Una splendida tela di Nicolò
Cercignani è stata ritrovata nella “Collegiata” di Umbertide. Era lì forse da
più di un secolo, appesa a 15 metri di altezza, senza che gli archivi ne rilevassero
la illustre paternità.
È una vera e propria scoperta del parroco della collegiata. Un’opera che da tempo immemorabile orna il tamburo della cupola della chiesa Umbertidese.
Il fatto è di questi giorni. La tela, raffigurante la
trasfigurazione, ad un primo esame, risulta decisamente superiore per fattura
all’altra opera del Cercignani esistente ad Umbertide, raffigurante la Vergine
ed i Santi, che attualmente si trova nella chiesa di San Francesco. Proprio la
presenza di quest’ultima ha incuriosito il parroco della Collegiata Don Vispi.
Confortato anche da una vaghissima nota della “BIBBIA” del settore “La
storia dell’arte Italiana” del Venturi il parroco si è armato di un
potentissimo cannocchiale ed ha individuato nella parte bassa del quadro, posto
ad un’altezza pressoché inaccessibile, la firma illustre del Pomarancio e la
datazione: 1572. Successive ricerche d’archivio hanno permesso di ricostruire
parzialmente la storia del quadro. Esso fu acquistato presso i Monaci
dell’Eremo di Montecorona prima
della soppressione del loro monastero. In origine, infatti, ornava l’altare
maggiore del cenobio dell’eremo. Nessuna notizia circa il committente ed in
seguito del compratore. Difficoltose ricerche hanno poi confermato che la
trasfigurazione perduta di Montecorona non
è altro che quella ritrovata in Collegiata. Ad una prima e superficiale
analisi, per impostazione cronologica e fattura compositiva, il quadro sembra
essere uno dei migliori lavori del Pomarancio.
Rappresenta in alto la trasfigurazione del Signore secondo lo schema classico, ma con una forte imitazione raffaellesca (Raffaello fu certamente un riferimento per tutta la pittura successiva).
Nella zona inferiore si situa un quartetto di santi nei quali si riconoscono: San Benedetto con in mano la “Regola”; San Romualdo, che sorregge Montecorona (in parallelo con l’evangelico Monte Tabor); San Savino ed un vescovo per ora ignoto. Nella parte bassa due putti sorreggono un calice, simbolo dell’Eucarestia. L’opera è complessivamente in buono stato, anche se sono evidenti i segni del tempo, ed è degna della più assoluta attenzione e valorizzazione; un vero tesoro che si aggiunge al purtroppo trascurato.
E Conoscere la storia del mio paese ed
approfondire le notizie sui nostri artisti locali è da tempo una mia passione.
Lo è ancora di più quando si fanno conoscenze ed amicizie che consentono scambi
di opinioni sull’arte o sulla Storia dell’Arte come avvenne nel gennaio 1989,
quando ebbi l’occasione di conoscere la sig.ra Maria Teresa Frediani durante
una cena in casa degli amici Ledivelec nell’ex podere San Michele.
Conversando tra l’altro dei suoi tempi
giovanili trascorsi a Pomarance durante il periodo bellico nella villa del
Palagio, e del suo apprezzamento per la Mostra Fotografica di 42 disegni
inediti attribuiti a Niccolò Cercignani, organizzata dall’Associazione
Turistica Pro Pomarance, mi disse che anche nella casa paterna esisteva un
quadro del ‘’Pomarancio”. Questa notizia, che mi avrebbe consentito di
documentare un’altra opera dei nostri artisti cinquecenteschi, mi permise di
chiedere alla Dott.ssa Frediani ed a suo marito una foto del quadro in loro
possesso per poterla pubblicare sulla nostra rivista “La Comunità di Pomarance”.
Dopo qualche mese mi furono inviate le foto richieste tramite la Sig.ra Maria Lodovica
Bianchini Modani Ledivelec, che aveva avuto occasione di incontrare la sig.ra
Medina a Firenze.
Osservando la fotografia, mi accorsi con
stupore che l’opera posseduta dai Frediani non era nè di Cristofano Roncalli
(Pomarancio il Giovane), nè di Niccolò Cercignani (Pomarancio il Vecchio),
bensì attribuita al figlio di quest’ultimo, Antonio Cercignani, che intraprese
l’arte del padre e ne ereditò lo pseudonimo di “Pomarancio”.
Un appellativo onorevole per la nostra
cittadina, ma che ha contribuito a determinare notevole confusione
nell’attribuzione di opere eseguite dai nostri pittori.
Il quadro (dimensioni 40 x 50), o meglio
un disegno a carboncino e sanguigna è sicuramente un bozzetto preparatorio
per un’opera di notevoli dimensioni. Risulta incompleto nella parte inferiore
e nella estremità superiore, evidenziata benissimo dalle figure tagliate degli
angioletti ruotanti sopra la “Madonna in Gloria” sorretta in cielo da due
angeli alati. Il tratteggio dei panneggi in chiaroscuro evidenzia notevolmente
la perfetta padronanza del disegno appreso sotto la scuola del padre Niccolò.
Sulla cornice del quadro è posta una targhetta metallica con la scritta:
Cercignani Antonio detto il Pomarancio 1559-1619, ma probabilmente non è esatta
nè la data di nascita nè la data di morte, secondo alcune ricerche che ho potuto
fare all’istituto Germanico di Storia dell’Arte di Firenze in questo
periodo.(1)
Alcune notizie del quadro inviatemi dalla Dott.ssa
Frediani, mi informavano che l’opera era stata donata a suo padre, Giuseppe
Frediani, dal Principe Camillo Ruspoli (proprietario di una piantagione a
Cuba), in occasione di una sua missione come Ispettore dei Fasci Italiani
all’estero nel 1939 documentata anche in un interessante libro autobiografico
di Giuseppe Frediani intitolato “La Pace separata di Ciano”.
Antonio Cercignani nacque probabilmente a Città della Pieve, dal matrimonio tra Nicolò Cercignani delle Pomarance e Teodora Catalucci, attorno al 1574. La sua data di nascita è calcolata secondo un documento del 1583, pubblicato dallo
storico Masetti Zannini, che, citando un pittore romano,
ricordava che a Roma “… da Piazza Colonna all’Arco del Portogallo”
abitavano “.. Mastro Niccolaio Circignani pittore, Monna Teodora Catalucci et
i figli Mario di anni 12, Antonio di anni 9, Giacoma 4 standovi fino all’anno
1586.”
Il suo apprendistato fu sicuramente accanto al padre Nicolò; uno dei suoi primi lavori documentati infatti lo vide seguace del padre a soli 15 anni, quando Nicolò ebbe la committenza di dipingere affreschi nella chiesa di Valviscicolo, presso Sermoneta (Prov. di Roma), per i religiosi della Badia nella cappella di San Lorenzo.
La firma degli artisti, celata per molti anni sotto la
nicchia murata della cappella, riportava infatti questa iscrizione:
‘‘Francesco Fazuoli,
Antonio Circignani e Camillo Campani Volterà … Saritrovorno
quando si fece la cappella di San Lorenzo e più quando si
dipinse il coro essendo discepoli di Mastro Niccolaio Circignani, il quale
fece tal lavoro, l’anno 1589. tutti secchi dallo stento….”
L’apprendistato con suo genitore fa supporre che egli possa essere venuto nella terra di Ripomarance a dipingere alcune opere commissionate al padre a Volterra e Pomarance, tra il 1590 ed il 1593, dato che non vi sono documenti che certificano la sua permanenza. Il 1 febbraio 1595 Antonio Cercignani si sposò con Donna Amelia Fetti nella chiesa di San Gervaso a Città della Pieve. Nel 1596 nacque la sua prima figlia Lucrezia, successivamente l’altra figlia Margherita. Alla morte del padre Niccolò, Antonio fu dichiarato erede universale di tutti i suoi beni.
«Madonna in gloria» studio di A. Cercignani – Milano: collezione privata Fam. Frediani.
Una delle sue prime opere, documentata
dalle fonti, fu la decorazione ad affresco della cappella di Nostra Donna in
Santa Maria della Consolazione. Un ciclo decorativo ancora manieristico dove è
evidente l’influsso del padre databile attorno ai primi anni del 600.
Un’altra opera di Antonio è quella
dell’affresco della volta nel Palazzo Antici Mattei risalente ai primi anni del XVII secolo. In una descrizione
dell’affresco sul soffitto è riportato che: “..La volta della prima
anticamera dell’appartamento verso Santa Caterina fatte le figure grandi da
Antonio Pomaranci e li rabeschi da Prospero Orsi, costò scudi doicento ottanta,
non compresi li stucchi, oro, e li colori, che l’oro costò scudi novantasei,
rappresenta il trionfo di Giuseppe…”
Un’altra sua opera è la serie di
affreschi rappresentanti la vita di Maria eseguiti nel primo decennio del 600,
nel presbiterio della cappella di San Aniceto di Palazzo Altemps di Roma.
Eseguiti su suoi cartoni sono i due mosaici sulla facciata del Duomo di
Orvieto eseguiti attorno al 1612: Lo sposalizio di Maria e La Presentazione
di Maria.
Del 1614 sono anche alcuni affreschi
molto deteriorati nei portici di Santa Maria Nuova a Firenze di cui lo
studioso Pollak ha rinvenuto documentazioni
storiche. Attorno al 1620 eseguì anche una tela d’altare raffigurante S. Alberto
per la cappella omonima in Santa Maria in Traspontina. In un manoscritto del
XVII secolo Giulio Mancini scrive di Antonio Cercignani che adesso in Roma
è in buona reputazione, havendo fatto la Cappella nella Traspontina di buon
colorito, e nella Vigna di Gesuiti sopra Termine…”
Frequenti furono i contatti con l’altro grande Pomarancio (Cristofano Roncalli) da cui dopo la morte del padre ebbe grande insegnamento e frequenti rapporti professionali. Alla morte infatti di Cristofano Roncalli, egli risulta raccomandato al cardinale Rivarola in un documento del 3 giugno 1626, perché gli venisse assicurata la continuazione di un’opera lasciata incompiuta dal “Cavaliere delle Pomarance”. La redattrice della lettera (Lucrezia Malagotti Vaini) per maggiori chiarimenti allegava un lungo elenco di lavori già eseguiti da Antonio come ad esempio quelli della cappella del Palazzo Altemps.
Le opere di questo periodo, risentendo
di influssi caravaggeschi, denotano particolarmente temi cromatici di
carattere Roncalliano che evidenziano la sua vicinanza al vecchio pittore e che
giustificano il suo intervento nella continuazione di un’opera incompiuta.
Una delle sue ultime opere fu un quadro
per la Basilica di San Pietro, eseguito tra il 1627 ed il 1629, raffigurante la
Consegna delle chiavi che purtroppo è andato perduto.
In quegli anni (25 maggio 1629) risulta sposarsi in seconde nozze con Donna Cristina Garofalini. La sua data di morte è fatta risalire, secondo il Baglioni, al 1630.
Altre sue opere pittoriche si possono ammirare a Modena nella Pinacoteca Estense (Crocefissione datata 1620) e nella Chiesa di San Bartolomeo (Deposizione); a Pistoia in Santa Maria delle Grazie; a Reggio Emilia nel Duomo (Natività di Nostro Signore); a Rimini nel Tempio Malatestiano (San Carlo); in Umbria a Collescipoli (TR) nella Chiesa di Santa Maria (Madonna con Rosario), a Umbertide (TR) nella Chiesa di San Francesco (Madonna in Gloria tra i 4 Santi).
