Biblioteca Guarnacci. Volterra, Consorzio di Gestione del Museo e Biblioteca Guarnacci, 1992, pp. 125-136:
Azione della miniera di Montecastelli.
cfr. C.PERAZZI – Intorno ai giacimenti cupriferi contenuti nei monti serpentinosi dell’Italia Centrale. Torino, Stamperia Reale, 1864, pp.20-21. L’ingresso di Boutourline nella Società fu senza dubbio decisivo sotto l’aspetto della gestione finanziaria. Infatti due anni dopo le sue adesioni alla cosiddetta Società di Monte Catini fu creata appositamente per la miniera di Montecastelli una nuova società in accomandita denominata Société Anonyme de Montecastelli, registrata a Marsiglia con atto del 26 ottobre 1843. La Società nacque con un fondo
sociale (o capitale effettivo) di 100.000 franchi rappresentato da 100 azioni di fondazione ognuna delle quali dava diritto a 1/ 200 sui benefici netti e a 1/200 sulla proprietà materiale della Società. Oltre ai signori Crenin e Cohen spicca tra i fondatori il nome del Conte de Larderei che evidentemente intendeva perseguire anche in questo modo la sua personale e fortunata strategia economica rivolta allo sfruttamento di ogni possibile risorsa mineraria presente nella regione boracifera o nei terreni che divenivano progressivamente di sua proprietà.
NEL COMUNE DI POMARANCE (PI) a cura di J. Spinelli (II parte)
L’attività
estrattiva dello zolfo in località Fontebagni e Valli è documentata ancora
fino agli anni 1840 in cui risultano interessanti cause civili presso la
podesteria di Pomarance nelle quali vengono coinvolti gli stessi proprietari,
Fedeli e Bardini, con mercanti ed appaltatori. È infatti attorno al 1833 una
delle numerose cause, che si protraranno per anni, tra certo Cosimo Azzati,
mercante livornese, ed i Fedeli che, per motivi non chiari, stralciava il
contratto di affitto delle cave stipulato l’otto Marzo 1833:
“Per il presente compromesso apparisca e sia noto qualmente il Sig. Cavalier Giuseppe Bardini e Bartolomeo Fedeli e suoi nepoti, danno in affitto le loro cave poste nei poderi di proprietà dei sopradescritti Signori denominate Podere Valli e Fontebagni posti nel Comune di Pomarance e precisamente per il podere delle Valli nel luogo detto la Masa… al Sig. Cosimo Azzati mercante, abitante a Livorno con gli appresso patti e cioè: Il Sig. affittuario dovrà pagare in natura per canone di affitto al Cavaliere Bardini il dieci per cento sopra lo zolfo fabbricato e dal Fedeli per i primi cinque anni il 7°/o e per gli altri cinque il 1O°/o e questi dovrà essere fatto non in pietra ma in zolfo… Non potrà detto affittuario trasportare lo zolfo prima che il Sig. Cav. Bardini e Fedeli non abbiano assistito alla spedizione e che ne abbiano essi prelevato la loro quota e perciò dovrà l’affittuario prima della spedizione avvisare i proprietari della cava onde assistere fino alla medesima , e gli venga consegnato ciò che gli spetta:
Solfara naturale nei pressi di Libbiano.
“Per il presente compromesso apparisca e sia noto qualmente
il Sig. Cavalier Giuseppe Bardini e
Bartolomeo Fedeli e suoi nepoti, danno in affitto le loro cave poste nei poderi
di proprietà dei sopradescritti Signori denominate Podere Valli e Fontebagni
posti nel Comune di Pomarance e precisamente per il podere delle Valli nel
luogo detto la Masa… al Sig. Cosimo Azzati mercante, abitante a Livorno con
gli appresso patti e cioè: Il Sig. affittuario dovrà pagare in natura per
canone di affitto al Cavaliere Bardini il dieci per cento sopra lo zolfo
fabbricato e dal Fedeli per i primi cinque anni il 7°/o e per gli altri cinque
il 1O°/o e questi dovrà essere fatto non in pietra ma in zolfo…
Non potrà detto affittuario
trasportare lo zolfo prima che il Sig. Cav. Bardini e Fedeli non abbiano
assistito alla spedizione e che ne abbiano essi prelevato la loro quota e
perciò dovrà l’affittuario prima della spedizione avvisare i proprietari della
cava onde assistere fino alla medesima , e gli venga consegnato ciò che gli
spetta
Che tutti i danni siano resarciti qualunque la deputazione
dello zolfo cagionasse dei danni alle semente olivi, viti e questi, siccome la
maggior parte sarebbero apportati al luogo delle Val li, podere oggi lavorato
da Lorenzo Gazzarri, e di proprietà del Cav. Bardini;in tal caso l’affittuario
dovrà pagare scudi sessanta annui al Cavalier Bardini, rimanendo il prodotto di detto luogo in vantaggio
all’affittuario;… …qualora la fabbrica si farà o sia murata o in altro modo
nei beni d’ambedue i Sig.ri proprietari delle cave, al termine del contratto ,
per qualunque titolo esso termini dovranno queste fabbriche non essere
demolite, ed intatte, e rimanere nel suolo in cui sono state costruite e perciò
appartenere in possesso al proprietario… cui appartengono. Se il Sig.
affittuario non aprirà la cava a tutto settembre di quest’anno s’intende
decaduto l’affitto…
La cava non potrà essere aperta con un numero minore di venti persone, e queste permanentemente vi dovranno rimanere al lavoro.
Se il sig. affittuario terrà sei mesi la cava chiusa,
intendendosi per chiusa il tenersi un numero di lavoranti minori di venti
persone ipso fatto, decaduto dall’affitto ancora che i prorietari della cava ne
abbiano fatto formale disdetta.
Se nel corso dei tre mesi dall’estate, cioè da luglio ad
agosto rimarrà la cava chiusa per motivo che i lavoranti ritornar volessero,
secondo l’uso ordinario, alle loro case, questi mesi non verranno considerati
nei sopradetti.
La dispensa sarà tenuta in società fra il Sig. Bardini e
Famiglia Fedeli ed i prezzi saranno regolati secondo i prezzi correnti…
Ogni mese il sig. affittuario dovrà pagare l’importare dei
generi levati dalla dispensa dai suoi lavoranti ed esso ne rimarrà sempre
mallevadore…
Se starà il sig. affittuario più di un
mese a pagare l’importare dei generi lavorati dai suoi lavoranti alla dispensa,
questa verrà ipso fatta chiusa e tutti i generi che saranno sopra la cava
rimarranno in garanzia dell’importare dei generi levati dalla dispensa….
per maggior chiarezza del precedente articolo si intendono per i generi che sono sopra le cave quelli che appartengono in proprietà all’affittuario compresi Zolfi, legna ed ogni altro che sia di sua proprietà…
Francesco Funaioli
Raffaello Tamburini
Marco Bicocchi
Cosimo Azzati
Da una causa intentata fra l’Azzati ed il Fedeli presso il tribunale di Pomarance a circa 18 giorni dalla stipula del contratto abbiamo notizia delle revoca del contratto di escavazione:
A di 20 Aprile 1833
Davanti V. S. III. ma Elettivamente Sig. Podestà Regio di
Pomarance comparisce,Il Sig. Cosimo Azzati mercante e possidente di Livorno
domiciliato in Livorno ed elettivamente presso il sottoscritto (Avv. Pietro Biondi)
che nomina suo procuratore.
Rappresenta nuovamente ed in
faccia di bisogno e non di altrimenti al Tribunale di V. S. Eccellentissima che
per contratto posto in essere fra la Casa e la Famiglia, diretta e
amministrata da Bartolomeo Fedeli, nel di 8 Marzo 1833 venne ad essere
celermente esiliato dalle Cave di Zolfo esistenti nell’ambito intero del
podere di Fontebagni…”
Quali furono le cause che determinarono
la rottura del contratto di locazione non ci è dato a sapere, anche se appare
in seguito nella presente causa il Sig. Michele Bicocchi, figlio di Marco e
fratello di Giuseppe,ricco possidente che era entrato da poco nella società De
Larderei per
sfruttamento
dei lagoni boraciferi di Montecerboli.
Nell’istruttoria
si apprende che venne inibito dal tribunale di Pomarance qualsiasi tipo di
escavazione nelle cave di Caldana e della Masa e la prosecuzione delle stessa
punibile addirittura con l’arresto. In un successivo documento dal tribunale
appare in causa direttamente anche Michele Bicocchi che fece causa allo stesso
mercante livornese:
Davanti
alTIII.mo Podestà compare il Sig. Michele Bicocchi possidente domiciliato in
Pomarance rappresentato da me Not. Stefano
Biondi che elegge come suo procuratore contro
Sig. Cosimo Azzati mercante… domiciliato a Livorno e rappresentato dall’Avv. Pietro Biondi.
Ed in sequela di due scritture rilasciate negli atti di questo tribunale e notificata la prima fatta il 18 aprile 1833 in persona di Giovanni Morelli, e la seconda sotto di 20 aprile del medesimo anno in persona del Sig. Francesco Serini, con le quali in sostanza dopo non vera ed approvata esposizione di fatto, si viene a concludere dal ridetto Sig. Azzati,che venga inibito ai signori Serini e Morelli (agenti dell’Azzati) l’intrapresa prosecuzione delle escavazioni solfuree di CALDANA spettanti di proprietà dei Fedeli.
Attestato che il Sig. Francesco Serini, quanto Giovanni Morelli non rivestano che la pura e semplice qualità di agenti ed incaricati del comparente, non essendo che il comparente stesso interessato nella escavazione di cui si tratta in virtù di vendita e cessione di diritti fattagli dai proprietari del luogo ove intraprese l’escavazione e precisamente in luogo detto Caldana viene ingiunta l’inibitoria di escavazione.
Planimetria di Libbiano – 1835 c.a.
Dai documenti di archivio si apprende che il diritto di escavazione fu
concesso dai Fedeli in data 13 Aprile 1833 e non sappiamo quali siano state le
cause delle recessione del rogito notarile avvenute 5 giorni più tardi, dato
che altri documenti confermano la concessione per l’estrazione dello zolfo a
Michele Bicocchi proprietario della Villa di S.Ippolito :
“A Di 13 Aprile 1833
Nel nome di Dio Santissimo avanti avanti a me sottoscritto
Dott. Giuseppe Antonio Biondi Bartolini del fu Dott. Giovanni Battista Biondi,
Notaio regio residente in Pomarance di studio di casa di mia proprietà, posta
in luogo detto Contrada di Petriccio,si sono presentati i Sig. Bartolomeo del
fu Giuseppe Fedeli Andrea e Giovanni fra loro fratelli tutti lavoranti e
possidenti, domiciliati al podere
Fontebagni,popolo di Pomarance;
Il Sig. Michele del Sig. Marco Bicocchi possidente e
commerciante dimorante e domiciliato nella terra di Pomarance dall’altra
parte.
I suddetti Bartolomeo, Andrea
e Giovanni Fedeli in virtù del presente istrumento e liberamente per loro,
loro eredi e successori ed aventi diritto a causa hanno dato e ceduto siccome
danno e cedono e vendono per IO anni continuativi da cominciare dal dì del
presente istrumento al Sig. Marco Bicocchi possidente… il diritto di
escavare e farsi suo ogni quantitativo di Zolfo che potrà nel corso dei suddetti
10 anni escavare ed estrarre dagli appezzamenti di terra conosciuti con il generai
vocabolo di Caldana, divisi dagli altri detti della Masa, dal crine del POGGIO
ad ACQUA pendono verso il possesso Funaioli, il botro di Caldana ed il fiume
Trossa e sino a tutti i confini posti nella comunità di Pomarance di proprietà
Fedeli… con gli appresso patti accettati dal ridetto Sig. Bicocchi:
Che il comparente e conducente Sig. Bicocchi dovrà assumere la difesa dei cessionari Sig. ri Fedeli per qualunque molestia, spesa e danni che potesse divenirli per parte dei Sig. ri Giuseppe Bagnolesi, Antonio Trafeli e Giovanni Baldi e loro eredi circa degli impegni e patti con i medesimi sulla cava in antico aperta in Caldana e sebbene tali impegni li abbiano e tengano per ultimati, non vogliono soffrire spese a danno e lite con gli anzidetti Bagnolesi e Trafeli e Baldi e avvenendo tale contratto intendono che il Sig. Bicocchi sia a suo rischio e pericolo.
Che il canone prezzo di detta cessione e vendita sia per 10 anni di diritto di escavazione e fissato a libbre 10 di zolfo depurato; per ogni libbre cento di zolfo che verrà estratto dai suddetti terreni di Caldana da rilasciarsi dal suddetto Sig. Michele Bicocchi a favore dei mentovati cedenti proprietari fedeli e loro eredi e successori volta per volta che ne sarà una quantità da spedirsi, ne potrà farsi spedizione senza che sia pesato alla presenza dell’interessato Fedeli.
Che nel suddetto prezzo pattuito canone non debbono essere compresi i danni di qualunque specie fatti dagli uomini e dalle bestie che verranno destinati per la escavazione, sia al suolo che alle semente ed alle piante selvatiche e domestiche…
Che il suddetto Sig. Bicocchi ricevendo buon lavoro debba
servirsi per la macinazione delle grasce per uso della dispensa della
lavorazione ed escavazione ,del mulino dei mentovati Fedeli…
… e stante che i ridetti
Fedeli in garanzia, vogliono che venga messo mano e cominciati i lavori di
escavazione dentro quattro mesi da oggi e non più tardi, abbiano richiesta la
somma di scudi cento ossia Fiorini 420 con patto che se sarà mancato porre mano
alla escavazione nel suddetto tempo tale somma rimarrà a loro proprio in
rifacimento…”.
Un
contratto notarile ed altri documenti del 1836 confermano varie liti tra gli
affittuari ed i Fedeli ed in particolare uno stralcio di contratto conservato
nell’Archivio Biondi Bartolini in cui il notaio Giovan Antonio Biondi
Bartolini fa una relazione dettagliata sulle precedenti liti tra questi personaggi:
A di 4 Maggio 1836
…Comparvero il Sig. Cosimo di fu Stefano
Azzati di Livorno, commerciante e possidente ed i Signori Bartolomeo del fu
Giuseppe Fedeli, Giovanni del fu Sebastiano Fedeli ed Andrea del fu Sabatino
Fedeli in fra loro zio e nipoti, tutti contadini e possidenti domiciliati a
Fontebagni presso Pomarance…
Narrasi per quanto, come tra dette
parti, ed intervenuto ancora il Cav. Giuseppe Bardi ni, si stipulò l’atto di
cui segue il tenore.:
…In una causa acerrissima si trovò
impegnato il Sig. Cosimo Azzati per l’altro affitto come sopra, dai Sig.
Fedeli la quale finalmente venne resoluto favorevolmente al medesimo Azzati con
la descrizione annotata dal supremo Consiglio di Giustizia…
…Narrasi come stante la pendenza di
detta causa, il Sig. Azzati dovè fino al mese di ottobre dell’ anno 1834 tener
limitata la lavorazione nella parte delle cave denominate la MASA, e solo da
detta epoca venne ad attendere all’altra parte della cava denominata
Caldana…;
Narrasi prossimamente, come i Sig. ri Fedeli
lasciarono ad un tempo di poter tenere la dispensa, che avevano voluto aprire
per loro profitto…;
narrasi similmente che i suddetti Sig.ri
Fedeli hanno fino a tutto Aprile 1836 conseguito dal Sig. Azzati ciò che li è
dovuto di zolfo, avendo rilasciato con la giusta vendizione concordata volta
per volta al medesimo Azzati;
Narrasi come finalmente essendo da ora
pareggiati gli interessi tra le parti in causa e nascendo questioni di quanto
per la pendenza della detta causa, debba dirsi fatto principiato il decennio
levato dall’affitto e conseguentemente fino a quale epoca debba protrarsi la
scadenza.Consultando le stesse parti il loro respettivo interesse sono presi
nella concorde resoluzione, di divenire comunque alla seguente stipulazione e
perciò…
…detti Sig. Bartolomeo, Giovanni e Andrea
Fedeli, insieme ed in solido ,in patto al suddetto Cosimo Azzati, e questo a
loro ciascuno per il reso attivo interesse ne altrimenti, per loro, danno e
concedono in affitto al predetto Sig. Cosimo Azzati presente e perciò
ricevente e conducente, tutte le cave di zolfo spettanti nel loro podere di Fontebagni
in comunità di Pomarance, quale confina con i botri di Caldana e della Masa,
che danno il nome ai terreni adiacenti, meglio descritti e confinati al
catasto della Comunità in nome dei detti Signori Fedeli.
Un tale affitto deve guardarsi per cominciare
nel primo marzo 1836 stante e durare a tutto il 30 Aprile 1846…
…per canone di affitto di anno, il
predetto Sig. Azzati dovrà pagare e così promette, e si obbliga sempre per se
e suoi eredi al prefato Sig. Bartolomeo, Giovanni ed Andrea Fedeli, cento
scudi fiorentini di lire sette per scudo, pari a fiorini quattrocento venti
ogni anno perciò anticipato, invece dello zolfo in natura…
A cautela del Sig. Azzati per l’esercizio
dell’affittateli cave i Sig.ri Bartolomeo Giovanni ed Andrea Fedeli hanno
ipotecato ed ipotecano a favore del medesimo Azzati e suoi eredi il
preindicato podere denominato Fontebagni con le relative pertinenze…”.
Fattoria delle Valli.
L’attività
estrattiva nelle miniere di zolfo dell’area di Fontebagni e Valli continuò
ancora per qualche decennio dato che una relazione provincile di Pisa del 1860
conferma l’abbandono delle cave in quegli anni. Le cause che determinarono la
cessazione estrattiva sono imputabili probabilmente ai giacimenti di zolfo
ritrovati in America ed esportati a minor costo di quello locale. L’area di
Fontebagni ebbe però notevole interesse per molti anni con l’escavazione
dell’alabastro “Agata”; che si trovava “copiosamente”, nel sottosuolo e che è
stato estratto per molti anni fino ai nostri giorni.
Un certo interesse per i giacimenti di
zolfo che si trovavano nella zona si determinò nel dopoguerra tra il 1947 ed
il 1949 quando fu richiesto al Corpo Minerario la concessione di fare un saggio
nei terreni vicini all’area di Fontabagni.
La domanda di permesso che pubblichiamo integralmente è stata fornita, per gentile concessione, dell’amico Dott. Angelo Marrucci di Volterra, Direttore della Biblioteca Guarnacci, al quale anticipatamente rivolgo il mio più sincero ringraziamento.
L’area
indagata dalla ditta Salghetti-Drioli e Porciati di La Spezia, era nella zona
del Podere la Favorita nei pressi del torrente Corbolino (già denominato Botro
Cupo), proprio sotto il podere della Casa Nuova che oggi non esite più perchè
demolito negli anni sessanta.
RELAZIONE
GEOLOGICA ALLEGATA ALLA DOMANDA DI PERMESSO DI RICERCA MINERARIA PER MINERALE
DI ZOLFO AVANZATA DALLA DITTA SALGHETTI-DRIOLI E PORCIATTI.
La zona interessata investe la caratteristica
sedimentazione Miocenica Messicana e Pontica con argille e gessi e spesso
ligniti.
Percorrendo la Via Provinciale cha da Pomarance discende alla stazione Ferroviaria di Saline di Volterra, presso il podere la Favorita e fino ai poderi di Piagge del Rio s’incontrano duomi gessosi che emergono dalle argille circostanti e che osservati attentamente presentano i caratteri del briscale e cioè di minerale solfitene alterato. Data l’importanza della massa gessosa, venne allo scrivente nel 1915 (allorché dirigeva
l’apertura della miniera lignitifera della LAMA per la Ditta Fineschi di Firenze)
l’idea che si potesse incontrare al di sotto di quel briscale uno o più strati
di minerale solfifero.
Avutane occasione, lo scrivente fece affondare un pozzetto
verso ovest in prossimità del Torrente Corbolino, pozzetto che a 12 mi. di
profondità incontrò uno strato di zolfo di alto titolo giallo e brillante. Dato
che allora il minerale di zolfo era poco pregiato e richiesto, per la
concorrenza americana che metteva lo zolfo presso le banchine dei porti
mediterranei a L. 6 il quintale, lo scrivente fece ricoprire il pozzo senza
neppure curarsi di speculare lo spessore dello zolfo. E questo fece per le
eccessive proteste del proprietario superficiario allora padrone anche del sottosuolo.
Ora che il sottosuolo è di
proprietà Demaniale lo scrivente compila la presente relazione a corredo
della domanda di Permesso.
E. Fiumi, “L’utilizzazione dei Lagoni
Boraciferi della Toscana nell’industria Medioevale”, Casa ed. Carlo CYA,
Firenze 1943.
“Lo zolfo era usato specialmente in medicina, in tintoria e
nella fabbricazione della polvere da sparo… Quanto negli usi industriali lo
zolfo nero era richiesto neH’imbianchimento della seta e di ogni tessuto in
genere, nel solforare le botti’’.
In medicina:
“era indicato per risolvere i tumori, per la rogna, per la tisi,per malattie di
petto, mentre i fummigi pare avessero sicura efficacia nella cura dell’asma’’.
Cercando di
focalizzare lo studio sulla coltivazione dello zolfo tra il XVIII secolo e II
XIX ho tralasciato la parte di ricerca più antica di cui aveva già parlato
l’esimio Prof. Fiumi ben 50 anni fa e da cui riporto alcuni stralci di documenti
che spero possano completare questo studio.
PUTIZZE DI
LIBBIANO E MICCIANO E ZOLFI NAIE DI FONTE BAG NI
1380 – Novembre 23. Giusto di Iacopo da Pomarance e Nera del fu Neri, sua moglie, locano a Polito di Giovanni da Pomarance (Incontri) un pezzo di terra incolta nella curia di Libbiano, in luogo detto Fontebagni,ovvero alle Lillora, per cavarvi zolfo.
1382 – Simone, rettore dell’ospedale di S. Simone di Libbiano,concede in affitto a ser Cec
co di Chelino Incontri da Pomarance, a Giusto di
Francesco Peruzzi e a Francesco di Martino di Credi, ambedue di Volterra, un
pezzo di terra che possedeva in comune con la Famiglia Ferrari perchè i detti
conduttori potessero estrarvi zolfo cinque anni, contro l’affitto di f. 10
l’anno.
Rilevazioni del Catasto di Volterra 1427-1429
Della Bese: Piero e
Giovanni di Giusto di Francesco posseggono un terreno atto a cavare zolfo di
Libbiano e Pomarance, 1/3 con Francesco e Tancredi di Martino Credi, “ma sono
passati più anni e non si cava niente’’. La stessa denuncia ripetono gli
Incontri e i Credi.
Guidi: Mercatante e
Gentile di Giovanni di Giusto posseggono “più pezzi di terra che confinano
tutti insieme, atti a chavare solfo, posti nella corte di Libbiano con loro
vocaboli che cominciano in Sancto al Nespolo e finiscono in Trossa. I quali
pezzi di terra confinano: a I. via, II. Michele di Ser Ceccho e compagni e in
parte Giovanni di Guasparre e compagni, III. in parte il comune di
Ripomarance.in parte il bosco, IV. in parte lo spedale di Libbiano. E detti
pezzi atti a cavare solfo al presente non si lavorano e non si fa lavorare da
più anni, e quando si è lavorato vi s’è perduto assai e anche assai
guadagnato; non ci pare si debbano stimare al presente alcuna cosa perchè al
presente non ne cavano nulla,ma se vi si lavora ne terrà conto e
noctificherallo’’.
Un pezzo
di terra, ovvero puzaia, posta nella corte di Libbiano: a, I) Via, II) botro dell’Adio, III) Michele di Ser Ceccho e
compagni, IV) la chiesa di Libbiano. Non si lavora, non si cava frutto niuno.
6 Marzo 1429 (st.f.); “Stimala Mercatante fl.4”. Un pezzo di terra sodo e boscato e parte a lumaia da zolfo nella Corte di Micciano in luogo detto Castagnoli Confina a: I) via, Il e III) la comunità di Micciano, IV) il botro dell’Adio.
Marchi: Giovanni di
Guaspare e fratelli posseggono nella corte di Libbiano due pezzi di terra a
Fontebagni e Cagnuolo,ambedue indivisi coll’erede di Guelfuccio e Napoleone di
Bartolomeo da Libbiano, nei quali si usava “trarre solfo alcuna volta’’.
1485 – Febbraio 14. Mariotto
e Giovan Battista Incontri locano a Nicola Guidi una “cavam seu bucam cave
sulfuree in castro Libbiani,loco dicto ne Cellenesi”.
1490 – Maggio 1. Nicola Guidi
vende a Ser Niccolò Tancredi di Libbiano un pezzo di terra posto a Libbiano,
luogo detto Soppresso, riservandosi però “quamdam puzariam seu terram
mineralis ad mineram sulfuris aptam’’.