Altri suoi
lavori eseguiti a Roma, benché documentati da fonti storiche, sono andati perduti,
come una Madonna con San Giuseppe per il Cardinal Giustiniani o gli affreschi
in San Andrea della Valle distrutti in un rifacimento del 1670 ad opera
dell’Architetto Fontana.
NOTE
1) In questa biblioteca, frequentata da studiosi e docenti universitari, sono consultabili anche le nostre riviste della “Comunità di Pomarance” che hanno avuto un buon apprezzamento per il livello qualitativo. L’interesse particolare per la Rivista quadrimestrale ci è stato dimostrato qualche tempo fa anche dal Direttore della “Bergische Universitat” di Wuppertal (Germania Occ.) che. avendo consultato la nostra “Comunità di Pomarance” nella Biblioteca dell’istituto germanico di Firenze, ha fatto richiesta di tutta la serie completa della rivista per inserirla nella loro Biblioteca di Wuppertal. Ricordiamo inoltre che le suddette riviste sono consultabili anche nella Biblioteca Guarnacci di Volterra, all’Archivio di Stato di Pisa, all’Archivio di Stato di Firenze e nella Biblioteca Comunale di Cecina.
Le antiche origini di Pomarance e del
suo territorio sono testimoniate da vari reperti che sono esposti nei più
famosi musei toscani. Uno tra questi è sicuramente la Stele Etrusca di Larthi
Hatarnies collocata fin dal 1889 nel museo archelogico di Firenze.
Reperti di epoca etrusca che negli
ultimi tempi sono oggetto di studi e ricerche per la conoscenza del territorio.
Testimonianze del passato che spesso
vengono ignorate o sottovalutate dagli enti preposti alla loro valorizzazione
che non sanno valutare il riscontro, dal punto di vista turistico, che se ne
potrebbe determinare.
Ne è un esempio la tomba etrusca di via
Mascagni a Pomarance che è poco conosciuta anche dagli stessi abitanti del
luogo e che potrebbe essere un’altra attrattiva in più per quei turisti
stranieri che passano le loro vacanze nei Residence della zona.
Essa è una delle più evidenti, e meglio
conservate, testimonianze archeologiche che esistano nel centro storico del
paese. Ubicata nei pressi della Chiesa Parrocchiale di Pomarance è sicuramente
uno dei più interessanti “Ipogei” di epoca etrusca risalente al V-IV secolo
a.c. che denotano le origini antichissime di Pomarance la cui etimologia
sarebbe avvallata da esimi studiosi di etruscologia.Testimonianza storica che
si aggiunge a vari ritrovamenti (casuali) rinvenuti dai primi dell’ottocento
alla metà degli anni ’70 e pubblicati in varie rassegne di archeologia.
La tomba, situata all’interno del garage della Canonica Parrocchiale, è accessibile attraverso un’apertura realizzata negli anni ’30 che consentì casualmente di scoprire questa “Tomba a camera” interamente scolpita nel tufo. La notizia della scoperta fu pubblicata dal Giornale Nuovo di Firenze il 19 Ottobre 1934 destando particolare interesse da parte della Sovrintendenza Archeologica di Firenze che ne ignorava l’esistenza. Il sito di questa Tomba fa presumere che nelle immediate vicinanze esistesse una piccola Necropoli; fonti orali tramandate dalla Famiglia Biondi, in particolare dal “Sor Pietro Biondi”, ricordano la scoperta, e il rinvenimento di alcuni oggetti durante la costruzione del Palazzo Biondi Bartolini in Piazza De Larderei che è confinante con la canonica parrocchiale di Pomarance
La larghezza delle porte delle celle è di cm. 85. Lo spazio interno di ogni cella tra i “Klinai” è di
circa m. 1,85 di lunghezza e m. 1,05 di larghezza.
Interno Tomba Etrusca di Via Mascagni.
La tomba è scavata nel tufo. Un corridoio in direzione
est-ovest, largo m. 1,70, lungo m. 4,23 e alto m. 1,85 divide le due celle del
lato nord da quelle del lato sud. Il soffitto del corridoio è a displuvio e riproduce
l’architettura della casa con la travatura (Kolumen) a sezione rettangolare.
Delle quattro celle della tomba soltanto tre sono visibili;
infatti quella a sinistra entrando, è murata essendovi realizzato, fin dai
primi anni dell’ottocento, un pozzo nero per l’abitazione del parroco.
Pianta della tomba sotto la canonica.
Il Dromos (Ingresso Principale) è individuato in direzione
dell’orto della canonica ed è stato tamponato in passato con muratura a sacco.
Ogni cella presenta al suo interno tre letti (Klinai) scolpiti in tufo, ognuno con il proprio cuscino, alti dal suolo circa 70 cm. e larghi circa 60 cm. Le dimensioni delle tre camere sono si mili, ed hanno un’altezza media di m. 1,80.
La camera a destra entrando è quella meno conservata,
infatti è stato demolito uno dei letti che presenta evidenti tracce di piccone
e scalpello.
La tomba già profanata nell’antichità non ha restituito
alcun reperto ma soltanto alcuni frammenti ossei che attraverso la prova del
carbonio, potrbbero consentire di datare più precisamente questo interessante
ipogeo.
La tomba di via Mascagni, che
è inserita anche nella Guida Turistica di Pomarance (edita dalla Associazione pro Pomarance) in un percorso del centro storico, potrebbe
essere maggiormente conosciuta se all’esterno fosse indicata da cartelli
turistici e nel suo interno fosse realizzato un impianto di illumunazione
ottimale come è stato fatto per quella di Montecastelli (VI see. a.C), conosciuta volgarmente come la “BUCA DELLE FATE”;
progetto realizzato dalla Sov. Archeologica di Firenze in collaborazione con
il Comune di Castelnuovo V.C.
Particolare interesse merita anche
l’altra tomba di Pomarance ubicata nella zona di San Piero in prossimità del
Podere Santa Barbara vicinissima al Centro sociale per anziani.
Si presenta in notevole stato di abbandono
ricoperta da sterpaglie e utilizzata nel corso di questi anni come piccola
discarica di rifiuti. Essa fu scavata negli anni ’68-70 da alcuni studenti
fondatori del Gruppo Archeologico di Pomarance, che avevano individuato il sito
su testimonianze orali dei vecchi contadini che abitavano il podere.
Sezione Tomba Etrusca sotto la canonica
Lo scavo, nel ricordo personale di un ragazzo di 12 anni che assistette a questa “impresa”, riportò alla luce solo una parte della tomba che risultava riempita nel passato con pietrame e terra. Fu individuato un klinex e riportato in luce il portale di ingresso, il “Dromos” (orientato verso la strada di San Piero) che presentava tracce di scale scolpite anchesse nel tufo.
La localizzazione di questa tomba era testimoniata da alcuni avvallamenti e da fotografie aeree concesse ai giovani appassionati che, pur avendo richiesto il permesso al proprietario Ricci, poco tempo dopo rischiarono la denuncia per violazione di proprietà privata.Lo scopo era anche allora quello di fare un piccolo museo che conservasse quei pochi, ma pregevoli reperti recuperati casualmente.
Ingresso della tomba.
Alcune ricerche personali, intervistando persone che abitarono il Podere di Santa Barbara, come gli Antoni o i Bartoli, hanno contribuito a far luce su questa tomba e a fornire alcune piccole notizie su come questo sito fu scoperto ancora prima del 1967. Il racconto dettagliato di un anziano componente della famiglia Bartoli, “Bartolo di Colondri”(classe 1909), ha ricordato un episodio che portò infatti negli anni
’20 all’individuazione del sito:
“… I nostri vecchi ci
raccontavano, sempre durante le veglie sotto il focarile, che nella zona ci
doveva essere una gallina dalle uova d’oro o un piccolo tesoro nascosto chissà
dove.
Questa affascinante prospettiva mi parve
fosse capitata quando con mio fratello un giorno decidemmo, credo attorno al
1924, di sradicare un ciocco di pino sopra la strada di San Piero, proprio
dietro alla capanna di Santa Barbara, che era stato tagliato da tempo.
Mentre iniziammo a tagliare le radici di
questo tronco d’albero ci fu improvvisamente vicino ai nostri piedi uno
sprofondamento del terreno; lo stupore fu grande, ci guardammo e pensammo:
Abbiamo trovato il tesoro!!
Cominciammo a scavare e vedevamo una volta scavata nel tufo, per buona metà ricoperta di terra.
Durante lo scavo non furono trovati oggetti
o frammenti di ceramica. Fu rinvenuto solamente, visto che noi assistevamo a
questa impresa a fianco degli “esperti”, un oggetto di vetro finissimo, che
dicevano essere un lacrimatoio e alcune monete, non di epoca etrusca, come
raccontava il Sor Pietro Biondi, ma del periodo dei Barbarossa”.
Dopo qualche tempo la buca fu ricoperta e spianato tutto il terreno. Nonostante non avessimo trovato niente nel luogo, le autorità sospettavano che avessimo trafugato qualche oggetto, ma noi non trovammo assolutamente niente”.
Ubicazione della tomba di S. Barbara
Sono passati ormai tanti anni dal primo ritrovamento, e non mi risulta che fosse stato fatto alcun rilievo della tomba o pubblicazione alcuna. Chissà se di quel periodo esisteranno delle foto che documentano per lo meno il ritrovamento; ma la cosa che più mi incuriosisce è sapere dove sono andati a finire quegli oggetti descritti dal Bartoli. Un quesito che potrebbe risolversi tra le carte di un grande cultore di storia antica di Pomarance, il Dott. P.G. Biondi che ha scritto molte cose sulla nostra zona, e che ha salvato, pur senza critiche, molte delle testimonianze architettoniche mediovali presenti sul nostro territorio. La tomba, oggi nel terreno di proprietà comunale potrebbe in qualche modo essere salvaguardata dal degrado soltanto con un po’ di impegno e buona volontà in modo da essere anchessa uno strumento didattico per le scuole e non di meno una curiosità in più per quei turisti stranieri che visiteranno la nostre località.
L’ARCHEOLOGIA è la scienza che ricerca,
raccoglie e studia i prodotti e le manifestazioni concrete dell’antichità, al
fine di documentare e ricostruire storicamente il passato.
A partire dalle prime forme di vita, le
azioni umane si sono intrecciate e sovrapposte continuamente lasciando tracce
riconoscibili nel terreno.
Come la vita si trasformi per l’abbandono
e finisca sotto terra è una delle curiosità principali dell’archeologo. Le costruzioni
sono fatte di apporti e sottrazioni di materiali che si succedono periodicamente
nel tempo, interferendo gli uni con gli altri entro una stessa porzione di
spazio.
Le costruzioni poi vengono sepolte e immobilizzate nel terreno. A volte finiscono sotto terra quasi intatte (come Pompei dopo l’eruzione) altre volte subiscono gradi diversi di sconvolgimento, fino a divenire difficilmente comprensibili o anche a perdersi del tutto. Ciò accade quando l’edificio viene abbandonato e esposto all’atmosfera. Qui avviene la transizione dalla fase di costruzione a quella di deposizione.
Le costruzioni poi vengono sepolte e
immobilizzate nel terreno. A volte finiscono sotto terra quasi intatte (come
Pompei dopo l’eruzione) altre volte subiscono gradi diversi di sconvolgimento,
fino a divenire difficilmenté comprensibili o anche a perdersi del tutto. Ciò
accade quando l’edificio viene abbandonato e esposto all’atmosfera. Qui
avviene la transizione dalla fase di costruzione a quella di deposizione.