1566 – La compagnia della Beata Vergine di Duomo affitta a Giovan Battista di Buonristoro Gherardi le putizze o zolfaie poste nella comunità di Libbiano a Cafaggiuolo.
1600 – Le
suddette putizze sono allogate a Bernardino e Cosimo di Giovan Antonio
Roncalli (fratelli del pittore Cristofano Roncalli detto il Pomarancio)
TARGIONI TOZZETTI, Relazioni su alcuni viaggi in Toscana I754
Archivo Storico Comunale Pomarance F. 577B- 579B
Archivio privato Biondi Bartolini Pomarance non classificato.
Ringrazio i Dott.ri Giovanni e Giulio Biondi Bartolini per avermi concesso nel 1990 la consultazione della carte relative a questo mio studio che è stato ultimato pochi giorni prima della stampa del N. 1 1993 grazie all’aiuto di molte persone, tra le quali il Dott. Angelo Marrucci, Direttore della Biblioteca Guarnacci.
NEL COMUNE DI POMARANCE a cura di J. Spinelli (I parte)
La coltivazione
mineraria in Val di Cecina è stata fin dai tempi più remoti una delle
principali risorse economiche della zona che ebbe il suo maggiore sviluppo nel
XIX secolo, quando imprese a capitale straniero cominciarono ad interessarsi
di quest’area ricca di minerali come il rame, il ferro l’antimonio, il
vetriolo, il piombo ed altri.
Nel Comune di
Pomarance le tracce e le testimonianze delle attività minerarie sono assai
note, in particolare quelle di rame che fu estratto fino ai primi anni del
’900 nella zona di Sant’lppolito e Monterufoli e di cui abbiamo reperti che
risalgono al periodo etrusco e romano.
Ma fu soprattutto l’intraprendenza di commercanti francesi, come il “De Larderei”, che determinò in loco una nuova mentalitàper lo sfruttamento del sottosuolo attuando un processo industriale sulle emanazioni “vulcaniche” naturali dei “Lagoni di Montecerboli”, attuando i progetti del pomarancino Paolo Mascagni, che anni prima, non aveva trovato il conforto necessario dalla aristocrazia e borghesia pomarancina. I De Larderei grazie a questo riuscirono a fare la loro fortuna in queste zone che sfruttarono fino ai primi anni del ’900.1 vecchi proprietari terrieri delle antiche casate nobiliari pomarancine e volterrane solo in parte si interessarono allo sfruttamento minerario in Val Di Cecina e furono incoraggiati, soprattutto nell’ottocento, dai notevoli guadagni che gli “imprenditori stranieri” facevano nella zona delle colline metallifere.
Podere di Fontebagni.
Sulla scia infatti di
questi nuovi imprenditori, dotati di cospicui capitali, anche a Pomarance si
formarono alcune società per l’escavazione e la commercializzazione di un
minerale molto richiesto fin dall’antichità: lo “Zolfo”.
Commercializzato fin
dal Medioevo, il giacimento più antico e conosciuto fu quel
che si trovava nel comune di Libbiano,
antica roccaforte della famiglia Cavalcanti che possedeva nel suo territorio
importanti giacimenti di “Apyron” allo stato naturale e dai quali il Comune
di Volterra traeva tasse e gabelle.
Le Cave più antiche descritte dagli storici si trovavano in località “Chiuse di Soppresso”, poco distante dalla villa di Libbiano, e passarono dai Cavalcanti alla famiglia dei Guidi di Volterra. Comunello di Libbiano, esistito giuridicamente fino al 1776, quando fu compreso nella nuova Comunità di Pomarance, estendeva il proprio territorio fino alle macchie di Monterufoli, lungo il corso del torrente Adio e quello della Trossa. In particolare in un pezzo di territorio ubicato sul versante opposto al castello, al di là della Trossa, caratterizzato dalla presenza di giacimenti di zolfo, che sono testimoniati da vari documenti (XIV e XVII secolo) ed alcune relazioni dei “Capitani di Volterra” che cotrollavano il territorio giurisdizionale della Val di Cecina.
Area di appartenenza del comune di Libbiano fin dal XIV secolo (zona Fontebagni e Valli).
La località era, e lo è tutt’oggi, denominata Fonte Bagni. Descritta dal Targioni Tozzetti come “Fonte a Bagni” era l’area in cui si estraeva lo zolfo migliore, più puro denominato zolfo nero che veniva estratto dal sottosuolo e che fu fino all’ottocento una delle risorse primarie del territorio volterrano. Il luogo era stato descritto secoli addietro dall’Alberti, da Frà Giovannelli ed anche da R.Maffei nei “Discorsi sopra i residui d’antichità a Volterra”:
“…Havendo io de sali parlato altra volta restami solamente a dire circa la miniera di zolfo. Di questo se ne trovano di due sorte cioè nero e giallo. Il nero non è punto inferiore al giallo nelle sue qualità et di questo se ne trova assai nel contado di Libbiano et in particolare in una possessione che si chiama Fonta Bagni et si trova in miniera pura che per lo più ha poco bisogno d’essere purgata dal fuoco.Furono queste miniere di zolfo esercitate già dalla famiglia de Guidi di questa citta …i quali ne traevano profitti (1)”.
Da “Agricola” – “De re metallica libri XII (1556)”. Lavorazione dello zolfo nel XVII see.
La Località, conosciuta principalmente per l’estrazione di alabastro, di cui rimangono ancora oggi evidenti tracce, presenta casualmente testimonianze di questa antica manifattura che è confermata soprattutto da innumerevoli documenti tratti dall’archivio Guarnacci di Volterra, da quello Biondi Bartolini di Pomarance e dall’Archivio Storico dello stesso comune. Fonti orali ricordano questa antica estrazone con l’individuazione di pozzi profondi 6 m. ritrovati mentre si escavava l’alabastro. La localizzazione del sito, dove si fabbricavano i famosi “pani di zolfo”, studiando i toponimi locali come ad esempio il “Campo della Ferrira” (sotto il podere San Domenico di Proprietà Ferri) ha reso, durante alcune ricognizioni, frammenti di vasi e cocci in terracotta con tracce di Zolfo (mostratemi alcuni anni fa dal Sig. Silvano Gazzarri, detto “Gattafumma”, vissuto in questa zona da ragazzo) che starebbero ad indicare almeno uno dei luoghi dove veniva lavorato questo minerale.
Questo lembo di territorio appartenuto al
comune di Libbiano ed al di là dei suo termini naturali, confinava con la
Comunità di Montegemoli, Montecerboli e Pomarance attraverso un confine che
seguendo il Botro Cupo (oggi denominato Corbolino), costeggiando la “Villa
delle Valle”, raggiungeva un termine di confine in prossimità del podere
Nespolo e proseguiva giù lungo il fosso di Caldana fino al fiume Trossa sotto
il “Mulino di Fontebagni”. Ed è soprattutto in tale area che le fonti
documentarie ricordano questa lavorazione che dava sostentamento a numerosi
capifamiglia nonostante che il mestiere non fosse dei più salutari.
L’origine di Fontebagni secondo il Targioni Tozzetti deriverebbe da antiche fonti termali o da un’antica fonte di acqua poco sopra al Poggio di Fontebagni.
La località era denominata in antico anche
alle Lillora come testimoniano scritti di Don Socrate Isolani e studi di E.
Fiumi (2).
Fontebagni, trasformato in podere fin dal
epoche remote ed oggi abitato dalla famiglia Gremigni era l’unica casa colonica
lungo la vecchia strada per Libbiano, che si dipartiva dal podere Nespolo fino al
fiume Trossa come testimoniano carte leopoldine dell’ottocento. La località dette
il nome anche al mulino di Fontebagni di proprietà per secoli della famiglia Fedeli,
interessati anch’essi all’estrazione di questo minerale per lungo tempo, e che
possedevano gran parte dei terreni del poggio di Fontebagni come certificano
gli estimi catastali del XVII e XIX secolo.
L’area interessata dalle cave di zolfo
era quella che andava dal fosso di Caldana a quello della Masa. Qui si estraeva
il famoso Zolfo nero, così detto per il suo colore cenerino.I terreni erano
dati in allogazione o affitto a vari commercianti che provvedevano, a proprie
spese, alla estrazione e commercializzazione del prodotto. La presenza
dell’attività solfifera era testimoniata anche al di là del botro della Masa
nei territori della “Fattoria delle Valle” di proprietà Bardini (già Maffei) dove
sono ancora evidenti acune cave nel vallone del fosso. La Famiglia Fedeli risulta
aliirata nell’estimo del comune di Libbiano del 1787 dove sono descritte le
proprietà di Fedeli Antonio di Francesco e Sabatino suo fratello: …Un podere luogo detto Fontebagni, con casa da lavoratore
e stalle per i bestiami di terre lavorative, sode e macchiate con una chiusa,
parte d’essa vignata confinata a 1. fiume della Trossa, 2. Botro delle Caldane,
3. Acqua caduta mediante la Commenda di San Lazzaro e Monache di San Dalmazio,
4. salendo alle Quercie Crociate del Poggetto del Nespolo mediante la Commenda
di San Lazzero e da detta Quercia va ad una stalletta rovinata sempre a
confine colla Commenda, 5. Ser Cavalier Gherardo
Bardini scendendo da detta stalletta, fino alla strada delle Valli per in giù a
mano sinistra, va al broto della Masa sempre a confino col Sig. Cav. Bardini,
6. detto broto e seguita il medesimo fino a tutta la vigna a confino col Sig.
Cav. Bardini e voltando a mano sinistra va alle gore del Mulino delle Valli
sempre a confino con detto Bardini, 7. da dette Gore e segue le medesime fino
al fiume della Trossa primo termine nominato. Stimato L. 700
Con Voltura n. 78 del 1792 risultano proprietari anche di
un mulino (di Fontebagni) stimato L. 400”
Nello stesso estimo del XVIII secolo è annotato anche il più facoltoso possidente Bardini che attraverso le confinazioni delle proprietà ci permette di individuare esattamente il territorio comunale di Libbiano sul versante di Pomarance: ‘‘Bardini Sig. Cav. Gherardo del Cav. Mario … Una Villa luogo detto le Valli per uso del padrone con due orti e cisterne annessi a detta Villa, Casa per il lavoratore con stalle e chiostre per i bestiami ed un infrangitoio da olio, con terre lavorate vignate pomate di staia settecentocinquanta, con in più un mulino vicino al fiume trossa ad un palmento con casa ed altre stanze per il mugnaio, con più una fornace da lavoro quadro al qual tenimento di terre
confina: 1. con un termine
murato divisorio fra la Comunità di Pomarance e Comunità di Libbiano posto
circa dieci braccia distante dalla strada che delle Valle conduce alle
Pomarance dove sono alcuni Gelsi, qual termine tira in giù nel broto del
Nespolo; 2. Botro del Nespolo e seguita detto Botro per in giù fino al Botro
delle piagge Buie e seguita per il medesimo…
La fonte
più autorevole nella descrizione del luogo è quella fatta nel XVIII secolo dal
Targioni Tozzetti che descrisse questi luoghi con le cave di zolfo di Libbiano
e di Fontebagni:
‘‘Lo zolfo usuale si cava da due sorti di matrici; cioè da zolloni minerali nascosti nel seno della terra, per lo più fra l’alabastro, da crostoni, vale a dire aggrumamenti d’esalazioni di Bulicami o di Mofete. Da ambedue queste matrici si ha lo zolfo di due sorti, cioè vergine, e colato. Lo zolfo vergine o vivo, che gli antichi chiamavano APYRON, a distinzione del PEPY- ROMENON, o fuso, o colato, di cava è molto raro, poiché difficilmnte se ne trova del puro e bello, senza miscuglio di terra, o d’altra sostanza…; Lo solfo di cava costa più di manipolazione, che quello di crostone (sotto Libbiano-Chiuse di Soppresso-) perchè bisogna fare dei pozzi o mine per averlo, e sovente armarli di legname, affinché non franino; dato che il crostone si trova a fior di terra.