Primo compito dello scavatore è quello
di stabilire la SEQUENZA DELLE AZIONI E DELLE ATTIVITÀ NATURALI E UMANE,
accumulatesi nella STRATIFICAZIONE entro un determinato spazio e tempo, prima
singolarmente distinte, poi messe in relazione tra loro. Saranno poi i REPERTI
contenuti negli strati a permettere di passare dal tempo RELATIVO al tempo
ASSOLUTO. Due strati uno sopra l’altro implicano che quello superiore si sia
formato dopo quello sottostante, e ciò permane vero anche se la ceramica in
essi contenuta indicasse il contrario. Chiarita e periodizzata la SEQUENZA
STRATIGRAFICA possono finalmente emergere gli AVVENIMENTI, e così la STORIA.
L’indagine archeologica deve procedere quindi applicando il METODO DI SCAVO STRATIGRAFICO. Andranno cioè riconosciute tutte le AZIONI MINIME riscontrabili (Muri, fosse, strati di terra o comunque di andamento orizzontale) e rimosse una dopo l’altra nell’ordine esattamente inverso a quello che ne ha provocato l’accumulo. Queste azioni sono chiamate UNITÀ STRATIGRAFICHE.
Dopo aver
identificato e numerato le unità stratigrafiche e averne stabilito le
relazioni reciproche occorre descriverle. La descrizione è
accolta in SCHEDE prestabilite in cui sono previsti i lemmi da riempire e poi
da completare e controllare, dopo aver documentato graficamente l’unità con una
PIANTA QUOTATA (OVERLAY) e dopo averla scavata.
Tutte le unità riconosciute e documentate nel corso
dell’indagine stratigrafica vanno poi ricomposte in un modello che restituisca
il senso dell’unità originaria. Senza ricostruzioni ci si perderebbe nella
miriade delle unità stratigrafiche. La rappresentazione globale della
stratigrafia viene allora realizzata grazie al DIAGRAMMA STRATIGRAFICO
(MATRIX).
Nel diagramma figurano tutte
le unità stratigrafiche ridotte in numeri e le relazioni essenziali che esse
stabiliscono fra loro sono rese nella forma delle linee di collegamento fra i
numeri. Tale diagramma assomiglia a un albero genealogico in cui le dimensioni
reali sono ridotte ai semplici RAPPORTI CRONOLOGICI del “prima e del poi”.
Gli insediamenti “minori”
Problematiche storiche e impostazione della ricerca
Il colle volterrano risulta stabilmente abitato almeno dal
IX secolo a.C.
Fin da questo momento
Volterra si trova a controllare una vastissima zona, più grande di qualsiasi
altro territorio amministrato dagli altri centri villanoviani e etruschi a noi
noti, esteso tra la costa tirrenica, la valle del fiume Cornia, l’alta valle
del Cecina, la valle dell’Elsa, l’alta valle dell’Era e il bacino del fiume
Fine.
Nei secoli l’insediamento umano si è concentrato lungo il
corso del Cecina e dei suoi affluenti, naturali vie di penetrazione dalla
costa verso l’interno, nei pressi dei giacimenti metalliferi e nei luoghi
contraddistinti da un sottosuolo fertile e stabile.
Ma di questo capillare tessuto insediativo che doveva caratterizzare l’intero territorio volterrano, e in particolare la Val di Cecina, conosciamo in maniera più approfondita quasi esclusivamente le necropoli. Quasi sempre fortuitamente, sono state rinvenute tombe che coprono l’intero arco della storia volterrana dall’epoca villanoviana, alla romanizzazione compiuta nel corso del I secolo a.C., fino all’epoca imperiale. Raramente però da questo tipo di siti è possibile ricavare l’esatta collocazione e le caratteristiche principali delle aree abitate.
Quale era l’attività economica in esso praticata
(agricoltura?, sfruttamento minerario?, attività commerciali?) e quale il
livello sociale degli abitanti della campagna?
È possibile riconoscere particolari soluzioni di
continuità nell’occupazione e nello sfruttamento di questi territori nell’antichità,
oppure con il passare dei secoli e con l’assorbimento dell’Etruria nell’orbita
romana la situazione nelle campagne non è sostanzialmente mutata?
Per rispondere a questa serie di interrogativi abbiamo scelto, tra i siti rinvenuti nel corso della ricognizione topografica, quello che corrispondesse ai seguenti requisiti: Per la raccolta dei dati riguardo un insediamento antico è fondamentale una buona conservazione del “Deposito Archeologico”. Arature non profonde e un terreno stabile, non soggetto a fenomeni erosivi di
qualsiasi tipo sono fattori determinanti nella scelta del contesto da indagare.
Maggiori saranno poi le informazioni se la fraquentazione
umana nello stesso luogo si è protratta per molto tempo. Una sequenza
stratigrafica permette infatti di ricostruire una storia tanto più lunga e
complessa quanti più periodi siano in essa rappresentati.
Abbiamo così scelto il sito che, sulla base dei materiali raccolti in superficie, sembrava caratterizzato da un’OCCUPAZIONE STABILE iniziata almeno nel periodo ellenistico (IV see. a.C.) e durata fino alla tarda età imperiale (IV-V secolo d.C.). Ma il motivo di maggiore interesse riguardo il nostro sito risiede nel fatto che esso presenta caratteristiche comuni ad una numerosa serie di altri insediamenti, tutti concentrati sulle antiche terrazze fluviali, disposte lungo i corsi d’acqua principali. La storia del Podere S. Mario potrebbe così rappresentare un episodio di un più vasto fenomeno di occupazione, stabile e selezionata, diffusa nel territorio volterrano tra la città antica e il mare, di cui non si aveva fino ad oggi notizia.
Area di scavo presso S. Mario
PODERE S. MARIO
Un insediamento rurale nel territorio di Volterra
Podere San Mario si trova sulla sponda sinistra del
Cecina, presso il ponte lungo la strada provinciale che unisce Pomarance con
Saline di Volterra.
Le prime ricognizioni, compiute nell’autunno del 1988,
portarono alla scoperta delle tracce di una diffusa occupazione del pianoro,
rappresentate da diverse concentrazioni di materiale edilizio e ceramico (le
Unità Topografiche). Al fine di realizzare il primo sondaggio in un settore del
sito dove fosse ipotizzabile la presenza di un numero considerevole di
evidenze monumentali e stratigrafiche, l’indagine è stata preceduta da una
serie di operazioni che consentissero una migliore comprensione e
interpretazione dei dati emersi nel corso della ricognizione topografica.
Una serie di CAROTAGGI MANUALI hanno permesso di ricostruire due sezioni con andamento NESO che illustrassero la stratificazione presente sull’antica terrazza fluviale interessata dall’insediamento: un cospicuo deposito archeologico che raggiunge lo spessore di ca.m. 1,10 si trova al di sotto di uno strato disturbato dalle arature periodiche spesso ca.m. 0,50.
Su tutta l’area (mq. 2140 ca.) della più estesa delle tre Unità Topografiche che rappresentano i resti visibili dell’insediamento è stata realizzata una quadrettatura con quadrati di m. 2,5 di lato. Tutti i reperti presenti in ogni quadrato sono stati raccolti per determinare l’ESATTA DENSITÀ DEL MATERIALE SUL TERRENO, espressa attraverso il peso delle singole classi – materiali edilizi, ceramica, dolii, anfore – in rapporto alla superficie occupata. I risultati sono stato diversi a seconda delle classi prese in esame: più rappresentati, con valori massimi concentrati lungo il limite settentrionale e in una fascia centrale ma con valori massimi coincidenti con quelli dei laterizi; meno rappresentati invece DOLII e anfore, concentrati in due insiemi principali al centro dell’area e in prossimità del limite Nord.
è stata infine compiuta un’indagine di resistività al fine di rilevare possibili anomalie derivanti da concentrazioni di materiali edilizi, o addirittura resti di strutture. Queste si addensavano tutte lungo il limite settentrionale in prossimità della macchia che delimita a Nord il podere. Dopo un primo sondaggio (mq. 29 ca.) realizzato nell’autunno del 1991 sulla base delle indicazioni ricavate dalle operazioni precedentemente descritte, è iniziato lo scorso anno lo scavo in estenzione.
La prima campagna di lavori appena conclusa, ha consentito
di individuare i resti di un edificio, alcune piccole strutture a caratte
precario situate, probabilmente all’aperto, attorno all’edificio principale, e
alcuni livelli che attestano la frequentazione del sito anche dopo la
distruzione dell’edificio principale.
I resti più antichi relativi
probabilmente alla prima fase di vita dell’insediamento sono rappresentati da
un solo muro. La muratura è realizzata con pietre di fiume, messe in posa
senza nessun legante, conservate per un’altezza di circa tre filari
sovrapposti.
Lo scavo non ha ancora raggiunto gli strati più profondi
relativi alla fondazione, e la sua cronologia non può ancora essere stabilita
con certezza. Ma i reperti più antichi raccolti negli strati superiori
(bucchero, frammenti di impasto) testimoniano una frequentazione dell’area a
partire almeno dall’inizio del V secolo a.C.
Tra la fine del I secolo a.C. e la prima metà del I secolo
d.C., l’edificio subisce una profonda ristrutturazione. Sono riconoscibili
ora almeno tre ambienti rettangolari allineati lungo i loro lati lunghi, con
orientamento N-S.
A questo periodo vanno attribuite la costruzione di un
piccolo forno e di una piccola struttura circolare (una capanna? una ulteriore
zona da fuoco?) Le pareti, di cui sono conservate le fondazioni sempre in
ciottoli di fiume, erano realizzate in argilla cruda e pressata, che
disfacendosi con il passare del tempo, hanno formato degli spessi strati
argillosi che riempono gli ambienti. Non abbiamo finora rinvenuto frammenti di
intonaco, ne di particolari tipi di pavimentazioni.
Il tetto era costituito da grandi tegole rettangolari con i
bordi rialzati, a cui venivano sovrapposti degli embrici, sorrette da una
intelaiatura lignea, di cui però non è rimasta traccia.
Tra la ceramica colpisce la quantità di classi grezze. Alta la percentuale di IMPASTO, CERAMICA COMUNE, DOLII e ANFORE. Non manca comunque la ceramica fine, rappresentata in questa epoca dalla caratteristica SIGILLATA ALICA, e oggetti in bronzo dalla buona qualità.
L’area di scavo presso il podere S. Mario.
In epoca imperiale avanzata un’ulteriore ristrutturazione
interessa il nostro edificio. Trovandosi ad una profondità minore rispetto agli
altri, i muri di questa fase risultano danneggiati dall’azione dell’aratro. ‘
La pianta dell’edificio non dovrebbe essere
sostanzialmente mutata, visto che le nuove pareti sembrano rispettare gli
orientamenti e, in un caso almeno, il percorso dei muri più antichi. Anche in
questa fase non sembrerebbe essere stato usato intonaco per decorare l’elevato
dei muri, mentre negli strati che segnano l’abbandono dell’edificio, sono
state recuperate delle tessere di pietra, lavorate e lisciate, che costituivano
parte del pavimento degli ambienti. Nell’uso della ceramica non si registrano
importanti cambiamenti. Continuano tutte le classi grezze e comuni, mentre la
ceramica fine è ora rappresentata dalla Sigillata Chiara, una ceramica dalla
vernice arancione, prodotta principalmente nelle officine africane dell’impero.
Archeologhe durante gli scavi.
Dopo l’abbandono dell’edificio (non sono stati finora rilevati segni di distruzione violenta) la frequentazione del sito non cessa comunque del tutto.
Una serie di colluvi di matrice argillosa, provenienti dalle colline che delimitano ad Ovest la terrazza fluviale ricoprono gradualmente tutte le strutture precedentemente esistite. Tra i reperti provenienti da questi livelli sono da segnalare parti di brocche databili tra il periodo longobardo e l’età basso medioevale.
APPUNTI DA UNA RICERCA IN CORSO a cura di A. Augenti
Nel quadro delle indagini che interessano la vallata del
Cecina, condotte a partire dal 1987 dalle Università di Pisa e di Roma, lo
studio del castello di Pomarance riveste un particolare interesse, vista
l’importanza del centro in tale ambito geografico.
Il ruolo di primo piano svolto da Pomarance – seconda solo
a Volterra per grandezza – traspare infatti anche ad un primo esame sia dalle
fonti materiali che da quelle scritte finora conosciute. Occorre ricordare ad
esempio come il castello figuri al primo posto in entrambe le“lire”del 1288edel
1297,degli elenchi di centri della zona in cui è riportato l’ammontare delle
tasse dovute al Comune di Volterrani )
Per quanto riguarda il primo aspetto citato, quello materiale, va sottolineato come Pomarance sia uno dei pochi abitati della Val di Cecina che conservi ancora alcuni edifici medioevali quasi integri; su questi è in corso una campagna di documentazione, che prevede rilievi, campionatura delle strutture murarie e redazione di una pianta archeologica, e che confluirà in un lavoro analitico sull’intero castello.
La porta al peso o orcolina (1975)
A proposito invece del secondo settore di ricerca, una
ricca serie documentaria che parte dal XV secolo è conservata nell’Archivio di
Pomarance, e di questa si è già efficacemente servito Jader Spinelli sulle
pagine di questa rivista per ricostruire alcuni aspetti della topografia e
della storia della città.
Per aggiungere nuove informazioni a quanto è già stato
acquisito ed eventualmente risalire più indietro nel tempo, l’indagine si sta
ora indirizzando anche verso altri “bacini” della documentazione storica,
principalmente gli archivi di Volterra e Firenze, dove sono conservati
numerosi testi che riguardano Pomarance.
Proprio da queste prime
ricognizioni archivistiche provengono alcuni dati, che si è ritenuto utile
presentare – in via preliminare – in questa sede. Sono notizie che riguardano
soprattutto la topografia di Pomarance, e, in misura minore, la vita
materiale all’interno – e all’esterno – del castello tra XIII e XV secolo.
1. La filza S.1 conservata all’Archivio Comunale di
Volterra è uno dei più importanti testi a nostra disposizione per ricostruire
l’assetto e le condizioni dei castelli della Val di Cecina nel corso del
Medioevo. Comprende le copie di una serie di documenti che riguardano soprattutto
compravendite di immobili (ma anche altro) nelle quali è coinvolto il Comune di
Volterra.
Si tratta di una raccolta di carte molto sfruttata dal
grande storico volterrano Enrico Fiumi, che riveste ancora oggi un’enorme
importanza per il ricercatore interessato ai problemi di questo territorio.
Nella filza sono raccolti alcuni atti rogati a Pomarance.
Uno di questi, in particolare, consente di ampliare la
nostra conoscenza su alcuni luoghi del “ castrum de Ripomarancia “. Vediamolo
insieme.
Nel 1252 un certo Bonaccorso di Rigepto, assieme ad Inghiramo di Buonaccorso, vende al Comune di Volterra “tria integra spatia posite in castro de Ripomarancia (sic)”. In uno di questi era posto lo ” edificium domus Franceschi Guercij et est positum nel Petriccio, cui ab uno latere via pubblica, ab alio est domus lunte de Spartacciano, retro est murus castellanus, ante est dicti Franceschi.
Secundum spatium estpositum in Plano castri Ripomarancie super quod est edificium domus Bonacursi Guergij cui ante est via, retro est filiorum quondam Martini Castaldi, ab uno latere est domus lanceti filij Guitti, ab alio est domus Romee quondam Biumchaldi.
Terzium spatium est positum in burgo Sancti Angeli super quod est hedificium domus filiorum quondam Tabnarij, cui ab uno latere est filiorum quondam Poronciacti et filiorum quondam Luchesi ropoli, ab alio est filiorum quondam dicti Luchesi, ante est via pubblica, retro tenent filiorum quondam Stephani Morchecti, et signi alii sunt fines “.(2) Attraverso queste indicazioni veniamo a sapere innanzitutto che il toponimo “Petriccio” ( la zona a ridosso della porta Volterrana, compresa nella cinta del XIV secolo), finora noto solamente a partire dal XV secolo (3), è sicuramente più antico, e va dunque retrodatato almeno al XIII .
Altrettanto si può dire per il toponimo “Plano castri”, attestato per la prima volta in questo documento. Se la localizzazione precisa dei possedimenti privati menzionati nel documento risulta un lavoro estremamente difficile, bisogna d’altro canto rilevare un altro elemento che emerge dal testo: l’esistenza di un “ burgo Sancti Angeli”. Tale agglomerato era probabilmente posto nella zona est del castello di Pomarance, dove era collocata la “ecclesia S.Angeli Michaelis attestata fin dai primi decenni del XIII secolo (4).
“Il Marzocco” (1978).
Inoltre a conferma ed integrazione di quanto detto fin qui, un altro atto riporta la vendita di “duam petia terre seu casalinum seu casalinum cum cellario posito super dicto chasalino positum in castro Ripomarancie in Petriccio”. Tra i confini della proprietà, sul primo lato, è la “ via pubblica sive cursus maiori”. Veniamo così a conoscenza del nome della strada principale di Pomarance nel XIII secolo (5).
2. Alcuni statuti di Pomarance sono conservati invece
all’archivio di Stato di Firenze, e fanno parte del fondo Statuti comunità
“autonome e soggette”(6).
Il volume è composto di più quaderni con rilegatura moderna
in cartone; mis; 31 (h) x 23,5 (I). I quaderni
sono tutti in carta tranne l’ultimo, scritto a pergamena.
La prima redazione risale al 1476 ed è seguita da numerose
conferme che la rendono valida fino al 1492; esiste poi una redazione del 1474,
con conferme e aggiornamenti fino al 1507, ed una del 1482, aggiornata fino al
1322. La raccolta è chiusa dalla redazione del 1475, la migliore, in pergamena
con rubriche in rosso ed alcune iniziali miniate. Tutte le redazioni sono
divise in tre libri,ognuno articolato in più rubriche. Il volume in tutto è composto
di 243 fogli.
Vediamo innanzitutto una rubrica contenuta nel Libro I, XXXI:
‘‘Come si intendino i terzi di Ripomarancio”
“Item providono et ordinorono decti statutari] che e terzierij del castello di Ripomarancio s’intendino in questo modo cioè’ el terzo di Petriccio s’intenda cosi’ dalla porta volterrana in fino al chiasso di Piero del Buza avento del castello et nel borgho infino al chiasso della castella del gelso in verso alla porta volterrana s’intenda el terzo di Petriccio. El terzo del piano d’intenda dal dicto chiasso di Piero del Buza et chiasso della castella del gelso in la come tiene la piaza et la via che va dalla piaza alla porta al peso et nel borgo in fino a dieta porta s’intenda el terzo del Piano.
El terzo del borgho sia come tiene la casa del vicario
inverso el cassero et la porta del peso in verso la chiesa del sancto tutto
s’intenda nel terzo di borgho “(7).
Come si noterà, a parte i caposaldi la cui localizzazione è
ancora ignota (chiasso di Pietro del Buza, chiasso della castella del Gelso),
la divisione corrisponde alla ricostruzione proposta su questa rivista da J.
Spinelli, sulla quale non ritorno per motivi di spazio (8).
Altrove è poi nominato un “
palagio dove si raduna il consiglio”, ovvero il Palazzo Comunale (9). E
ancora: “Che non sia nessuna persona (…) che aderisca ovvero presumma andare
in sul tetto della casa del comune, ne alchuna altra casa o bottega d’alcheduna
privata persona senza licentiadel padrone o signore”(10).
Per quanto riguarda invece alcuni aspetti dell’economia del
castello nel corso del XV secolo, è particolarmente interessante la rubrica
“Della pana di chi desse danno con bestie e oche”, che ci mostra quali animali
erano allevati nella corte del castello: porci, pecore, asini, capre, buoi,
bufali. Nello stesso statuto sono elencate anche le principali colture del
contado: grano, biada, zafferano (11), vite; non manca un accenno anche alle
ghiande (12).
Sempre a proposito delle restrizioni per chi possedeva bestiame si segnala il capitolo “ Della pena di chi mena bestie a bere o guazare nel pelagho della fornace”, dove si stabilisce che nessuno può portare bestie di nessuna grandezza “nelli pelaghi o alchuni dessi della fornace dove si fanno e mattoni ettegholi”.(13)
Va inoltre sottolineato come anche a Pomarance – come in altri castelli della zona, tra cui Montecerboli, Montecastelli, Sillano – è ricompensato chi prende lupi nella corte del castello: “Considerato gli infiniti danni che fanno i lupi in questi paesi”. (14)
Circa l’agricoltura, il Comune favorisce inoltre la
coltivazione di alberi da frutto, sottoponendo a sanzioni chi non ne pianti 4
ogni anno (libro III, rubrica 14 ).
Gli abitanti del castello hanno poi l’obbligo di macinare
il grano presso i mulini di proprietà del Comune, pena sanzioni pecunarie.(15).
Da alcune rubriche contenute negli statuti veniamo poi a
contatto con una industria molto attiva a Pomarance nel corso del Medioevo;
quella della manifattura tessile. È il caso del capitolo “Della pena di chi
tende panni o secca fichi o altro in sulle mura castellane”, con cui si dispone
“Che non sia alchuna persona (…) che aderisca o presuma tendere in sulle mura
del castello de Ripomarancia alchuna generatione di panni ne lini ne lani ne
altre chose ne porre fichi o altre frutta
asecchire” (16).O ancora :”Della pena di chi fa pannicelli et altri panni di
colore di mancho di 24 paiuole e panni albagi di 21 paiuole et non si possano
fare concintoli di lana”,(III, 35). (17)
Nel castello si possono
quindi produrre panni, ma il minimo permesso è di 24 paiuole nel caso di panni
colorati e 21 nel caso di panni albagi; sono menzionati maestri orditori e
tessitori, ai quali viene commiata una pena differente nel caso che
contravvengano alle disposizioni (rispettivamente 2 e 3 lire).
Infine gli ultimi due passi che si presentano riguardano la topografia delle immediate vicinanze del castello di Pomarance. Dalla rubrica “ Dell’ufficio de vaiai et loro autorità “ veniamo a conoscere le strade che servono il castello e la sua corte: “ due (uomini) per la via Volterrana et per la via di Chatarello, due per la via di Doccia et per la via di San Piero, due per laviadella Leccia et la via de Poggiargli, due per la via del Piano delle Lame et via di Percussoio, et due per la via Dell’erbaia et via della Petraia.”(18)
Castello delle “Ripomarance” nel XVI secolo
LEGENDA
1 …… Porta Volterrana. 2 …… Porta Massetana o Orciolina. 3 …… Porta a Cassolle. 4 …… Porta alla Pieve. 5 …… Porta Nuova. 6 …… Porta al Peso. 7 …… Pieve di S.Giovanni Battista. 8 …… Cancelleria. 9 …… Chiesa e ospedale di S.Michele. 10 …. Bargello. 11 …. Podesteria. 12 …. Carceri.