Lo zolfo di cava, fuso che sia ricompensa la spesa, perché
rende più zolfo, ed assai più bello che quello di crostone; anzi gli appaltatori
mescolano un tanto per cento dello zolfo di cava con quello di crostone per
dargli un bel colore e farlo crescere di prezzo…
Quando gli zolfai hanno estratto il materiale “…lo
mettono a cuocere in certi vasi di terra cotta come pentole, dentro a certi
fornelli fatti di terra a uso di casse bislunghe… ”
(omissis) “…Lo zolfo ridotto dal fuoco, sale nel
cappello della terra posto sopra alle pentole, e dai beccucci di due cappelli
va in un terzo, donde poi si cola e getta in un vaso di quella figura che si
vuol dare; specialmente zolfo di canna, si chiama quello gettato dentro
cannelli di canna…
Nella fusione di zolfo si consumano poche legna, le quali
sono somministrate da circon vicini boschi. La fabbrica del forno costa poche
lire, e si fa nella campagna aperta in tempi non piovosi…
Nei cappelli delle campane
restano bellissimi fiori di zolfo, i quali sono disprezzati dai rozzi operai,
ma potrebbero mettersi in uso per la medicina, senza farli venir fuori dello
Stato. Si potrebbe anche ottenere con pochissima spesa l’olio di zolfo per
uso della Medicina…”
Dalla
descrizione del Targioni Tozzetti si ha la certezza di quante cave esistessero
in questa località:
“…Salii di poi verso le Pomarance, per il poggio di Fonte a Bagni, ne so perché, non avendo io inteso che vi si trovino bagni presentemente, dai quali possa aver presa la denominazione, e quante acque vi trovai erano tutte insipide.
Zona di Fontebagni – Campo della ferriera.
Per questo poggio sono da cinquanta cave di zolfo nero,
cioè pozzi profondi da 7 in 8 braccia (circa m. 5,40), che tanto ci vuole per
trovare lo zolfo a questa profondità tra grossissimi massi di alabastro bianco
e venato, si trova in gran copia il minerale dello zolfo …che si rompe col
piccone e si mette in pezzetti a bollire dentro alle pentole.
Quivi nel bollire fa gran schiuma, deposita pochi ribolliticci, e ne cola uno zolfo buonissimo, di color pallido, quale per altro si chiama Zolfo nero… e nella piazza di Livorno si paga bello e condotto, due pezze il cento libbre: gli appaltatori per lo più se ne servono per condire lo zolfo , che si fabbrica nel senese verso Orbetello.
Lo Zolfo sembra essere stato colato qui dall’Autore
Sapientissimo della Natura, distribuito a suoli o filoni inclinati, che contribuiscono
a formare l’ossatura della pendice di questo monte…
lo mi credo che il descritto zolfo minerale si chiami
nero, perché nella di lui matrice predomina il colore cenerino, o piombato e
non il bianco o il giallognolo, come nello zolfo dei crostoni…
Quando io fui sul luogo, non si faceva escavazione, e
perciò non potei avere di quello zolfo, ma ne ebbi doppo diverse mostre…
Solamente presi sul luogo certe loppe, o schiume ai piè d’una fornacetta, dove fu fatta già la fusione di questo zolfo nero, e sono in forma di pezzi di pietra color cenerino scuro, tutta spugnosa e sparsa di cavernette più o meno grandi, perchè il fuoco aveva fatto volare in alto quel che vi era dentro di zolfo…
…convien d’avvertire, che in queste miniere di zolfo di
Fonte a Bagni, non vi sono altre caverne, se non quelle fatte dagli uomini per
estrarre la vena dello zolfo…
Proseguendo verso le
Pomarance, osservai che sopra alla pendice della Fonte a Bagni, dove si trova
l’alabastro collo zolfo nero, è depositato il sedimento orizzontale del
mattaione delle colline, quale si trova per qualche tratto della salita…”.
Il procedimento per la
fabbricazione dello Zolfo nero a Fontebagni fu probabilmente lo stesso che
ritroviamo nei primi anni dell’ottocento. La distribuzione avveniva
prevalentemente verso il porto di Livorno, dove era possibile smerciare il
prodotto e dove in quegli anni comparivano vari personaggi di origine francese
che, interessati al territorio di Pomarance, formarono varie società, come la
Fossi, Chemin, Prat, Lamotte, Larderei, che iniziarono lo sfruttamento dei
“Lagoni di Montecerboli”.
Altri, come il Greumard e Franchini, ottenenero la privativa di escavazione sulle cave di Zolfo di Fontebagni dai proprietari Bardini e Fedeli.
Questi due personaggi, Franchini e Greumard, facevano parte della Società Tastoni-Fossi-Franchini-Greumard costituita a Monterotondo nel 1818 per realizzare acido borico dai Bulicami di Monterotondo, acquistando il brevetto di invenzione dall’anatomico pomarancino Paolo Mascagni. Quando i due avessero iniziato lo sfruttamento dei filoni di Fontebagni non è dato a sapere. I preziosi documenti conservati a Pomarance e Volterra ci dicono che in data 9 Aprile 1814 essi cedettero i loro diritti di escavazione ad un’altra società di “pomarancini” formata dal Notaio Isidoro Biondi e dal Sig. Marco Bicocchi, possidenti e commercianti, a cui si aggiunse in seguito anche il Sig. Bardini: “L’anno milleottocentoquattordici, a questo di nove del mese di aprile per il presente atto privato, sotto pugnatura privata apparisca e sia noto qualmente i Sig.ri Pietro Greumard e Francesco Franchini, ambi di professione mercanti, domiciliati nella città di Volterra, capoluogo del Circondario del Mediterraneo, di loro piena e libera volontà diedero vendono, cosi come danno e vendono, ai Sig.ri Isidoro Biondi e Marco Bicocchi, il primo di professione possidente e legale, ed il secondo, possidente e mercante, ambi domiciliati nella terra delle Pomarance, cantone del medesimo nome, la somma e guantità di libbre settecentomila di zolfo, e tutto quanto sarà realizzato sopra le loro cave di questo genere, conosciute sotto i nomi di Fontebagni e Valle, situate nel comune e cantone di Pomarance …con gli infrascritti patti e che cioè: …Che fino da questo giorno tutto lo zolfo, che sarà scavato e fabbricato deve passare nelle mani dei Sig.ri compratori Bicocchi e Biondi, e così a seguitare di giorno in giorno in avvenire, fino a che non sarà fatto completo le rammentate libbre settecentomila, antico peso toscano colla modificazione cioè che: …nel tempo che detti Signori compratori Biondi e Bicocchi fanno del loro proprio da questo presente giorno in avvenire tutto lo zolfo, che sarà fabbricato sopra le dette due cave, fino alla convenienza di libbre 700.000, devino ogni giorno sul quantitativo dello zolfo scavato e fabbricato, rilasciare ai sig. venditori Greumard e Franchini la somma e quantità di libbre quattromila senza alcuna somma e così gratis, e in loro pieno diritto…
Che i Sig.ri compratori, viceversa siano nella facoltà
nonostante qualsiasi domanda fatta dai Sig.ri venditori, di acquistare lo
zolfo scavato e fabbricato a Lire 3 soldi dodici, antica moneta toscana,
venderlo a qualunque altro prezzo senza essere tenuti ad avere alcun riguardo
ai venditori medesimi dal dì sedici al trentuno dì del prossmo mese, come dal
dì sedici dal trenta del prossimo mese di maggio, come dal dì sedici al trenta
del prossimo giugno e dal dì sedici a tutto il trentuno del successivo mese di
Luglio e col medesimo sistema sempre nei giorni successivi dì poi il dì
quindici di ciascun mese prossimo futuro e avvenire fino a tanto che non saranno
scavata e fabbricate sopra le due cave le anzi dette libbre settecentomila di
zolfo, al netto di libbre quattromila, da considerarsi ogni giorno gratis ai
sig.ri venditori…
Che i sig.ri compratori da
questo presente giorno fino a che non sarà passata nelle loro mani la quantità
delle libbre settecentomila di zolfo scavato e fabbricato… devino
continuare a somministrare come per il passato dalla loro dispensa, i generi
agli uomini e lavoratori sopre le predette cave, per essere loro abbuonate a
dette loro somministrazioni dai Sig.ri Pietro Greumard e Francesco Franchini
nei loro conti correnti… ”.
Inoltre i Sig.ri
compratori con il suddetto acquisto promettevano a Graumard e Franchini di non
infierire in nessuna molestia per avere le somme dovute quanto di impedire o
reprimere qualunque causa contro i suddetti venditori, che potessero
promuovere la Società Grilli di Volterra, quanto il Sig. Michele Santini di
Porta a Borgo, circondario di Pistoia, che probabilmente erano già interessati
all’acquisto della cave.
Oltre al Notaio Biondi e Marco Bicocchi era in compartecipazione societaria Giuseppe Bardini figlio del Cav. Gherado, come traspare da un documento dell’8 Giugno 1814, per lo smercio dello Zolfo sulla piazza di Livorno ad un mercante anch’esso di origine francese:
LIVORNO a dì
otto di Giugno 1814
Per la presente scrittura da valere e tenere
come se fosse fatta per mano di Notaio Regio, apparisca e sia noto qualmente
i Sig.ri Cavalier Giuseppe Bardini e per esso
assente, Antonio Funaioli suo agente, Marco Bicocchi ed Isidoro Biondi, tutti
possidenti domiciliati alle Pomarance, vendono ed obbligano al Sig. Brunel Giuliano domiciliato in Livorno, tutti li zolfi delle
fabbriche delle Valle e di Fontebagni che saranno spediti alla Cecina a tutto
di 31 Agosto prossimo futuro e da consegnarsi detti zolfi alla Cecina condotti
a spese di detti venditori fino alla spiaggia. Il Sig. Brunel si obbliga a spedire i bastimenti occorrenti per la
caricazione di detti zolfi che dovranno da esso riceversi a la detta spiaggia
nel modo e nei tempi che apresso;…
Pendice del botro della “Caldana”.
I Sig.ri venditori dichiarano che esistono già alla detta
spiaggia di Cecina, di loro conto libbre quattrocento mila di zolfo che il sig.
Brunel si obbliga a ricevere subito,
tempo permettendo, mandando colà i bastimenti senza dilazione, i quali dovranno
essere pronti a ricevere dette quantità al piu tardi il 22 del corrente mese.
Sig.ri venditori
continueranno a spedire alla Cecina fino a tutto il 31 Agosto prossimo futuro
il resto dello zolfo già fabbricato e da fabbricarsi e subito che vedranno
alla spiaggia una quantità di libbre centocinquantamila circa, ne daranno avviso
di mano in mano al Sig. Brunel il quale
sarà in obbligo di spedire i bastimenti a caricare subito, in modo che siano
pronti a ricevere, al più tardi venti giorni dopo l’avviso ricevuto per
cosi’continuare fino alla totale consegna delti zolfi, e s’intende che ci dovrà
essere almeno sei giorni di intervallo da un avviso all’altro a continuare dal
suddetto giorno 22 corrente;
Si conviene che il detto zolfo da consegnarsi come sopra
deve essere di buona qualità in pani e rottami, giallo come suol lavorarsi a
dette fabbriche escluso verdastro ed esenti da qualunque corpo estraneo.
detto Sig. Brunel si obbliga a pagare il detto zolfo a pronti contanti in
Livorno al prezzo fissato e stabilito in lire quattro ogni libbre cento toscane
delle solite tare d’uso , e ciò dietro l’esibizione a consegna, delle
rispettive polize di carico ed a proporzione che le medesime saranno rilasciate
pertita per partita al detto Sig. Brunel.
Subito che la caricazione sarà effettuata, tutti i risici saranno a carico del Sig. Brunel il quale si intende ricevere la detta merce alla spiaggia di Cecina come sopra convenuto. Sarà in facoltà del Sig. Brunel di incaricarsi alle medesime condizioni che sopra di tutti li zolfi che resteranno sulle cave, che non si saranno potute trasportare alla Cecina a tutto il 31 Agosto suddetto alla quale epoca il Sig. Brunel, dovrà significare le sue intenzioni per lettera ai venditori i quali dal canto loro si obbligano di non vendere, impegnare o consegnare sotto qualsiasi titolo e convenzione, ad alcuno, la benché minima quantità di zolfo già fabbricato e da fabbricarsi come sopra a tutto agosto prossimo, eccettuata la quantità di libbre trecentosettemila da fabbricarsi nel termine che sopra, che restano eccettuate dalla presente convenzione perchè riservate a favore dei Sig. Greumard e Franchini di Volterra. Così convenuto daccordo sotto il rispettivo obligo dei contraenti i quali promettono di osservare esattamente la presente convenzione.
Libbiano – Solfara naturale “Chiuse di Soppresso’’.
Fatto,
duplicato e consegnato un esemplare al Sig. Brunel ed uno al Sig. Isidoro Biondi per interesse dei Sig.
Venditori. Antonio Funaioli agente del Sig. Giuseppe Bardini – Marco Bicocchi –
Isidoro Biondi Pietro Brunel
A distanza di un mese dal contratto con il Brunel iniziarono
i trasporti del minerale di zolfo verso Livorno. Varie infatti sono le ricevute
di pagamenti e di carico merci dei battelli che da Cecina salpavano verso
Livorno. In data 1 luglio 1814 risultano infatti varie ricevute di trasporto
per alcune migliaa di libbre di zolfo:
“A di 1 di Luglio 1814 in
Cecina
ha
caricato col nome di Dio, e di buon salvamento una volta tanto in questa spiaggia,
il Sig. Marco Bicocchi per con il rischio di cui aspetta sopra il navicello nominato
la Sacra Famiglia; padrone Vittorio del Vivo toscano per condurre e consegnare
in questo suo presente viaggio in Livorno all’ordine del Sig. Giuliano Brunel,
/’appiè nominate mercanzie, asciutte, intiere
e ben condizionate segnate come di contro , e così promette detto padrone al
suo salvo arrivo… 57460 libbre di Zolfo in pani e pezzi… ”
Da una ricevuta
del 18 Giugno 1814 traspare che essi avevano già consegnato 334.647 libbre per
un valore di lire 13.385, 17 cosi come il 12 Agosto 1814, per li zolfi venduti
e trasportati, incassarono una somma di di lire 29.226. Le spedizioni
continuarono anche a tutto settembre con la vendita di 9.968 libbre di zolfo.
La presenza del Bardini nella società è testimoniata anche da alcuni quaderni contabili di acconti che furono passati dalla società Greumard-Franchini ai signori Bicocchi, Biondi e Bardini.
Agente o fattore del Bardini per la società pomarancina era uno dei Fedeli di Fontebagni, socio anch’egli per aver affittato i suoi terreni nella estrazione dello zolfo. Il passagio della società è esplicito anche tramite i pagamenti che venivano fatti agli operai con alcune ricevute di pagamento:
“Luigi Possi, lavorante alle zolfaie per
la Società Greumard e Franchini è restatato debitore di Lire 35 soldi 11 danari
8, la qual somma li sarà pagata dal Sig. Bardini a di 5 Agosto 1814 II Ministro
Lenzi
“Il sottoscritto ha ricevuto dal Sig.
Desidoro
Biondi il
saldo del presente mandato’’.
A di 7 Agosto 1814
lo Domenico Vollani
lavoratore alle zolfaie per la società Greumard e Franchini è restato creditore
di lire Duegento sedici, la qual somma li sarà pagata dal Sig. Bardini. Buono
di lire 216
Il
ministro Lenzi
Alcuni dati forniti attraverso i libri contabili a tutto il 19 Maggio 1814 consentono di apprendere l’impiego in questa lavorazione di ben 146 lavoratori che comportarono una spesa di lire 2.998 soldi 4 pagati in Settembre.
Oggi si ottiene l’allume facendo agire l’acido solforico sull’argilla ma un tempo si ricavava in natura: è una pietra che un pò coltiva ancora nelle viscere delle Colline Metallifere di Larderello: specificatamente nella zona del Sasso Pisano dove abbondava.
È un solfato doppio di potassio e alluminio
idrato e serviva perlopiù come mordente in tintoria ma serviva pure
nell’industria della carta e in medicina. Nel 1472 l’allume di “Castel del
Sasso” cagionò il Sacco di Volterra da parte dei Fiorentini e, in verità, il
Granduca Lorenzo, cioè il “Magnifico” (di cui quest’anno si celebra il quinto
centenario della morte) non fu tenero con i Volterrani. Secondo una versione
piuttosto opinabile, in quanto presuppone la rivelazione da parte del
Savonarola dei segreti della confessione, parrebbe che tra le colpe di cui si
macchiò il Magnifico e di cui sentiva rimorso, vi fosse anche quella del Sacco
di Volterra. Ma è passata tant’acqua sotto i ponti e quel fattaccio è
dimenticato. Nel 1483 le allumiere venivano donate all’associazione dell’Arte
della Lana che le abbandonò presto.
In un documento del 3 dicembre 1471 il cancelliere di
Volterra osservava che le cave di allume, attraversando il poggio di Bruciano,
andavano in dirittura alla pieve di Commessano e da questa, in linea retta, al
fiume Cornia, seguitando detto confine fin dove termina la comunità di Volterra
con quella di Monterotondo; ma erano giacimenti sporadici e isolati.
Lo sfruttamento delle cave di allume fu ripreso nel
gennaio 1666, su indicazione di Lionardo Signorini che asseriva di aver trovato
nuove coltivazioni nella zona del Sasso e di Monterotondo. Furono interessati
alla coltivazione i fratelli Niccolo e Giovan Battista Signorini, il dottor
Giuseppe Frosini e Francesco Maffei i quali,
dopo diversi approcci, formarono la società per lo sfruttamento dell’allume
del Sasso, riservandosi di allargare la coltivazione alla zona di
Monterotondo in un secondo tempo.
La società si proponeva di ottenere il permesso Granducale
per venti anni e di erigere nella cava del Sasso una fabbrica che lavorasse
tutto l’anno con una caldaia di tenuta di almeno duecento barili alla
fiorentina, obbligando ciascun socio a sborsare una determinata somma in conto
capitale. Fra l’altro veniva stabilito: – Che la cassa, detta “di Maremma”,
stesse in Volterra, in mano al cav. Francesco Maffei, a suo carico
e risico;
Che il ministro del negozio sia il dottor Donato Frosini, figlio del dottor Giuseppe;
Che gli altri ministri e i lavoratori si debbano cercare e trovare di comune accordo e soddisfazione;
Che se si volesse aprire la cava del Frassine presso Monterotondo, si sborsassero nuovi capitali;
Che se nascessero divergenze tra i soci si rimettessero ad amici comuni della città di Firenze.
Il contratto fu firmato a Firenze il 28
gennaio 1666 e prevedeva:
Di pagare a S.A.S. il
Granduca 2.500 ducati ogni anno, di lire sette per scudo;
Di non pagare gabella
al Comune di Firenze;
Di non transitare, né
introdurre nello Stato di S.A.S. allume forestiero;
Che all’Arte della
Lana vengano riservate mille cantare di allume all’anno e che detta Arte s’impegni
ad acquistarlo, purché sia buono e a buon prezzo;
Che sia lecito
edificare molini , macelli ed altro e trasportare pietre per l’uso;
Che sia lecito pigliar
legna in certi boschi, passar gabella senza licenza, aver salvacondotti e
privilegi;
Che siano preferiti
nelle conduzioni dei beni comunali e che in caso di peste, guerra e incendi,
non paghino;
Che non diano ad altri
carni, vino, macinati ecc.
Che si tengano armi
consentite in un massimo di vénti.
Per quanto riguarda le persone che occorrevano per tirare
avanti una caldara che renda seimila cantare d’allume all’anno erano previste
settantaquattro persone così suddivise:
Il ministro/governatore; il dispensiere con l’aiuto; il
cappellano; il cassiere; lo scrittore; il fattore alla caldara con dodici uomini;
il focarolo con l’aiutante; il comandatore; il caporale della cava con diciotto
uomini; e poi: due persone a nettare la cava; due carrettieri; tre piazzaioli
a innacquare la pietra; sei tagliatori di legna; tre a fare casse, manichi e
altro; sette vetturali/cavallari; un capo macchia; due guardie per la bandita;
un fornaio; un macellaro; un fabbro; un manescalco; un bastiere e due
stallieri.
Detto personale veniva valutato, l’un per l’altro tra il
salario e il vitto, in otto scudi al mese.
Occorreva pure tenere un cassiere generale e un ragioniere
in Volterra e un’aiuto per scrivere lettere.
Occorrevano poi ventuno cavalli da basto;
quattro cavalli per le carrette e tre da sella la cui spesa era prevista (un
cavallo per l’altro) in due scudi al mese.
La spesa per fare 7.200= cantare all’anno,
rilevata dal Frosini sopra 11.000 = cantare, risultava questa:
Per 2.000= fasci (?) di legna L. 20.000
per ferramenti,
4.000
2.000
17.000
e Firenze lire 5,5 il
cantaro L.
Detta spesa importava
circa 21 giulii ogni cantaro; se tutto andava favorevole vi sarebbe stato un
avanzo di 9 giulii il cantaro. Poiché occorrevano dieci giulii per fare un
ducato e questo oscillava intorno alle sette lire, in quel periodo il ducato
doveva valere circa lire 6,1/4.
Infine, a proposito di un certo tipo di
spese, “per la bocca si farà così”:
Ai ministri la tavola ordinaria (e non
si vogliono ministri di superbia ma persone utili e da poterle maneggiare).
A tutti gli altri se li dà un fiasco di
vino e libbre quattro il dì; tre libbre di carne la settimana; due libbre di
farina, una libbra di sale e 1/2 libbra di olio ogni settimana. Ai cavalli di
sella e di carretta si vuole la stalla con due stallaioli a governarli e servirli
e per servire i ministri di casa.
Si raggiungono così otto scudi il mese
per uomo.
La legna non si conta, essendo servitori
e cavalli messi in conto.
Vi erano poi
altre spese ordinarie e straordinarie che venivano valutate a parte, come i
fonditori di caldara, i fabbri e le ferramenta. Tuttavia questa società non
ebbe vita lunga, poiché si sciolse il 5 dicembre 1668. Subentrò ad essa una
nuova società e il Granduca ne concesse l’autorizzazione per venti anni, alle
condizioni precedenti. La nuova società si componeva di Niccolo Signorini e
Giuseppe Frosini, della vecchia società, e dei mercanti ebrei residenti a
Livorno, Abramo Pimentel, Daniel
Valentino e Isach Pegna. Ai “cristiani” Signorini e Frosini fu dato il
beneficio dell’accomandita.
Giovanni Batistini
NOTE BIBLIOGRAFICHE
BGV, Arch. Maffei, filze 149 e 169 FIUMI E., L’utilizzazione dei lagoni boraciferi della Toscana, Firenze, dott. Carlo Cya, 1943. PESCETTI L., Storia di Volterra, Volterra, UTA
Situata nel settore nord-occidentale delle Colline Metallifere, in un’aspra e solitaria zona collinare coperta da un’estesa e fittissima boscaglia di macchia mediterranea, l’area circostante la Fattoria di Monterufoli presenta motivi di grande interesse naturalistico sia per le numerose varietà mineralogiche che vi si riscontrano (rame, quarzi, calcedoni, magnesite, zolfo, antimonite, vetriolo, lignite, amianto ecc..) che per le diffuse tracce che le trascorse e differenziate attività minerarie vi hanno disseminato nel corso del tempo. La natura geologica prevalentemente ofiolitica e alloctona della zona unita agli effetti prodotti su di essa dalla tettonica mioquaternaria e provocati sia dall’attività idrotermale connessa all’Evento Appenninico che dalla contiguità geografica col campo geotermico di Larderello (e quindi coi fenomeni minerogenetici ad esso connessi), hanno infatti determinato in tutta l’area di Monterufoli caratteri mineralogici e minerari assai peculiari, interessanti ed eterogenei anche se non particolarmente ricchi o durevoli dal punto di vista di un loro sfruttamento economico. Di tutte queste numerose “produzioni naturali” ce n’è comunque una che supera tutte le altre per la celebrità acquisita grazie alla sua riconosciuta e apprezzata capacità di poter essere meravigliosamente sfruttata in ambito artistico e artigianale, una risorsa mineraria che ha fatto conoscere ovunque quest’area del volterrano conferendole ulteriori motivi di fascino e d’interesse in aggiunta a quelli che già le sono propri per i toni assai marcati del suo paesaggio (clima decisamente mediterraneo, morfologia spesso accidentata con ampie zone scoscese o franose prive di vegetazione, frequenti e visibili alterazioni delle rocce in posto, assoluta mancanza di presenze o di attività antropiche stabili ecc..) e per un ambiente naturale di straordinaria suggestione. Sotto l’aspetto naturalistico il nome della Fattoria di Monterufoli risulta infatti ancora oggi indissolubilmente legato all’abbondante presenza nei suoi dintorni dei famosi e ricercati calcedoni, pietre silicee d’indiscutibile pregio estetico, la cui escavazione e il cui sfruttamento a scopo artistico-ornamentale si protrassero, come vedremo, ininterrottamente dal 1598 alla seconda metà dell’ottocento, quasi esclusivamente per opera dell’opificio Granducale delle Pietre Dure di Firenze (1).