Interessanti informazioni sono quindi offerte nel capitolo “De confini della bandita di comune e delle pene delle bestie che entreranno in epsa bandita, excepto quelle de beccai”(cioè i macellai). In questa parte vengono delineati i confini della bandita: “Incominciando inprima all’apparita di monte Orsi dove sono le forche per dirictura alla fonte a Ciena (19). Et da decta fonte a Ciena a dirittura al poggio al Brieve. Et dal poggio al Brieve come va la via in sino alla fonte di San Piero, et dalla fonte di San Piero adirittura alla casa di madonna Giovanna di Rasinello. Et da dieta casa di Madonna Giovanna di Rasinello a diricturaal ghuado a Peghola. Et dal guado a Pegola diritto al poggio alle Ripaie ritto alla sancta Maria al piano delle Lame. Et dalla sancta Maria al piano delle Lame come va la via al poggio di Chard età ritto alla casa dei poveri per dirittura insino alla fonte Alucholi. Et dalla fonte Allucholi ritto al mulinacelo dell’Albiaia insino al ghuado a Catarello et dal ghuado a Cattarello a dirittura insino all’apparita del poggio di Montorsi. Et questi si intendi no essere e confini della bandita di detto comune”.
Rilievo della “Porta a Casolle”. Autori: A. Augenti, Laura Ruggieri, Giuseppe Romagnoli
Si tratta quindi di un testo
ricco di toponimi interessanti, ed è in corso proprio a questo proposito un
riscontro sulla toponomastica d’età moderna. Ma il dossier sulle zone
circostanti il castello deve essere ancora integrato con ulteriori fonti
archivistiche e nuovi dati archeologici, nel tentativo di ricostruire l’assetto
e le vicende di uno dei castelli più importanti della Val di Cecina.
Andrea Augenti
I vi ,c 23. Il
documento risale al gennaio del 1247.
ASF. Statuti delle
comunità’ autonome e soggette (1162-1779),n. 718.
lvi,f.19,r.
J.SPINELLI, Le porte
… cit. ,p.ll.
ASF. Statuti cit.
,f.2O6 (Statuti del 1475)
Ivi, II. 27 ;f.34. v.
) Lo zafferano era una
delle voci più importanti dell’economia del volterrano e della vicina Val d’Elsa; cif. E.FIUMI, VolterraeSan Gimignano nel
Medioevo, San Gimignano 1938, p.114
ASF, Statuti . cit.
Ili, 5;ff.28-29,r.
Ivi, III, 30; f.35,r.
lvi,l, 27;ff.16 v.-17
Ivi,111,15. Non è
specificato il numero dei mulini comunali, ma in una redazione piu’ tarda
(1502) ne è menzionato uno solo, assieme ad una frantoio
Ivi, III, 10 ;f.31.v.
La “paiuola”
equivaleva a 40 fila : cfr.C.CUCINI.Radicondoli. Storia e Archeologia di un
comune senese, Roma 1990,p. 317.
ASF, Statuti cit. ,
I.9; f.10.r.
Ivi, III, 6; ff.29
v.-30,r.
Il toponimo Ciena è sicuramente più antico: si ritrova in un inventario dei
beni scritto da Filippo Beiforti nel 1340: “item uno pezzo di terra posto ne confini di Ripomarancia del
distrecto di Volterra in luogo decto a Ciena”. (BGV.ms 8469,c.2)
Epoca moderna, parole nuove,
espressioni inglesi, pubblicità (su televisione, con volantinaggio, con
manifesti), istruzione, informazione, viaggi, ma quanto civismo?
Circa settanta anni fa si costituiva a Pomarance, per volontà del proprietario terriero Cav. Emilio bicocchi (allora Sindaco del nostro Comune), il punto di scarico dei rifiuti. Nei presi dell’allora podere Ortolano, di proprietà Bicocchi, si costruì il ptimo immondezzaio, e sempre per suo conto fu costruito il mezzo adatto alla raccolta ed al trasporto dei materiali da buttare. Lo Spazzino, con lettera maiuscola, poi netturbino, oggi operatore ecologico, con coscenza, una granata di scopa ed una paletta, riusciva a tener pulite le strade lastricate del nostro Pomarance.
Era “MIZIO” (Salvadori Domizio), figura simpatica e allegra, che ogni mattina con la sua stridula trombetta richiamava le donne di casa per vuotare il secchio con i pochi resti del modesto pasto giornaliero (molto più voluminoso nel periodo dei baccelli), nel carretto di legno trainato dal ciuchino (Beppe) che con pazienza, da somaro, si fermava un passo si ed un passo no.
Per anni questo ciuchino continuò a girare in lungo ed in
largo il nostro paese e, prima con Mizio e poi con “BEPPE” (Baiatri Giuseppe)
portava tutti i nostri miseri avanzi all’Ortolano.
Lo spazzino Giuseppe Baiatri con il carretto per la raccolta dei rifiuti urbani trainato dal ciuchino detto “Beppe”.
Ogni anno nel periodo della semina questa raccolta veniva
rimossa dagli operai della Fattoria Bicocchi (era questo il suo ricavato e
pago) e cosparsa prima dell’aratura nei campi di sua proprietà.
Passò la guerra, il fronte, il Tedesco e l’Americano, anche Beppe morì, il ciuchino scomparve e fu sostituito da un motocarro. Il fronte aveva lasciato i primi rifiuti non degradabili: “la plastica”, grande ritrovato, ma come ogni medaglia anche questa con il suo rovescio, era indistruttibile. I vistosi e multicolori oggetti cosparsi ogni dove in forme diverse emergono dappertutto ora galleggianti ora volanti. Tutti la vediamo, ogni giorno, tutti ne diciamo male, ma purtroppo non rinunciamo ad abbandonare a se stesse queste borsine piene di ogni ciocchessia, lungo i fossati, sul ciglio della strada, o nei boschetti, ed ancora più ben in vista agli ingressi del paese.
Automezzo del comune per la nettezza urbana di Pomarance
I nostri amministratori, “CON I NOSTRI SOLDI”, hanno
acquistato sia i contenitori per i punti di raccolta, sia i mezzi di trasporto
atti al recupero di tutto ciò di cui vogliamo disfarci, tuttavia sembra che ciò
non sia ancora sufficiente.
Non è questo l’articolo che riuscirà a convincere o ad insegnarci cosa dovremmo fare,ma speriamo che insieme a tutti gli altri ammonimenti, e “CON UN RAGLIO DI SOMARO” serva alla civiltà di oggi, dimodoché il turista sia straniero che italiano, possa avere buona impressione sulla nostra civiltà.
Circa un anno fa, tramite il
libro “IL FORMICAIO” edito da “IL GABBIANO” di Livorno, conoscemmo attraverso
i suoi racconti la signora Vittorina Bibbiani in Salvestrini e la sua famiglia.
Erano andati via da Pomarance durante gli anni venti e, meno che gli intimi,
nessuno aveva più avuto rapporti con loro. La famiglia Bibbiani, di pura razza
contadina, di quei contadini cresciuti con la zappa in mano e senza arnesi
meccanici, era vissuta al podere “FORMICAIO” sito ad un chilometro dal paese
lungo la provinciale per Larderello. I Bibbiani con tanto sudore ed altrettanta
volontà riuscivano a malapena a far fruttare il sassoso terreno, e dai racconti
del libro si può ben comprendere quali siano stati i sacrifici per far sì che
da un piccolo poderetto potessero uscirne, non uno, ma due diplomati. Giustamente
Aurelio, il fratello della scrittrice, Ragioniere e Perito commerciale, mi ha
posto in evidenza un interessante articolo uscito su La Nazione ad opera di
Marzio Barbagli, docente di Sociologia all’università di Bologna. In esso si rimarca
che in quegli anni soltanto lo 0,4% dei contadini riusciva a perseguire un
diploma, un numero esiguo, come si può notare, ma fra questi vi era anche
quello di Aurelio, che poi, per suo merito, aggiungeva anche quello della
sorella Vittorina con il diploma di Maestra Elementare. Una rarità potremmo
definirla, tanto più da apprezzare in quanto questi due pomarancini hanno,
come si suol dire, tirato fuori frutti proprio dalla zolla.
lo personalmente ho conosciuto questi signori nell’occasione della presentazione del libro “IL FORMICAIO” a Rosignano Marittimo il 18 ottobre 1987, tuttavia erano ancora sconosciuti alla maggior parte dei pomarancini e soltanto con la divulgazione di questo libro essi si sono resi noti ed apprezzati. Ma la signora Bibbiani, in una visita al paese natio, espresse il desiderio di rivedere il vecchio podere ed in compagnia della sua amica Emma, si recò al Formicaio. Con gran meraviglia constatò che la Croce, la famosa Croce, menzionata nei suoi racconti, non era più al suo posto, non indicava più il vialetto che conduceva al suo podere. Ne fu rammaricata, e lì per lì, si propose di far tutto il possibile per ricollocare questo segno di cristianità in loco. Carta, penna e destrezza nello scrivere, si mise subito all’opera e, prima al Parroco, poi al Vescovo, all’ANAS (visto che oggi la strada non è più Provinciale ma è la Statale 439 SARZANESE VALDERA), poi alle autorità, al proprietario del terreno (oggi Fedeli). Un’infinità di lettere, che messe insieme cominciavano a concretizzare il suo sogno. Anch’io ne ero partecipe, perchè dopo la nostra conoscenza ero tenuto al corrente dell’evolversi dei fatti e delle difficoltà che continuamente si frapponevano al raggiungimento dello scopo. Dopo non poca fatica e tanta perseveranza finalmente i suoi scritti cominciavano a fruttare ed i permessi furono quasi tutti nelle mani della signora Bibbiani che tornò a Pomarance ed ordinò la Croce al falegname. Egli prese l’impegno di costruirla ma non quello di procurare il legno adatto e come lo voleva ed esigeva la signora, così questa interpellò la Guardia Forestale, il cui Maresciallo sig. Visci Vittorio riuscì a procurarglielo proprio come lo desiderava.
Fu scelto il posto
giusto dove collocarla, in modo da non ostacolare il traffico e la visibilità
a chi percorreva questa Statale.
Finalmente il 24 settembre 1988, in uno splendido pomeriggio autunnale, la fatidica Croce, dopo una suggestiva cerimonia officiata dal Proposto don Piero Burlacchini, ed al canto delle vecchie lodi sacre usate per le rogazioni, in lingua latina, venne issata in un cippo predisposto dopo essere stata benedetta e baciata dai fedeli. La signora Bibbiani ringraziò caldamente quantil’avevano aiutata per raggiungere la meta prefissa e tutti i presenti alla cerimonia (un centinaio di persone) tra cui il Sindaco Renato Frosali, il Maresciallo Visci, il Presidente dell’Associazione Turistica, le sue colleghe maestre, il fratello sig. Aurelio, la sorella Maria, il figlio con i nipoti. I giovani nipoti consegnarono un cartoncino con effigiata la Croce già pubblicata sul libro “IL FORMICAIO’’. Così la signora Bibbiani prima con il libro ed oggi con la Croce è tornata celebre nella sua terra e come lei i suoi familiari. Terminate le funzioni religiose il gruppo dei presenti, dietro invito della signora, si è recato presso il Circolo ACLI dove è stato offerto un ricco rinfresco.
A questa piccola, ma grande maestra vada,
a nome mio e della Redazione di questa Rivista, un augurio di prosperità ed un
grazie per aver ripristinato un simbolo di religiosità che, senza la sua
tenacia, sarebbe rimasto soltanto nel ricordo di pochi.
La CROCE DEL BIBBIANI come la ricorda Vittoria Silvestrini nel suo libro “IL FORMICAIO”: Posta sulla via Provinciale, all’imbocco della stradetta della nostra casa, era il punto di riferimento per chi ci cercava. Fatta di due grossi tronchi incastrati, aveva in alto una tavoletta con la sibillina scritta “I.N.R.I. ” e all’altezza dei piedi un ceppo con un grosso chiodo. Mi rivedevo piccolina abbracciata a quella Croce; risento sulle labbra il contatto di quel chiodo bollente d’estate, marmato in inverno, e l’odore agrodolce del catrame! Quanti fiori campestri ho messo sul piedistallo, sul chiodo, sulle braccia di quella Croce!
Ma la festa era per le Rogazioni, molti bambini di città
non sanno nemmeno cosa sono le Rogazioni, cioè le processioni che si fanno
nelle campagne, per tre giorni di seguito, prima dell’Ascensione, per
impetrare dal Signore un buon raccolto.
…La nostra casa distava dalla via maestra un tiro di
schioppo e vi si perveniva mediante una stradella sassosa, fiancheggiata da
pergole di viti. All’imbocco, nera e solenne, su un piedistallo di pietra,
troneggiava la Croce, la Croce del Bibbiani, la nostra Croce.
Qui si fermavano ogni giorno i postini per prendere il latte; qui arrivavano le signore del paese durante la passeggiata vespertina, qui veniva il Proposto per le Rogazioni; di qui passavano gli operai delle miniere e di Larderello, i barrocciai, le persone che si recavano alla chiesa, i contadini che si recavano alle fattorie, le lente carovane dei muli quasi sepolti sotto le enormi some di carbone (e attaccato alla coda dell’utlimo, il mulattiere dal volto nero e dai denti bianchi come un negro).
…La Croce era come un balcone per noi ragazzi…
…Dalla via maestra ho visto passare le prime biciclette,
le prime automobili… …Nel tardo pomeriggio dei giorni feriali passavano le
donne del paese che tornavano da far legna, dalle macchie lontane chilometri
e chilometri. La portavano in testa, senza reggerla, in enormi fastelli a
forma di sigaro. Incedevano lente, sotto il grave peso, con la calza in mano
ed il ventre gonfio per l’ennesima maternità.
Vi passavano, mattina e sera, gli irrequieti operai delle
miniere, che discutevano, bestemmiando, di salari, di partiti, di scioperi, o
cantavano “Bandiera Rossa” e …
Ricordi più recenti li rivivo anch’io: la Croce del
Bibbiani dei miei tempi. Mi rivedo quando, da ragazzo, in compagnia di mia
madre mi recavo alla Croce del Bibbiani o Croce di Nebbia, o addirittura, per
i più vecchi, alla Croce di Parrucca.
Ricordo quando si arrivava agli olmi, località tra il piccolo boschetto di querciole che demarcava i confini tra il terreno del Formicaio e quelli del Valentini, una fila di vecchi olmi (una decina) che costeggiando la strada maestra arrivavano all’incrocio per le Peschiere. La strada in quel punto era in semicurva e dopo pochi passi si scopriva il podere. La Croce, che per l’occasione era resa vistosa dagli innumerevoli e variopinti fiori di campo, spiccava in lontananza e, mentre la processione dei fedeli si avviava pian piano, noi ragazzi si scappava avanti a precedere il gruppo. Il traffico automobilistico era esiguo ed il pericolo era limitato, così i genitori ci lasciavano correre per quel breve tratto.
Gli anni passarono e si arrivò al periodo
bellico, al passaggio del fronte. In quelle vicinanze, durante un mitragliamento,
fu ucciso un soldato tedesco e mani pietose scavarono una fossa ai piedi della
vecchia Croce e seppellirono questo militare. Un cumulo di terra restò per
vario tempo visibile ad indicarne la sepoltura poi, a guerra finita, tutte le
tombe segnalate furono riesumate e raccolte in un quadro del cimitero di
Pomarance riservato a questi soldati.
Passarono ancora degli anni, ed io, come
tanti altri mi recavo a lavoro a Larderello: erano i primi anni del dopoguerra
ed il mezzo di locomozione più usato era la bicicletta. Ricordo che una
mattina di piena estate, erano le 3 e 30 ed ero solo per recarmi al primo turno
che iniziava alle 5, arrivato agli olmi vidi nel buio ed al flebile riflesso
del mio fanale, una fiammella che si muoveva in prossimità della Croce, pensai
a qualcuno che si era fermato ad accendere una sigaretta, ma più mi avvicinavo
e più mi rendevo conto che attorno a questa fiaccola non c’era nessuno. Ebbi
paura e cominciai a pedalare con più intensità arrivando cosi al Formicaio a
velocità sostenuta e passando davanti più svelto possibile. Dopo, passata la
Pieve Vecchia, mi girai indietro e vidi che la fiammella era proprio dietro di
me e mi stava seguendo; accelerai ancora sempre più sino alla discesa di Mona
e questa mi seguiva ancora, finalmente arrivato alla Croce del Bufera essa
scomparve per la strada di San Dalmazio.
Avevo 17 anni ed ero anche pauroso, poi
solo e a quell’ora mi presi un bello spavento. Arrivato sul luogo di lavoro
raccontai l’accaduto e dai più anziani fui anche deriso; “Ma era un fuoco fatuo”
mi disse uno di loro, poi tutti insieme mi spiegarono che era gas che si
sprigionava dalla terra dove probabilmente vi era stato seppellito qualche
animale, (ed io allora ricordai chi vi fosse stato sepolto) con la calura del
giorno questi gas si incendiano e durante la notte possono essere visti.
La mia è una piccola avventura, ma può
coprire il vuoto che si frapponeva fra il tempo delle vecchie Rogazioni ed i
nostri tempi.
Con il Bollettino di Guerra n° 1268
delle ore 12 del 4 novembre 1918 diramato dal Comando Supremo con firma
Armando Diaz, si dichiarava: LA GUERRA E’ FINITA CON LA VITTORIA DELL’ITALIA.
Questa guerra denominata Guerra
Mondiale, dopo lotte asprissime sostenute con tenace valore dalle nostre
truppe per quarantuno mesi con inizio il 24 maggio 1915, cessava le ostilità.
Anno 1925 – Il monumento in costruzione
Una guerra combattuta alacremente sul
terreno aspro delle Alpi Carsiche che ad ogni inverno si accaniva sempre più,
dove migliaia di giovani erano rimasti sul terreno insanguinato.
Centinaia di reggimenti dislocati nelle
varie zone e nei vari settori con mostrine di colore disuguale ad indicarne il
corpo di appartenenza. Tutti, a loro modo, Alpini, Genieri, Artiglieri, Fanti,
Bersaglieri, Cavalleggeri, (ed alle prime esperienze) l’Autocentro e l’Avia-
zione, dislocati su Km. di fronte, con la Marina sulle coste di Trieste e
Monfal- cone. I pezzi di artiglieria, i grossi semoventi, dovevano esser
portati sulle irte cime con dislocazioni precarie e mancanti di strade di
accesso. Fu tramite trincee e mulattiere che le artiglierie, smontate nel
limite del possibile, poterono essere portate ad elevate quote e posizionate a
rilevanti altezze da permettere lo sparo. Centinaia di questi giovani, spesso
con imboscate, con attacchi improvvisi rimanevano sul terreno conteso.
Dopo la data del 4 novembre si attendeva
con ansiosità il ritorno di questi militari, di questi ragazzi che erano stati
mandati sul confine alpino a difesa del nostro stivale.
Gli italiani erano in delirio per questa
vittoria, gli Ufficiali, i soldati stessi erano soddisfatti del loro operato e
del loro sacrificio.
Chi era ad attenderli aveva riserbato
per loro le più belle manifestazioni di simpatia e di compiacimento. Suoni di
campane, di fanfare, ricevimenti civili e funzioni religiose. Incontri con
fiori e baci offerti da belle ragazze. Era insomma il momento riservato a
questi eroi che ogni giorno con tradotte venivano riportati alle loro
località, alle loro case.
Purtroppo non fu per tutti così; infatti
nei giorni a seguire cominciarono a giungere non più uomini, ma telegrammi con
nomi che andavano ad accrescere il numero delle liste dei soldati che non
sarebbero più tornati. Dopo mesi i conteggi terminarono, lasciando il posto a
numeri che si assommarono per poter essere interpretati:
600.000 Caduti
1.000.000 Feriti 500.000 Mutilati
Molte le madri straziate dal dolore
accompagnate dalle giovani spose e dagli orfani che magari non avevano nemmeno
conosciuto il loro padre.
Più il tempo passava più ci si accorgeva
del vuoto lasciato dalla loro mancanza.
Chi aveva le responsabilità cominciava
a sentirne sempre più le colpe.
Si arrivò agli anni venti. Promossi
dalla Casa Regnante e dal nascente Partito, si istituirono comitati per l’esecuzione
di monumenti che a seconda delle località si rendevano più o meno consistenti.
Roma, che era la capitale, mise a disposizione il VITTORIANO: il monumento
dedicato a Vittorio Emanuele Il e da poco terminato (1885- 1911). Così alla
base della statua equestre del Re venne messa la salma di un soldato ignoto
come simbolo da cui poi questo prese il nome. Il monumento detto Altare della
Patria, dopo la grande scalea vista da Piazza Venezia, mostra una fiaccola
perenne protetta quotidianamente da due soldati che vi montano la guardia.
Tutta l’Italia si impegnò a seguire questo esempio e, dalle grandi città fino
ai piccoli paesi e alle più sperdute borgate, si cercò con qualsiasi forma e
con ogni mezzo di glorificare il sacrificio dei soldati che vi avevano abitato.
Anche Pomarance si prodigò per questa
realizzazione e ne dette incarico ad un apposito Comitato presieduto prima dal
sig. Aurelio Funaioli e poi dal sostituto e nuovo eletto Sindaco, sig. Onorato
Biondi, nonché dai sottoelencati sigg. NASTI Gennaro, BICOCCHI Dott. Michele,
BALSINI Don Carlo Proposto, FILIPPI Zeffiro, CERCIGNANI Ivo, BIONDI Dott.
Pietro Giuseppe, VOLPI Gino (BIAGINI Egisto, LAZZERI Giuseppina, GUASCONI
Giovanna, BARACHINO Eda, CANCELLIERI Giuseppina, tutte facenti parte del corpo
Insegnanti). Fino dai primi mesi del 1923, aderendo alle istruzioni superiori
delle Autorità Didattiche, iniziarono le sottoscrizioni. Non poche furono, come
sempre succede quando c’è da tirar fuori i soldi, le polemiche e le reazioni.
L’incarico del progetto andò al Prof. Architetto
Francesco NOTARI di Siena, insegnante presso le classi di Belle Arti e
Professore di disegno architettonico.
La base del monumento con i medaglioni di Luigi Bonucci
Sempre su interessamento del Prof.
Notari furono presi accordi con lo scalpellino GARFAGNINI Quintilio di Pomarance
che prese l’impegno della fornitura di pietrame tufaceo da prelevarsi dalle
Cave delle Valli.
Per l’esecuzione dei lavori d’arte fu
dato incarico a tal BANCHINI Oscar, livornese dimorante a Siena, coadiuvato
dai Sigg. SARTINI Ugenio e Onofrio e da BACCONI Orazio e figlio di Rapo- lano.