Ma che cosa sono i calcedoni? Perché sono così abbondanti nel territorio di Monterufoli? E Perché sono stati oggetto di cosi esclusive e interessate ricerche, tanto da divenire quasi sinonimo o emblema di questa terra? Procediamo con ordine. Sotto l’aspetto mineralogico il calcedonio altro non è che quarzo, o, per meglio dire, silice microcristallina anidra (Sio2 : biossido di silicio) connotata da una caratteristica struttura fibrosa. Chimicamente identico al quarzo, rispetto al quale ha durezza leggermente inferiore (6,5 della scala di Mohs invece di 7), il calcedonio se ne differenzia però notevolmente sotto il profilo gemmo logico in quanto mentre il primo ha forma monocristallina, aspetto vetroso e frattura vetrosa-ossidianoide il secondo si presenta piuttosto come un vero e proprio aggregato micropolicristallino caratterizzato da un aspetto ceroide, semitrasparente o traslucido e da una frattura di tipo concoide con superficie sempre opaca, quasi smerigliata o granulosa. Per la loro tessitura tipicamente fibrosa (per lo più a fibre parallele aciculari) i calcedoni risultano notevolmente permeabili ai liquidi, anche a quelli più densi e viscosi: questa proprietà è stata sfruttata ampiamente nei processi di lavorazione artigianale di queste pietre in quanto ha consentito talora di modificarne la colorazione naturale rinforzandone (o addirittura mutandone) il colore nella fasce più porose in base alle necessità dettate dall’utilizzazione estetica alla quale i pezzi erano destinati.
MONTERUFOLI: Villa delle Cento Stanze
Il calcedonio si presenta in natura con un’ampia varietà di tipi e di colorazioni assumendo, a seconda dei casi, denominazioni particolari come agata, crisoprasio onice, corniola, eliotropio, ecc..’, per tale motivo il termine calcedonio dovrebbe pertanto essere riservato più correttamente ai tipi con colorazione omogenea, generalmente biancastra, grigia o lattiginosa, caratterizzata talora da deboli effumazioni ocracee, giallastre, giallorosate o azzurrognole, ma per evitare confusioni e per ricordare che la specie mineralogica è sempre la stessa, converrà premettere la denominazione di calcedonio a qualsiasi varietà ci si intenda riferire (calcedonio-agata ecc..).
Dal punto di vista tipologico, i calcedoni di Monterufoli sono giustamente celebri; essi presentano infatti svariatissime colorazioni unite a una insolita gamma di trasparenze: “…se ne hanno dei bianchi, dei grigi, dei violacei, dei verdi, dei gialli, dei carnicini, dei rossi con tutte le possibili sfumature; ma predomina per altro nei veri e propi Calcedoni un tranquillo e simpatico color fior di lino ora volgente al chiaro e ora a un violaceo livido (…). A queste tinte si aggiunge una lucentezza opalina e una translucidità, che dà un aspetto di gelatina alle masse più chiare, le quali per trasparenza appaiono anche giallognole o grigiorosee”.(2) Tra i numerosissimi tipi di calcedonio presenti nella zona (spesso caratterizzati da esemplari bianchi lattiginosi, traslucidi, con frattura scagliosa, appannata e con superficie bernoccoluta), spiccano soprattutto quelli conosciuti come calcedoni opachi o bianco di Volterra, che, grazie alla loro quasi totale opacità, alle numerose tonalità.
MONTERUFOLI: Villa delle Cento Stanze
All’interesse scientifico e al pregio estetico di queste mineralizzazioni contribuisce inoltre l’ampia tipologia di forme (botrioidali, coralloidi, stalattitici, in abiti massivi, in geodi ecc..) in cui i calcedoni si presentano in quest’area^), anche se di norma la loro giacitura più comune è quella in filoni in alcuni dei quali predominano certe varietà, in altri altre. Come nota infatti Repetti: “…la singolarità per altro di Monte Rufoli consiste nell’indole del suolo sparso di calcedonie traslucide tramezzo a filoni iniettati,
o fra strati di calcare compatto e di schisto marnoso convertito in galestro, oppure in filoni penetrati fra i spacchi formati nelle subiacenti masse serpentinose, filoni che sono ripieni di botriti, ossia di geodi calcedoniose, le quali variano fra loro sia in direzione, sia in potenza, come anche in colore. Nessuno di cotesti filoni calcedoniosi è totalmente pieno e compatto; anzi poche sono le porzioni dei medesimi scevre di cavernosità o screpolature, in cui non siano masse botritiche, ventri gemmati, o geodi tappezzate di variatissime e isolate cristallizzazioni di quarzo jalino, e tal altre volte del calcedonio paonazzognolo contornate e rivestite” .(5) Proprio alla straordinaria varietà, all’ecce
zionale abbondanza e alla non comune qualità estetica dei
calcedoni di Monterufoli si devono pertanto ricondurre tutte le attente e
premurose ricerche e le diffuse e prolungate escavazioni condotte nella zona e
commissionate quasi unicamente da parte dell’opificio delle Pietre Dure di
Firenze (che ne detenne a lungo addirittura l’esclusiva per precisa
disposizione granducale) i cui lavori di mosaico hanno reso celebre e decantati
ovunque questi minerali con opere d’indiscutibile pregio artistico. A tal
fine, ad esempio, le qualità opache giallastre, venivano utilizzate per la
realizzazione di arabeschi, fogliami, nastri, cartelle, penne ecc.., mentre
quelle bianco-azzurrognole, rossicce o vagamente colorate servivano per
comporre fiori, frutti e ancora penne.(6)
Dal punto di vista genetico, per cercare di spiegare la notevole presenza di silice concrezionaria nell’area di Monterufoli (nella forma di vene, globuli e filoni, costituiti per lo più da calcedonio, quarzo, opale, diaspro) nonché quella dei vari carbonati di magnesio (magnesite, dolomite, miemite) ad essa comunemente associati, bisogna considerare attentamente sia la costituzione geologica e l’assetto tettonico della zona sia la prolungata azione di un’anomala attività idrotermale correiabile al contiguo campo geotermico di Larderello e responsabile dei vistosi fenomeni di alterazione che hanno interessato, trasformandole e mineralizzandole in vario modo, praticamente tutte le formazioni rocciose presenti nell’area.
Sotto l’aspetto geologico la zona di Monterufoli è caratterizzata quasi esclusivamente dalla presenza di un’imponente ed estesa coltre di formazioni alloctone (qui traslate dalla tettonica compressiva connessa all’Evento Appenninico) e riferibili nella loro totalità sia al Complesso Ofiolitifero (ofioliti, diaspri, calcari a Calpionelle, argille fissili con calcari silicei “palombini”) che alla cosiddetta Formazione di Lanciaia (una formazione sedimentaria costituita da una varia successione di brecce ad elementi prevalentemente ofiolitici, siltiti, marne, calcari marnosi, areanarie e calcari arenacei).
Ebbene, all’interno di questo caotico
contesto litologico c’è però una formazione che supera tutte le altre per
estensione e per potenza condizionando quindi in modo determinante il
paesaggio e la morfologia di quasi tutta la zona considerata: quella delle ofioliti,
ovvero delle rocce più diffuse e sicuramente più rappresentative dell’area di
Monterufoli. Considerate nel loro insieme le ofioliti formano infatti qui
un’enorme placca la cui forma può ricordare approssimativamente quella di un
triangolo isoscele avente il vertice a Ovest-Sud-Ovest. Secondo Lotti, poi, “…la
roccia ofiolitica predominante nei dintorni di Monterufoli (…) ricoperta qua
e là da rocce sedimentarie” formerebbe nel suo insieme addirittura “un’enorme
cupola circolare avente un diametro di dodici chilometri” costituendo così
senza dubbio “la più grande massa ofiolitica della Toscana”.(7)
Questa singolare caratteristica geologica è in questo caso ancora più degna di menzione in quanto l’abbondante presenza di ofioliti è assolutamente’determinante per la genesi dei depositi silicei e – ancor più – dei depositi magnesitici che vi si trovano assai spesso associati (talora anche in quantità economicamente sfruttabili). Le ofioliti (o “pietre verdi”) sono infatti un’insieme di rocce di origine magmatica, di natura sia intrusiva (peridotiti e gabbri) che effusiva (basalti) che metamorfica (serpentine: derivate dalla trasformazione delle peridotiti), la cui composizione chimica, ultrabasica e basica, si può descrivere molto grossolanamente come una complessa miscela di silicati di magnesio e di ferro. Nell’area di Monterufoli il membro più diffuso della cosiddetta “triade ofiolitica” (serpentina – gabbro – diabase) è rappresentato dalle serpentine, ossia da rocce derivate da particolari processi di metamorfismo (serpentinizzazione) che hanno profondamente interessato le peridotiti alterandone radicalmente la struttura mineralogica, originariamente costituita da Olivina (o “peridoto”), Pirosseni, e, subordinatamente, da Orneblende, Biotite e Plagioclasi. Infatti durante il processo di progressivo raffreddamento delle periodotiti all’interno del camino di risalita (ricordiamo che si tratta di rocce di origine magmatica costituenti essenziali della crosta oceanica) può accadere che si verifichino condizioni d’idratazione e di temperatura (tra 500 e 350 C) tali da innescare nelle Olivine un processo di autometasomatosi (ovvero un autoriadattamento a condizioni ambientali diverse) e d’idratazione che si conclude con la loro trasformazione in Serpentino (il minerale principalmente rappresentato nelle serpentine) e in ossidi di magnesio (MgO). Se successivamente acque ricche di anidride carbonica o fluidi idrotermali hanno modo d’attaccare queste peridotiti in avanzato stato di alterazione (cioè ormai metamorfosate in serpentiniti) – e quindi ricche, come abbiamo visto, in ossido di magnesio proveniente dal disfacimento dei silicati di magnesio (Pirosseni, Antiboli, Olivina) originariamente presenti nelle peridotiti iniziali – vengono finalmente a crearsi le condizioni per la precipitazione dei carbonati di magnesio (magnesite, dolomite, miemite) e per la liberazione di molecole di biossido di silicio che poi precipitano e si cristallizzano, a seconda delle diverse condizioni giacimentologiche, in varie forme e in vari abiti, dando così origine a vari tipi di quarzi e di calcedoni. Orbene, se questo è un attendibile modello genetico, perché i calcedoni non si trovano allora diffusi in tutti gli affioramenti ofiolitici?
E perché, al contrario, se ne rinviene in grande abbondanza proprio a Monterufoli? Come aveva già osservato Pilla nel secolo scorso “…/ calcedoni opachi di Monte Rufoli si trovano solamente nelle ofioliti di quel paese. In altre contrade ofiolitiche occorre bene vedere varie vene e rognoni di sostanze silicee; ma elle sono in forma di veri calcedoni, ovvero di quarzo resinite, di opale, di leucagata, né hanno mai quella qualità particolare che le rende così utili nelle arti”^)’. in altre parole non sempre esiste una correlazione fra ofioliti e depositi silicei in qualche modo interessanti per quantità o qualità. Per cercare allora di spiegare perché queste particolari mineralizzazioni abbiano avuto una particolare diffusione proprio in questa zona bisogna chiamare in causa un fattore qui ancor oggi assai manifesto la cui responsabilità nel caso di questa minerogenesi appare senza dubbio determinante: l’attività dei fluidi idrotermali. Se consideriamo infatti che la zona di Monterufoli si trova in palese contiguità geografica col campo geotermico di Larderello – Serrazzano e coi numerosi fenomeni endogeni e minerogenetici da tempo in esso attivi e se osserviamo inoltre che il territorio in esame è interessato sia da alcune importanti faglie, che possono aver facilitato la risalita di fluidi idrotermali e di acque carbonatiche circolanti in profondità (cosa che del resto è ampiamente attestata in tutta la zona boracifera), che dalla fitta rete di fratturazioni e di fessurazioni presente normalmente in tutte le ofioliti, potrà apparire chiaro come questa singolare convergenza di fattori naturali abbia potuto dar luogo a una grande diffusione di depositi silicei e magnesitici in alcune aree della copertura ofiolitica di Monterufoli.