Mentre le colonne, tre di un sol pezzo e della lunghezza di tre metri e mezzo,
più alcuni lavori d’arte, vennero eseguiti dai fratelli Luigi e Quintilio
GARFAGNINI.
I lavori di fusione dei medaglioni da
applicare sul dado di base e dell’aquila da apporre sulla guglia, furono
affidati allo scultore BONUCCI (Falugi) di Pomarance.
Iniziò così l’approntamento dei basamenti
che vennero eseguiti dove era stata la Cappella Mortuaria di San Rocco
(demolita il 16 maggio 1872), sita nel terreno di proprietà della Chiesa
Parrocchiale. Nel sottostante terreno i componenti della Sezione Combattenti,
stavano allestendo il PARCO DELLA RIMEMBRANZA con tutti i dovuti riguardi di
tutti i commilitoni mancanti all’appello.
Mentre il Monumento era arrivato al
montaggio del dado di base, nel centro di questo, in un vuoto appositamente
creato, venne inserita una pergamena racchiusa in una bottiglia di vetro bleu portante la seguente iscrizione:
CIVIUM PRO PATRIA
BELLO INTER NATIONES GESTO CADUCORUM
POSTERITATI AD MEMORIAM PRODENDAM
POPULUS RIPOMARANCIUS
PRIMARIUM HUIUS MONUMENTI LAPIDEM
VICTORIO EMANUELE III
DEI GRATIA ITALORUM REGE
HONORATO JOANNES BAPTISTAE VINCENTI BIONDI
SINDICO
ANNO
REPARATAE SALUTIS MCMXXVI
POSUIT
(Petrus
Joseph Joannis Baptistae Petri Biondi
Nob. Voi. Doct. Hanc Memoriam Dictavit).
Fu un lavoro
assai lungo, sia per il reperimento dei fondi sia per la manodopera
interessata; l’approntamento dei giardinetti che attorniavano in simmetriche
aiuole il monumento, venivano con amore preparate e curate dal combattente
Leontino DELL’OMO che rimase custode sino alle sue possibilità.
Pian piano
tutto prendeva forma, furono piantati i 79 cipressi in egual numero dei soldati
non tornati a casa e ad ogni gambo fu posta una targhetta metallica smaltata
con inciso il nome di un caduto. A questo punto ritengo doveroso ricordare con
un elenco i nomi di questi Eroi:
Finalmente tutto fu pronto per l’inaugurazione;
il 4 novembre 1926 si potè presentare ai concittadini ciò che per volere di
taluni si era riusciti a fare.
L’imponente monumento con i suoi dieci
metri e mezzo di altezza con il suo caratteristico colore del tufo, troneggiava
tra il verde delle siepi che attorniavano le aiuole nelle quali spiccavano
variopinte zinie.
A far rispettare il luogo, oltre a Leontino,
ci pensava Primo Guardia (Vigile Urbano) temuto sia dai piccoli che dai grandi
per le ramanzine che non risparmiava a nessuno.
Le panchine dislocate quà e là nei punti
più in ombra erano ricercate sia dai giovani che dagli anziani e costituivano
un piacevole luogo d’incontro e di conversazione.
La strada che vi conduceva, a partire
dal Teatro, era stata sistemata con una fila di lampioni posizionati con
apposite colonnette in getto, sul muretto fiancheggiante il lato della Cecina.
Così sia la sera sia il giorno questa strada denominata poi Via dell’impero,
divenne passeggiata abituale di tutti.
Le colonne e la guglia
Le spese per la realizzazione di tutto questo, raggiunsero la strabiliante cifra di lire 71.734,20 raccapezzata con offerte di una apposita sottoscrizione, con una fiera di beneficienza creata PRO MONUMENTO, da varie rappresentazioni drammatiche effettuate nel Teatro dei Coraggiosi dai dilettanti del luogo, dall’Amministrazione Comunale, dall’Amm.ne Provinciale, dalla Società Boracifera Larderello, dai Sigg. Bicoc- chi, dagli Eredi Ricci, dal Marchese Antinori e dalla raccolta delle Maestre presso le scuole. Da aggiungere a tutto la manodopera prestata dalla Associazione Nazionale Combattenti locale, che si prodigò in misura encomiabile. Da considerare che contemporaneamente fu fatta la Cappella dei Caduti nella Parrocchia, voluta da Don Balsini.
Al tutto mancarono solo le quattro
colonnette previste agli angoli del riquadro di base, ma anche queste furono in
breve realizzate, posizionate e non pagate. I Garfagnini che ne erano stati
commissionati furono talmente indignati da venire a diverbio con i committenti.
Non riuscendo a spuntare la situazione escogitarono un sistema intimidatorio.
Notte tempo, scalpello e mazzuolo, si ricarono sul posto scavando una nicchia
dove minacciarono di posizionare una mina da loro usata in cava. La cosa non
fece effetto ed il debito si dilungava, finalmente per porre fine alla
situazione le colonnette furono sostituite da quattro bombe di aereo, che
svuotate della loro potenzialità furono infisse con le alette in basi
quadrangolari ed unite tra loro, alle estremità, da catene pendenti agganciate
a campanelle avvitate nei fori delle spolette.
Iniziò il conflitto della guerra ‘40 –
‘45 e la carestia di materiale ferroso ad uso bellico arrivò anche al
monumento, così le quattro bombe di acciaio tornarono ancora una volta in uso
sottraen- dole al loro sacro incarico.
II monumento: foto attuale
Nel 1946, a fine guerra, con gli stessi
intenti, nel sottostante PARCO DELLA RIMEMBRANZA, al centro dei cipressi fu
eretto un cippo a ricordare i morti civili e militari di questa seconda Guerra
Mondiale. Sulla base del cippo sono scritti i nomi di queste persone di cui
ritengo giusto ricordare i nomi:
Nell’occasione furono nuovamente
ordinate le quattro colonnette, rimesse al loro posto e questa volta pagate.
Ad oggi sembra che l’impegno non sia
troppo mantenuto, basti vedere lo stato in cui si trova; non più aiuole per i
bambini, è rimasto soltanto il cartello “PARCO GIOCHI BIMBI”; i cipressi dei
caduti hanno perduto le loro targhette che avevano dato luogo al nome PARCO
DELLA RIMEMBRANZA. Vi si vede qualche anziano sulle panchine, motorini in sosta
e nella buona stagione qualche giovane innamorato.
Speriamo che non si aspetti un’altra guerra a risistemare il tutto e che questo articolo stimoli chi di competenza a provvedere.
UNA MADONNA CON BAMBINO NELLA SALA DELLA EX PRETURA
Madonna con bambino – Vincenzo Tamagni (particolare)
Nell’ex Palazzo della Pretura di Pomarance, situato nel
centro storico di Pomarance in Piazza Cavour, sono conservati dei pregevoli
affreschi cinquecenteschi tra i quali desta l’ammirazione l’immagine della
Vergine con il Bambino.
Dipinta su una parete dell’ antica sala consiliare, già del vicariato di Val di Cecina, è il soggetto centrale di tre raffigurazioni racchiuse in altrettante lunette sottovolta rappresentanti da una parte San Giovanni Battista e dall’altra un Santo Vescovo di una città di fiume( forse San Zenobi di Firenze) restaurate per conto del Comune di Pomarance nel luglio del 1976 da Walter Benelli di Pisa (delibera Com.le N. 125 del 25 Giugno 1976.
L’opera è del pittore di San Gimignano, Vincenzo Tamagni che lavorò per alcuni anni a Pomarance tra
il 1524 ed il 1528 realizzando una serie di opere ; alcune delle quali
conservate nella chiesa Parrocchiale di Pomarance.
Le tre lunette affrescate sono corredate al di sotto da una iscrizione in versi latini che è atto di consacrazione del popolo verso la Madonna: “A te questi pegni di amore devoto pone questo popolo. Proteggi o vergine da tutti i mali, sii luce nei suoi consigli e in tutte le cose, guida e difesa” (traduzione di Don Mario BOCCI). È probabile, infatti, che l’effige di Maria e dei Santi fosse stata commissionata in seguito ad un voto fatto nell’ epoca della peste che imperversò in Val di Cecina nel 1522-24-26-28. Vincenzo Tamagni, nato il 10 aprile 1492, definito “ragazzo prodigio” del ’500, nel 1510 firmava un ciclo di affreschi mariani a Montalcino nella chiesa di San Francesco. Lavorò a Roma nelle Logge Vaticane come aiuto di Raffaello da Urbino e pur avendo avuto influenze pittoriche del Peruzzi, del Ghirlandaio, di Filippo Lippi e del Sodoma rimase un autore di ripetizioni un pò meccaniche che sono indizio di un “Raffaellismo superficiale“(Nicole Dacos Crifo) e di una singolare “arcaicità11 di ipostazione (Antonio Caleca).
Sala della ex Pretura
Nel 1524 dipingeva un affresco nell’Oratorio della Annunziata( attuale Battistero) della chiesa di San Giovanni Battista di Pomarance dove è raffigurato I’ Eterno Padre con angeli musicanti, scene dell’ Annunciazione e della Visitazione come ornamento del presepe in terracotta attribuito a Zaccaria Zacchi da Volterra. Queste figurazioni dovevano servire a completare il racconto evangelico della Notte Santa, di cui lo scultore volterrano aveva già colto, nelle sue sculture policrome il momento più alto.Sul fondale il pittore ha accostato in un’unica composizione l’annuncio dei pastori e la fantasiosa cavalcata dei Magi preceduti dai loro scudieri. Nel sottarco è dipinto l’Eterno Padre contorato da serafini e angeli musicanti, che accompagnano coi loro strumenti il canto della “Gloria”.
L’anno successivo, 1525, eseguiva una tavola ad olio rffigurante la Madonna e i Santi, collocata attualmente nella cappella di San Giovanni Battista (Don Mario Bocci, Notizie della Comunità Parrocchiale di Pomarance; 1991).
Pochi anni prima della sua morte, avvenuta dopo il 1529, eseguì anche una tavola ad olio raffigurante San Giuseppe che gli fu commissionata dal Comune di Ripomarance per Cappella di “San Joset” come attestano alcuni pagamenti del quadro nell’anno
1528: ‘‘A Vincendo Tamagni pictor pella tavola di Sancto Joseph Lire 35;
Al comune e per lui al dipintor per conto della tavola di Sancto Joseph…”. (Arch. Stor. Com.le Pomarance F.632; c.386 r.). È probabile che questa opera sia quella collocata nel Palazzo Barberini di Roma, trafugata nel secolo scorso, venne ceduta al monte di Pietà di Roma che la rivendette nel 1875.
Lavoro che qui presentiamo è stato svolto per sostenere l’esame di Restauro Architettonico presso la Facoltà di Architettura dell’università degli Studi di Firenze dalle signorine Roberta Costagli e Maria Patrizia Tamburi. Il lavoro è stato seguito dal Prof. Arch. Giuseppe Cruciaci Fabozzi, docente alla facoltà.
L’assistenza religiosa che oggi viene
chiamata “parrocchia”, corrispondeva anticamente al termine “pieve”, anche se, durante il Medioevo, ben
altre e più importanti valenze territoriali e potestali ebbe questo termine,
valenze che non sono più attinenti il nostro termine moderno. L’edificio della
pieve sorgeva, per lo più, isolato, agli incroci di strade importanti, per
fornire assistenza e rifugio alla gente di passaggio, e per permettere il
controllo da parte della chiesa sulle vie di comunicazione più importanti.