Anche se secondo Lotti la genesi di queste mineralizzazioni andava ricercata nell’azione di acque termali silicifere che avrebbero interessato sia le masse ofiolitiche che gli altri membri della copertura alloctona – provocando nelle serpentine la trasformazione del feldspato e del diallagio rispettivamente in opale e smaragdite(9) (un minerale in cristalli aciculari di colore verde erba o verde smeraldo piuttosto diffuso nell’area) e riducendo le serpentine stesse a una pasta resinosa, oltre a determinare la silicizzazione delle altre rocce interessate al fenomeno – appare oggi certo, come abbiamo visto, che la minerogenesi dei calcedoni e della magnesite di Monterufoli debba essere attribuita all’azione di acque vadose ricche di anidride carbonica sui silicati di magnesio presenti nelle ofioliti, con la conseguente formazione – vale la pena di ripeterlo – di vari carbonati di magnesio (magnesite, dolomite, miemite) e con la separazione di silice libera poi precipitata e cristallizzata in varie forme (quarzo, opale, calcedonio, agata, crisoprasio, corniola ecc..) e in vari abiti. Sotto l’aspetto giacimentologico può essere infine interessante osservare che l’aumento delle mineralizzazioni silicee rispetto a quelle magnesitiche risulta direttamente proporzionale alla profondità del giacimento: la causa di questo fenomeno è probabilmente da ricercarsi “nel particolare comportamento delle soluzioni di silice che possono mantenersi sovrassature per periodi di tempo molto lunghi. Nelle zone più superficiali del giacimento è logico ammettere che la deposizione della magnesite dalle soluzioni circolanti sia un fenomeno piuttosto rapido e che quindi venga accompagnato da una scarsa deposizione di silice. Nelle zone più profonde invece dove le velocità di deposizione della magnesite sono più basse si raggiungono i tempi necessari alla deposizione completa anche della silice con aumento quindi dei noduli opalini”.(10) La deposizione del biossido di silicio avviene quindi molto più lentamente di quella della magnesite ed ha luogo nei livelli più profondi del giacimento.
Quanto
alla distribuzione spaziale di questi depositi silicei e magnesitici è
possibile delimitare un’area abbastanza precisa in quanto tutte le località
note per gli affioramenti e le escavazioni risultano per lo più ubicate
nell’area compresa fra la Fattoria di Monterufoli, Casa Malentrata, la
Fattoria di Caselli, Casa la Pieve, Villetta e Serrazzano.
Per narrare la storia dello
sfruttamento delle pietre dure di Monterufoli occorrerebbe almeno un libro:
tante sono infatti le notizie, i fatti, gli spunti che emergono dalla consultazione
dei fascicoli di documenti conservati nella Filza 59 dell’Archivio
Maffei presso la Biblioteca Guarnacci di
Volterra. Se si considera l’importanza di questi materiali documentari
(unitamente a quella dei documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Firenze
e presso l’Archivio dell’opificio delle Pietre Dure) e, soprattutto,
l’effettiva (e paradossale) carenza di notizie sulla storia economica dei
tanto celebrati calcedoni volterrani apparirà senza dubbio chiara la necessità
di un’attenta e completa indagine archivistica finalizzata alla ricostruzione
storica delle vicende legate all’escavazione e all’utilizzazione di questi
caratteristici minerali.
Date queste premesse, risulta
pertanto chiaro che in questa sede non si potrà far altro che tracciare alcune
linee generali di una storia ancora tutta da scrivere.
Le prime notizie documentate relative all’esistenza di minerali silicei nei pressi di Monterufoli risalgono al 1516 quando Antonio di Gentile Guidi da Volterra, in una memoria riguardante alcune risorse minerarie del volterrano, ebbe a descrivere chiaramente la presenza del quarzo nell’area considerata nel modo seguente: “…in quello di Monteruffoli vi sono i Berilli fini: sono dal Castello delle Donne, per andare per la Via della Serra, a mano manca, v’è un poggio molto grosso, tiene Querce sù la cima, vi sono certe crepacce, e certi peli lunghi, v’è di belle piastre, e vi sono suso appiccate ad uso di Diamanti” .(11)
La prima notizia certa sull’effettiva escavazione di queste pietre si trova comunque in una lettera del 1598 in cui Cosimo Fei, provveditore delle Saline di Volterra, chiedeva un rimborso per le spese occorsegli per il trasporto delle pietre cavate da Monterufoli.(12) Era accaduto infatti che già dal 1580 si era definitivamente affermata a Firenze, dietro reiterata iniziativa del Granduca Francesco I (che nel 1572 aveva chiamato a Firenze due esperti milanesi specializzati nella lavorazione del cristallo di rocca), un’“officina” specializzata nella lavorazione artigianale delle pietre dure: ciò aveva provocato pertanto che le ricerche di questi minerali si concentrassero tra l’altro anche nella tenuta di Monterufoli che, divenuta proprietà dei Maffei di Volterra nel 1535, era già nota da tempo per l’eccezionale abbondanza e varietà di calcedoni e pietre dure che affioravano dal suo sottosuolo(13): proprio per questa ragione “… ogni tanto tempo i Ministri della galleria, solevano mandare persone intendenti a Monte Ruffoli per scavare calcedoni per uso dè lavori”.(14) In questo stato di cose vi è ragione di credere, come ha notato Batistini, che fin dalle prime missioni della Real Galleria dovessero covare sordi risentimenti tra l’amministrazione Granducale e la famiglia Maffei in merito all’effettiva giurisdizione sulle cave e sui criteri relativi al loro sfruttamento(15): ciò appare confermato indirettamente dal fatto che con Bando del 10 febbraio 1609 il granduca Ferdinando I stabilì l’assoluto divieto di estrarre ed esportare tutte le pietre atte ad essere lucidate, riservandone l’uso esclusivo alla Galleria Granducale.(16) Questa provvide infatti all’alacre sfruttamento delle cave, come risulta, ad esempio, dalla testimonianza di Orazio Cangi, che dopo essere stato in Sicilia e in Corsica a scoprire cave, rimise nel 1612 una nota di spese fatte per la Galleria nella sua gita a Volterra alla ricerca di calcedoni.(17)
Anche se in questo periodo le
ricerche dovettero essere assai intense, le pietre cavate a Monterufoli
trovarono inizialmente scarsa applicazione in quanto a causa delle piccole
dimensioni dei blocchi esse apparivano del tutto inadatte ad essere utilizzate
per il rivestimento delle vaste superfici interne della Cappella dei Principi
in S.Lorenzo: per tale motivo si preferiva quindi far sovente ricorso a pietre
importate dall’estero.
Ma a partire dalla metà del Seicento l’attenzione finì per concentrarsi esclusivamente sulle risorse del Granducato conducendo così, anche nella zona alla progressiva scoperta di nuovi depositi silicei come ad esempio nel caso di quello del bianco di Caselli – che non è molto duro, ma è “di pelle fina e candida” – o di quelli del paonazzo o dei verdi (agli inizi del ’700).(18) Da allora praticamente ogni anno è documentata una missione a Monterufoli che veniva alloggiata e ospitata nella villa dei Maffei. Ogni anno si preparavano i materiali per l’anno successivo e si cavavano quelli predisposti l’anno precedente applicando in certi casi anche un particolare trattamento termico (già noto nell’antichità, unitamente all’esposizione prolungata alla luce solare del minerale grezzo di colore troppo chiaro) con lo scopo di rinforzarne le colorazioni: i calcedoni venivano sotterrati riscaldandoli lentamente per poi venire lentamente raffreddati, ben sapendo che la porosità selettiva della pietra è infatti tale da consentire, tra l’altro, un assorbimento differenziato di eventuali fosfati organici naturali presenti nel terreno. L’insofferenza e il risentimento dei Maffei nei confronti della prerogativa granducale andarono però acutizzandosi a tal punto che il Granduca Francesco I di Lorena in data 31 ottobre 1758 si vide costretto ad emanare un bando in cui veniva confermato quanto espresso nell’editto del 1609 e in cui si ingiungevano pene rigorose (fino a 50 scudi e a dieci anni di carcere) nei confronti di chiunque scavasse, estraesse o vendesse i calcedoni della tenutaci 9) Sempre nel 1758 fu inoltre stabilito di mettere addirittura delle guardie “a conservazione e custodia delle Pietre Dure di Monte Rufoli”; alle guardie “non fu assegnato alcuno appaiamento” essendo loro solamente consentita la facoltà di portare armi da fuoco grazie a una semplice licenza che ricevevano gratis
dal Reale Guardaroba. Queste
nuove restrizioni provocarono le giuste lagnanze dei Maffei che, pur essendo i proprietari dei terreni in cui si trovavano
le cave, si erano da prima visti compensare da Casa Medici soltanto con “qualche
regalo di lavori di calcedoni lavorati in Galleria” per essere poi
completamente ignorati dai Lorena ed anzi addirittura compresi, essi stessi,
nell’ingiunzione di divieto del 1758.(20) Ogni rimostranza cadde tuttavia nel
vuoto.
A sorvegliare le cave furono così poste inizialmente tre guardie (poi divenute quattro) scelte fra i giovani contadini della zona: nel 1761, ad esempio, troviamo Sabatino Querci, Salvadore di Bernardo Sarri, Paolo di Giovanni Danzini e Ottaviano di Pio Danzini.(21)
Che la fama dei calcedoni di Monterufoli
(e quindi il reale interesse per il loro impiego) non fosse comunque limitata
all’ambito regionale – determinando cosi un’inevitabile contenzioso per il
loro monopolio – è testimoniato anche dal tipo di committenza interessata a
questi materiali: è del 1755, ad esempio, una richiesta della Real Corte di Napoli per un quantitativo di pietre dure che “devono
cavarsi nella Val di Cecina, in luogo detto Monte Rufoli, Monte Quercioli e
Querceto” .(22)
In questo clima di evidente
espropriazione, l’attrito fra i Maffei e il
Granduca andò facendosi realmente insostenibile tanto da sfociare infine nel
1788 in un’iniziativa del tutto autonoma della famiglia proprietaria con la
quale Niccolò Luigi Maffei stabilì che
per i dieci anni successivi la casa Maffei avrebbe
ceduto calcedoni al Sig. Morandi di Firenze e alla Galleria Granducale,
qualora ne avesse fatto richiesta.(23) Fu solo l’inizio di una rapida
riappropriazione, tant’è che ai primi dell’ottocento le cave risultano gestite
completamente dai Maffei che vi esercitavano
un assoluto controllo.
Questa nuova situazione condusse nel
1826 a una serie di convenzioni con la Real Galleria che, come ebbe a scrivere in seguito Carlo
Siries, direttore della galleria, in una lettera a Giulio Maffei “…non tolgono alla di lei famiglia la facoltà di vendere
o di donare… Danni potrebbero esser fatti alle cave…come accadde allorché
anni fa fu permesso al Morandi di scavarvi a suo piacere… Da qui in avanti
sarà mia cura fare nuove provviste mediante le quali la di lei famiglia sarà
largamente compensata”.(24) Nel 1836 la
corte granducale tornò a chiedere la privativa di escavazione, ma le pretese
dei Maffei furono giudicate troppo onerose
e il progetto fu abbandonato.
Sempre nel 1836 i Maffei vennero citati in giudizio da Giuseppe Galeotti, curatore
di Giovanni Antonio Paoletti, in relazione alle escavazioni di calcedonio da
loro intraprese sul Poggio di Castiglione. Benché condannati dal Tribunale di
Volterra i Maffei ripresero dopo
pochi anni possesso delle cave sul Castiglione per riperderle poi definitivamente
nel 1861.(25)
Nel frattempo continuavano ogni anno le missioni da parte della Galleria Granducale: l’ultima di cui si ha notizia ebbe luogo nel 1855 e fu capeggiata da Niccolò Betti.(26) I Maffei erano rimasti così signori incontrastati delle cave e veri e propri imprenditori di pietre dure: circa l’attività di estrazione in questo periodo basti dire che nel 1858 furono scavate e pulite 10.000 libbre di pietre dure a Fonte Gabbra e 7.500 libbre a Malendrata e che i pezzi non venivano più spaccati ma segati a mano con sega a ferro dolce senza denti e a rena smerigliata; i cavatori erano quattro o cinque e tutti della zona, mentre segantini erano due e volterrani. Gli utensili impiegati consistevano in mazze, martelli, subbie, corde, pali di ferro, frulloni, spianatoi, paletti per “mine”, seghe a smeriglio, manici, telai, zappe oltre a un particolare trapano a corde chiamato “violino”, mentre per gli sbancamenti più grossi venivano impegnati addirittura dei contadini coi buoi.(27) Per facilitare le faticose e lunghe operazioni di taglio i Maffei pensarono anche di acquistare una sega meccanica azionata da un motore, ma il costo troppo elevato del macchinario li dissuase, obbligandoli così a rivolgersi al sig. Vassilio Perdicary, proprietario delle cave di marmi di Monterombolo presso Campiglia Marittima, ogni qual volta avessero bisogno di far segare delle lastre.(28)
Assai richiesti sul mercato delle lavorazioni artigianali, i calcedoni procurarono ai Maffei anche soddisfazioni non soltanto economiche: nel 1850, ad esempio, la direzione delle II. e RR. Scuole Tecniche d’Arti e Manifatture di Firenze ricevette dai Maffei (dietro sua specifica e premurosa richiesta) ben ventidue campioni di pietre dure e di brecce scavate nei possessi di Monterufoli onde esporli nel Museo Tecnologico annesso(29) e nel 1854 una nutrita serie di esemplari fece bella mostra di sé alla grande esposizione fiorentina organizzata dallo stesso lstituto(30); nel 1862, infine, Niccolò Maffei fu addirittura premiato all’Esposizione internazionale di Londra “per la notabile bellezza della calcedonia da lui recentemente scoperta e per la sua collezione di minerali”.(31) Ma furono gli ultimi momenti di gloria per queste splendide pietre il cui declino, unitamente alla diminuita richiesta del mercato, appare indissolubilmente legato a quello della famiglia Maffei che, travolta da varie avversità, perse nel giro di pochi anni tutto il suo immenso patrimonio e con esso la Tenuta di Monterufoli che fu definitivamente ceduta nel 1887, segnando così la fine delle escavazioni di calcedonio in tutta la zona.
Per ricostruire l’esatta ubicazione delle varie cave sul territorio risulta senza dubbio indispensabile la descrizione datane da Giuseppe Antonio Torricelli da Fiesole e pubblicata da Targioni Tozzetti nel tomo III delle sue Relazioni assieme ad un’accuratissima illustrazione di queste mineralizzazioni e ad acute osservazioni sulla loro genesi.(32) Si apprende così che presso un “Uccellare da Tordi” passava un filare di “Bianchi stietti” che si prolungava poi fin oltre il Ritasso “ne ’Monti di S.Antonio” (oggi Poggio di Castiglione); ben tre grossi filoni (rispettivamente di calcedoni paonazzi, di carnicini e di bianchi) si trovavano poi sulla parte occidentale del Monte Quercioli, un rilievo poco a Nord del Pod. Gabbra, mentre sul “Monte di S.Antonio” passava un bel filone di bianco e giallo. Calcedoni di vari colori erano poi segnalati presso il Pod. Sorbi, nel “Fiume del Mulino di Sorbi” e nel “Borro degli Scopi”.
Tra le località di estrazione più importanti o dimostratesi più durature nel corso del tempo spiccano comunque l’antica cava ancor oggi visibile presso il Pod. Monterufolino, in cui si possono chiaramente osservare le giaciture delle vene silicee entro le ofioliti alterate, e le numerose e ricche cave un tempo esistenti presso i poderi Sorbi e Gabbra, poco a NNO di Villetta, già celebri in passato per le notevoli mineralizzazioni presenti ed oggi malamente accessibili per la fitta vegetazione che ricopre la zona. In particolare, presso Sorbi si avevano escavazioni nel Fosso Rimandrio, nel Fosso Rivivo (un botro che faceva da confine fra il Pod. Gabbra e il Podernuovo), nel Fosso Morocco e nella Serra al Fabbro (presso il Pod. Malentrata), mentre nei dintorni di Gabbra c’erano cave importanti al Monte Quercioli, alla Fonte di Gabbra e alla Porcareccia.(33) Grossi filoni erano poi conosciuti anche lungo il Ritasso, sul Poggio di Castiglione (detto un tempo Poggio di S.Antonio), nel Fosso degli Scopai e a Sud della Fattoria di Monterufoli, nel Botro delle Acque Calde (o “Botro di Campora”). Naturalmente, oltre a queste località più note ve ne erano molte altre ad essere interessate dalla presenza dei vari filoni silicei, spesso anche su ampie superfici, e poiché nell’area affioravano “Calcedoni di tutti i colori, cioè il Bianco, e il Bianco e Giallo, il Bianco e Rosso, il Pavonazzo, il Rosso, il Carnato, il Verde con macchia Bianca, lo Scuro, e cento altri colori(34), ne conseguiva che tutte le cave erano caratterizzate dalla particolare varietà di calcedonio che vi si rinveniva: si aveva così bianco al Boschetto, misto grigio alle Pianacce, giallo-celeste al Poggio di Castiglione e al Monte Quercioli, rosso-turchino nel Fosso Rivivo, verde ai Gabbrucci, rosso-granata al Pod. Sorbi, nero, alla Ficaia.(35) Altre cave si trovavano infine nei dintorni di Caselli (Pod. la Pieve, la Serra, i Capannoni) al Poggio dei Gabbri, al Vallino(36) e nell’area a Nord-Ovest di Serrazzano, nota da tempo per la particolare presenza di corniola (un tipo di calcedonio uniformemente colorato in rosso più o meno sanguigno).
Ma al di là delle cave “storiche”, appositamente individuate e coltivate per l’estrazione dei calcedoni (e che fornirono in notevoli quantità campioni di straordinaria qualità estetica), nuove località sono state riconosciute in tempi più recenti, durante la ricerca e l’escavazione di giacimenti di magnesite, un minerale a cui il calcedonio e il quarzo si trovano, come si è detto, assai spesso associati (risultando, però, in questo caso veri e propri elementi “di disturbo”). Tra queste sono da menzionare le ricerche condotte nella valle del T. Ritasso (presso Villetta) e nel Fosso di Malentrata; specialmente in quest’ultima località le mineralizzazioni silicee e magnesitiche presentano grande diffusione e pertanto proprio in questa zona si sono concentrate e succedute quasi tutte le attività minerarie. Qui i minerali (dolomite, magnesite, miemite, quarzo, calcedonio, crisoprasio e diaspro) si rinvengono estesamente lungo le sponde del fosso e nei grossi massi che giacciono nel suo letto. Sulla destra idrografica del fosso è ancora visibile, quasi a livello dell’alveo e seminascosta fra la vegetazione, una piccola galleria di ricerca di breve sviluppo in cui si possono riscontrare modeste mineralizzazioni di idromagnesite (un carbonato basico di magnesio in forma per lo più di fini cristalli aciculari bianchi lunghi alcuni millimetri).
Decisamente più frequenti e senza dubbio
più interessanti sono comunque le numerose discariche che si trovano nel
tratto compreso fra la confluenza col Ritasso e la piccola miniera: vi si
segnalano in particolare il crisoprasio (varietà di calcedonio di
colore verde traslucido per presenza di nichel), la dolomite e il quarzo,
sia in varietà ialina che latteo-calcedoniosa.
Estese ricerche e importanti escavazioni
di magnesite furono inoltre intraprese anche nel Fosso degli Scopai, un
affluente di destra del Ritasso, dove, a partire da circa 300 m. a monte della
confluenza e per oltre 400 m. di lunghezza, furono riconosciuti 14 filoni di
magnesite per la cui escavazione, alla fine degli anni Venti, vennero impiegati
150 operai con una produzione annua di 10.000 t. di minerale commerciabile. Lo
sfruttamento di questi depositi riprese poi soprattutto nel periodo 1928-1950
per opera del Conte Ugolino Della Gherardesca, estendendosi anche al contiguo Botro
di Carnovale.
Esemplare di Calcedonio di Monterufoli
Ma, assieme al Fosso di Malentrata e al
Fosso degli Scopai, l’altra località importante per le mineralizzazioni a
magnesite e a calcedonio è senza dubbio quella rappresentata dal già
ricordato Poggio di Castiglione (presso Canneto), dove fra la fitta
vegetazione è ancora possibile osservare piccole cave e diverse discariche
(una di esse si trova a ridosso della strada provinciale per Canneto) incluse
fra le rocce serpentinose profondamente alterate e silicizzate che costituiscono
la parte più alta del rilievo.
Qui le
ricerche individuarono alcuni filoni dello spessore variabile dal a 5 m. e di
lunghezza oscillante da alcune decine ad oltre 200 m. e si concentrarono
soprattutto sulle pendici meridionali ed orientali del poggio, a quote
medio-alte. Le mineralizzazioni magnesitiche del Poggio di Castiglione si
presentano sotto forma di noduli o blocchi di magnesite di colore
bianco-giallastro, inglobati in concrezioni di silice calcedoniosa contenenti
una notevole percentuale di ferro e di calcio. Notevole è, infine, qui la
presenza del quarzo.
Angelo
MARRUCCI
NOTE BIBLIOGRAFICHE
Cfr. G. TARGIONI TOZZETTI, Relazioni di alcuni viaggi fatti in diverse parti delia Toscana. 2.ed. Firenze, Stamperia Granducale, 1768-79, till, p. 316 e A. PAMPALONI MARTELLI, Le raccolte lapidee dell’opificio delle Pietre Dure, in: Splendori di pietre dure. L’arte di Corte nella Firenze dei Gran- duchi. Firenze, Giunti, 1988, p. 272.
A. D’ACHIARDI, Mineralogia della Toscana. Pisa, Nistri, 1872-73, v. I, p. 101.
Cfr. L. PILLA, Breve cenno sulla ricchezza minerale Toscana. Pisa, Vannucchi, 1845, p. 103.
Cfr. G. BRIZZI & R. MELI, Le pietre silicee della Fattoria di Monterufoli, in: “Riv. Min. It.”, 3, 1988, pp. 101-110.
E. REPETTI, Dizionario geografico fisico storico della Toscana. Firenze, per l’autore ed editore, 1833-43, pp. 517-18.
Cfr. G. TARGIONI TOZZETTI, cit. p. 305.
B. LOTTI, Geologia della Toscana. Mem. Descr. Carta Geol. d’It., Roma, 1910, p. 251.
L. PILLA, cit., p. 104.
B. Lotti, cit., p. 251.
M. FRANZINI, La magnesite, in: La Toscana meridionale. Fondamenti geologico- minerari per una prospettiva di valorizzazione delle risorse naturali. Rend. S.I.M.P., 27 (fase, sp.), 1971, p. 510.
G. TARGIONI TOZZETTI, cit., t. IX, p. 26.
Cfr. A. PAMPALONI MARTELLI, cit., p. 272.
L’esistenza dei calcedoni di Monterufoli alla metà del Cinquecento era già ampiamente nota: oltre agli scritti menzionati da Targioni Tozzetti (t. Ili, p. 316 e segg.) si può ricordare ad esempio la Descrittione di tutta Italia del frate bolognese Leandro Alberti (1550) in cui si legge (c.50r.) che nell’area in questione “…retrovansi Pietre da Porfido, Serpentino, Agata, Calcedonii, con molte simili preziose pietre di diverse maniere et de diversi colori…”.
G. TARGIONI TOZZETTI, cit., p. 316.
G. BATISTINI, / calcedoni di Monterufoli, in: Università della Terza Età di Volterra – Programma anno accademico 1988-89, xerocopie.
A. PAMPALONI MARTELLI, cit.
ibidem
G. TARGIONI TOZZETTI, cit., t. Ili, p.321.
B.G.V., Archivio Maffei, filza 59. Il documento è molto prezioso ai fini della storia delle escavazioni in quanto vi si trova conservata in due fascicoli la maggior parte dei documenti relativi alla gestione delle cave (lettere, permessi di escavazione, notifiche, trattative, pagamenti agli operai, spese per acquisto di materiali ecc.) dai primi del Seicento a tutto l’ottocento.
ibidem
ibidem
ibidem
ibidem
Cfr. G. BATISTINI, cit.
B.G.V., Archivio Maffei, cit.
A. PAMPALONI MARTELLI, cit.
Gli strumenti impiegati per l’estrazione del minerale (e quindi i sistemi di coltivazione delle cave) si possono parzialmente ricostruire grazie alle numerose ricevute di pagamento relative alla metà del secolo scorso e conservate in B.G.V., Archivio Maffei, cit.
ibidem
ibidem
Cfr. Catalogo dei prodotti naturali e industriali della Toscana presentati all’esposizione fatta in Firenze nel 1854 nell’l. e R. Istituto Tecnico, 2.ed., Firenze, Tip. Tofani, 1854, pp. 79-80. I campioni esposti portano i numeri dall’839 all’879.
Esposizione Internazionale dell’anno 1862. Regno d’Italia. Elenco degli espositori premiati. Londra, Eyre e Spottiswoode, 1862 p.6.
G. TARGIONI TOZZETTI, cit., t. Ili, pp. 316-327.
B.G.V., Archivio Maffei, cit.
G. TARGIONI TOZZETTI, cit., t. Ili, p.322.
Cfr. G. BATISTINI, cit.
B.G.V., Archivio Maffei, cit.
Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.
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