Tale edificio conteneva la chiesa, il battistero e l’ospizio, ed era dedicato generalmente al Salvatore o alla Madonna, o ai Santi Apostoli, ma più spesso a S. Giovanni Battista, come il caso della Pieve di Pomarance. Altre due sono le pievi premillenarie che si incontrano venendo dal San Giovanni di Volterra (pieve cittadina), verso la media Valdicecina, aventi in comune la dedica a San Giovanni: quella di Silano e quella di Querceto, anch’esse in posizione privilegiata, su strade di comunicazione ugualmente importanti. Proseguendo poi da Pomarance si trova Morba, anch’essa dedicata a San Giovanni. La più antica pieve di Pomarance, quella premillenaria, protoromanica, si trovava in una posizione diversa rispetto a quella attuale (che, tra l’altro, aveva il nome di “Ripa Marrancia”). Infatti era situata più a sud rispetto al paese, e si chiamava “Publico”, a ricordo del territorio, espropriato dai Romani del dittatore Siila, e appoderato per i suoi legionari In quei luoghi, oggi detti le “Ripaie”, si trovano ancora i nomi di Pieve Vecchia e Piuvico; e lungo quelle strade, che si incrociano sull’altopiano, chiesette come S. Piero, S. Anna, S. Martino, S. Andrea a Mona e S. Margherita a Lucoli, che formavano il primo spazio di pertinenza della pieve.
L’attuale pieve risale alla fine del XII secolo, anche se dell’impianto originario
è rimasto ben poco, essendo stata, la chiesa, completamente ricostruita
durante il XIX secolo, dopo aver subito già in precedenza rimaneggiamenti e
restauri. Sorge lungo l’asse principale di crinale. Concepita per avere vita
autonoma rispetto agli altri edifici circostanti, con il consolidarsi
dell’edilizia urbana ha perso tale autonomia, infatti durante il corso dei
secoli le sono state addossate abitazioni. C’è chi ipotizza l’esistenza di una
chiesa più piccola entro il perimetro dell’attuale chiesa, che sarebbe stata
dedicata a San Cristoforo, e proprietà dei monaci di Badia a Isola.
Comunque, il prospetto dell’attuale costruzione si
rivela l’unico resto della pieve romanica: probabilmente in esso furono
riutilizzati elementi della parte inferiore della facciata dell’edificio del
XII secolo. Questo presentava caratteri stilistici e impianto di chiara
derivazione pisana: le cinque arcate cieche che scandiscono tutta la facciata
rimasta intatta nella parte inferiore; le basi classiche delle semicolonne
con due tori e due scozie e lo schema generale dei rapporti altimetrici delle
navate.
Sezione trasversale sull’ingresso della Pieve.
La facciata è in arenaria e nella parte
superiore è stata rifatta nel sec. XVIII. Le
cinque snelle archeggiature su semicolonne assai rilevate e poggianti su un alto
basamento denotano che siamo in presenza di una originale pianta basilicale,
una dei pochi esempi tra le chiese della Valdicecina.
Gli archi più distanti dal centro della facciata s’impostano su sodi angolari che invece dei capitelli hanno semplici scorniciature. Nell’arcata centrale si apre il portale, semplicissimo, con l’architrave sormontata da una lunetta. L’archivolto è delimitato da una ghiera composta di un cordone a sezione semicircolare. Alcuni elementi decorativi risentono l’influenza della cultura senese, per esempio i capitelli (a più ordini di fogliette o con figurazioni zoomorfiche). Particolare notevole ed inconsueto, per una architettura di derivazione pisano-lucchese, è il fatto che i cunei delle archeggiature laterali non presentano alcuna incorniciatura. Alle primitive tre navate, furono aggiunte nei secoli scorsi ed in diverse fasi, ulteriori costruzioni, come le cappelle laterali terminali che formano un transetto, e proprio all’inizio del 1500 il Battistero, con la facciata adiacente a quella della chiesa. L’artefice di questa modifica fu il pievano economo don Francesco d’Antonio dei Ghezzi di Pomarance, al quale si devono anche la piccola vetrata dell’Annunciazione ed il miglioramento del Presepe. Le mensole che sorreggono il tetto del Battistero furono tolte, molto probabilmente, dall’originale abside e con i loro motivi geometrizzanti e zoomorfici dimostrano ancora una volta la derivazione dalla cultura pisana di quest’edificio.
Capitello con figura zoomorfa.
Già anteriormente a questa data erano state apportate modifiche all’interno; tra il 1441 ed il 1453 il pievano Ludovico Baldinotti fece costruire l’altare maggiore e ribenedire la chiesa, dopo le scorrerie di re Alfonso di Aragona.
Poi non ci furono notevoli modifiche, fino agli anni tra il
1826 ed il 1843, quando il pievano Anton Nicola Tabarrini pensò di dare alla
chiesa un aspetto in linea con i canoni estetici del tempo. I lavori furono
fatti sotto la guida dell ’arch itetto
Francesco Cinci che dotò la chiesa di volte, eresse la cupola all’incrocio del
transetto con la navata centrale e stuccò tutte le colonne di cui fece
smussare i capitelli. Furono eretti, in questa occasione, anche tutti gli
altari barocchi laterali; la decorazione della chiesa fu affidata al pittore
Luigi Ademollo ed al figlio Giovanni.
L’ultimo lavoro di edificazione (o meglio, in questo caso,
di riedificazione) del quale si ha notizia è il rifacimento del campanile,
avvenuto nel 1898, ad opera dell’architetto Luigi Bellincioni, di Pontedera.
Infatti il vecchio campanile era stato buttato giù, a causa delle gravi
lesioni riportate il 19 novembre 1893, in seguito alla caduta di un fulmine.
Come già accennato, una gran parte del ripristino
ottocentesco toccò al pittore Luigi Ademollo.
Fu sotto l’arcipretura di Anton Nicola Tabarini (durata dal 1826 al 1843) che ebbe luogo il restauro totale della Parrocchia, ampliata con le cappelle della Madonna e di S. Vittore, e completamente affrescata.
Effettuò quelle pitture l’impresa di Luigi Ademollo (1764
-1839) milanese, autore di affreschi in chiese e palazzi, e di acquafòrti di
soggetto storico.
L’archivio parrocchiale conserva sette lettere autografe,
inviate da lui, (che si trovava a Firenze), all’arciprete, tra il 27 aprile
1832 ed il 5 gennaio 1837.
Esse riferiscono che il Cavalier Giuseppe del Rosso fu il tramite della proposta di
affrescare la chiesa di Pomarance. In un secondo tempo l’Ademollo eseguì ad
olio le stazioni della Via Crucis.
Le opere da lui eseguite si possono ammirare tuttora
all’interno della pieve.
Esse sono, cominciando da sopra il portone principale e girando in senso orario, le seguenti: Presentazione di Gesù al Tempio, Fuga in Egitto, Strage degli Innocenti, Tentazioni di Gesù nel deserto. Poi nella cappella della Madonna, Adorazione dei Magi, Gesù tra i dottori e nella volta L’Assunzione. Quindi abbiamo: Resurrezione di Lazzaro, Angeli portanti dei segni della passione, alle vele ed ai pennacchi, sotto e presso la cupola. Nel Coro: Entrata di Gesù a
Gerusalemme, Cena, Agonia nell’orto, EcceHomo, Salita al Calvario, Resurrezione.
Nella navata sinistra: Visita ad Elisabetta, Gesù ed il
centurione; nella cappella di S. Vittore (nella volta) c’è la Trasfigurazione.
Quindi Gesù che predica dalla barca di San Pietro, la Samaritana, le Nozze di
Cana.
In fondo, San Giuseppe col bambino Gesù.
Nella volta a botte della navata di centro, apparizione di
Gesù a Tommaso, Ascensione e discesa dello Spirito Santo.
Non tutte le opere sono policrome, ma molte sono monocrome,
anche se pur sempre molto belle.
Pianta della Pieve con indicazione della pavimentazione
Morto il Tabarrini, ‘‘nel 1853 furono a spese del popolo fatte porre a scagliola le colonne del Tempio per Carlo Martinetti svizzero, ed il pavimento fu costruito di smalto alla veneziana” come ci informa il visitatore Vescovo Targioni.
Cento anni dopo la ristrutturazione del Tabarrini, il degrado dell’edificio e la sorte delle pitture erano precari. Il restauro, la ripulitura ed il ripristino spettarono al proposto successore, al popolo e ad un pittore senese non ancora provetto.
Carlo Balsini di Stefano fu eletto proposto
a Pomarance il 15 marzo 1907. Fu sotto la sua guida che ebbero luogo ulteriori
restauri, che si conclusero nel 1933 (il certificato dei lavori eseguiti a
regola d’arte dall’agosto 1928 al 25 ottobre 1933 porta la firma dell’lng.
Gino Stefanon). Erano stati iniziati nel 1928.
Particolare Mosaico Centrale.
I lavori furono eseguiti dalla ditta Zampini di Siena, con a capo il pittore Gualtiero Anichini coadiuvato dai decoratori Vannucchi, Franci, Biancirdi, Montigiani e Mori.
Oltre alla ripulitura degli affreschi dell’Ademollo, furono fatte integrazioni nella cappella della Madonna, nel Coro, dipinti medaglioni in San Giovanni, i 4 Evangelisti nella cupola e due figurazioni in San Vittore: Gesù tra i fanciulli e la Moltiplicazione dei pani.
Fu costruita la cappella dei caduti,
furono eseguite vetrate policrome a tutte le finestre e furono costruiti
sedili a spaglierà il noce lungo tutto il perimetro della chiesa.
Furono aggiunte lumiere grandi e piccole,
in fastoso addobbo, per l’illuminazione elettrica.
Sulla base di quanto rilevato attraverso un’accurata analisi dell’edificiodella chiesa di San Giovanni Battista, possiamo dire che attualmente lo stato di conservazione della chiesa è buono, sia per quanto riguarda gli elementi strutturali che gli elementi decorativi. Sarebbe comunque auspicabile una ripulitura degli affreschi e della facciata.
Particolare della monofora.
Contemporaneamente alla pubblicazione di tale lavoro, si
stanno ultimando i lavori di restauro del campanile, e proprio in questi ultimi
giorni, durante la ripulitura della facciata del retro della chiesa, è venuta
alla luce, su di essa, una monofora. Finestre simili a quella scoperta le possiamo
trovare nelle pareti sopra gli archi delle navate laterali, purtroppo non visibili
al visitatore perché con il restauro del 1800 sono state inglobate nello spazio
tra la volta centrale a botte ed il tetto.
Tale rivelazione ha
ridestato curiosità e nuovi interrogativi sull’originaria posizione e
struttura dell’antica chiesa.
Roberta e Maria Patrizia
BIBLIOGRAFIA
Archivio
Storico del Comune di Pomarance, Opera di S. Giovanni Battista, Filze 746 e
749.
Archivio Parrocchiale di Pomarance, Corrispondenza fra
Luigi Ademollo Pictor ed il preposto
Antoniccola Tabarrini, dal 1833 al 1837.
Giovanni
Targioni Tozzetti, Relazione d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della
Toscana, Forni editore, Bologna.
L. Moretti,
R. Stoppani, Chiese romaniche della Val di Cecina, Firenze 1970.
Don Mario
Bocci, L’Araldo di Volterra, settimanale della diocesi di Volterra, numero
del 7/2/1971.
Don Mario
Bocci, Storia religiosa di Pomarance, Notiziario Parrocchiale.
Archivio di Stato di Firenze, Commissione per il restauro delle Chiese parrocchiali, Filza 104/8.
Articolo tratto da “La Comunità di Pomarance”.
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